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NAPOLI – Anche se il mare non lo vedi, di sottofondo ti arriva sempre a prendere. Ti sposta, una carezza decisa, come un tirarti sottobraccio, amichevole e netto. Tutte le strade portano alla maestosità del Maschio Angioino che, anche con le gru che tentano invano di bloccarne la visuale, anche con gli infiniti lavori della metropolitana, se ne sta lì vedendoci passare piccoli, con gli occhi stretti davanti alle sue pietre brune, ai suoi merli, alle sue torri imponenti. Sui muri dei vicoli spuntano gatti francesi sorridenti disegnati con colori sgargianti che il tempo e il caldo hanno scolorito senza però perderne la felicità, la sornionità napoletana di sopravvivere alle incertezze, di fronteggiare le avversità, di tenere botta ai giorni, agli anni, alle difficoltà. E guardando in alto appaiono le sirene sovrappeso in zona Piazza Bellini dove le camionette dell'esercito se ne stanno davanti al grande murales che inneggia ad un celebre gruppo organizzato del tifo per il Napoli, come un Caravaggio tra la frutta in via dei Tribunali. I panni stesi sono un'installazione continua, a cielo aperto, tirare il naso all'insù è un esplodere di colori, di tele che svolazzano sopra la testa a creare un puzzle, un mosaico da portarsi dentro. E ancora il Mulino arrugginito in una traversa di via Toledo, donchisciottesco e decadente tra i palazzoni del centro, ci dice che qui l'Utopia vive e sopravvive, anche se le pale non sono funzionanti, anche se sembra aver perso il suo smalto, ma resiste “in faccia ai maligni e ai superbi” direbbe un De Gregori circense. E poi c'è il Colapesce ritratto, testa di pesce e corpo da Re con tanto di tridente in mano e le regole di vita vergate sul bandone di un bar in zona Università che sarebbero da imparare, seguire, ripassare ogni giorno della propria esistenza. Napoli è un respiro, a volte è un fritto, a volte uno sbuffo delle televisioni sempre accese i cui colori smodati escono aggressivi dai bassi, ora è una sirena, adesso uno sbattere d'ali di piccioni. Se Napoli è già un teatro a scena aperta, il “Campania Teatro FestivalAmleto, principe di Airola-min(1).jpg(budget 4 milioni e mezzo) è teatro nel teatro, esaltazione del teatro, anche se il suo fondale, da qualche anno, è confinato nel bellissimo polmone verde che guarda la città dall'alto, tra le palme e i due palchi organizzati alla Reggia di Capodimonte. Sopra nel cielo, sembrano rincorrersi gli strepiti dei gabbiani che urlano al tramonto la loro voglia di vita o la loro paura delle tenebre, e gli aerei che, incuranti degli uomini così piccoli là sotto, sferragliano con le loro tonnellate, con i loro fumi come siluri tra le nuvole arrivando e ripartendo da Capodichino con le loro lucine accese a lasciare una scia fosforescente e ipnotica nell'azzurro sopra le nostre teste rapite.

E' stato un soffio potente, leggero e profondo, quello che ha aperto questa edizione del festival diretto da Ruggero Cappuccio e Nadia Baldi, da considerare più per il percorso esistenziale ed emozionale che dal punto di vista artistico. Quale personaggio migliore di “Amleto” per raffigurare un giovane in balia del Sistema, tra le gabbie della sua fortezza, vera o presunta, chiuso tra quelle pareti a chiedere giustizia e verità, a voler mettere in atto la sua vendetta? E' un Amleto particolare questo portato sul palco dai ragazzi del carcere minorile di Airola e dalle studentesse dell'Istituto I.S.A.M. de' Liguori di Sant'Agata de' Goti. Schegge di Amleto, sprazzi di Shakespeare, spunti secolari, lampi che toccano, hanno toccato e toccheranno tutti gli uomini prima e dopo di noi. Il classico che s'infarcisce di oggi, le parole del Bardo, con piccole dosi di ironia funzionano, intervallate dalla contemporaneità che bussa alle porte, irrompe sulla scena senza chiedere permesso. I ragazzi entrano in nero sul boccascena, hanno dei bastoni in mano per battere il tempo. Airola che prende le fattezze di Elsinor, con una prigionia che si fa fisica e mentale, reale e psicologica. Amleto diventa Amlè, Ofelia è Ofè. Spunta anche un cantante neomelodico, ma quello che più ci ha colpito, e che ha dato un valore più alto e tangibile all'operazione, sono stati gli inserti hip hop (il maestro è stato il cantante Lucariello) con alcune canzoni-sfogo che hanno squarciato la quarta parete, pur nell'oggettiva incomprensibilità (per i non napoletani) ma con una potenza di fuoco ruvida, una voce che arrivava a toccare corde lontane, distanti dal buonismo e senza lamentazioni, tasti perduti dentro il cuore e la pancia del pubblico. In quelle parole così piene e rudi, così gracchianti e graffianti, così sentite e vere, sta il nocciolo e il centro e il fulcro di questo “Amleto Principe di Airola” (il presentatore è quello che meglio reggeva i tempi e i ritmi, dovrebbe continuare a fare teatro), improvvisazioni su basi dai bassi potenti. E in ogni rima sembrava di rivedere alcune vite segnate, alcuni destini tranciati troppo presto. Ma il teatro è una risorsa, è una via di fuga, può essere una finestra oggi per guardare fuori dalle sbarre, domani per immaginare per se stessi un futuro (anche se non intrapreso a livello professionale) non penalizzato, un avvenire da riempire di cose positive. Ecco “Mammà”: “Come eri bella quando mi capivi, Sei sempre pronta a prenderti questo male, Come eri bella quando mi guardavi e con il sorriso mi dicevi tutto. Fermerei il tempo tra le tue braccia, Un’ora a settimana non mi basta mai, Mamma ti chiedo scusa in questa canzone che tra quattro mura sto scrivendo. Ogni pensiero mi parla di te che mi difendi anche se ho sbagliato, Siamo lontani ma sei sempre presente, Sei un pensiero fisso nella mia mente. Mamma ti regalerei la mia vita, Perché tu stai pagando i miei sbagli e non lo meriti, ti voglio bene. Tutti i pensieri mi parlano di te, Porti la croce per questo figlio tuo e ora mamma tu non ci sei, Ma questa condanna deve finire”. Il teatro, e la musica, come voglia di rinascita, rivincita, rivalsa. Ma, ed è qui che la storia cambia, e deve necessariamente cambiare per interrompere la catena di errori, il nostro Amleto quando ha la possibilità di vendicarsi, con la spada in pugno, fa un passo indietro e non cade nella trappola della vendetta che uccide sia l'ucciso sia l'uccisore. E' questo l'insegnamento più grande, uscire dalle regole tribali, dall'occhio per occhio e dente per dente, il riuscire a razionalizzare senza farsi muovere dall'istinto primordiale delle belve feroci. E poi arriva “Guagliune sfurtunat” che racconta di solitudine ed emarginazione, di lontananza, della scuola che non riesce a colmare il divario tra le possibilità delle varie classi sociali: “Ricordo quando andavo a scuola, Lo ricordo come se fosse adesso, ricordo che tutti ridevano perché avevo le scarpe bucate. Nel banchetto ero sempre solo, all’inizio non capivo il perché, Non si avvicinava nessuno, si sentivano diversi da me. Non avevo una maglietta come loro. Non avevo un paio di scarpe buone ma mi accontentavo di quelle che poteva permettersi mia madre che ogni giorno mi donava il suo cuore. Tutti si riunivano in gruppi, Io sempre solo come un lupo. Sono cresciuto sempre da solo”. La bellezza forse non salverà il mondo ma l'arte può sicuramente innescare il cambiamento.

