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Trascorse le rappresentazioni romane dello spettacolo di Chiara Lagani (drammaturga della compagnia Fanny & Alexander), traduttrice per Einaudi del terzo romanzo di Lewis Carrol “Sylvie e Bruno” andato in scena dal 22 al 26 Marzo al Teatro India di Roma. Dopo la visione dello spettacolo non potevamo perdere l’occasione di intervistare la drammaturga – attrice dell’opera in questione, per chiarire e far comprendere al meglio ai post e futuri spettatori l’intento drammaturgico di Chiara Lagani e le operazioni registiche effettuate da Luigi De Angelis regista della compagnia. Quest’ultimo sarà il regista del “Barbiere di Siviglia” che andrà in scena il 31 Marzo che si terrà al Teatro Sociale di Rovigo. Fino al 6 aprile ritroviamo al Teatro Piccolo di Milano la traduzione della Lagani di Romeo e Giulietta di William Shakespeare con la prima regia di Mario Martone. Affondiamoci nelle parole di Chiara Lagani.

Immaginatevi di essere terribilmente stanchi e che il sonno stia per sorprendervi e trascinarvi al fondo di un sogno. Il punto di partenza di questo spettacolo è proprio quello stato parzialmente vigile e al contempo di semi-abbandono in cui il corpo si fa improvvisamente pesante, la mente si solleva e quasi possiamo vederci dall’alto, salvo repentini sussulti delle membra che, se non ci svegliano, segnalano proprio un profondo inevitabile trapasso ad un mondo “notturno”, fatto di immagini e suoni volatili eppur consistenti. Siamo allora nel mondo dei sogni, un mondo dotato di sue regole parallele che in qualche modo riorganizzano e trasformano le immagini diurne con quelle del nostro inconscio”. 

 Qual è stato il lavoro che hai compiuto dapprima, traducendo il testo in Italiano “Sylvie e Bruno” di Lewis Carrool scritto nel 1889?

 “Questo è un libro amatissimo da me ma anche da Luigi de Angelis regista della compagnia “Fanny & Alexsander. Da quando siamo ragazzini in qualche modo volevamo affrontarlo, prima volevamo fare un film, poi ci siamo resi conto che eravamo solo degli adolescenti e della complessità di questo romanzo e quindi ci siamo detti, forse bisogna aspettare un po'. Perché ci sono delle opere che hanno bisogno di tempo e di più maturità. Questo romanzo che io amo tanto poi mi è ritornato indietro in concomitanza del primo lookdown (quello più duro), epoca in cui mi trovavo a fare una proposta di una traduzione Einaudi e ho pensato di nuovo a questo libro che nel frattempo era già stato tradotto in Italia la prima volta da Cordelli, e poi era uscito fuori catalogo e mi sembrava un peccato che non fosse più in circolazione, e così sono stata io a proporre la traduzione ad Einaudi e la richiesta mi è stata accolta. Ho passato fortunatamente tutta quella orribile chiusura a tradurre le parole di Carrool, e devo dire che mi hanno salvata, sollevata in quel triste periodo. Perché per me è stato come immergermi in uno strano luogo, tra sogno e realtà che è stato come un antidoto contro la depressione per tutto quel periodo in cui siamo dovuti rimanere chiusi in casa. Dopo aver pubblicato il libro con Einaudi e avendo la mia traduzione a disposizione con Luigi de Angelis ci siamo detti, ecco è arrivato il momento di metterlo in scena, perché in noi quella storia era ormai sedimentata da anni, c’era ormai un grande amore. 

La prima volta che è andato in scena lo spettacolo in Italia?

 “La prima romana è stata il 22 di Marzo, mentre la prima volta che lo spettacolo è andato in scena in Italia immediatamente dopo la fine delle chiusure orribili del Covid. Lo spettacolo dunque è in tournée da quasi due anni. Ha debuttato la prima volta a Ravenna perché era una produzione del “Ravenna festival” successivamente è andato in scena in diverse città italiane. La cosa più bella per me è che il testo dello spettacolo è nato in parallelo alla traduzione, come se già i corpi degli attori fossero già presenti nel lavoro sul testo. Mentre traducevo pensavo continuamente alla messa in scena, sono due operazioni fuse in una”. 

 Nel 1992 fondi a Ravenna insieme a Luigi De Angelis la compagnia “Fanny & Alexssander” che verte nello studio tra un teatro di ricerca e un teatro sperimentale. Dal momento che hai dichiarato prima che la traduzione è stata fatta in funzione dello spettacolo. Ci sono state delle riscritture in funzione della messa in scena della tua stessa traduzione? Perché gli attori sembrano molto plasmati e inducono ad intermittenza astrazione brechtiana ma anche un altro tipo di empatia e allora ci chiediamo se era questo il tuo intento?

“Si esattamente, perché ovviamente ogni traduzione è stata composta per la scena, sono tutte traduzioni dall’inglese all’italiano effettuate da Einaudi e traduzioni fatte appositamente per lo spettacolo che implica un sovvertimento del testo di origine, per cercare come dico sempre di essere fedele al testo originale. Nel testo di Carrol c’è un narratore, una persona molto anziana che si addormenta sempre e che scivola continuamente tra il suo sogno e la realtà. Quindi sono due storie intrecciate quelle che vengono raccontate, però non intrecciate in una maniera morbida ma anzi in una maniera schizofrenica, proprio quando ci si sveglia da un sogno e dobbiamo prendere i contatti con la realtà e non capiamo ancora se è un sogno o la realtà. Noi non abbiamo un attore anziano in scena, e come se io avessi parcellizzato tutto questo racconto in terza persona, che è una parte narrativa del racconto, facendone come un personaggio diviso in 5. E da qui questo elemento straniante brechtiano in cui l’attore sembra a volte uscire dal personaggio per diventare narratore e raccontare l’avvenimento ed è una caratteristica che è suggerita dallo stesso testo di Carrol che fa si che questo narratore,  sia il protagonista perché è l’amico delle due fate bambine e fortemente amico nella storia borghese dei due innamorati Arthur e Muriel, diventa protagonista a suo malgrado di queste storie allo stesso momento è colui che c’è lo sta raccontando ai nostri lettori e continuamente si rivolge a noi lettori in maniera diretta. Infatti gli attori appellano a volte lo spettatore. All’inizio dicono a te spettatore devo dirti una cosa, hai mai visto le fate? O vuoi che ti insegno a vederle? Questo deriva proprio dal libro. Un Personaggio che racconta una storia ma allo stesso tempo quando la racconta ne sei comunque protagonista, perché se la narri sei comunque un personaggio di quella storia. Questo aspetto per me era fondamentale da mettere in risalto nello spettacolo, ma io ho deciso di operare verso questa strada”. 

 “La scelta drammaturgica di inserire il Meta-Teatro riportata soprattutto dalle voci fuori campo registrate degli attori quando interpretano i bambini, da cosa deriva questa scelta registica di inserire voci fuori campo?

 “La scelta è dovuta alla presenza di questo narratore che viene diviso in 5 personaggi diversi. Il teatro è sempre menzionato nel romanzo di Carrol, quindi c’è la presenza del meta teatro. Ad esempio una delle due fate è ossessionata dal teatro e dalle rappresentazioni e mette in scena continuamente piccoli frammenti teatrali. Quindi il teatro è molto evocato, lo stesso Carrol pare che il suo romanzo lo componesse oralmente, lui buttava giù una traccia e poi si procurava un pubblico di bambini, anche per questo romanzo, si rivolge agli adulti per rievocare il loro essere bambini. E pare che lui mettesse in scena queste rappresentazioni facendo tutte le voci, quindi c’era questo narratore onnipresente che interpretava ogni personaggio e questo rimane nelle pagine consistenti e rimane impigliato in questa metodologia. Penso che era importante mettere in scena il fatto che uno attore è il suo essere attore e guardare il suo essere attore, questa è la chiave a cui io e Luigi tenevamo tantissimo. E un sogno continuo in cui si ci sveglia dormendo”.

Si nota tantissimo l’incipit del teatro elisabettiano del fatto che gli attori ad un certo punto diventano spettatori della rappresentazione. La scelta di inserire all’inizio della prima scena quando entrano i corpi degli attori utilizzando quelle luci che sono soavemente rendono i corpi fantasmici. Questi attori che rievocano siamo o non siamo in un sogno?

“Hai descritto il prologo meglio di come avrei potuto farlo io. Luigi ha sempre voluto sottolineare come questi corpi siano eterotopici e utopici al tempo stesso un luogo e non luogo allo stesso tempo. Questi corpi nella nostra rappresentazione dovevano essere immateriali, per questo motivo l’utilizzo all’inizio di quelle luci che rendevano invisibile il corpo ma visibile solo minimamente. Questi corpi stanno a significare che sono qui ma allo stesso tempo non lo sono e che hanno un rapporto con l’invisibile. Questo è il timbro dello spettacolo poiché si allude sempre a qualcosa che non esiste sula scena, oggetti che devono essere solo immaginati ma anche i racconti stessi non li vediamo in scena rimangono fuori campo ma in campo dalla narrazione dei personaggi. Lo spettatore è portato ad un gioco ludico di immaginare ciò che non c’è e di non immaginare invece ciò che viene raccontato con le parole, questo può creare confusione ma è questo l’intento. Lasciare confusione di un sogno non ricordato bene. Essere capaci di vedere l’invisibile e di custodirlo dentro di se”. 

