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CASTROVILLARI – Primavera dei Teatri rimane primavera anche se siamo ad inizio autunno. Per varie vicissitudini, lo scorso anno lo storico festival della Calabria del Nord, PdT è saltato e quest'anno è slittato da fine settembre fino alla prima settimana di ottobre ma questo non ha influito sulla ricerca dei nuovi linguaggi nella nuova drammaturgia non soltanto di casa nostra. La rassegna, diretta da Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano, quest'anno ha raddoppiato gli sforzi con un prologo a Catanzaro con diverse proposte internazionali. A Castrovillari, dove tutto è nato e dove tutto ritorna, abbiamo potuto seguire otto tra spettacoli e performance. Castrovillari sembra sempre la stessa, sembra sonnecchi con il Pollino sopra con la sua croce e le nuvole grigie a fare da cappello, le strade sempre con gli stessi disegni e graffiti che nessuno copre e nessuno migliora e nemmeno nessuno che ne propone di nuovi. Tutto è fermo anche se il fermento c'è, si sente, si percepisce, basti guardare i tanti giovani che affollano i luoghi del festival, il Teatro Vittoria e il Sybaris nel Protoconvento dove i ragazzi pullulano. Non cambia nemmeno l'immancabile Osteria della Torre Infame, che piace proprio perché rimane fedele a se stessa nei decenni: con il proprietario Nicola neo presidente del Castrovillari Calcio in Serie D e gli spaghetti al fuoco di Bacco, cotti nel vino e piccanti, che sono un must irrinunciabile e da soli valgono il viaggio (come non ricordare il caposala Pasquale). Oltre agli spettacoli ci sono stati i commossi ricordi di Maria Grazia Gregori e di Renato Palazzi, due grandi critici teatrali milanesi che ci hanno lasciato nell'ultimo anno. E c'è stata anche la presentazione del volume scritto da Gigi Giacobbe, altra firma prestigiosa stavolta messinese, su Bob Wilson. Come ogni anno ci attira molto la locandina che stavolta propone un uomo gonfiabile, una sorte di omino della Michelin, tutto avvolto dentro il cellophane, quello da scoppiare, quello per salvare gli oggetti fragili. Siamo teneri, siamo delicati e allo stesso tempo vogliamo stare sotto una campana di vetro per non romperci anche se, vicino a noi, come nostro compagno di viaggio esistenziale, c'è un cactus che, anche se piccolo, potrebbe farci esplodere, potrebbe far scoppiare la nostra scorza, il nostro scudo e armatura.Giancarlo Cauteruccio.jpg

Quello che abbiamo notato, nella maggior parte delle proposte, è stata una solida riflessione sul tema figli-genitori e spesso figli-padre. Chissà, forse parlare troppo delle madri e troppo di Genitore 1 e Genitore 2 ha scaturito un'ondata dissonante. Forse i padri mancano oppure non sono più le figure dei No decisi oppure c'è troppa confusione tra i ruoli. Ma la sostanza sono gli spettacoli, dai quali abbiamo attinto, ai quali ci siamo abbeverati di nuove riflessioni e spunti. Come “La Divina Calabria” di Giancarlo Cauteruccio che non smette di stupirci: idea geniale quella di prendere un locale sfitto sulla via principale, accanto ad un bar dai tavolini affollati e un kebab dagli odori e suoni e lingua araba. Tra caffè e carne bruciacchiata messa dentro pane e stagnola ecco che si apre l'antro della Sibilla Cauteruccio che, sull'immancabile carrozzella beckettiana, feticcio e firma, ha aperto il suo temporary shop dove all'interno un cantore, lo stesso Maestro cosentino-fiorentino in dark, due coriste-vocalist-cantanti in nero e sullo sfondo un performer in un'azione che ricordava il riscaldamento pre-nuoto, lo stretching, la ginnastica per cercare di non affogare nello Stige dei nostri peccati. L'eco rimbombava tra le pareti bianche, immersi nelle luci rosse rotanti di sirene, con questa acre Divina Commedia (canti scelti dall'Inferno, 1, 3, Purgatorio, 1, 2, 5, e Paradiso, 1, 10, 33) tradotta in lingua calabrese che pizzica e morde. Il Maestro si contorce sulla sedia a rotelle, con gli occhiali scuri da sole (non vedente tra Tiresia e Finale di Partita), mentre luci d'allarme come piccoli fari girano su se stesse creando un fremito uditivo e visivo e sonoro. Bianco delle mura, neri gli abiti, rosse le luci per un'immersione totale, da ascoltare anche senza capire. Si percepiscono la musicalità e le assonanze, i suoni e le armonie fragorose. A volte sono solo sospiri e respiri, gemiti, altri sono grida e urla. Siamo dentro una grotta moderna mentre fuori le chiacchiere sono attutite dalla musica, le auto continuano a strombazzare, il mondo è lontano. Un Dante in carrozzina in questo rito per poche persone alla volta. Se Cauteruccio è bloccato, il performer, lo snodabile Massimo Bevilacqua, sullo sfondo è in continuo movimento, i canti, delle brave Anna Giusi Lufrano e Laura Marchianò, addolciscono e sottolineano questa potente esibizione.

