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«Un sogno nella notte di Mezzestate è fatto di tranelli, doppi ruoli e giochi di potere. Ma soprattutto parla di un sogno: la vera anima dello spettacolo»: con queste parole Tommaso Capodanno presenta la sua versione di una delle più amate commedie di William Shakespeare, in scena al Teatro Studio Eleonora Duse di Roma dal 15 al 22 novembre. Recensito ha intervistato il giovane allievo-regista dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico: opinioni e riflessioni, un “dietro le quinte” del suo saggio di diploma.

Perché misurarsi con William Shakespeare per il saggio di diploma?
Più che William Shakespeare, ho proprio scelto in base al testo: Sogno di una notte di mezza estate. Perché è stato il percorso di questi tre anni: cercare di capire cosa posso fare e cosa no, alzare l’asticella e rendere la sfida sempre un po’ più complicata. Mi sono detto: quando mi ricapiterà di fare uno spettacolo con quattordici attori? Volevo mettermi in gioco e vedere cosa sarebbe successo, comprendendo meglio i miei limiti e i miei punti di forza. Nello spettacolo ci sono i costumi di Graziella Pepe e le luci fantastiche di Camilla Piccioni, ma il grosso della rappresentazione è basato sul testo, tradotto insieme a Matilde D’Accardi, e al lavoro svolto con gli attori, non c’è altro. Quando, durante le prove, qualcosa non funziona, si riprende il testo di Shakespeare e lì si intuisce che o sei tu regista o tu attore che ha sbagliato un attacco o un’intenzione rispetto a quella che è l’indicazione originale del Bardo. Se qualcosa non va, è colpa nostra, non sua. Ed è bello tuttora mettersi con e contro un colosso di questo tipo. Non so, però, quale sarà la risposta del pubblico, sono molto curioso. Sarà una prova e un’esperienza anche questa.

Per quale motivo proprio questa commedia shakespeariana, dunque?
Sogno di una notte di mezza estate è un testo che mi perseguita dal liceo. Il primo personaggio che ho interpretato a teatro è stato un Puck e, quindi, mi piaceva chiudere questo lungo percorso che parte da prima dell’Accademia con questo spettacolo, prima di iniziare altro. Mi interessava concluderlo con un’opera che è un saluto a qualcosa di vecchio e un benvenuto a qualcosa di nuovo, che è un rito di fertilità, un augurio per le nuove generazioni, per le nuove nascite. È un testo che parla di morte e di rinascita e mi allettava l’idea di compiere questo rito con la maggior parte dei miei compagni di classe.IMG 7305

L’opera è stata più volte trasposta o adattata. Che versione hai voluto dare tu?
È una domanda difficilissima. Ho provato a fare Shakespeare senza adattarlo o ambientarlo in nessun luogo specifico. Ho lavorato molto sulle immagini del testo e sull’idea di bosco come rave party, ma senza caratterizzare i personaggi come suoi frequentatori o cubisti. È un’opera che parla di poesia, amore, magia, immaginazione, follia e la mia regia parla di cambiamento, potere, rinascita. Sono un appassionato di psicanalisi, di interpretazione dei sogni e ho cercato di capire cosa significa mettere in scena un sogno, che a volte è un incubo probabilmente. Con Graziella Pepe abbiamo lavorato molto sulle immagini oniriche: le maschere sono state create dalla sua fantasia, stimolata dal diario dei miei sogni. Ho cercato insomma, di costruire delle situazioni che venissero dal mio mondo onirico e di mettere queste cose dentro Shakespeare.

Cos’è il sogno per te?
Tutto quello che non si può esprimere con il linguaggio verbale se non tramite immagini. Shakespeare in questo è maestro: riesce a raccontare le immagini attraverso le parole, a conciliare l’inconciliabile. Abbiamo lavorato molto sugli opposti, sui contrari: ci sono due Puck, un ragazzo e una ragazza, ci sono Teseo ed Ippolita che giocano a scambiarsi il ruolo di potere e di notte Ippolita diventa Oberon e Teseo diventa Titania. È un testo che è comico e tragico al tempo stesso, lungo e breve. Tutto ciò che è razionale fa parte del mondo maschile: la città, la legge di Atene, il pensiero. Il mondo femminile è l’irrazionale, il sogno, la notte, l’emozione. Abbiamo giocato su questi opposti continuamente. Il sogno per me è tutto ciò che fa parte del mondo irrazionale: è un linguaggio comprensibilissimo, solo che il codice è diverso, non è linguistico, verbale, ma è composto da immagini che possono diventare simboli, a volte.