 “Nel corso della tua carriera hai lavorato con degli artisti di un certo calibro quali: Stefano Bartezaghi, Goffredo Fofi, Luca Scarlini, vuoi raccontare qualcosa su queste collaborazioni?”. 

 “Sono tutti dei grandi intellettuali con la quale ho sempre cercato di creare un rapporto per sviscerare vari lavori su vari romanzi. Abbiamo lavorato insieme per il ciclo di Adina Bocok, abbiamo lavorato sia con la traduttrice la bravissima Margherita Crepax e anche con Stefano Bartezaghi riguardo a tutta la tessitura linguistica dei giochi di parole, che è fondamentale per capire un autore, ci si rivolge sempre in dei specialisti del settore quando si deve effettuare una nuova traduzione o un nuovo lavoro. Sono come delle muse ispiratrici per ritrovare il proprio punto di vista per l’interpretazione. Soprattutto quando poi una opera si mette in scena e si crea, questo significa interrogarla da vicino e dal vivo, creando un rapporto intimo e ravvicinato. Sono delle operazioni così delicate che a volte farle da sole è impossibile, per cui ci si crea delle alleanze”. 

 “Ritornando allo spettacolo, essendo che tu oltre ad essere anche la drammaturga, se anche attrice nello spettacolo, come hai dovuto lavorare per effettuare due menzioni molto complesse contemporaneamente?”

 “Questa è una complicazione che mi sono scelta, poiché io di base sono una drammaturga, ma ho sempre pensato come faccio a scrivere se non so cosa significa interpretare? Per cui mi sono sempre dedicata anche alla recitazione. Come fai a scrivere un testo per il teatro se non ci passi con il tuo corpo? Come fai a consigliare ad un attore ad incarnare la parola o un personaggio se non hai vissuto quella esperienza unica e alchemica? Il mio stare in scena per me è interrogare continuamente il mio essere drammaturga. Poi ho la fortuna di avere come compagno di lavoro Luigi De Angelis regista della compagnia invece io sono la direttrice artistica, insieme abbiamo costruito un rapporto di 30 anni, è un fratello per me. Io mi fido tantissimo di lui quando lavoriamo i suoi occhi sono i miei. Avere una persona di cui ci si fida è pura fortuna perché lui vede dove io non posso vedere mentre recito in scena”. 

 La forza di questo spettacolo è dunque che i personaggi non rappresentano questo nel senso convenzionale del termine, ma rappresentano dei proto-personaggi del sogno di un pensiero. Insieme a te sul palco vediamo recitare Marco Cavalcoli, Andrea Argenteri, Roberto Magnani, Elisa Poll. Come hai lavorato con gli attori e come vi siete gestitici con le voci registrate?

 “Per me questi attori sono fantastici, Cavalcoli e Argenteri sono storici nella compagnia e avevano già lavorato insieme a me e a Luigi. Roberto viene dal Teatro delle Alpe ed Elisa Poll da un’altra compagnia con sede a Ravenna. Noi ci conosciamo da quando siamo piccoli e proviamo l’uno per l’altro un amore sconfinato. Dopo il lookdown c’era il desiderio di rimettersi in teatro con delle persone e rivivere. Così ci siamo messi sotto per mettere in scena il tutto. Nello spettacolo si sente che c’è condivisione gioiosa di quella paura che ormai è svanita. Si ritorna a teatro. 

Per rispondere alla parte più tecnica della domanda Luigi è un musicista per cui le sue regie le crea come delle partiture musicali, con pause, silenzi, allegri o adagio con utilizzo di arcate musicale retoriche. La sua regia è come suonare una partitura, hai colto molto bene questa corrispondenza del doppiaggio, e di presenza di inarcature ritmiche in cui ogni attore consegna la sua battuta all’altro come fanno i musicisti in una orchestra”. 

Progetti futuri?

“il mio cuore è diviso tra le rappresentazioni a Roma al Teatro India e un Barbiere di Siviglia che è andato  in scena il 31 marzo a Rovigo e poi sarà a Ravenna al Teatro musicale poiché è parte integrante della compagnia. Ora vengo dalla traduzione per Mario Martone del Romeo e Giulietta che ha appena debuttato al Piccolo di Milano che è ancora in replica in questi giorni fino al 16 aprile. Luigi ha molti progetti musicali, abbiamo 3 piccoli pezzi uno dedicato a Nina Simone, uno dedicato al tema della maternità”

Dunque più cose che bollono in pentola e che presto verranno cucinate e servite a puntino, in un piatto unico e magico con il gusto a sapore di teatro. 

Carmela De Rose 03/04/2023

FIRENZE - Era tanto che non lo facevo. Tre mesi. Tre lunghi mesi d'astinenza. Anche se questo piccolo contatto mi ha lasciato ancora più fame di prima, ancora più voglia di prima. Novanta giorni senza uno spettacolo teatrale, senza un teatro, senza una recensione. Da starci male. Ieri l'ho fatto ed è stato come, mera illusione, tornare non tanto alla normalità quanto a respirare quell'aria familiare dell'altro che, con parole e formule e gesti e parole sue, scandaglia il tuo animo lì pronto, aperto ad accogliere il diverso. Ho visto teatro, oltre che nell'edificio-teatro, in infinite modalità, dalla strada ai castelli, le torri, le piazze, nei parchi, gli scantinati, sui fiumi, le case private ma non sono riuscito, in questi due mesi, ad abituarmi alle riprese video, agli streaming, alle letture casalinghe, alle drammatizzazioni in salotto. Il teatro senza la magia del teatro, senza il buio, senza il patto tra platea e palco, quel silenzioso e tacito accordo per il quale ognuno conosce il proprio ruolo e il proprio spazio e si dedica all'altro, recitando o ascoltando, se al teatro togli quella polvere, quel non detto, tutto quello che sta tra le righe, rimane forse il mestiere, la voce, poco più. La tecnologia poi non aiuta quell'artigianalità intrinseca nel fare e nel fruire lo spettacolo dal vivo. La distanza e la non-fisicità del momento dilata il significato e lo fa diventare uno dei tanti contenuti che passano, che affollano senza sfamare, che riempiono senza incuriosire.Bosetti.jpg

Ma, come dicevo, sono tornato a teatro, o meglio a respirare, in minima parte, quell'atmosfera: l'attesa, il mistero, la scoperta di un insospettabile sipario. Chi meglio dei Cuocolo/Bosetti, che hanno fatto spettacoli in case private come nella loro, in metro, camminando per le vie, insomma in ogni luogo possibile tranne che su un palco e in teatro, poteva meglio incarnare il teatro in queste settimane magre (e lo saranno anche i mesi a venire; il teatro purtroppo, come il cinema, per gli ambienti chiusi, sarà uno degli ultimi comparti a poter ripartire; salterà anche la stagione prossima visto che ci hanno già preannunciato che ci sarà sicuramente una seconda ondata del virus nel prossimo autunno?), in questo periodo dove gli attori arrancano imbrigliati nei loro domicili senza poter lavorare e il pubblico, gli appassionati, sentono di aver perso una fetta considerevole della loro vita senza il rito della visione del palcoscenico. Avevo già assistito ad una performance simile, sempre a cura del gruppo piemontese, una decina d'anni fa al Teatro Magnolfi a Prato: “Theatre on a line” (prod. Teatro di Dioniso, stavolta organizzato dal Teatro della Tosse di Genova).

Il titolo è rimasto lo stesso ma le condizioni ambientali sono estremamente mutate dando a questa pièce contorni reali, contingenti, pressanti. La reclusione, la solitudine, la lontananza ha fatto sì che per molti di noi i pochi contatti con l'esterno fossero tv e computer mentre per quanto riguarda l'interazione sociale l'unico mezzo, per sentire e confrontarsi con parenti e amici, fosse appunto il telefono, la voce, non gli occhi ma soltanto il tono, le parole nel mezzo il filtro della “cornetta” dello smartphone. Una pièce scritta e concepita proprio per toccare le profondità dello spettatore che in quel caso abbandonava il senso della vista (non c'era niente da vedere se non una stanza all'interno di uno spazio) per affinarne altri: la memoria, il ricordo, la nostalgia e tutto quello che semplici oggetti lì a portata di mano potevano suscitare. In questo caso, visto che la scrivania non poteva essere la stessa per tutti, il canovaccio è cambiato e anche radicalmente. Roberta Bosetti.jpgE' rimasta l'attesa, l'orario preciso al quale dover comporre un numero sconosciuto, la fibrillazione del non sapere che cosa aspettarsi, il confronto uno a uno (come spesso capita negli spettacoli di Renato Cuocolo e Roberta Bosetti) che può solleticare come paralizzare, può eccitare come bloccare. Perché qui lo spettacolo si fa in due proprio se l'interazione procede, se all'azione segue una reazione, se c'è un reale, effettivo scambio di idee, se la partecipazione è sentita.