L'incastro tra il drammaturgo Mariano Dammacco (e la sua attrice di riferimento e sodale Serena Balivo) e il performer a tutto tondo Roberto Latini non è riuscito alla perfezione in questo “Danzando con il mostro” (prod. ERT - Lombardi-Tiezzi) rarefatto affresco giocato più sulle epifanie e sulle apparenze che su una precisa corposa sostanza. Due personaggi in scena, che non capiamo, tra dialoghi surreali (il pubblico ride, e molto purtroppo, sulla reiterata parola “Cog-lioni”, detta proprio così, staccata e con questa scansione) che più che dipingere un habitat metaforico creano una confusione di immagini, sovrapposizioni, spaesamenti, nebbie, fraintendimenti. Dopo poco non si riescono più a cogliere i confini dei personaggi, scivoliamo, cadiamo, chi sono questi due? cosa fanno? perdendoci dentro dialoghi sospesi tra una Balivo-Franca Valeri e un Latini-Petrolini in un incedere che non NITROPOLAROID.jpegtrova un felice sbocco fluido. Diciamo criptico.

Un tempo c'è stato Antropolaroid che tanta fortuna ha portato a Tindaro Granata. Adesso arriva questo “Nitropolaroid” dei Crack24, scatto impressivo di una famiglia esplosiva. Parte benissimo questo scritto, in parte autobiografico, dell'autore Riccardo Lai. Un racconto fortemente tratteggiato dalla calata sarda, un autodramma per dirla con le parole che Strehler usò per definire il Teatro Povero di Monticchiello. A grandi intuizioni seguono acerbità e ingenuità. Lai, protagonista in scena (somiglia a Nicholas Cage), dà subito una bella carica alla platea, tra il sardo e un italiano sardizzato raccontando, da dentro, la sarditudine, la distanza, geografica e culturale, dell'isola, il mirabolante Continente da temere e da affrontare. Seguono scene e quadri, surreali e grotteschi, parodistici, e fin quando si rimane su questa falsa riga il tutto risulta fruibile e godibile. Poi sembra che gli sia sfuggito di mano qualcosa perché cambia bruscamente il clima che si fa cupo e tenebroso tra streghe e omicidi: un altro spettacolo proprio. Nella prima parte (dove la platea era tutta con loro), che ha il sapore di un Far West simpatico, con risvolti sociali e antropologici ma sempre sul difficile terreno ed equilibrio sottile di un'autoironia pungente, si ha la sensazione di una leggerezza intelligente ma allo stesso tempo siamo rapiti dalle sorti di questa famiglia rurale e da questo figlio che vuole seguire orme e sogni differenti. Qualcuno potrà dire generazionale, sì, è vero, però fatto bene. Alcune scene troppo allungate e annacquate, le streghe nel bosco ad esempio, anche se l'impianto a metà tra “Nozze di sangue” di Garcia Lorca e “Macbettu” di Alessandro Serra, sembra funzionare, tra il I Macbeth.jpgmistico e il mitologico, il sogno e la leggenda. Il ritratto del padre o dello zio (parla come un mix tra Maria Amelia Monti e Gianni Brera) sono folcloristici e curiosi, così come la scena delle tre suore (molto Marta Cuscunà). Poi, inspiegabilmente e senza alcuna ragione e spiegazione, si entra su un terreno drammatico pesantissimo che sconfessa tutto il precedentemente espresso: un Cristo in croce fino, appunto, ad una morte violenta che ci coglie impreparati ed è fuori luogo. A tratti la voglia di gag gli ha preso la mano: less is more. Dopo il crack, il punto di rottura segna anche un punto di non ritorno e “Nitro” diventa tutt'altro spettacolo che, improvvisamente, non funziona più. Purtroppo.