Tra questi due mondi esiste un equilibrio?
Secondo me sì. Esiste anche alla fine del testo, perché nel quinto atto, dopo che sono usciti tutti dal bosco, ogni battuta è il contrario di un’altra e, forse, Shakespeare trova l’unione nell’immaginazione che accumuna i poeti, gli attori, i teatranti, gli artigiani del sogno, gli innamorati e i pazzi. È nell’immaginazione che il Bardo concilia i due opposti: in quella di chi guarda e di chi recita.

E il Teatro è più razionalità o più immaginazione?
È un equilibrio sottilissimo fra le due. Una cosa che ho ripetuto continuamente agli attori è appunto che lo spettacolo, soprattutto per come l’ho impostato, è sempre in bilico, si regge su una lama e può diventare, da un momento all’altro, o una sorta di Zelig oppure un dramma noiosissimo. Non ho adottato un solo stile di regia, ma ne ho mischiati vari: ogni atto è montato in maniera diversa e ho cercato di trovare una coerenza nell’incoerenza. In questo testo, in particolare, l’intreccio è molto complesso, difficile, folle. Unisce artigiani, gente del popolo, con innamorati dell’alta società, duca, duchessa e fate: nello stesso bosco si incontrano mondi completamente diversi ed è in questa disarmonia che nasce l’armonia. Mischiarsi, perdersi, ritrovarsi e poi uscire completamente trasformati da questo bosco.

Tu sei uscito dal bosco?
Forse sì, ma forse anche no. Mi piace starci, magari comincio ad arredarlo (ride, ndr). A volte è solo un’illusione uscirne fuori.

COPERTINACom’è stato dirigere quattordici attori?
Un inferno, un incubo! (ride, ndr) No, scherzo. È stato divertentissimo. Le prime domande che ho fatto sono state: ma come si fa a far fare l’artigiano all’attore nel 2018? E come si rappresentano le fate? Il rischio è cadere nella pantomima, nel ridicolo. Noi abbiamo trovato delle soluzioni, forse. O meglio: abbiamo cercato di portare in scena il problema, forse facendo delle scelte estremamente semplici e immediate, sia a livello di recitazione che di regia. Potrebbero premiarci oppure no, ma questa è la strada che abbiamo percorso insieme. Sono tutti attori che conosco molto bene, a cui sono molto affezionato. Con ognuno ho fatto un lavoro completamente diverso, quindi è stato difficile star dietro alle esigenze di tutti. Però è stato molto divertente, emozionante e ripagante vedere i risultati. Bisognerebbe avere più spettacoli con giovani attori, perché il teatro è un rito e più siamo a celebrarlo e più le energie che vengono tirate in campo sono forti.

Nel comunicato stampa si legge che questo spettacolo è, per te, un inno alla femminilità
Sono partito da un ragionamento: ci sono tante immagini in questo testo e anche un forte gioco di opposti. Il giorno e la notte, la città e il bosco, Teseo, che è la legge dell’uomo, e Ippolita, che è la regina delle Amazzoni conquistata da Teseo ma che segue le leggi della natura. C’è una battuta che mi ha fatto riflettere: Teseo condanna a morte Ermia e, prima di uscire, chiama Demetrio ed Egeo con sé e anche Ippolita, alla quale chiede che cosa abbia. Nella versione inglese questa domanda suona come: cosa ti turba? Sicuramente in quel momento succede qualcosa ad Ippolita, la quale sta zitta per tutto il tempo e che, secondo me, esce molto arrabbiata dall’affronto che Teseo fa alle donne tramite la pena inflitta ad Ermia, ragazza che deve obbedire alla volontà, alla legge del padre Egeo, il quale non cambierà mai, neanche dopo essere uscito dal bosco e con Teseo che acconsente al matrimonio della ragazza con il suo innamorato: Egeo continua ad appellarsi alla legge, per ottenere un’unione che garantisca la successione in linea di sangue e Teseo lo blocca affermando che solo la sua volontà è legge. Da quel momento Egeo sparisce. L’idea era, quindi, di estremizzare molto questi opposti: se Teseo è la legge che governa di giorno, allora che sia Ippolita a diventare Oberon e a regnare di notte. E poi capire come il maschile si ricompatta al mattino successivo dopo le vicende notturne. A me sembra che in tutto il testo ci sia un’invocazione continua al bisogno di riconciliare i due opposti – si citano spesso la luna, la dea Diana… – e io sento, come essere umano, il bisogno in questa società di una riconciliazione del patriarcato, che si sta autodistruggendo, con la sua parte opposta, che il patriarcato impari da essa. E viceversa. In questo senso è un inno alla femminilità: vuol dire accettare tutta una parte emotiva e irrazionale che la società maschile reprime e non considera, che tiene da parte. C’è bisogno di unire le due cose, di stare in ascolto dei propri pensieri ma anche delle proprie emozioni. Non si può essere più solo Teseo o solo Ippolita.