Ho composto il numero, dall'altra parte la voce di Roberta, sempre indimenticabile e presente, che è calda ed emozionante, che è erotismo ma anche confessore, che è amica e amante in un distacco che non c'è di barriere azzerate, di frontiere aperte, che riesce con pochissime parole a convincerti ad entrare nella sua modalità, in una comfort zone, in un alveolo, in una parentesi dove ogni scambio resterà, dove ogni racconto cadrà, in una intimità che come sarà creata dai due protagonisti (attrice e spettatore) morirà appena la conversazione finirà. Puoi sfruttare il tuo tempo, hai a disposizione un ascolto nuovo, dall'altra parte una figura non giudicante, puoi aprirti finalmente, puoi dire. Come si fa con gli sconosciuti anche se qui, paradossalmente, si è ancora più liberi proprio perché non esiste la dimensione visiva a guardare, scrutare. Solo una voce lontana che ci porta nel mondo dei C/B fatto di sogni che presto si trasformano in incubi, il buio, le carezze oscure, il bosco, il perdersi. E il testo prende pieghe reali, collegate al momento che stiamo vivendo, all'oggi fatto soltanto di distanziamento sociale, di mancanza di contatti, di abbracci, di possibilità di spostamenti. C'è quell'imbarazzo, quella dolce, tediosa sospensione.

Mi dice: “Chiudi gli occhi” e sembra di mettere l'orecchio su una conchiglia e sentire il mare che gorgoglia lontano ma che sembra di poterlo afferrare, tenere, prendere. Anche il silenzio risuona impressionante quando la parola si esaurisce e rimani in ascolto di un niente denso. La sua voce scivola su questo tappeto di nulla che sono state queste otto settimane da gettare nel dimenticatoio, la sua voce è uno squillo pacato, un richiamo fermo ma morbido, una chiamata, un risveglio. Sono stato a teatro, non ero proprio a teatro, ma che cos'è teatro e cosa non lo è? Per mezz'ora mi è sembrato di chiudere le palpebre e avere davanti una voce che rapiva la mia concentrazione e la mia attenzione per condurmi in altre stanze della mente, in altri palazzi della fantasia, in altri corridoi dell'esistenza. Non sono stato a teatro ma è stato comunque un assaggio, un tornare a provare a camminare, un mettere il piede nell'acqua del mare per sentire se è troppo fredda, un tastare il terreno per vedere se è possibile ancora correre, un tentativo per capire quanto ti è mancato, quanto ne vorresti ancora, di quante parole ti sei inaridito, di quante storie sei mancante, Foto spettacolo 2.jpgdi quanto ti è stato sottratto, della voglia che non si placa, dell'inutilità dello scorrere del tempo senza l'arte (e gli artisti) che ci possono accompagnare nella nostra ricerca, senza coloro che toccano la materia e la traducono in ascolto, senza quelli che oggi chiamano i lavoratori dello spettacolo.

E' incalcolabile e inquantificabile la perdita di ognuno di noi per ogni teatro chiuso, per ogni spettacolo saltato e per tutti quelli che salteranno, sarà una sconfitta ogni attore e attrice che dopo questo periodo non potrà più fare il suo lavoro (stare su un palco non è soltanto un lavoro), sarà una sciagura ogni compagnia che dovrà sparire. In gioco c'è la consapevolezza dell'essere cittadino, della polis, la formazione, l'informazione, l'abbeverarsi senza sentirsi mai sazi. Il teatro manca a tutti anche a coloro che ancora non sanno che gli sta mancando. Se ne accorgeranno.

Tommaso Chimenti 05/05/2020

Si conclude venerdì 8 marzo il ciclo di spettacoli proposti all’interno del progetto “Čechov”: sotto la guida di Giorgio Barberio Corsetti, gli allievi registi del secondo anno dell'Accademia Nazionale D'Arte Drammatica Silvio D'Amico, Andrea Lucchetta e Luigi Siracusa, e l'allieva diplomata Francesca Caprioli, hanno lavorato su tre dei testi più importanti del drammaturgo russo: Sulla strada maestraIl gabbiano e Ivanov

Qualche giorno fa abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con la regista di Ivanov, Francesca Caprioli, e assistendo allo spettacolo è stato possibile comprendere, fisicamente ed emotivamente, il suo lavoro intrapreso nei mesi passati con la compagnia: l’obiettivo di sfruttare al massimo i mezzi che si hanno a disposizione, non sprecare neanche un briciolo delle proprie potenzialità ma mettersi alla prova completamente, con ogni parte del corpo, per ottenere un’interpretazione totale. iv

In questo senso gli attori hanno accolto il testo facendolo proprio con grande decisione, sono stati una rivelazione. La messa in scena si affida ad un impianto meta teatrale, che vede gli attori nell’allestimento di Ivanov, alle prese con le prime prove e le battute recitate in fretta, con tanto di riferimento al testo Garzanti e alla pagina del libro. Francesca sceglie di fissare un solo ruolo, il protagonista interpretato dall’ex allievo Massimiliano Aceti, mentre gli altri si scambiano con una destrezza ipnotica. Questa interpretazione fluida, che passa da un corpo all’altro, fornisce l’illusione che ogni personaggio abbia più facce, sentimenti contrastanti, a differenza di Ivanov che rimane uguale a sé stesso in ogni atto; proprio lui che voleva cambiare, iniziare di nuovo a vivere.

La scenografia è scomposta; gli oggetti sono affastellati e ingombranti, simbolo non solo di una ricchezza polverosa ma di fardelli profondi, legati all’animo umano. Gli stessi attori li reggono goffamente: come Anna Petrovna si trascina al collo la testiera di un lettino che pesa come la malattia che la sta uccidendo, Ivanov si nasconde sotto ad un piccolo banco di scuola, di legno spesso, che gli va stretto e non riesce a celare la sua insoddisfazione.iva

Il palco diventa un laboratorio e come in un vero studio di recitazione gli attori iniziano a credere alle parole che escono dalla loro bocca, si emozionano con lacrime vere, commuovendo anche il pubblico. Ivanov non è più un’intenzione astratta ma si materializza davanti agli spettatori diffondendo la sua energia amara e senza redenzione. Gli attori fondono sé stessi con i ruoli, si immergono senza paura, si sporcano le mani e il volto, si espongono non tirandosi mai indietro. La vita, per quanto dolorosa, insoddisfacente, complessa, supera la morte, Ivanov ne rimane vittima e vi rinuncia, perché non ha la forza per vivere una nuova primavera, e i limiti tra la finzione e la realtà vengono aboliti.

Silvia Pezzopane 10/03/19

Photo Credits: Tommaso Le Pera

“Non starò a spiegarti se io sono onesto o mascalzone, sano di mente o psicopatico. Non lo capiresti. Sono stato giovane, ardente, sincero, non stupido; ho amato, odiato e creduto non come gli altri, ho lavorato e sperato per dieci, ho lottato con i mulini a vento, ho battuto la testa contro il muro; senza misurare le mie forze, senza conoscere la vita, mi sono caricato sulle spalle un peso che mi ha immediatamente spezzato la schiena e strappato le vene; mi sono affrettato a consumarmi tutto nella giovinezza, mi sono inebriato, entusiasmato, ho lavorato; senza conoscere misura. E dimmi: era forse possibile fare diversamente?”
Ivanov, Atto quarto

Volge al termine il ciclo di spettacoli proposti all’interno del progetto “Čechov”: sotto la guida di Giorgio Barberio Corsetti, gli allievi registi del secondo anno dell'Accademia Nazionale D'Arte Drammatica Silvio D'Amico, Andrea Lucchetta e Luigi Siracusa, e l'allieva diplomata Francesca Caprioli, hanno lavorato su tre dei testi più importanti del drammaturgo russo: Sulla strada maestra, Il gabbiano e Ivanov. Proponendo una rielaborazione critica, realizzano un percorso che potrebbe essere definito circolare, in quanto l’ultimo testo messo in scena, al Teatro Studio “E. Duse” di Roma il 7 e 8 marzo prossimi, sarà proprio il primo lavoro di Čechov.

Abbiamo avuto il piacere di fare qualche domanda alla regista di Ivanov, Francesca Caprioli, diplomatasi nel 2014 all'Accademia Nazionale D'Arte Drammatica, dopo aver studiato alla LMTA (Lithuanian Academy of Music and Theatre) di Vilnius il metodo dei maestri E. Nekrosius e O. Korsounovas, nonché fondatrice, assieme a Eleonora Pace, Paola Senatore ed Elena Carrera, dell’Associazione Compagnia Francesca Caprioli, nata nel 2015.

Ivanov è la prima piece di Čechov, scritta in 10 giorni o poco più (da quanto si legge nelle sue lettere al fratello), è un dramma di quattro atti con un intreccio complesso e un protagonista, il giovane proprietario terriero, che è incomprensibile ad una prima lettura, poiché sfaccettato, profondo. È stata una tua scelta Ivanov? Come ti relazioni ad un testo così particolare?

"Sì, Ivanov è stata una mia scelta perché è un testo su cui mi sono soffermata molto, anche in passato: quando ero al Vilnius e lavoravo con Nekrosius ho avuto l’opportunità di affrontarlo come interprete, nel ruolo di Sasha. Mi ha segnato molto come esperienza, ma soprattutto mi ha avvicinato alla storia e ai personaggi, che potrei considerare ormai come persone che frequento da anni. Avevo il grande desiderio di intraprenderlo come regista, è un’opera che ti segna".