E' una lettera aperta, CTF_10062022_La_Mancanza_Ph_SalvatorePastore_S2A6256.jpgscritta ancora con il cuore frantumato, con delicatezza, ma senza sdolcinature, una missiva mai consegnata scritta con il sangue della memoria, con la linfa del ricordo, quella che Lina Sastri (una delle ultime signore del teatro) ha portato in scena ne “La Mancanza” (prod. Salina) per il fratello scomparso. Non è solo una morte questa ma un accanimento che alcune esistenze attuano: nel 2013 un'emorragia cerebrale seguita, dopo riabilitazione, dalla scoperta di un cancro nel '17 ed infine ad inizio '21 il Covid che ha posto fine agli ultimi otto anni di calvario, di martirio, di dolore e tragedia. Quindi non è la morte il sentimento e la situazione che affronta la Sastri ma questo lento scivolare verso la fine, lunga e travagliata altalena tra difficoltose e tortuose riprese fisiche e interiori e la nuova mannaia calata a troncare sogni e aspettative di ripresa. Come stare sulle montagne russe, dentro e fuori l'ospedale con la speranza ogni volta da riattivare, i risvegli e le ricadute, gli slanci e le depressioni, il nuovo entusiasmo ritrovato e continue delusioni. Una tragedia personale nella quale, con dolcezza e pudore, ci conduce l'attrice che ci apre le porte dei suoi diari, delle sue note, dei suoi bloc-notes pieni di appunti, di considerazioni dove tratteggia, con grande umanità, la tenacia e la tenerezza, l'impotenza come il perdono. Ricordare è portare nuovamente al cuore. Un percorso dentro la mancanza, un girovagare in mezzo alle parole per trovare un senso all'assenza, l'autopsia di un sentimento, con lucidità ma senza fredda razionalità, anzi con passione e forza, mettendo in campo tutta la fragilità e il coraggio. “La mancanza” è un taglio di Lucio Fontana sulla pelle, è un guardare dentro la ferita e provare una vertigine, è vedere la carne viva, è una lezione di vita che ci dice che anche di fronte all'ineluttabile, all'incertezza del presente, quando si è immersi nella sofferenza e nella solitudine di tenere dritta e viva la barra della coscienza, dell'integrità anche quando tutto attorno a noi ci direbbe di mollare, di lasciarsi andare, di cadere in quello stesso vortice e baratro. La morte delle persone che ci stanno a fianco è un peso insopportabile (“Sono morta un po' anch'io”) che, forse, solo la rielaborazione, che non può essere consolatoria, attraverso le parole e la scrittura e quella terapia condivisa e collettiva chiamata teatro, può leggermente scalfire e lenire. L'Arte ci dice che non siamo soli.

Visti a Napoli il 10 giugno 2022.

Tommaso Chimenti 14/06/2022

TORINO – Torino Caput Mundi. O quanto meno dell'Italia. Se Milano è città europea, Torino le va subito a ruota. Qui accadono le cose, pur nelle contraddizioni, si ha la netta sensazione che questa metropoli, una volta considerata aristocratica e adesso cosmopolita, sia in cammino, in movimento. A Torino non ci si annoia. Negli ultimi anni infatti, su questa sponda del Po, sono, non a caso, approdati il Salone del Libro come i Masters di Tennis o ultimamente l'Eurovision. L'arabo che prende piede, la Francia così vicina, la maestosità delle montagne sullo sfondo di questa cartolina, Torino incastrata tra il mare ligure e le Alpi, la Torino solida per natura, per dna basti pensare ai suoi due simboli per eccellenza: il toro, che dà il nome all'unica squadra di calcio tifata in zona, e la Mole. Ma è grazie al “Fringe Festival”, alla sua decima edizione, che ci siamo spinti lungo bisettrici laterali, esplorando quartieri popolari fuori dalle rotte classiche turistiche; e così abbiamo visitato (tra le dieci location della rassegna) Casa Fools che da fuori sembra un negozio e invece dentro si apre in un'accogliente sala, ed ecco lo Spazio Kairos ex fabbrica di colla poi divenuta ditta di terra rossa per i campi da tennis sbriciolando mattoni, poi scuola circerse adesso teatro con la forma di un fienile, o ancora il Circolo di via Baltea quasi una serra, e infine lo Spazio Ferramenta, luogo di culto comunista, vicino al museo Mao, tutto votato al sovietico, al cimelio russo (non il momento migliore per la nostalgia socialista), con la sua sala sotterranea fresca che sembra di scendere nelle segrete di un castello o nella sala torture. Una trentina gli spettacoli off proposti, sei repliche ognuno, grande carica, grande energia per tre settimane di freschezza e colori, di fermento, di ribollire, di incontri e collaborazioni, di scambi e incroci, di conoscenze e vicinanze artistiche e umane. Il Torino Fringe (la direzione artistica è affidata a Cecilia Bozzolini, Pierpaolo Congiu, Michele Guaraldo, L'origine dell'occhio.pngLia Tomatis) vale sempre una visita per l'accuratezza delle scelte, per la dedizione, per lo spirito che scorre sottopelle come filo sotterraneo riempiendo le atmosfere di ogni spazio dedicato al palco e ai suoi derivati.