È questo che vorresti far emergere dallo spettacolo?
Ci provo e spero venga colto. A parte lo scambio di ruolo, non c’è molto altro che lo sottolinei, non l’ho voluto io. Però ne ho ragionato a lungo con gli attori, interrogandoci sulla questione e mi auguro che la traduzione faccia emergere questa riflessione. Ma non volevo fare una regia basata solo su questo tema, perché chiude ad altre possibilità su un testo che invece ne apre molte. La forza di Shakespeare è questa. È un’opera che investiga l’essere umano in quanto animale sociale, l’istinto e il pensiero, la razionalità e l’irrazionalità.

Come avete affrontato la traduzione con Matilde D’Accardi?
Siamo rimasti fedeli a Shakespeare. Nel senso che ci siamo presi delle libertà cercando di restituire esattamente il senso che secondo noi lui voleva dare con una certa battuta. La difficoltà è stato tradurre da una lingua, come l’inglese, polisemantica a una, come l’italiano, che è molto meno aperta all’ambiguità. E abbiamo cercato il più possibile di mantenere i giochi di parole e, in maniera folle e sconsiderata, anche la struttura: dove ci sono versi abbiamo scritto in versi, ad esempio, abbiamo tenuto tutta la costruzione delle rime e la prosa è stata tradotta in prosa. Con Matilde avevo già collaborato per altre cose fatte in Accademia: mi trovo molto bene con lei e il nostro lavoro è durato da aprile fino a settembre.

La tua laurea in Psicologia quanto ha influito sul lavoro con gli attori?
Il giusto. Dicono che li manipolo, ma non è vero (ride, ndr). Sto imparando con il tempo. Dirigere l’attore è, secondo me, la cosa più bella del lavoro di regista ed anche quella che trovo più complessa, perché ogni volta ti confronti con testi ed essere umani diversi, devi riuscire a metterli a loro agio e tirare fuori il meglio possibile senza che diventino indisciplinati. IMG 7300

A chi ti sei ispirato o a chi hai fatto riferimento per la messa in scena?
Questa è una domanda infame! A nessuno, sinceramente. Di sicuro ci saranno scene che faranno affermare che è già stato visto o detto. Ecco, questa è una frase che mi fa innervosire: quando si esclama che una cosa è già stata fatta negli Anni Settanta, ad esempio. A me viene da rispondere che i giovani non vanno più a teatro anche per ciò: quello che gli altri hanno già visto non si può più fare e quindi noi ragazzi che non l’abbiamo vissuto non lo potremo vedere mai?

E vorreste anche farlo, giusto?
Certo! Fateci fare cose che avete già visto. Capisco che il teatro è per tutti e che tutto è già stato visto, ma dipende da chi. Ora ci sono i media e puoi andarti a vedere le registrazioni di chi vuoi, ma il teatro va fatto dal vivo e io dal vivo certe cose non le ho mai osservate e, quindi, voglio prendermi la libertà di vederle, ma anche di farle e farle a modo mio.

Chi vorresti vedere seduto in platea?
Un po’ di persone che non ci sono più, purtroppo. Non vorrei sembrare autoreferenziale, ma di persone a me care vorrei vedere la mia famiglia e sicuramente ci sarà in parte. Ho fatto questo spettacolo pensando molto ai miei genitori. Mi sono detto: se lo capiscono e piace a loro, allora va bene. Non ho considerato un pubblico di addetti ai lavori. E vorrei seduti in teatro tanti giovani al di sotto dei 30 anni, soprattutto quelli che non hanno ancora mai visto Sogno di una notte di mezza estate.

Che cosa vorresti trasmettere a questi giovani?
Altra domanda infame! (ride, ndr) La passione che abbiamo noi per questo lavoro, l’entusiasmo che c’è dietro, il divertimento con cui lo facciamo e sicuramente ciò che cerca di trasmettere Shakespeare con questo testo, ossia conciliare la nostra parte umana con quella animale.