Quindi hai avuto modo di vivere l’opera sia da un punto di vista interno che esterno: sul palco diretta da un grande regista e ora in prima persona a dirigere una compagnia. Qual è l’esperienza che hai preferito?

"Sempre dall’esterno ovviamente! Ma è chiaro che Nekrosius non si batte, l’esperienza di lavorare con un maestro come lui è ineguagliabile. Non solo come interprete ma anche come assistente alla regia, sempre al suo fianco".

Čechov in Ivanov scrive: “(…) in ciascuno di noi ci sono troppe ruote, viti e valvole perché si possa giudicare l'uno dell'altro in base alla prima impressione o a due o tre segni esteriori.(…)".
Come ben sai uno degli aspetti più complessi da trattare in Ivanov è proprio la caratterizzazione dei personaggi, tu come hai lavorato in questo senso?

"La complessità dei personaggi di Ivanov risiede nella loro “ricchezza”: ovviamente non in senso negativo ma riguardo alla stratificazione di molti caratteri che si coniugano o si sovrappongono tra loro. Essendo il primo testo scritto da Čechov si costituisce quasi come un embrione di tutto ciò che si è sviluppato dopo, smistandosi nelle opere seguenti e nei personaggi successivi. Qui è come se il materiale si configurasse ad un livello archetipico, specialmente per le figure femminili. Prendiamo Anna Petrovna, la moglie di Ivanov, può essere equiparata a tutte le donne sofferenti affrontate nelle opere successive. Sasha ad esempio diventerà Irina (Tre Sorelle) ma anche Sonja (Zio Vanja). Sono tutti personaggi in cui i caratteri si ripetono e si ritrovano. Probabilmente solo nel personaggio di Nina (Il Gabbiano) Čechov raggiunge una completezza totale dello sguardo, grazie ad una capacità drammaturgica compiuta nella descrizione dell’animo femminile. Molto diverso da ciò che si sviluppa in Ivanov, in cui l’autore è “barocco” nel raccontare i personaggi".

Questo si rivela soprattutto nella figura del protagonista, ambiguo e malinconico, che tende ad essere odiato o amato senza vie di mezzo. Tu come ti poni nei suoi confronti? Chi è il tuo Ivanov?

"Il mio rapporto con il protagonista è chiaramente un rapporto di amore, in quanto la fragilità di quest’uomo non si può non capire: spesso i suoi sentimenti appaiono ambigui ed è difficile stabilire cosa stia provando; rabbia, depressione, apatia.. per me la risposta, in questo testo come in altri, la danno gli attori. Il mio Ivanov è il risultato del lavoro che svolgo con l’attore, perché è qui che ho il riscontro della mia lettura. Quando si lavora su un testo di Čechov è necessario partire con un’idea aperta e, all’evenienza, flessibile alla possibilità della sua trasformazione. L’idea del personaggio, di come dovrebbe essere, si pone sempre a metà tra me e l’attore: è nella nostra relazione che prende vita, ovviamente il tutto supervisionato da Čechov che sta alla base. Però la sua verità finale, quella che si rivela sul palco, è il frutto del dialogo tra la mia idea pregressa che si trasforma e si attualizza nel corpo dell’attore".

In questo senso, quanto è cambiata la tua idea di partenza e come è stato lavorare con questo cast?

"La mia idea di partenza è cambiata per questo spettacolo, nel confronto con queste persone, perchè ognuno di loro ha portato un qualcosa in più. Non conoscevo il cast, che è formato dagli allievi del secondo anno dell’Accademia, io ho scelto solo il protagonista, Massimiliano Aceti, anche lui ex allievo come me. Con loro ho intrapreso un percorso lungo, iniziato a fine gennaio, in cui il primo passo è stato un lavoro quasi a livello di laboratorio, in cui, prima di affrontare il testo, li ho voluti portare ad abbracciare uno stile e una visione del teatro che fanno parte di me. Abbiamo lavorato molto sulla tecnica e sulla potenzialità di sfruttare al massimo i mezzi che avevano a disposizione. Chiarito questo passaggio ci siamo dedicati al “montaggio” dei personaggi, sempre insieme. Per me è fondamentale padroneggiare la tecnica, perché il teatro di Čechov richiede un attore presente, capace di pensare un concetto e recitarne un altro, con estrema convinzione e credibilità, facendosi coinvolgere davvero".

Quindi quando dirigi gli attori pretendi un lavoro a 360 gradi?

"Sono stata dall’altra parte quando volevo imparare il metodo degli altri registi e quello è il modo per assimilarlo. Chiaramente, se vuoi imparare un metodo devi impegnarti sul serio, richiede fatica. Se lavoro con Nekrosius per rubargli il cuore mi devo mettere sotto, ho fatto anche da assistente alla regia ma è sempre da un gradino più in basso che parti per capire; devi comprenderlo su di te prima che sugli altri. Il mio modo di dirigere parte dal messaggio che voglio comunicare con lo spettacolo".

E tu cosa vuoi dire con Ivanov?

"Per me questo testo racconta il passare del tempo e come può essere affrontata questa inesorabilità; parla di vecchiaia, giovinezza, malattia, morte, e della possibilità di inserire in questo flusso l’amore, in modo che ne faccia parte".

Sembra però che il protagonista viva questa sua esistenza in maniera completamente distaccata...

"Non so quanto Ivanov sia realmente distaccato nei confronti di ciò che gli succede. Credo che, lentamente, ad un’insofferenza iniziale, si aggiunga una serie di eventi così emotivamente impegnativi da azzerare il livello di considerazione che ha in sé stesso. Quindi l’apatia di fronte alla morte di sua moglie, alla malattia, all’amore di lei, il desiderio di vivere la giovinezza attraverso il corpo di una giovane donna ma non riuscire a fare neanche quello, il fatto di perdere i soldi, la casa, tutto questo aggrava la sua situazione fino a portarlo all’uscita d’emergenza, alla morte. Nel finale di Ivanov, come sai, c’è un suicidio, ma la parte più forte è quella prima. Nel testo la morte è immediata, senza troppe spiegazioni o descrizioni, perché ad avere rilievo sono i piccoli sprazzi di vita e non la scelta finale, il protagonista si sottrae a tutto questo perché ne rimane vittima. La forza quindi non sta nel suicidio ma nella sorte di quelli che restano indietro, che rimangono ad avere a che fare con la vita di tutti i giorni, con la noia che essa porta con sé, e con la grande domanda che Ivanov lascia: come si può incastrare l’amore nella quotidianità della vita? Cosa c’entra? Sono due cose così distanti in realtà. È questo il messaggio più interessante e attuale del testo".

Ivanov venne rappresentato per la prima volta nel 1887, secondo te è giusto continuare a portare in scena testi che apparentemente non hanno nulla a che fare con il nostro presente? E in che modo?

"Secondo me è doveroso continuare a portare in scena Čechov. Ovviamente bisogna trovare una modalità sensata per riproporre testi che possono essere considerati “antichi”, che non è sempre riscriverli ma a volte ci si può anche confrontare con quel linguaggio. Nella versione che sto dirigendo sono gli attori che mettono in scena lo spettacolo, quindi è tutto metateatro, per cui anche il linguaggio diventa ammissibile in quella cornice. Però è una scelta che deve essere motivata. Per quanto riguarda questo drammaturgo in particolare, penso sia sempre esistito “fuori dai divanetti”, è un’energia sotterranea che prende forma con il testo. Detto questo rimettere in scena un testo come Ivanov è imprescindibile poiché crea un legame: sapere che nell’800 i problemi erano gli stessi ti riappacifica col trascorrere del tempo, al di là del progresso, del registratore che hai mano e di tutto il resto, siamo rimasti esattamente allo stesso punto. Non esiste ancora un modo per sconfiggere la vecchiaia, un elisir di giovinezza, non si è ancora trovato uno stratagemma per inserire l’amore all’interno delle esigenze quotidiane della vita senza far diventare anche quello un’esigenza".

Quale è stato il tuo rapporto con Giorgio Barberio Corsetti, nominato Direttore del Teatro di Roma di recente, ideatore del progetto “Čechov”?

"È stato un rapporto tranquillo ed equilibrato, per me non ci sono state limitazioni nella scelta e nella rielaborazione del testo, oltre che nella realizzazione dello spettacolo. Ho avuto totale libertà e fiducia da parte sua".

Silvia Pezzopane 05/03/2019

Dai verdi pascoli della sua (immaginaria) terra, in fuga da un padre imprenditore che incomprensibilmente non approva il suo amore per la magia, è giunto nei teatri italiani Il Mega Mago del Maggikistan. Dopo il successo in sala raccolto al Roma Comic Off 2018, l’eccentrico, esilarante, affascinante Mega Mago, accompagnato dalla fedele assistente Felafel, promette di far divertire, in un nuovo unico, scoppiettante atto a suon di gag e battute brillanti, anche il pubblico del Teatro Studio Uno, dal 25 al 28 ottobre. Ad interpretarlo c’è sempre Luca Laviano, affiancato sul palco da Elisabetta Girodo Angelin e Dimitri D’Urbano, e alla regia da Riccardo Maggi. Recensito ha incontrato i quattro artisti, i quali hanno raccontato qualcosa in più di questo personaggio e della loro prima collaborazione insieme.