Il nostro viaggio è cominciato con “L'origine dell'occhio” del giovane Collettivo Spinaci dell'acqua (nato all'interno del Progetto Cantiere del Festival Incanti diretto da Alberto Jona)che hanno messo in campo la loro ingenuità artistica ma anche idee e voglia, visione, spirito, immaginazione, lavoro e una ricerca invidiabile. Due tavoli laterali, quasi tecnigrafi da geometri, e nel mezzo un telo per le proiezioni, un impianto tanto semplice quanto artificioso che aveva sentori di laboratorio come di artigianalità, di esperimenti scientifici come di manualità tecnica. Se il musicista stava in mezzo ai suoi aggeggi meccanici, oggetti strani, insoliti e inusuali strumenti musicali che producevano inquietanti suoni di caverna, di abisso, di sirene d'Ulisse, di canto delle balene, dall'altra parte la performer muoveva i suoi piccoli arnesi mentre piccole telecamere ne riproiettavano le fattezze amplificate sullo schermo creando una bolla cinematografica dove perdersi. Non solo oggetti miniaturizzati ripresi (qui ci sono tornate in mente le esecuzioni di David Espinosa, specialmente “Mi gran obra”) ma anche libri pop-up (e in questo caso ci sono balzati agli occhi i Sacchi di Sabbia con “Un fossile di cartone animato”) le cui pagine, una volta voltate, escono prepotenti come montagne, prendono forme, aumentano il loro volume, diventano tridimensionali. Una poetica che scivola nell'infantilismo, con delicatezza, una rotta che tende in maniera ostinata e contraria allo stesso tempo verso le paure ancestrali dell'Uomo, ovvero da dove veniamo e dove stiamo andando ma soprattutto chi siamo. Il loro (in scena Martina Mirante e Costantino Orlando) è un racconto sull'origine della vita sul pianeta Terra. Sembrano amanuensi piegati sui propri tomi di studio alla ricerca del Sacro Graal, curvi impegnati tra i loro alambicchi e pozioni e intingoli e arcani. Ed è interessante vedere il prodotto del loro fervente lavoro (e lavorio) come è altrettanto coinvolgente esaminare le postazioni aggrovigliate e arruffate, captando gli autotune e le eco, i riverberi, le mosse tra piccoli segmenti, tra microattrezzi che si trasformano in maniera alchemica in cinema casalingo. L'immagine iconica conclusiva con l'attrice abbracciata al lenzuolo diventa in un attimo l'affresco ambientalista di una ragazza abbarbicata alla coda di un cetaceo: questi ragazzi hanno tenacia, tenerezza e grazia: “Non sarà il canto delle sirene, nel girone terrestre ad insegnarci quale ritorno attraverso le tempeste, quando la bussola s'incanta, quando si pianta il motore, non sarà il canto delle Clown-last-show.pngsirene ad addormentarci il cuore”, De Gregori rules.

Climax completamente opposto è quello invece che porta in scena, e che riesce ad alimentare Willy nel suo “Clown Last Show”. Come bravi soldatini compiliamo un foglio anonimo con i nostri ultimi desideri prima di lasciare questo mondo e li infiliamo in una boccia da pesci rossi: è chiaro di cosa parlerà lo spettacolo ed è chiaro come andrà a finire. Ci si presenta subito un clown aggressivo, alla Leo Bassi ma senza quella carica dirompente e dissacrante. I vuoti sono corposi, i silenzi ampi e consistenti ma con una canzone dopo l'altra si cerca-tenta-crede di ovviare alla mancanza di senso, di testo, di drammaturgia. Entra una bara in scena e il prevedibile diventa reale. Aumentano le attese ed è snervante questa riproposizione della Famiglia Addams, il macabro che sfocia nell'ironia caustica, nel rapporto tra il capocomico e la sua aiutante: le gag sono consunte e consumate, la musica è debordante che sembra di essere in un piano bar e viene usata esclusivamente come riempitivo, la sostanza è minima se non infinitesimale, il tedio ci assale in questo brodo che viene continuamente allungato di superficialità, l'entusiasmo è ai minimi storici e neanche il continuo ricorso al pubblico, portato in scena, riesce a rivitalizzare il boccheggiante, ansimante, agonizzante, claudicante, stanco show: “Io sono un clown e faccio collezione di attimi”, sosteneva Heinrich Böll. Qui sono mancati proprio gli attimi.

Stuzzica e affascina l'impianto creato da Davide Carnevali nel suo “Calciobalilla”, un gioco nel gioco, una partita di ping pong che si trasforma in pedana di scherma che diventa un finale di partita scacchistico beckettiano. Ci si aspetterebbe il classico calcino con gli omini fissi e immobili blu e rossi impagliati nelle stesse pose lungo le assi di ferro a muoversi soltanto lateralmente, e invece ecco la prima sorpresa: la scena. Una lettura a tavolino con i due attori (Fabrizio Martorelli e Stefano Moretti efficaci, tormentati, turbolenti, furiosi, provocatori, molesti) e il regista-direttore d'orchestra (Claudio Boschi kantoriano), tre voci profonde radiofoniche, e microfoni che colano e calano a piombo ad ovattare il suono, ad imperlarlo, ad emanciparlo, a riecheggiare lo spazio. Il testo, un'operetta gioiosa e furiosa, è un perdersi futurista, è una continua rivelazione ed epifania, è un cadere e ripartire come le corse attorno a questo tavolo-campo di battaglia, è una rima dietro l'altra che amplifica il senso ma che al tempo stesso lo dissolve, lo distrugge, impastando tutto in un'onda, in un'armonia dove è piacevole naufragare e lasciarsi cullare. I due hanno fogli in mano, adesso sembra un doppiaggio ed è proprio quando ti concentri sui movimenti di quest'esperimento che emerge prepotente il testo (ha aperto spazi Happy days-Santomauro.jpegriconducibili al “Cyrano de Bergerac” di Rostand) e le sue parole concatenate, ed è proprio quando surfi sulle sillabe che la macchineria meramente teatrale si esalta e vive e guizza tra gol o canzoni sudamericane che mordono l'anima, infarti d'assonanze, disillusi come filastrocche, abbandonati nei rimandi semantici, sovraesposti negli sberleffi, orfani di calembour. In definitiva la vita è “una partita di calcio da giocare da fermi”. Diceva un anonimo: “Mi sento come se nella partita di calcetto di ieri io fossi stato il pallone”.