Dopo “Riccardo 3” arriva la seconda parte della trilogia shakesperiana frutto dell'incastro tra Vetrano/Randisi e Francesco Niccolini: “I Macbeth”, prod. Arca Azzurra (seguirà Amleto). L'impianto è quello di R3, una struttura di contenimento coercitivo, un carcere manicomiale di loculi e catene dove sono rinchiusi i personaggi delle tragedie del Bardo o persone che si sono così tanto immedesimate da credersi loro e sentirsi tali. Hanno tic e sentono fantasmi dentro le loro teste, dentro le loro orecchie che ritornano e non li lasciano in pace e i loro dialoghi arrivano direttamente dalla letteratura inglese seicentesca con innesti di quella cultura contemporanea voyeuristica televisiva che ben si presta alle vicende di cronaca nera del Belpaese. Così al Macbeth vengono aggiunti Olindo e Rosa e il caso Varani e tutto prende senso e “questa notte atroce e insanguinata” la sentiamo più vicina, più nostra, più tangibile, meno lontana, meno impossibile. I tratti sono cupi, barbari. Ancora manca qualcosa oppure questo secondo step troppo ricalca il primo passaggio da assimilarli.

Tommaso Chimenti 06/10/2022

CASTROVILLARI – Ci sono dei bambini che corrono a perdifiato, a rotta di collo, giù per una duna di sabbia. Lavora, come sempre, sull'ambiguità e sull'ambivalenza dell'intelligenza la locandina della diciannovesima “Primavera dei Teatri”: se da un lato c'è il gioco, la corsa, la velocità, dall'altra c'è la caduta rovinosa, la nostra fanciullezza che va verso la discesa inarrestabile, il crash inevitabile e tutto intorno il deserto, arido, caldo che brucia e infiamma. Castrovillari, comune calabrese sotto il Monte Pollino, nella settimana a cavallo tra maggio e la Festa della Repubblica del 2 giugno, ha il suo rilancio. Qui le parole d'ordine sono peperoncino e Amaro del Capo (anche se ora si sta imponendo L'Amaro Silano, assolutamente da provare). Siamo tra la Basilicata e lo Ionio, i funghi del bosco e il sapore di mare. “Primavera” è una certezza, da sempre in equilibrio tra grandi conferme e nuovi linguaggi, tra assodati gruppi, consolidati artisti e felici scoperte.

Le tre anime principali del festival calabro, Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano, dopo venti anni vanno ancora d'accordo, anche questo è un piccolo miracolo. Si respira un bel clima, e noncastrobuonaed soltanto meteorologico, disteso, rilassato e al contempo professionale, preciso con quell'informalità (dopo tutto siamo in estate) propria della radice dalla quale proviene la parola festival: la festa, appunto. Ed in questa festa, per gli occhi e le orecchie, per la scena e il palato (must irrinunciabile una puntata all'Osteria La Torre Infame, proprio davanti al Castello Aragonese, con gli intramontabili Nicola e Pasquale vere colonne culinarie che sfamano gli appetiti festivalieri; peccato capitale è andare a Castrovillari e non assaggiare il Fuoco di Bacco, gli spaghetti piccanti cotti nel vino), abbiamo selezionato tre buoni motivi, tre slanci scenici, tre diverse angolature preziose dello stare sulla scena, tre urgenze, tre morsi, tre graffi, tre applausi focosi e appassionati. Da sottolineare anche l'ideazione dell'interessante “Progetto Europe Connection” che ha abbinato a tre compagnie calabresi (Brandi/Orrico, Aiello/Rossosimona, Saverio Tavano) altrettanti autori internazionali, da Polonia, Repubblica Ceca e Romania (il più compiuto e riuscito è stato “Confessioni di un masochista” di Roman Sikora con il parallelismo tra bondage e fruste e il mondo del lavoro sottopagato e frustrato), con alterne fortune e risultati con però l'importante risultato della commistione, del mix che porta a nuovi impulsi.