Come nasce l’idea di questo spettacolo?

L.L.: Il progetto originario è di Elisabetta, Riccardo e mio. Questo spettacolo prende le mosse da uno sketch di strada che abbiamo messo su noi tre l’estate scorsa. Le idee sulla storia e sui personaggi sono di tutti, anche di Dimitri, il quale è stato coinvolto in seguito. Quando abbiamo deciso di portare il Mega Mago in un teatro, ho raccolto i nostri spunti e le nostre intuizioni e ho messo tutto su carta, curando in particolare la struttura del testo e i dialoghi. Ma questo personaggio mi è entrato talmente dentro che, in fin dei conti, su qualsiasi proposta, l’ultima parola spettava a me.

Dalla strada al palcoscenico teatrale, dunque. Cosa vi ha convinto?

L.L.: Il Mega Mago è un personaggio così carismatico, con un background prepotente che spiccava e voleva emergere: pensavamo meritasse di avere più spazio.

D.D’U.: Era giusto esprimere in teatro il potenziale che dimostrava di avere.

R.M.: Nel momento in cui è stata accennata una bozza di trama, ci siamo resi conto che poteva essere pensato come spettacolo e non come un semplice corto.42179573 715342662176954 6495786084104929280 n

Quali ispirazioni avete avuto? Nello spettacolo si possono rintracciare battute che si rifanno a Boris (serie televisiva italiana, prodotta dal 2007 al 2010, che mostrava il dietro le quinte di un set televisivo), o ai Boiler (trio comico formato da Federico Basso, Gianni Cinelli e Davide Paniate, che a Zelig portava spesso lo sketch dei “finti giornalisti”), ad esempio.

L.L.: Ci siamo chiesti semplicemente il Mega Mago chi fosse: così è nata la famiglia del Mega Mago. Sarà che sono un “terrone” emigrato a Roma, ma mi piaceva anche il tema del viaggio, del sogno da inseguire. Infine, ci siamo resi conto che sarebbe stato opportuno anche un antagonista. Per quanto riguarda le gag e le battute, io definisco il Mega Mago uno spettacolo di cui non puoi fare la parodia. Tutti gli attori, durante le prove di una rappresentazione, che sia quella più divertente o la più drammatica del mondo, fanno una “scimmiottatura”, per giocare e smorzare la tensione. Del Mega Mago non si può, perché tutte le arguzie o le canzonature che ci venivano spontaneamente, le abbiamo inserite nella sceneggiatura. Quegli omaggi, o i rimandi a cose note, derivano proprio da ciò. Sfido chiunque a fare la parodia del nostro spettacolo. Abbiamo inserito ciò che da pubblico o da addetto ai lavori, si ha sempre sulla punta della lingua ma non si ha il coraggio di fare.

R.M.: Alla battuta menzionata da Boris ci tengo personalmente. Perché è la mia preferita degli ultimi dieci anni: c’è chi cita l’Amleto, io cito Boris.

Chi è il regista?

L.L.: Riccardo ha curato la regia dello sketch di strada. Ma poiché, come dicevo prima, sono molto legato al mio personaggio, in comune abbiamo deciso di essere i co-registi per lo spettacolo a teatro.

E per Riccardo Maggi cosa significa avere a che fare con un co-regista che è anche l’attore principale?

R.M.: Sicuramente è un’esperienza positiva, dato che sono abituato ad essere sempre da solo alla conduzione di uno spettacolo. È stato un esperimento riuscito e sono molto contento di ciò. Il Mega Mago nasce come lavoro corale e, quindi, è giusto che ognuno porti il suo contributo: io, semplicemente, sto “fuori” dal palco, curo quelle piccolissime specificità, un’azione scenica un po’ più precisa ad esempio, e fornisco un primo sguardo esterno. Non mi azzardo a fare la regia totale perché sarebbe togliere qualcosa al lavoro di tutti. Luca ha più l’idea della scena in generale, io invece, da fuori, consiglio dove aggiustare il tiro.

D.D’U.: Per farla breve, Riccardo mette ordine alle “sparate” di Luca.

Com’è andata la vostra esperienza al Comic Off 2018 di Roma?

E.G.A.: È stato un banco di prova, per testare il rapporto con il pubblico. Ci ha permesso di sviluppare lo spettacolo e giungere ad un punto (dopo la “pillola” di luglio al Teatro Studio Uno nell’ambito della rassegna Tutto in 12 minuti, ndr).

L.L.: A dirla tutta, se avessimo avuto più tempo per leggere dettagliatamente il bando del Comic Off, probabilmente non avremmo aderito, poiché non rispecchiava in pieno il tipo di lavoro che stavamo facendo. Siamo tutti soddisfatti del riscontro positivo ottenuto dal pubblico, questo sì. Ma delle personalità legate all’ambito teatrale non è venuto nessuno, a parte il critico assegnato come di consuetudine e il direttore artistico del Teatro Petrolini. Per una rassegna dedicata al teatro comico, ci saremmo aspettati una giuria di qualità, che guardasse con obiettività tutti gli spettacoli prima di candidare e/o premiare i partecipanti. Cosa che, non solo a noi, ma anche ad altre compagnie, non è parso ci fosse.

Per voi il Teatro è più viaggio o più magia?

L.L.: Il Teatro è un viaggio in un tunnel quantico magico. Va bene come risposta? (ride, ndr)

D.D’U.: Il Teatro è come un palazzo in cui c’è una stanza. E dentro questa stanza si porta il risultato di un viaggio che, non fermandosi esclusivamente ad un atto professionale, viene arricchito in diretta di quelli che possono essere imprevisti, novità o proposte. Che poi sono quelle cose che compongono una certa parte magica. Non so se sono stato chiaro. Ad ogni modo, il Teatro è quello spazio dentro cui si raggiunge il compimento di un percorso, di un viaggio, nel quale avviene la magia.

42200814 715343182176902 1333119872577568768 nTutta questa affinità tra voi dove nasce? Non siete una compagnia stabile…

R.M.: Probabilmente proprio dal fatto che non ci siamo messi a tavolino a porci quelle domande che si fanno tutte le compagnie, come ad esempio a quali risultati arrivare e in quanto tempo, a chi assegnare quello o questo ruolo, cosa si deve fare e quando… É il primo progetto a cui ci dedichiamo tutti e quattro congiuntamente, quindi si è trattato di creare un gruppo in itinere, dove piano piano ognuno ha trovato la sua strada, arrivando a collaborare bene insieme agli altri. Non avevamo uno schema predefinito a cui riferirci, ma abbiamo lavorato direttamente sulla pratica, che forse è la cosa migliore in questi casi.

Nello spettacolo utilizzate una commistione di linguaggi: non c’è solo quello teatrale, ma fate leva anche su uno più televisivo e cinematografico. Come mai questa scelta?

L.L.: Nel momento in cui il Mega Mago ha avuto un background, è nata anche la sua infanzia e quindi l’allevamento delle vacche da latte del Maggikistan. C’era bisogno di creare uno spot, una cosa stucchevole con delle musiche molto rassicuranti. Avevamo l’esigenza di comunicare questo tipo di informazione al pubblico in maniera veloce, quindi ho pensato di farne un trailer e di proiettarlo in teatro. Il linguaggio cinematografico è entrato, così, di prepotenza nello spettacolo. Da spettatore non amo molto il video in teatro, ma solo se non è perfettamente integrato nella storia. Non c’è una presa di posizione aprioristica comunque. Con il Mega Mago non voglio dare nessun contributo significativo al Teatro – ma se così fosse, ben venga. È uno di quelli spettacoli che fanno ridere il pubblico e dove anche chi è in scena si svaga, uno di quelli che anche i nostri colleghi vorrebbero fare per divertirsi. E questa era la mia ambizione.

D.D’U.: Ci siamo permessi di lavorare, al di là della recitazione effettiva, anche con le proiezioni, con momenti di coreografia e di danza pura, esclusivamente perché Riccardo dal banco di regia ce l’ha permesso. Non c’è la voglia di dare una linea o andare contro un percorso che sta facendo il Teatro in questo momento.

R.M.: Da regista e autore di altri testi, mi piace sia la commedia che la tragedia, lavori con video o senza, scenografie e costumi elaborati o essenziali, ma non mi pongo domande su come il teatro si stia evolvendo ora. Cerco di fare quello che mi piace e che spero piacerà al pubblico.

E.G.A.: Abbiamo genuinamente giocato, insomma.

Quanta improvvisazione c’è sul palco?

R.M.: Durante la prima serata (al Teatro Petrolini, ndr), sicuramente c’è stata più capacità di improvvisazione, perché è uno spettacolo difficile, pur essendo divertente per il pubblico e per gli attori. È molto orchestrato, è una macchina. Già durante la seconda serata insieme, qualcosa è cambiato e siamo riusciti a regolare meglio, tra i due atti, le energie di ciascuno. È uno spettacolo che va assestandosi.

L.L.: In generale, noi tutti dobbiamo stare attenti a non improvvisare troppo. Soprattutto Dimitri ed io che, conoscendoci da anni, siamo molto complementari in scena.