Si ride, a tratti smodatamente altre amaramente, con gli “Happy Days” di Stefano Santomauro, terza appendice comico-grottesca sulle italiche falle comportamentali, dopo “Fake Club” e “Like”. Il livornese è scatenato, riempie la scena, la fa sua, e somiglia, come impatto, forza espressiva, argento vivo addosso, a Jack Black in “School of Rock”. Le sue analisi sul reale certo sono declinate sul brillante cercando sempre di ridere delle tragedie, ma hanno tra le righe il desiderio di comprendere meglio i nostri tempi bui, di sviscerare l'affresco degli anni, caotici e in continua evoluzione, che stiamo vivendo, o subendo, sulla nostra pelle stanca. Qui si parla di felicità rapportando il Bel Paese al Nord Europa, alla Scandinavia dove, nonostante il clima inclemente e l'alto tasso dei suicidi, sono sempre nelle prime posizioni nella classifica dei popoli più happy per reddito, welfare, aspettative di vita, onestà e fiducia nel governo, salute. Perché, si chiede e ci interroga Santomauro (uno dei crack del Fringe a livello di pubblico presente), sempre spigliato e pimpante, frizzante ed esplosivo, con la sua classica veemenza e la sua postura guerrigliera da mitragliatore, se in Italia abbiamo tutto non riusciamo ad essere felici come quelle nazioni che hanno meno di noi? Cosa è successo? “Perché ci siamo ridotti in questo Stato?”, cantava Caparezza, con la S volutamente maiuscola. Quindi l'indagine (scritta in collaborazione con Marco Vicari e Daniela Morozzi) del comico livornese (che ha tempi e scansioni e ritmo perfetti) è tutt'altro che leggera, ci stuzzica, ci fa riflettere, continuando a ridere di gusto, tra pezzi talmente assurdi di autobiografia da essere realmente accaduti. Il suo sguardo è quello incisivo che trafigge di Van Gogh, le sue mani frullano, non perde un colpo, trascina le folle, è un capopopolo battagliero e sa come arringare la platea. Si esce più consapevoli, con tante domande alle qualiuna_cena_daddio.jpg rispondere sorridendo. Forse più felici. “Ha stato lo Stato”, urla un murales.

Un divano e un interno borghese ci attendono sulla scena di “Una cena d'addio” degli Onda Larsen nel loro teatro rinnovato con uno spazio all'esterno in stile baita, un vero e proprio foyer all'aperto ospitale e accogliente. L'ambientazione e la cadenza, l'andamento e il ritmo, le situazioni e la scelta delle parole sono indubbiamente francesi (gli autori sono gli stessi de “Il nome del figlio” trasposto anche in Italia), e alle gag e ai misunderstanding si sommano grandi valori sociali, civili e quel pizzico di cinismo che rende il tutto più interessante e pungente, certamente divertente. Ad essere sul tavolo anatomico è l'amicizia. Una coppia decide di seguire l'esempio di un loro conoscente che organizza delle cene d'addio con i suoi amici per “tagliare i rami secchi” delle relazioni inutili e circondarsi di nuove persone più stimolanti. I tre in scena (Lia Tomatis, Riccardo De Leo, Gianluca Guastella tosti) hanno piglio brillante, i dialoghi tengono, la tensione regge: marito, moglie e il terzo incomodo, perché la compagna di quest'ultimo non si è neanche degnata di presenziare, senza avvertire, alla cena-resa dei conti. E infatti escono fuori, come in un duello da Far West, le acredini incancrenite da anni, i difetti nascosti e mal sopportati, le crepe non dette, i livori sotterranei, le ragioni taciute per il quieto vivere, le litigate postdatate. Viene fuori tutto, come un vomito irrefrenabile, tra nevrosi e psicoanalisti, tic e egocentrismi, manipolazioni e consuetudini noiose. Una sorta di Ultima Cena per azzerare le amicizie ormai meccaniche senza più l'intimità che le hanno generate (ricorda “La cena dei cretini”, non a caso francese anch'esso). Si ride molto di noi, del nostro avere bisogno degli altri e allo stesso tempo del nostro essere antisociali; in una parola sola, bipolari: “Di quei violini suonati dal vento l'ultimo bacio mia dolce bambina brucia sul viso come gocce di limone l'eroico coraggio di un feroce addio”, Carmen Consoli docet.

Tommaso Chimenti 02/06/2022

TORINO – C'era una volta il “Pranzo è Servito”. La mensa, il desco, l'aggiungi un posto a tavola, lo stare tutti riuniti attorno ad un focolare, il calore del passarsi e condividere le pietanze, il vino nei calici che abbatte le differenze e democraticamente livella i commensali. Lo stare a tavola, e questo ben lo sanno i popoli mediterranei ma anche quelli del mondo arabo o africano, è sinonimo di conoscenza, di scambio, di vicinanza, di unione. A tavola si parla, ci si guarda, si ride: i piatti sono più gustosi se la compagnia è felice, se è allegra: “Riempirò i bicchieri del mio vino, non so com'è però vi invito a berlo”, diceva a muso duro Pierangelo Bertoli. 20190929_PWF8_pranzoinsilenzio_foto_elisafigoli_107.jpgAbbiamo dentro di noi l'immaginario di tavole dove schioccano i bicchieri, dove si parla (mai a bocca aperta) e si comunica, con il cibo, grazie al cibo: da “L'ultima cena” leonardiana a “La tavola imbandita” di Matisse, da “La colazione dei canottieri” di Renoir a “Colazione in giardino” o “Colazione a Posillipo” di Giuseppe De Nittis, da “Le nozze di Cana” del Veronese alla “Cena in Emmaus” di Caravaggio, da “I mangiatori di patate” di Vincent Van Gogh, da “I Mangiatori di ricotta” o “I Mangiatori di fagioli” di Vincenzo Campi, o ancora Veronese con “Cena in casa di Levi”. E' il banchettare, è il motto “In vino veritas”.

Qui invece tutto sarà ribaltato, smontato, rivoluzionato per uno straniante “Pranzo in silenzio” ideato e concepito da Fabio Castello. Non è soltanto in silenzio, ma è anche un Pranzo nel silenzio e ancora un Pranzo di silenzio. Pochi i partecipanti per questa performance immersiva, una ventina di commensali come monaci in un monastero. Vengono immediatamente in mente le Ariette oppure alcuni spettacolo dei Cuocolo/Bosetti. Stare in silenzio mentre si è a tavola è il contrario dell'abbattimento delle barriere, delle vivande che uniscono attizzando i sensi, del palato che avvicina. Se la parola è scambio, qui ci è negata, è questa la sfida in un tempo dove il rumore di fondo delle città riempie, assorbe, copre, ammanta i nostri stessi pensieri: le musiche che escono dai telefoni, comprese le suonerie, dai bar, dalle macchine, le televisioni accese, le radio che fremono, i video che impazziscono. Togliendo l'uso della parola si esaltano gli altri sensi. Non siamo abituati a stare muti come pesci. Il (proprio) silenzio ci costringe ad acuire la vista, l'ascolto, ad essere più vigili, stare con le antenne dritte verso l'intorno che si muove. Il silenzio personale imbevuto nel silenzio collettivo degli altri, e imposto come regola accettata, si fa intimo, diventa ricerca immateriale, godimento del tempo interiore.