Com’è stato il tuo percorso in Accademia?
Sono entrato con l’idea di chiudermi in un posto per cercare di capire alcune cose di me e come regista cosa mi interessa davvero fare. È stato un cammino di scoperta continua, molto più destrutturante che di costruzione. Sicuramente ho compreso cosa non bisogna fare. In questi tre anni abbiamo incontrato e ci siamo confrontati con diversi autori e maestri, tra cui Giorgio Barberio Corsetti, Arturo Cirillo, Massimiliano Civica, Valerio Binasco: mi hanno insegnato tanto, è stato bello vedere come ognuno di loro porta e ti porta dentro il proprio mondo. Abbiamo affrontato anche vari autori, come Heiner Müller, che non conoscevo e della cui scrittura mi sono innamorato, o come Tennessee Williams. È stato un bel percorso da condividere con i miei colleghi registi e attori.

IMG 7342L’incontro più emozionante, quello che ti ha fatto pensare di aver fatto la scelta giusta?
Non c’è stato. Anzi, c’è stato quello che mi ha fatto esclamare il contrario (ride, ndr). Scherzo. Forse l’incontro con Heiner Müller. Difficile dire, invece, qual è stato quello più emozionante, perché non ce n’è stato uno in particolare.

Chi sono i tuoi registi preferiti?
I miei compagni di classe Paolo Costantini e Marco Fasciana.

Più cinema o più teatro?
A me piacerebbe fare più teatro. Il cinema, per ora, non si può affrontare per incompetenza mia (ride, ndr).

Progetti futuri?
Fondare un’associazione culturale con Marco Fasciana e Paolo Costantini. Poi ci sono dei progetti da portare avanti con l’Accademia ancora per un po’. E vorrei presentare qualcosa alla Biennale Teatro di Antonio Latella (a Venezia, ndr).

Chiara Ragosta, 14/11/2018

Dal prossimo giovedì 15 novembre in scena al Teatro Studio "Eleonora Duse" di Roma una tra le opere più conosciute, di successo e sfaccettate di William Shakespeare: per la regia dell’allievo regista Tommaso Capodanno, diplomando all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico”, “Un sogno nella notte di mezzestate” resterà in scena fino al successivo 22 novembre.
Proprio per le sue molte sfaccettature, il celebre “Sogno” è stato riletto e reinterpretato innumerevoli volte da altrettanti autori e attori protagonisti del teatro. Ciononostante, ancora oggi non fatica a donare punti di vista attuali e, più che moderni, contemporanei. Nelle parole del regista, “Lo spettacolo diventa un urlo contro le imposizioni e le finte regole, contro il potere maschile e maschilista. Shakespeare è un profondo conoscitore dell’animo umano e, anche a distanza di secoli, questa sua favola può essere una perfetta riproduzione della nostra modernità e di attuali necessità”.
Lo spettacolo, d’altronde, non è ricco soltanto di significati, ma anche di voci. Ben 14 saranno i giovani attori dell’Accademia a prendere parte al gioco di ruoli, tranelli, menzogne, desideri, incantesimi, scherzetti e verità: Matteo Berardinelli, Maria Chiara Bisceglia, Nicoletta Cefaly, Simone Chiacchiararelli, Carolina Ellero, Marco Fasciana, Lorenzo Guadalupi, Domenico Luca, Marco Valerio Montesano, Tommaso Paolucci, Francesco Vittorio Pellegrino, Francesco Pietrella, Rebecca Sisti, Aron Tewelde.
Tutti protagonisti, pochi costumi, tante maschere e nessuna scena, questi gli indizi di una regia che intende esaltare la spettacolarità, nel vero senso della parola, del testo shakespeariano. Questo l’obiettivo del saggio di diploma di Tommaso Capodanno (occupatosi anche della traduzione dall’originale, insieme a Matilde D’Accardi), accoglierci in un bosco magico che ha il sapore di rave party, parlare diversi linguaggi scenici e oltrepassare i confini stessi del teatro. Ancora nelle sue parole: “Tra sessualità e delirio onirico, come in una favola orgiastica, “Un sogno nella notte di Mezzestate” è un inno alla libertà, alla femminilità. Un inno alla vita.
Appuntamento al Teatro Studio “Eleonora Duse” di Roma, in Via Vittoria 6, tutti i giorni dal 15 al 22 novembre, sempre alle ore 20 tranne la domenica, alle ore 18. Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria, al numero 334 1835543.