D.D’U.: Dovremmo cercare di non divertirci troppo noi a discapito del pubblico, intende.

Che rapporto avete con la magia? Ci credete?

D.D’U.: Beh, lo spettacolo è piaciuto. Quindi penso proprio di sì. (ridono, ndr) Battute a parte, io credo alla magia del Mega Mago. Non è necessaria una magia canonica, intesa come reale, fatta di poteri sovrannaturali, per affezionarsi a colui che potrebbe apparire un imbroglione a tutti gli effetti. L’incantesimo che fa è proprio questo: non essere realmente magico, ma essere amato ancor di più di quanto sarebbe un vero mago. Se questa è la magia, allora io ci credo.

L.L.: Io mi sono fatto questa domanda la seconda sera del Roma Comic Off. In sala c’erano tanti bambini, anche abbastanza piccoli. Pensavo che non avrebbero retto un’ora e mezza circa di spettacolo. E invece alcuni di loro volevano vedere di nuovo il Mago alla fine. Perciò anche io credo nella magia che ha creato il Mega Mago. È ingenuo, semplice, un cialtrone probabilmente, ma lui ci crede: come i bambini che candidamente credono che qualsiasi cosa possa diventare magico.

Potete parlarci anche degli altri personaggi?

E.G.A.: Io interpreto Felafel, l’assistente del Mega Mago. E ovviamente credo ciecamente a lui e alla sua magia. Come i miei colleghi, anche io mi diverto molto sul palco. Credo, inoltre, che senza Felafel non esisterebbe il Mega Mago, perché lei è la prima che crede in lui. Ah, e anche io sento le voci nel lobo dell’orecchio sinistro. (ride, ndr)

D.D’U.: Io invece mi sono abbastanza annoiato ad interpretare tutti gli altri personaggi. (ridono, ndr) Scherzo, ovviamente. Sono molto contento, dal punto di vista attoriale, di aver avuto la possibilità di fare un grande numero di ruoli all’interno dello stesso spettacolo. Ho raggiunto questo gruppo dopo gli altri e l’idea era che io potessi completare un cerchio. Ma ci siamo fatti prendere la mano e i personaggi sono diventati sempre di più, sia nello spettacolo dal vivo, sia tra quelli che si vedono nei video. Il Mega Mago dal Maggikistan 25 28 ottobre Teatro Studio Uno foro2

Chi vorreste veder seduto tra il pubblico?

E.G.A.: Sue Ellen, ovviamente! (personaggio immaginario della famosa serie tv statunitense anni Ottanta Dallas, interpretata da Linda Gray, ndr). Chiunque ne abbia voglia. E mia madre.

D.D’U.: Molti direttori di molti teatri. E tutti quelli che non sono ancora venuti.

L.L.: Non ci ho mai pensato davvero. Il premier?

R.M.: Forse sarà una cosa scontata, ma quanta più gente possibile è la mia risposta. Il mio sogno è che le gag del Mega Mago diventassero un fenomeno di massa.

D.D’U.: Inoltre vorremmo iniziare una tournée come quella descritta nello spettacolo e passare da Sidney, a Dubai, a Prignano sulla Secchia (comune in provincia di Modena, ndr). Anzi, tralasciamo Dubai e Sidney e andiamo direttamente a Prignano.

E.G.A.: Lanciamo un appello a Prignano! 

R.M.: E anche un hashtag: #megamagosullasecchia

Tre aggettivi per descrivere il vostro spettacolo?

D.D’U.: Come direbbe Celeste Turchino di Sinonimi, che passione! (personaggio dello spettacolo, ndr): divertente, simpatico, carino.

L.L.: Colorato, demenziale, saporoso.

E.G.A.: Balneabile, incendiabile, inafferrabile.

R.M.: Necessario, divertente, maggikistano. E chi vuol capire, capisca.

37010657 2152307341719284 4694448620882100224 nProgetti futuri?

E.G.A.: In questo momento stiamo provando un libero adattamento di Hotel Transylvania (film d'animazione americano del 2012, ndr): faremo uno spettacolo per bambini in una scuola ad Halloween. Luca sarà Dracula, mentre io la figlia Mavis e Dimitri farà Jonathan, che diventerà Johnnystein, oltre che Wayne il lupo mannaro e uno zombie travestito da umano. Individualmente farò diversi spettacoli per ragazzi, in particolare con la Nomen Omen (compagnia teatrale nata a Roma nel 2007, che mescola diverse tecniche, come il teatro di figura, clownerie e il teatro d’attore, ndr). E sto frequentando da diverso tempo un corso di circo.

R.M.: Dimitri, Elisabetta ed io porteremo in scena, al Teatro Trastevere dal 27 novembre al 02 dicembre, uno spettacolo inedito che si intitola Il Vangelo di Tijuana. È totalmente opposto al Mega Mago, nel senso che il pubblico potrebbe tornare a casa con il magone.

D.D’U.: Durante il prossimo anno cercherò di concentrarmi su un progetto che vede coinvolta anche Elisabetta e che si chiamerà Ah ah ah. O l’innocenza della follia.

L.L.: In futuro non si esclude neanche un Mega Mago – Il ritorno. Ma per il capitolo Mega Mago salva il Natale siamo in ritardo. Ci prenotiamo per la Pasqua. (ride, ndr) Personalmente continuerò ad insegnare teatro, pedagogia teatrale e a fare laboratori teatrali con spettacoli nelle scuole dell’infanzia.

Quanto ha influito questa esperienza a contatto con i bambini nello spettacolo del Mega Mago?

L.L.: Essere insegnante di teatro per bambini è una cosa che mi viene spontanea, sento di esserci portato. Il linguaggio che uso con i bambini quando faccio lezione, o negli spettacoli a loro dedicati, è simile a quello del Mega Mago. Forse per questo ha funzionato anche con un pubblico molto giovane. I personaggi che creo sono molto colorati, sopra le righe e hanno quel tipo di comicità universale, che arriva ad ogni fascia di età.

Nello spettacolo c’è più ironia o sarcasmo?

TUTTI: Più ironia, sicuramente.

 

C’è qualche genere con cui vi piacerebbe cimentarvi?

L.L.: Il mimo.

D.D’U.: Il black humor. Spero di affrontarlo molto presto. È tra i miei progetti.

R.M.: La satira. Ma ancora non ho trovato l’idea giusta e che non sia di un qualunquismo allucinante.

E.G.A.: Io vorrei riuscire a scrivere degli spettacoli miei, avvicinandomi al mondo del circo. Ho già delle idee.

Potete lasciare, ognuno di voi, un appello ai nostri lettori in stile Mago del Maggikistan?

L.L.: Vienite di teatro a vedere Mega Mago di Maggikistan, se no vi pikkio. Come dice noi a Maggikistan: vi pikkio.

D.D’U.: Partiamo da Celeste Turchino, che potrebbe dire: Sarei molto felice, contento, entusiasta se tutti voi avrete piacere di venire, di giungere, di farci compagnia a questo spettacolo, a questa messinscena se vogliamo, che è quella del Mega Mago, del Grande Mago dal, del Maggikistan. Mega Papà, invece, direbbe: Se tu non vieni a vedere Mega Mago io ti corco di botte.

E.G.A.: Come assistente Felafel, potrei avvisare tutti che questo spettacolo contiene numeri pericolosi e che bisogna stare attenti perché potrebbe provocare infarto, isteria di massa o tartaro.

R.M.: Io anche ho un personaggio che mi creo nella mia cabina di regia ed è il tecnico subnormale: io vi prega di venì a vedè Mega Mago da Maggikistan pecchè altrimenti lor me corcan de botte come tutte volte che no porta pubblico.

Un’ultima curiosità: sapevate che il Mega Mago è l’inizio di una filastrocca recitata alla trasmissione l’Albero Azzurro?

TUTTI: Assolutamente no, la cosa ci è nuova. Però ora vogliamo sentirla

D.D’U.: Diciamo che quando Luca era piccolo, l’Albero Azzurro era ancora un seme. (ridono, ndr)

Chiara Ragosta 23/10/2018

Un po’ pop, un po’ decadenti, un po’ psicanalitici. Sono questi i colori di “Dichiaro guerra al tempo”, in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 20 maggio. Una tela complessa da comprendere pienamente, così come avviene con un quadro cubista. Ogni forma, ogni pennellata ha in realtà un suo peso, un suo perché; allo stesso modo, le intenzioni, le premesse e i messaggi narrati in questo spettacolo, dai riverberi lunari e oscuri, vengono collocati in una dimensione sognante ma al contempo palpabile e reale, perché ruotano intorno all’unico elemento certo dell’esistenza, anch’esso sfuggente ma crudelmente presente: lo scorrere del tempo e le sue conseguenze sul senso della vita. In una stanza semivuota che potremmo assimilare ad una sorta di antro della memoria, con pochi oggetti sparsi per terra, due donne si ritrovano ad interagire; non hanno un nome perché non sono dei personaggi, ma degli archetipi umani. Una contemporanea e vestita con abiti androgini (Melania Giglio), l’altra di epoca elisabettiana (Manuela Kustermann). La prima rappresenta la donna moderna, lacerata dai mostri dei nostri giorni: la depressione, la paura per il futuro, l’amore nella sua fragilità, la paura d’invecchiare. Decide così di dichiarare guerra alla causa di tutto ciò: l’orologio. AGIGLIO Ad aiutarla una donna antica, con abito e gorgiera cinquecenteschi, con una penna e i sonetti di Shakespeare in mano. Le due, tra versi, canzoni e dialoghi, cercano di capire come si possa fermare l’incantesimo del tempo, che così barbaricamente sta strappando via loro ogni speranza. Forse, l’unico modo di vincere lo scorrere delle ore è la poesia? L’amore? I figli? Non si può riuscire a dare una risposta, l’interrogativo è troppo grande. La vera bellezza consiste nel saper riconoscere, godere, ed esaltare il dono della giovinezza. Viste le tematiche estremamente controverse e le modalità con cui la messa in scena le esprime, le due protagoniste, Kustermann e Giglio, ne escono indubbiamente vincitrici. Alla seconda spetta un plauso ulteriore, riuscita, durante la sera della prima, ad andare avanti tra recitato e cantato (con pezzi eseguiti dal vivo che vedono l’alternarsi delle hit di artisti come David Bowie, Prince, Cat Stevens) superando un guasto tecnico al microfono. Nonostante una declinazione smaccatamente al femminile, lo spettacolo si rivolge indistintamente a tutti, perché tutti, in un mondo dominato dalle lancette, sono vulnerabili al passare del tempo e alla sua ancora: l’amore.