Se all'inizio cala l'imbarazzo, download.jpgil non sapere dove posare gli occhi, il sentirsi inadatti e inadeguati, dopo scatta la riflessione, la calma, la pace. Non c'è nessuna tv a farci sobbalzare di zapping, nessun telefono da dover controllare di inutili notifiche, né urla né strepiti. E' lo slow che scardina la cassaforte dei nostri tempi aridi e acidi e rancidi. Qui c'è un silenzio sensato e non parole senza senso. “Il silenzio è una discussione portata avanti con altri mezzi”, sosteneva Che Guevara. E “Il silenzio descrive l'inesprimibile”, aggiungeva Huxley. E “Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche”, incitava Sartre. “Le parole più belle sono spesso quelle non dette, quelle che naufragano nel silenzio” faceva eco Keats. Il silenzio non è un vuoto da colmare ad ogni costo. Il silenzio ci fa paura, ci mette a disagio perché non riusciamo a tirare fuori il nostro egocentrismo, la nostra personalità, non possiamo dire a chi abbiamo di fronte la nostra opinione (non richiesta) sul mondo.

Questa quiete non era soltanto assenza di parole ma era solennità formale, cerimoniale misterioso, movimenti graduali, quasi coreografati, i rumori ridotti al minimo, i passi leggeri, le suole religiose a sondare il pavimento: non si corre, non ci sono chiacchiere (né inutili né di circostanza) qui ci si ascolta, dentro la cassa toracica come fuori dai nostri confini terreni e materiali. Il silenzio fuori amplifica i suoni del corpo e quelli della mente. Tutto è misura, è calmierato, centellinato, un rito laico di adesione e complicità. Mischiare i silenzi è un'attività potente, rivoluzionaria, gesto eroico contro l'inquinamento uditivo al quale siamo sottoposti quotidianamente. Anche sbattere inavvertitamente le posate tagliando il cibo nel piatto sembra sacrilego, sembra rompere un incantesimo. Per ogni postazione a ferro di cavallo è apparecchiato per una persona in Pranzo-in-Silenzio-Foto-Sandro-Carnino.pngpiù: sarà il nostro accompagnatore in questo viaggio-processo, il nostro Caronte purificatore. Cala una patina di gentilezza su ogni mano, su ogni cosa inanimata. I sensi sono ricettivi all'ascolto, le pupille attente, l'orecchio accorto, gli occhi vagano alla ricerca del particolare, dell'attimo; aspettiamo, ci guardiamo. Il bello è che non succede niente. O almeno, niente di clamoroso, niente di eclatante. “No surprises”, diceva Thom Yorke. Gli sguardi spauriti si cercano, interdetti. Lentamente l'imbarazzo iniziale scema, scivola via come olio sull'acqua. Da piccoli giocavamo al gioco del silenzio. L'esperienza si fa mistica, romantica, corale, intellettuale, morale, rispettosa, sincera, aperta: praticamente un abbraccio rilassante, accogliente, una preghiera discreta, schiva, cortese. Il silenzio adesso è corposo, si è fatto strato solido e adulto, nel cielo si sente alto un aereo che non sa della nostra esistenza, uno sbattere di ali di piccione su qualche tetto nelle vicinanze. Un momento di sospensione prezioso, da portarsi a casa come un dono commovente.

Tommaso Chimenti 31/05/2022

foto: Sandro Carnino

VICENZA – Stivalaccio vuol dire fiducia. Parafrasando una vecchia pubblicità anni '80 di un formaggio nostrano. Perché già è difficile (ri)portare le persone a teatro, è complicato riempire, per due sere, un teatro (come il Comunale) di mille posti, è arduo farlo con la Commedia dell'Arte. Il gruppo veneto ne ha fatto la propria cifra e essenza più intima e riconoscibile. Amati in Veneto (altro che sparuto zoccolo duro, qui ci sono le folle), amatissimi in Francia dove regolarmente sono invitati, da Avignone Off o come quest'estate che saranno in Normandia a Brest. All'estero il loro gramelot si esalta, le mosse e le maschere tirano fuori l'argento vivo e il fuoco che hanno dentro per sopperire la parola. Hanno le spalle larghe da artisti di strada, la sicurezza, l'impostazione, il mestiere. Ed eccoci ad un nuovo “Arlecchino” che stavolta diventa “Muto per spavento” (prod. Teatro Stabile Veneto, Teatro Stabile Bolzano, Teatro Stabile Verona; qualche tempo fa ne portarono in scena uno “Furioso”) arlecchino_muto_di_spavento_500x408-1.pnge che è dedicato all'appena scomparso, e da tutti i teatranti compianto e rimpianto, Eugenio Allegri. Una durata da Stabile (2h 30' con intervallo), una scena, composita e articolata, che ruota su se stessa per permettere di usarla bilateralmente, nove attori sul palco che cantano, duellano, saltano, ballano: il progetto messo a punto da Marco Zoppello (qui regista ed anche la maschera protagonista) e Michele Mori (le due anime di Stivalaccio Teatro) ci mostra una struttura ormai collaudata di alta professionalità, ben rodata da alchimie e artigianato, oliata e pronta.

Chi lo avrebbe detto che negli anni 2000 una compagnia di giovani potesse attirare così tante persone al proprio capezzale con la Commedia dell'Arte? A priori potremmo definire “anacronistico” parlare di Pantalone e Arlecchino ma queste maschere hanno in sé l'universalità delle sfaccettature dell'umanità e, ripulite dai lazzi e frizzi settecenteschi, conservano ancora integri quei valori di moralità e insegnamento, metafora e monito, utili anche oggi. Ci hanno scommesso, la loro puntata sta ampiamente ripagando gli sforzi, hanno vinto. In scena un bel manipolo affiatato e gagliardo: Sara Allevi è Violetta, Marie Coutance è Flamminia, Matteo Cremon è Lelio, Anna De Franceschi è Stramonia Lanternani, Michele 84_ArlecchinoMutoPerSpavento18052022-1148.jpgMori è Mario, Stefano Rota è sia Pantalone De' Bisognosi che Bargello, Pierdomenico Simone è sia Trappola che il Locandiere, Maria Luisa Zaltron è Silvia, Marco Zoppello è Arlecchino.

Guardando gli Stivalaccio si ha sempre la sensazione che, scavando sotto la superficie dorata dei curati costumi, ci sia sempre qualcosa che possa parlare all'uomo contemporaneo oltre il divertissement e le danze, gli imbrogli, i duelli (a cura di Massimiliano Cutrera) le zuffe, le bugie dei protagonisti. Una lettura multisfaccettata con più veli di comprensione, aperta a tutti, popolare nel più alto senso del termine, stratificata per ascolti diversi. La struttura classica della narrazione (di Luigi Riccoboni) è semplice: ci sono due coppie, i cui matrimoni sono stati combinati (come usava e come purtroppo anche oggi in molte parti del mondo è ancora in vigore), che non vogliono sposarsi per interesse ma sono innamorati di un'altra persona e che lottano fino al sacrificio estremo per vedere riconosciuti i propri desideri e rispettate le proprie volontà. Si parla del conflitto tra vecchie e nuove generazioni, si parla dei giovani che hanno paura nel ribellarsi allo status quo e al potere costituito, si parla, appunto, di matrimoni combinati.