Andrea Giovalè
12/11/2018

BOLOGNA - “I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi, siamo noi i fantasmi” (Eduardo De Filippo).
C'è sempre un filo impercettibile di sottile, toccante “verità” nei lavori di Nanni Garella e dei suoi attori psichiatrici. Attori non-attori che vivono e hanno vissuto, portandosi addosso i segni palpabili nel fisico, nella postura, nell'andamento, nello strusciare, piedi e parole, le parole che stanno pronunciando. In quella fessura incrinata, in quella crepa storta, a guardar bene c'è il teatro con la sua pasta, meglio se ben amalgamata come in questo caso, di finzione scenica e realtà sofferta e sudata, quell'intreccio articolato e reticolato di suoni e segni, versi centenari e vite subite nell'oggi. E così la scelta, non potrebbe essere altrimenti, strada segnata e piena ma non scontata, non può chefantasmi2 fantasmiricadere su “I giganti della montagna” pirandelliani qui ribattezzati e deformati, estrapolati e asciugati in questo “Fantasmi” (prod. ERT e Associazione Arte e Salute onlus) metafora fin dal titolo dell'emancipazione, della marginalità, dell'invisibilità dei malati, dell'impreparazione ad affrontare le psicosi, dell'indigenza sentimentale sofferta.
Recentemente abbiamo visto le suggestioni tratte da “I giganti” di Roberto Latini, evitando quello della ditta Lombardi-Tiezzi, imbattendoci in quello enfatico dell'Opera Nazionale Combattenti a cura dei pugliesi Principio Attivo. Un testo dai molti risvolti, che apre sempre porte oscure (dopotutto siamo nel periodo fiorente della psicanalisi), che attira sempre nuovi adepti attorno alla propria cuccia. “Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi” (David Forster Wallace).
Siamo in una sorta di cantiere polveroso, stucco e calce, cenere di marmo dappertutto, come una colata spruzzata di bianco ad ammantare, coprire, sedare, come il giorno dopo lo scoppio del Vesuvio su Pompei: una lastricata di questo bianco sporco granuloso e appiccicaticcio che pare incrostarsi sotto le unghie, dentro le retine a dare fastidio, a fare rumore di gesso spezzato sull'ardesia. Come anime di muratori esodati vagano, come corteo o processione, tra calcinacci e assi, tra i teli messi a coprire (chissà cosa c'è sotto) il tempo che morde e mangia, come tarli, le cose tutt'attorno. Grandi lavori in corso in questo scantinato (metaforico e reale), in questa villa in rifacimento (ottimistica visione) o in fantasmi2disfacimento, abbandonata a queste figure che qui hanno trovato conforto e riparo, silenzio e fuga, lontani dagli esseri umani (ce ne sono ancora là fuori? Venatura fantasmibeckettiana apocalittica), egualmente distanti da quei Giganti, saggi e brutali, là sull'eremo, sull'Olimpo circondato dalle lucciole pasoliniane. “I mostri sono reali e anche i fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi e, a volte, vincono” (Stephen King).
Due gruppi di marionette pinocchiesche starnazzanti come bamboline da carillon si fronteggiano, gli abitanti del palazzo (Moreno Rimondi - il mago Cotrone su tutti per presenza di dostoevskijana memoria, voce, imposizione, controllo) e la compagnia teatrale di giro (generosa Pamela Giannasi - la Contessa, iperbole e sfioritura). Si somigliano, i primi esiliati dalla vita, i secondi senza più un pubblici, entrambi reietti, fuori dai giochi, in fuorigioco. E nel momento dell'incontro è come un guardarsi allo specchio, un rivedersi, fantocci, negli occhi dell'altro. L'atmosfera è da festa triste, da sogno tragico cechoviano in questo sotterraneo claustrofobico, seminterrato dell'anima, vagamente ricordante i garage delle torture argentine. Sotto, chiusi, nascosti alla vista, alla vita. Sono voci di dentro che sfiatano le propria ombra in questo Purgatorio, tra questi bassifondi gorkijani. È il gioco della verità, reale o presunta, quella vissuta o quella creduta tale, è il gioco della maschera, del giocare seriamente un ruolo fino ad incarnarlo. A che punto è la notte?
“I saggi e gli onesti son quelli che fanno la storia, fanno la guerra, la guerra è una cosa seria, buffoni e burattini, non la faranno mai” (Edoardo Bennato, “E' stata tua la colpa”).

Tommaso Chimenti 18/02/2017

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