Alfonso Romeo – 16/05/2018
(Foto di scena: Fabio Gatto)

Scrittore, attore e drammaturgo: Recensito ha intervistato Rosario Galli.

Sei in scena fino al 20 maggio al Teatro dell’Angelo con "Uomini separati". Il titolo dà chiaramente l’idea di quale sia la tematica alla base dello spettacolo, ma certo non fa immaginare che si tratti di commedia…

Infatti il termine commedia è riduttivo. Oggi si usa questo sostantivo in modo indiscriminato e generico. In realtà la sua etimologia ci riporta a un rito antico, un canto per una festa. Ed è proprio questo il mio obiettivo: scrivere un canto, un’ode, per uomini e donne che vivono problemi più o meno seri, che li faccia riflettere sulla loro condizione esistenziale, strappandogli al tempo stesso una risata. Non a caso uno dei miei motti preferiti è castigat ridendo mores.


Si può parlare di un grande ritorno dopo “Uomini sull’orlo di una crisi di nervi”?

In realtà “Uomini” non è mai finito! Continua a essere rappresentato da 24 anni e, per il prossimo a marzo – quando ricorrerà il suo 25° anno –, stiamo già pensando a festeggiare il grande traguardo con un evento, una festa, nonché un allestimento che gira l’Italia dallo scorso ottobre con Federico Perrotta e altri straordinari attori. Non so se “Separati” riuscirà a fare altrettanto, anche se ovviamente me lo auguro.


Immagino non sia stato facile trasportare un tema che - seppur dibattuto molto - di ironico ha ben poco..?

Al contrario, è più facile di quanto sembri. Dico sempre ai miei allievi che ogni tema può essere affrontato in modo ironico. Si tratta di scegliere lo stile e le parole da mettere in bocca ai Personaggi.Rosario Galli e Caterina Shulha


Il sentimento alla base dello spettacolo, però, non è tanto l’amore quanto l’amicizia. Come mai?

«Di tutte le cose più divine e umane, l’amicizia è la più preziosa, la più delicata la più virtuosa. È come l’amore l’amicizia, ha la stessa origine» La risposta sta in questa frase di Luciano Russi, mio Maestro, prematuramente scomparso, un grandissimo uomo, intellettuale, storico, citata dalla protagonista femminile dello spettacolo, una bravissima Caterina Shulha, al suo debutto teatrale - di cui sono orgoglioso.

Quanto è legato all'attualità questo spettacolo?

Quando scrivo racconto storie del mio presente, cercando però di non dare riferimenti storici precisi perché ho la (sciocca) presunzione che i miei testi possano essere rappresentati anche in futuro ed essere ritenuti attuali.

A chi si rivolge lo spettacolo?

A tutte le donne e gli uomini di buona volontà che abbiano desiderio di venire a trascorrere una serata diversa dal solito, lontano dai rumori della banalità quotidiana e dallo spettacolo indegno che la politica ci sta mostrando in questi mesi e in questi ultimi anni, provando per un paio d’ore a ridere di se stessi e a commuoversi e - perché no - anche a riflettere sull’AMORE.

Potremmo avere un’anticipazione delle scelte scenografiche?

Certo. La scena è riempita da scatoloni. Il protagonista - uno strepitoso Paolo Gasparini - ha chiesto ai suoi amici di aiutarlo a fare il trasloco perché appunto si è separato e ha lasciato la casa alla ex moglie. E siccome lui gestisce una libreria ha la casa piena di scatoloni di libri.


Dal punto di vista linguistico, come avete operato nella stesura del copione e nella creazione di battute che potessero essere realistiche ma ironiche?

Questa domanda richiederebbe alcune pagine e molta riflessione. Il problema della lingua - e di conseguenza dello stile - è complesso e richiede attenzione e una certa acribia. Il testo è pieno di sfumature linguistiche che variano secondo il personaggio: ciascuno ha un suo lessico personale.

Parlando un po’ di te, come nasce l’idea di dedicarsi pienamente alla recitazione, dopo o nonostante la Laurea in Scienze politiche?

In realtà non ho scelto la carriera dell’attore ma dello scrittore; recito saltuariamente, solo in certe condizioni; recitare è faticoso ed io sono un seguace di Oblomov.

Che consiglio daresti a un giovane con la passione per la recitazione?

Consigli meglio non darne, è pericoloso. Ma se un giovane contrae il virus del Teatro c’è poco da fare: non provare a combatterlo, ma assecondarlo trovando forme di adattamento ad una realtà virtuale complessa. Però la prima regola è leggere molto e poi avere pazienza, tanta pazienza; e ricordare una frase di Bulgakov che dice “la Vita è fatta di fenomeni complessi; il Teatro è il più complesso di tutti”.

Infine, hai altri progetti nel cassetto da anticiparci?

I cassetti sono pieni di cianfrusaglie che dovrei decidermi a gettare nel cestino e invece mi ostino a tenerli là, dicendo che forse un giorno…Dopo 40 anni di Teatro, Cinema, Televisione, potrei anche decidere di aver detto tutto quello che dovevo e ritirarmi a Ushuaia. Però poi gioco con la mia nipotina di 3 anni, Giulia, e la guardo come improvvisa dei monologhi, e canta e balla, e mi dirige, e allora penso che domani è un altro giorno e forse non tutto è perduto.

 

Virginia Zettin  11/05/2018

Cosa c’è più classico di una commedia di Plauto? Probabilmente è questo il quesito alla base de “Il soldato spaccone”, adattamento di e con Vincenzo Zingaro del “Miles Gloriosus” di Plauto, pieta miliare della commedia latina e non solo, in scena dal 20 aprile al 6 maggio al Teatro Arcobaleno di Roma. 

Con questo spettacolo, presentato al pubblico per la prima volta nel 1997 e rappresentato lo scorso anno come evento conclusivo per i festeggiamenti del 25° anniversario della sua nascita, la Compagnia Castalia mette in scena la classicità della commedia a 360 gradi. Non solo Plauto, padre della commedia, ma la sua opera più famosa e longeva rappresentata da un gruppo di teatranti della commedia dell’arte – che, da un lato, fece dei grandi autori comici classici il proprio cavallo di battaglia e, dall’altro, gettò le basi per la commedia moderna dal teatro, al cinema, fino alla televisione. E non occorre andare tanto lontano nel tempo per averne degli esempi, in fondo anche i tanto biasimati Cinepanettoni provengono – alla lontana – dalla stessa famiglia. Classicità latina e Commedia dell’Arte - già legate di per sé da un fille rouge che giunge fino ai giorni nostri – sono qui abilmente impastate da un gioco di metateatro, tecnica amata già da Plauto e Goldoni e consacrata a “classico” da Pirandello. soldato spaccone1

Insomma, gli ingredienti per rendere un classico ancora più classico, per dilettare gli amanti della commedia tradizionale, ci sono tutti, e amalgamati abilmente. Non sarà un caso infatti se lo spettacolo dal 1997 è stato accolto da oltre 40.000 spettatori con le sue circa 200 repliche. Anche osservando il pubblico in sala al Teatro Arcobaleno di Roma, dove lo spettacolo è in scena dal 20 aprile al 6 maggio, si può notare come la ricetta della Compagnia Castalia sia adatta a un pubblico variegato, dagli adulti ai bambini. L’intreccio di base è quello Plautiano: il soldato spaccone Pirgopolinice, che pur vantandosi a sproposito delle innumerevoli e millantate imprese si lascia raggirare dal piano architettato dal suo scaltro servo Palestrione – un Arlecchino ante litteram – per riportare tra le braccia dell’amato la bella Filocomasio, cortigiana finita tra le grinfie del Miles come bottino di guerra. Lui, lei e l’altro diremmo oggi. Ma non solo: ricchi e poveri, servo e padrone, giochi di inganni e incomprensioni. Tutti temi a cui siamo non solo abituati, ma anche affezionati, dai classici ai moderni, da Plauto a De Filippo, fino ad Aldo Giovanni e Giacomo. Il rischio di proporre qualcosa di trito e ritrito – anche se amato - c’era, ma è stato dribblato egregiamente non solo grazie alla brillante performance di tutti gli attori sul palco, ma anche grazie alle azzeccatissime scelte di regia, dall’uso dei dialetti, all’inserimento in sottofondo di incalzanti musiche partenopee, fino al finale a sorpresa. Unica pecca forse la durata: quasi due ore di spettacolo interrotte da una ormai inusuale pausa primo tempo che rischiano talvolta di distogliere l’attenzione del pubblico da una trama, seppur comica, ben articolata.