E se nell'“Arlecchino muto per spavento” se ne ride e alla fine tutto andrà bene e l'happy end ci riscalderà e ci cullerà, ancora abbiamo 76_ArlecchinoMutoPerSpavento18052022-1713.jpgnegli occhi le pagine di giornale riguardanti la cronaca sull'uccisione di Sana da parte della famiglia pakistana a Brescia nel 2018 perché si era rifiutata di sposare un uomo in patria, e ancora ci ricordiamo di Hina uccisa per le stesse ragioni e sempre sul territorio italiano. E se Hina e Sana si sono ribellate e hanno pagato con la vita il loro sacro rifiuto a scendere a patti con usi e costumi obsoleti e tradizioni antiquate e vessatorie chissà invece quante centinaia/migliaia di donne, figlie di immigrati, italiane di seconda generazione a tutti gli effetti integrate nella cultura occidentale, hanno dovuto cedere a matrimoni scelti a tavolino dalle proprie famiglie per doti corpose, rendendole infelici e schiave per sempre, sottomesse, impotenti, e64_ArlecchinoMutoPerSpavento18052022-1566.jpgmarginate, sole, abbandonate con l'unico scopo nella vita se non sfornare figli, cucinare ed essere prigioniera delle quattro mura casalinghe. Quindi dell'“Arlecchino muto per spavento” se ne può certamente ridere (si deve!) anche se un occhio al nostro mondo, pieno di contraddizioni e mai così lineare, è sempre bene tenerlo.

Tornando alla pièce, senza cercare altri significati forse anche troppo reconditi e celati, è interessante l'uso dei dialetti e il miscuglio delle lingue, dal napoletano al veneto ovviamente, dal romano fino al francese, così come la grande ricerca musicale realizzata (arrangiamenti e musiche di Ilaria Fantin); tra le canzoni proposte ci è rimasta nelle orecchie e nel petto la “Canzone arrabbiata” di Nino Rota il cui testo potrebbe essere preso ad emblema proprio del discorso intrapreso in precedenza: “Canto per chi non ha fortuna, canto per me, canto per rabbia a questa luna, contro di te, contro chi è ricco e non lo sa, chi sporcherà la verità, cammino e canto, a la rabbia che mi fa. Penso a tanta gente nell'oscurità, alla solitudine della città, penso alle illusioni dell'umanità, tutte le parole che ripeterà”. E pensando alle ragazze citate vengono i brividi.

Tommaso Chimenti 26/05/2022

TUNISI – A guardare la cartina, la Tunisia sembra una bocca sdentata. I tre grandi golfi che la ritagliano appaiono come i vuoti di una dentatura. O un cavalluccio marino nel suo incedere, dondolandosi nella sua danza, protraendo in avanti la testa e il suo beccuccio nel suo caratteristico cavalcare così flessuosi, così fragili, delicati e trasparenti. Il caldo è un lungo abbraccio stretto mentre la brezza che arriva dal mare ha il potere di risvegliare i sensi, scuotere le spalle, far spalancare gli occhi dopo tanto sole che li ha fatti stringere nelle rughe d'espressione. La torre con l'orologio, in una rotonda attorniata dalle bandiere che sventolano e sbattono rosse, segna l'entrata in città con il lungo viale che arriva, imperiale, fino alla Medina. La bandiera tunisina somiglia a quella turca, con la luna e la stella classiche del mondo arabo, ma se nella prima sono rosse in campo bianco nella seconda sono bianche in campo rosso. Sotto il ponte sopraelevato dell'highway tanti graffiti danno un tocco Teatro Municipale di Tunisi.jpegdi colore giovane e ci ricordano che qualcosa, lentamente, sta cambiando, che forse le nuove generazioni stanno leggermente smuovendo il Paese, vivacizzandolo, anche attraverso i colori e le forme della streetart.

Dietro la Porta di Francia le fontane a terra zampillano alte, quello è lo slargo dal quale partono varie arterie che si incuneano come serpentine dentro la pancia e il cuore della Medina, s'inerpicano tortuose nel Souk, s'aggrovigliano vorticose nella Kasbah. Piccole tortuose vie dove i profumi di oli essenziali si rincorrono, i teli svolazzano, i tappeti colorano e ancora ceramiche e maioliche, i dolcetti carichi di miele, kaftani di ogni foggia e per ogni occasione, oggetti di pelletteria con quel tocco acido, quasi piccante e affumicato che sale alle narici. E' un flusso continuo, un piacevole perdersi tra porte arabeggianti e palazzi orientali che nascondono terrazze da mille e una notte dove poter lanciare lo sguardo fino al mare imbevuto nei tetti bianchi, tra le migliaia di parabole. I gatti sono molto amati, ce ne sono a decine liberi e randagi a correre o giocare o soltanto a poltrire aspettando un pezzo di qualcosa di commestibile che dai banchi prima o poi cadrà. Il Teatro Municipale è un confetto barocco tutto bianco mentre dall'altra parte del viale si innalza la Cattedrale di San Vincenzo de' Paoli proprio davanti all'Ambasciata di Francia dove stazionano giganteschi suv mimetici. I trenta gradi mordono, i raggi abbagliano, “sole che batte su un campo di pallone, e terra e polvere che tira vento”. Gli infiniti caffè di Tunisi che la rendono assimilabile alle atmosfere di Parigi.

L'importantearlia foto web.jpg Museo archeologico del Bardo, purtroppo ancora interdetto al pubblico, è la più antica galleria sia del mondo arabo che dell'Africa, conosciuto soprattutto per i mosaici romani. Troppi gli attentati in questi ultimi anni in Tunisia: abbiamo ancora negli occhi le immagini crunete di quello del Bardo (22 morti) e quello sulla spiaggia di Sousse (39 vittime) con i terroristi che arrivarono dal mare in gommoni carichi di kalashnikov, entrambi nel 2015, ma altri piccoli, sporadici, occasionali, anche senza una grancassa internazionale, sono avvenuti in questi anni in vari luoghi del Paese, mantenendo così alta l'attenzione sul fronte dell'islamismo estremista. Per le avenue, ai lati delle strade, molte transenne, tanti blindati, troppi paletti, molta polizia per proteggere soprattutto la sfera turistica, una delle prime voci del Pil per le casse della Repubblica governata dal 2019 dal Presidente Kais Saied. Impossibile non restare affascinati dai dintorni di Tunisi, da Cartagine con le sue colonne e la sua Storia che prepotente torna a parlarci con la potenza delle sue pietre, o con Sidi Bou Said, le case bianche con le persiane blu che degradano verso la spiaggia e il Mediterraneo che qui sotto passa dal verde ad un limpido azzurro da cartolina. Molti i pensionati che decidono di trasferirsi qui ad un passo dall'Italia, con sole, mare e prezzi calmierati rispetto all'Europa.