La Piccola Compagnia Dammacco chiude la sua trilogia con un salto produttivo e scenico in questo complesso e sfaccettato “La Buona Educazione” (coproduzione con Teatro di Dioniso di Michela Cescon) che rileva e sottolinea la bravura già ampiamente emersa di Serena Balivo (Premio Ubu under 35 lo scorso anno) che esalta le parole del regista e drammaturgo Mariano Dammacco. In una realtà leggermente spostata in avanti nella deriva dei sentimenti e dei social network, una donna volutamente senza figli (“Chi fa un figlio dà un ostaggio al destino”) viene improvvisamente travolta dalla morte della sorella e dal conseguente affidamento del nipote. La Balivo è effettivamente molto brava nel calarsi in questo contemporaneo (come argomentazioni e dipanatura delle riflessioni) teatro classico (come impostazione) e ambientandosi tra il divano immerso tra le solide e inquietanti figure-sculture antropomorfe (impregnante la scena di Stella castrobuonaed2Monesi; sul pavimento terra da arare, dalla quale nascono i frutti ma anche si seppelliscono sogni e cari) che pullulano in questo salotto di reclusione, in questa sala d'aspetto dove la donna ci racconta delle incomprensioni e delle distanze culturali e generazionali tra lei e il ragazzo. Inserti drammaturgici squillanti, originali e illuminantemente stralunati: la Giuria popolare del web, che decide delle nostre sorti, ci lancia dentro un grande Truman Show o Grande Fratello, le citate 4:48 sarahkaniane degli incubi del piccolo, quell'atmosfera cupa e ammorbante da “Città di K” della Kristof, il controllo dell'anima che pare un Allegro Chirurgo, l'innamorarsi degli oggetti al pari delle persone.

Un adolescente che si esprime coniugando, come un primitivo, i verbi all'infinito e che la denuncerà ad ogni suo rifiuto, ad ogni necessario NO per la crescita. Qualche appunto però dobbiamo farlo: la scrittura coglie e accoglie, fa pensare nell'ironia ma la piece raggiunge il suo climax quando la protagonista-Mary Poppins (sempre avvolta e “aggredita” dai suoi fantasmi amletiani che la consigliano e soprattutto redarguiscono) parla, nell'immensa poesia, della parmigiana alle melanzane della madre. Quello è il focus più alto e la commozione era tanta in sala, purtroppo al buio del cambio quadro si sono succeduti altri venti minuti (troppi innesti e sovrabbondanze in successione) che hanno chiuso le parentesi e messo a posto tutte le finestre aperte cercando una conclusione ininfluente che niente ha aggiunto. L'attrice, inoltre, forte e comoda nelle parole del suo autore, ha calcato molto la mano, si è appoggiata e sostenuta, sottolineando la calata, accentuando le risate dal pubblico quando ha sentito che poteva far leva su quell'espediente (ci ha ricordato la brillantezza di Sabina Guzzanti) per rafforzare la buona riuscita di questa prima nazionale. “La buona educazione” (al contrario della “Mala educacion” almodovariana) ci dice che forse in questo mondo non serve o non paga averla e metterla a disposizione del prossimo sempre pronto a pugnalarti; con le dovute cesoie sarà un testo che la provincia ben accoglierà, uno dei testi di maggior circuitazione per i suoi molti spunti e svariati livelli di lettura.