Virginia Zettin 29/04/2018

 

In occasione della rappresentazione dello spettacolo "Il Bacio" al Teatro dell'Angelo di Roma, abbiamo intervistato Francesco Branchetti di cui è regista e coprotagonista con Barbara De Rossi.

Dal 4 al 15 aprile è in scena al Teatro dell’Angelo con "Il Bacio". Sappiamo che è una storia che parla di un incontro tra due sconosciuti, uniti da una tristezza comune.

Sì, esatto. I due protagonisti provengono da due vite profondamente infelici, sia da un punto di vista affettivo, che sentimentale e lavorativo. Sono segnati e accumunati  da un passato di grande infelicità e da un futuro fonte di grande apprensione e incertezza. Questo incontro tra due condizioni esistenziali così infelici fa scattare un qualcosa che può essere anche di monito per lo spettatore. Può invitarlo, cioè, a ritrovare la capacità di vincere la paura, sentimento dominante della nostra epoca. Paura dello sconosciuto, paura dell’estraneo: la nostra è l’epoca della paura! Questo spettacolo ci mostra invece come due individui, pur spaventati dal futuro, trovino il coraggio e la maniera di fidarsi e affidarsi l’uno all’altro.

Si parte dalla paura per arrivare a un messaggio di speranza quindi?

Assolutamente sì. Credo che sia uno dei miei spettacoli più positivi, carico di romanticismo e speranza nel futuro. E la fiducia, nell’epoca attuale, secondo me è l’unico vero atto di coraggio che si possa fare.

È quindi un incontro ben radicato alla nostra attualità o piuttosto una metafora valida per ogni epoca?

È una metafora che può valere per ogni epoca, ma soprattutto per ogni tipologia di persona. Di ogni età, ceto sociale e provenienza. Basti pensare che nel testo di Ger Thijs i due personaggi sono volutamente senza nome: semplicemente Uomo e Donna. Due personaggi profondamente caratterizzati dalle loro vite, le cui storie però possono essere quelle di ognuno di noi, grazie a una voluta universalità che l’autore ha conferito al racconto. E credo che in un’epoca come la nostra, dominata frustrazioni di ogni tipo, sia un bel segnale vedere due infelicità che, parlandosi, trovano la via per un futuro diverso.

Il passaggio tra la diffidenza e la fiducia reciproca avviene tramite il dialogo: è un ponte che abbiamo perso oggi a causa dell’uso bulimico della tecnologia?

Purtroppo sì. Da un lato oggi abbiamo molta più facilità a metterci in contatto con chiunque, anche persone che un tempo sarebbero state irraggiungibili. Ma questa è una faccenda molto diversa dal dialogare. Grazie ai social possiamo raggiungere personaggi che cinquant’anni fa avremmo ritenuto irraggiungibili, ma questa enorme possibilità è inversamente proporzionale alla nostra capacità di dialogare con l’altro, che secondo me è ormai calata a livelli estremamente bassi. Adesso domina l’autoreferenzialità, che non fa più riferimento alla singola persona, ma a gruppi. Intendo dire che purtroppo spesso ci definiamo in base all’appartenenza a mode culturali, tendenze e correnti, ma tutto questo ha solo aumentato le barriere. Autodefinendoci in una certa maniera mettiamo subito dei paletti nei confronti di chi è diverso. E questo secondo me non solo è profondamente sbagliato, ma anche all’origine della mancanza di dialogo e di tantissime problematiche attuali che nascono dalla profonda non conoscenza dell’altro.

il bacio 5Il tutto è rappresentato in un bosco. Potremmo avere un’anticipazione delle scelte scenografiche?

Lo spettacolo si svolge in una particolarissima scenografia di Alessandra Ricci, di cui sono estremamente soddisfatto. Grazie a un gioco di luci e proiezioni molto particolare viene rappresentato un bosco che cambia. Nel corso dello spettacolo vediamo cambiare il paesaggio intorno ai personaggi, avendo accesso così a punti diversi del bosco. Grazie alle luci cambiamo luogo in continuazione, rimanendo però sempre sullo stesso palco! Tutto ciò ci trasporta in un mondo di sentieri misteriosi e anche di magia. Ed è proprio della magia di un incontro che parla lo spettacolo!

Una scenografia di pari passo con i sentimenti dei personaggi?

Sì, la scenografia ci fa fare lo stesso identico viaggio che ci fanno fare i due protagonisti. E lo stesso discorso vale per la musica che non è una musica di accompagnamento, ma racconta i sentimenti dei personaggi e i cambiamenti che caratterizzano il loro racconto. In breve, la magia che avviene quando uno accoglie - metaforicamente ed emotivamente - l'altro dentro di sé.

Il testo è stato tradotto dall’olandese e adattato al teatro italiano, è stato difficile mettere in scena uno spettacolo che proviene da una lingua così diversa? Vi sono molte differenze con l’originale?

No, non abbiamo trovato difficoltà e non c’è nessuna differenza con l’originale. Tant’è che l’ambientazione e i nomi della città sono tutti in olandese, così come il contesto socioculturale di ciò che viene detto. Una traduzione estremamente fedele all’originale, cosa che per me è fondamentale per ogni mio spettacolo.

Dopo “Medea” sembra che l’accoppiata scenica con Barbara De Rossi sia una squadra vincente. Altri progetti insieme?

Abbiamo diversi progetti insieme in via di definizione. Ci rivedrete assieme a teatro.

Lei è impegnatissimo sia con il cinema, sia in televisione che a teatro: quale sente più suo? Dove la vedremo prossimamente?

Credo che mi rivedrete presto al cinema. Ma il teatro rimane la mia principale occupazione ovviamente.

Infine, convinca gli indecisi a venire a vedere “Il Bacio”.

Venite a teatro, si parla di voi.

 

Virginia Zettin

14/04/2018

 

ROMA - “Solo i ricordi più veri ci trovano, come lettere indirizzate a chi siamo stati”. Con questa frase, inconsapevolmente, lo scrittore Simon Van Booy sembra avere acceso una lampadina nelle suggestioni del romanziere e drammaturgo romano Giuseppe Manfridi, o almeno fornito un prezioso spunto su cui costruire una delle sue commedie di maggior successo: Ti amo Maria!, del 1990. Dopo alcuni riadattamenti nel corso degli anni e una trasposizione cinematografica datata 1997, gli attori e doppiatori Fabrizio Pucci e Marina Guadagno riportano in vita i personaggi di Sandro e Maria, nei particolarissimi e intimi spazi del Teatro Stanze Segrete a Trastevere, dove lo spettacolo rimarrà in scena fino all’8 aprile. Ti amo Maria 2 Far indossare a Ti amo Maria! semplicemente i leggerissimi e sfavillanti abiti della commedia, però, potrebbe risultare fuorviante; ricollegandoci al tema portante dello spettacolo, cioè i ricordi di una relazione passata e il proprio ruolo nel presente di tutti noi, sarà naturale percepire la presenza sotterranea di toni oscuri e dolenti. Ti amo Maria!, dopotutto, è una storia di solitudine e di ferite mai rimarginate, causate dal rimorso e dal tempo, sempre ladro di cose mai dette. In un condominio di una non specificata città, poco prima di rientrare nel suo appartamento, Maria scopre di esser stata seguita dal vecchio compagno Sandro, che l’attende nascosto sul pianerottolo: è proprio in questo spazio, una sorta di zona grigia, di limbo fra interno ed esterno, fra realtà e sogno, che la coppia di un tempo lontano avrà modo, accompagnata dalla sensualità malinconica del jazz, di confrontarsi, più e più volte, tra rabbia e paura, ma non senza il piacere, maldestramente nascosto da Maria con un atteggiamento freddo e annoiato, di ritornare a esser vicini. Sandro si dimostra il personaggio più interessante, o almeno quello psicologicamente più d’impatto: un uomo che rinuncia all’orgoglio ma non alla dignità, cui basta rivedere il suo fantasma dal vivo, anche in questo modo, di sfuggita, sul pianerottolo di un condominio. Proprio per questo, l’interpretazione di Pucci dovrebbe forse lasciare l’impeccabile veste di doppiatore alcuni passi indietro, e farsi graffiare maggiormente dalla sottile drammaticità nevrotica di alcune scene, slacciando qualche bottone in più. In ogni caso, per entrambi gli attori si tratta di una prova notevole e interessante, che convince lo spettatore lasciandolo andar via mentre, a sua volta, torna dai fantasmi del proprio passato.

Alfonso Romeo - 6/04/2018 

(Foto di scena: Sebastiano Vianello)

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