Ed è in Tunisia che quest'anno si svolgerà il “Fortissimo Festival”, rassegna calabrese di concerti di musica classica, per una collaborazione e un partneriato tra l'Ambasciata Italiana, diretta da Lorenzo Fanara, l'Istituto Italiano di Cultura, e il Conservatorio Tchaikovsky di Catanzaro del direttore d'orchestra il Maestro Filippo Arlia che ha programmato questo prologo di maggio nella capitale, dislocato tra gli stucchi dorati del Municipale nell'arteria principale Avenue Habib Bourguiba e la rossa e deliziosa Salle 4eme Art in Avenue de Paris, prima della vera e propria kermesse che si aprirà a fine settembre a El Jem, cittadina tra Monastir e Sfax, sede di un meraviglioso anfiteatro romano, un piccolo Colosseo perfettamente conservato.

Due le serate che abbiamo potuto seguire, la performance proprio del Maestro Arlia in duo con il bandoneonista Cesare Chiacchiaretta con il concerto “Duettango” e il Galà classico dell’orchestra de “Les Solistes de Megrine” nel quale sono emersi i Maestri Alfredo Cornacchia e Roberta Ficara, in un mix tra musicisti calabresi e tunisini. A proposito l'ambasciatore Fanara ha voluto sottolineare “come sia la cultura il modo principale per sviluppare unione e un ponte di conoscenza reciproca e migliorare il dialogo tra culture diverse ma comunque vicine geograficamente e storicamente. Un dialogo che si esprime sia nella collaborazione Filippo_Arlia e Cesare Chiacchiaretta - Duettango.JPGche nella formazione, nella condivisione di conoscenze, di talenti, di esperienze. L'Opera qui è vista come Italia e questo promuove la nostra lingua e l'immagine nel mondo. La cultura è un antidoto al terrore, contro chi vuole brutalizzare le nostre vite e la nostra quotidianità, basti pensare che ho personalmente organizzato un concerto all'interno del Colosseo di El Jem una settimana dopo l'attentato del 2019 riuscendo a portare 1500 spettatori. Inoltre questa manifestazione è anche una bella opportunità lavorativa per i giovani tunisini”.

L'esecuzione di Arlia-Chiacchiaretta ha scelto il tango come perfetta sintesi ed emblema tra il Sud Italia e la Tunisia: il tango racconta in ogni nota una storia di emigrazione, in ogni armonia straziante ci ricorda volti, occhi, mani di chi è partito verso lo sconosciuto e l'ignoto per andare a cercare fortuna altrove, lontano da casa propria, dai propri affetti. Succedeva agli emigranti calabresi verso le Americhe nell'Ottocento e Novecento, succede ai tunisini oggi verso l'Europa. Il tango, che fa rima con piango, ci parla di sudore e lacrime, di lontananza e passione viscerale verso la propria terra che negli anni sbiadisce la memoria ma tiene viva la fiammella. I Maestri in nero, intagliati sul rosso vermiglio del sipario e nella porpora delle poltroncine, immersi nel bianco latte del Municipale hanno sfoderato tutta l'energia caliente e il sentimento tattile e concreto nel loro “Duettango”, rovistando nel tormento, nello struggimento con forza, passione, nostalgia. Piazzolla è stato felicemente celebrato con esecuzioni decise, senza incertezze, esprimendo una grande chimica tra i due artisti in scena e gli applausi convinti e sentiti del pubblico partecipe hanno sottolineato l'alchimia artistica che si è generata sul palco. Vibrazione e commozione, brividi sparsi, miscelati con grinta e garra latina, tenacia e vigoria, per una cavalcata trionfale tra le fiamme dell'Umanità. Sarà interessante tornare qui a settembre per cogliere nuove sonorità e nuovi incastri nello scenario di El Jem, un diverso fondale per musiche senza tempo impastate tra Italia e Tunisia, così vicine e sempre un po' meno lontane.

Tommaso Chimenti 23/05/2022

Sabato, 14 Maggio 2022 17:09

"Kassandra": interpretazione capolavoro

BOLOGNA – Ci sono alcuni testi che hanno necessariamente bisogno di alcune messe in scena per esaltarsi e ci sono alcuni modi di usare il corpo e la voce e lo spazio e il palco che rendono alcuni testi memorabili. Quando questo avviene, quando siamo di fronte non soltanto all'attore, non soltanto alla recitazione ma ad un qualcosa di più ampio e compiuto, di totalizzante, elettrizzante, assoluto, allora, solo allora, si può parlare a pieno titolo di performance. La “Kassandra” di Sergio Blanco (in questo momento nel mondo ne esistono ventisette diverse versioni; qui, prod. Ert/Teatro Nazionale, per la regia di Maria Vittoria Bellingeri, che DSC3220-scaled.jpgcura anche scene e costumi) diventa uno show vissuto, sudato, traslato, solcato dall'anima di Roberta Lidia De Stefano che ha riempito con ogni suo centimetro, con ogni suo stilla di fatica, con ogni sua cellula il senso più profondo della drammaturgia senza dimenticare l'edonismo, l'estetica, l'estasi della raffigurazione, quel sottile strato magico che si crea, osmotico e di trasporto, tra la platea folgorata e la scena che frigge, che frange, che sprizza, che spiazza, che sfrigola. Ci siamo trovati davanti ad un insieme di qualità, attoriali e artistiche, che difficilmente convergono nello stesso corpo, un corpo che si fa sensuale e meccanico, che ha al suo interno tutto il metallo del Futurismo fuso ora con la dolcezza adesso con la durezza e rudezza che soltanto la strada forgia. In mezzo alla nebbia, una piccola macchina a DSC3890-scaled.jpgfari accesi e una figura (“Non sono né un uomo né una donna”) con il suo inglese maccheronico e schematico, scandito e primordiale attende i possibili clienti in una sorta di “Nella solitudine dei campi di cotone” in solitaria.

Blanco prende il Mito greco e lo trasporta in una contemporaneità nostrana occidentale dove le donne sfruttate in mezzo ad una strada con i loro corpi sono la testimonianza viva e diretta delle guerre, delle lotte, delle sopraffazioni, della povertà in altre parti del mondo: la prostituzione è soltanto la punta dell'iceberg di fenomeni più ampi e profondi che l'uomo moderno del Primo Mondo vuole rimuovere cercando di sfruttare questi corpi e farne soltanto oggetti per usarli e violentarli e umiliarli per un po' di sesso a buon mercato senza sentirsi complici di quel sistema che ha strappato queste donne alle loro case, ai loro affetti. Ci è subito venuto in mente un parallelismo con il toccante “Medea per strada” del Teatro dei Borgia dove il pubblico viaggia insieme ad una donna dell'Est su un pulmino mentre si sta preparando per cercare i clienti tra la periferia e l'asfalto.