Coraggiosi, di rottura e iconoclasti sono, restano i Babilonia che tornano all'antica protesta frontale molto punk e soprattutto stavolta molto rock. Già dal titolo, quel “Calcinculo” che sa d'infanzia, dicastroBab adolescenza, di gioventù e Luna Park, di altalena e lanciarsi in alto, in cielo per prendere quella catenella che scendeva dalle nuvole. Oppure i calci in culo, non più altalena a bocche aperte e trasognanti ma le repressioni, le costrizioni, le punizioni di questo mondo, di questa società (“Calcinculo al presente immobile e inevitabile”). Calcinculo è più che altro un concerto vero e proprio e i Babilonia ci dimostrano attraverso la forma leggera, vengono in mente i vari talent show, da Amici a X Factor fino a Italian's Got Talent, di poter far passare contenuti densi e pregni, di lotta, di protesta, di ribellione. Ci sono le bandiere del Veneto con il Leone (loro che hanno vinto il Leone d'Argento alla Biennale!), ci sono gli estintori con i quali creare una difesa, un fortino all'allarme sociale, alle paure inscenate e alimentate da giornali e tv. E c'è agitazione e angoscia nelle loro parole pur se sciorinate da versi e strofe, c'è “La mia depressione che fa orario continuato, ha chiesto un part time e non gliel'hanno dato”. Tormentoni: “Devo fare il tagliando ai castroBab2miei ideali, senza manutenzione non c'è rivoluzione” danno il termometro e la scala dei valori di queste montagne russe tra l'impostazione leggera e la profondità del pensiero che ne sta alla base. E non hanno paura del giudizio e sono sfrontati e aizzano il pubblico tirandogli addosso i cartoncini di plastica per un giro al calcinculo della vita, oppure lo lisciano con una passerella di cani campioni di bellezza da esposizione (“Il mio vicino ha voce solo per bestemmiare, solo per chiamare il cane”). Fanno entrare una ventina di alpini per il coro finale fino all'eccessiva esaltazione, meramente come manifestazione estetica di spettacolo planetario, delle regie di morte dell'Isis che sopravanzano qualsiasi finzione scenica di cinema, teatro o fantasia (per aver detto che “L'11 settembre è stata la più grande opera d'arte mai esistita” il famoso pianista tedesco Karlheinz Stockhausen è stato emarginato dalla comunità artistica e accademica ed è morto nel disonore), inneggiando alla distruzione della Scala o del Colosseo. Speriamo che Salvini non se ne accorga, altrimenti ci aspettano picchettaggi all'entrata dei teatri come quelli che colpirono (e provocarono una nuova enorme ondata di pubblicità mondiale) Romeo Castellucci in occasione del suo “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”. Noi possiamo solo dire che vogliamo subito il cd delle canzoni con i testi di Enrico Castellani e la voce di Valeria Raimondi: farebbe le scarpe alle varie Michielin o Fedez.

Il funambolico e visionario Roberto Latini invece ha scovato un suo perfetto alter ego, PierGiuseppe Di Tanno, un “gigantesco” e dotato performercastrofortebraccio capace di vette vocalistiche, di movimenti sinuosi di danza, di flessibilità, di compostezza come di una resistenza fisica notevole, di cime interpretative che hanno attanagliato la platea a questo corpo, a quest'ugola, a quell'enfasi magica da lui creata. “Sei” (paradossalmente in questo periodo gira per teatri e festival un'altra rivisitazione del “Sei personaggi” pirandelliano a cura di Scimone e Sframeli) mantiene il testo con Di Tanno che presta voce e corpo ad ogni personaggio infarcendo il discorso con didascalie e note dell'autore. Diventa un racconto mentre lui se se sta su quest'isola claustrofobica e circoscritta su uno sgabello in alto (ci ha ricordato Silvia Gallerano ne “La merda”), una maschera di morte in faccia (come quella del gruppo indie “Tre allegri ragazzi morti”), tanto sudore e sofferenza, “Vivo e senza vita”, un collare elisabettiano shakespeariano, i leggins in latex. C'è tutto l'immaginario latiniano, l'erotismo sinuoso, l'eclettismo muscolare, le sfaccettature delle corde vocali, lo straordinario ventaglio di possibilità, la caduta agli Inferi. Di Tanno, una vera scoperta da premiare per forza, precisione, accuratezza e presenza scenica che tutto riempie, è piratesco appollaiato su questa “colonna” antica del teatro, ora è un Arlecchino adesso un demone abbandonato su quest'isola deserta, faro da dove scorgere i nemici. castrofortebraccio3Dopo “I giganti della montagna” Latini scompone e decostruisce anche i “Sei personaggi” inserendo anche pezzi dell'amato Amleto come nella scena finale, molto formale, della vasca da bagno con schiuma che fa tanto Marilyn. Un Pirandello frullato e centrifugato. Di Tanno è chiuso, rinchiuso, recluso, non può fuggire, isolato, relegato, bloccato; urla, si dilania, si duole, si strazia, s'angoscia, si strazia, si smarrisce, si lamenta e piange in uno stato osmotico con il pubblico che, insieme a lui, prova e cede, sente ed è altrettanto ferito. E noi con lui siamo folgorati, atterriti, sgomenti, partecipati. La riflessione di Latini sul teatro, sui suoi meccanismi e dispositivi, scandagliando le sue pieghe, continua, felice, scomposta, rarefatta, potente.

Tommaso Chimenti 05/06/2018

Foto: Angelo Maggio

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