La De Stefano (dove è stata finora? Chissà quante gemme attoriali sono nascoste e non vengono notate e non hanno possibilità di emergere né alcuna opportunità per mettersi in mostra né grandi palcoscenici dove mostrarsi?) è vulcanica, spaventosamente energica, potente e poderosa, straripante e calibrata, lontanissima da qualsiasi stereotipo; è tutto quello che il pubblico vorrebbe vedere ogni volta che varca la soglia del teatro: quell'eccessivo ma mai smodato, quella foga che trova il suo equilibrio nel talento, quella potenza che non fa sbandare ma trattiene tutte le particelle dell'atomo, quella tensione che non cede, quel tremore che fa gridare gli occhi, quell'esaltazione difficile da contenere, quel brivido che non diventa mai manieristico. Il suo stare in scena ci ha ricordato DSC3962-scaled.jpgl'altrettanto abbagliante “Sei”, di Roberto Latini, con il clamoroso e stupefacente Piergiuseppe Di Tanno, anche lui fulmine a ciel sereno. Viene in mente l'iconica scena di “Tutto su mia madre” quando la telecamera si sposta dal campo, dove le prostitute attendono tra i fuochi dei bidoni, e si apre l'immagine sulla vallata, sulla distesa di luci di Barcellona mentre parte la devastante e straziante e dilaniante “Tajabone” con l'armonica a bocca che farebbe piangere anche un nazista.

Questa DSC4249-scaled.jpgKassandra (una sorta di “Pretty woman”, in stivaloni e latex), nel suo “bad english”, racconta la sua storia, ricordando Ecuba e Andromaca, Paride e Achille, Menelao e Patroclo: è un'amazzone giunonica lanciata in una esibizione fascinosa e affascinante, accattivante , accecante; parla in inglese, in francese, in greco antico, suona il piano, canta meravigliosamente. Adesso ci riferisce di Elena e Clitennestra, di Medea o Antigone. L'attrice è un'artista totale che catalizza ogni sguardo, anche in una tuta adamitica da catwoman, è eccezionale, straordinariamente in forma, confezionando un vero e proprio dj set, un concerto techno-house, per una prova di stampo europeo (ci ha ricordato le messinscene di Jan Lauwers), un'interpretazione “berlinese” graffiante e ironica, profonda, tragica ed eccentrica, gigantesca, illuminante, straordinaria (ovvero oltre l'ordinario al quale siamo abituati), super, dimostrando una maturità e una consapevolezza lirica e debordante, dolorosa (come Gabriella Ferri) e generosa, versatile, un fuoco che travolge come una valanga, un turbinio carnale, una slavina sanguigna che sconvolge. Un frullatore di emozioni ci trascina, ci investe, ci rovescia, ci abbatte. “Kassandra” è rara potenza aulica e poesia delicata urbana, gratta come smog in gola, scartavetra come guance sul cemento.

Tommaso Chimenti 14/05/2022

NAPOLI – Guardi la scena e ti senti pericolosamente avvinto, avvinghiato da profumi decadenti, da un odore di fiori marci e cromature alla David Lachapelle, in un miscuglio tra l'erotico e il cimiteriale, in un afflato caldo e vulcanico, incandescente e dannunziano. In queste coloriture che si spandono, in questa atmosfera demodé, in questo respiro melò che traspira e trascende, i Vucciria espongono la loro cifra, sempre più dolorosi e caravaggeschi, in quel solco tra il dramma e la sensualità, tra lo strazio e la passione dove protagonista è il senso di colpa intriso di tormento, trasporto ed emozione. Un gazebo centrale, che ricorda il piedistallo delle danzatrici di carillon, e attorniato da manichini, ci fa cadere in preda alle percezione più estreme: il loro è sempre più un teatro sensoriale; sembra di sentire i rasi e le sete sotto i polpastrelli, sembra di sentire nelle narici i profumi pesanti o le colonie, sembra di vedere il giallo dei campi di grano povero, sembra di sentire il sudore dei corpi. Un teatro tattile e immaginifico, che ti porta altrove con l'aroma di incenso sparso, con i mandarini a spruzzare l'ambiente di quell'acido rurale, così fresco così pungente.

116-immacolata.jpgI Vucciria sono lavici: nelle loro rappresentazioni eros e thanatos si inseguono, vanno a braccetto, si confondono, si cercano per poi, finalmente, morire l'uno tra le braccia dell'altro, sovrapponendosi, perdendosi l'uno nell'altro in un amplesso caustico e definitivo. Come se le rime aspre di Rimbaud incontrassero l'Urlo di Munch, come se il dandy che albergava dentro Oscar Wilde ballasse con le facce cancellate di Francis Bacon, come se l'abbraccio di Rilke finisse la sua corsa nelle paludi lagunari veneziane di Thomas Mann. Come frullare i Ricci/Forte con Emma Dante e Annibale Ruccello. Teatrali nel senso più alto del termine, il gusto barocco dei Vucciria mette al centro la carnalità (la materia umana, i suoi bisogni e desideri) così come un forte senso estetico (ricordando certe ambientazioni prettamente “siciliane” di Dolce & Gabbana o altre “spagnoleggianti” aldomovariane). Carne tremula e sopraffazione in questo “Immacolata Concezione” (vincitore dei Teatri dei Sacro; visto al ridotto del Teatro Bellini, che lo produce). Ti frugano dentro, ti mettono con le spalle al muro, ti obbligano a guardare il mondo con prospettive diverse in un'altalena di sensazioni che oscillano e fibrillano, che spostano e confondono: la violenza sta insieme ai sorrisi, il piacere convive con il predominio, gli uomini scambiati con le bestie in un magma inscindibile dove la morale si deve fare da parte e il contesto sopravvive solo all'interno di regole primordiali, arcaiche, primitive, ancestrali, animalesche.

Una ragazza (entra in scena nuda Federica Carruba Toscano) permutata dal padre con alcune capre, una ragazza ingenua, solare, pulita, talmente cristallina da diventare vittima di un sistema dal quale però non sente di essere aggredita ma che, attraverso la sua gentilezza e amore e grazia, riesce a trasformare in dolcezza e pace. Una prostituta di bordello che non sa di esserlo e che soprattutto rimane miracolosamente vergine dopo gli innumerevoli incontri con tutti gli uomini del paese, un piccolo borgo polveroso dove tra i clienti in fila, come da favola urbana deandreiana che si rispetti, non possono mancare né il prete né il boss del circondario, il potere spirituale e quello terreno. Concetta, questo il suo nome, emana una luce limpida, propaga un'armonia che riequilibra l'odio e la rabbia, rasserena, calma, addolcisce; con lei gli uomini parlano o si fanno abbracciare, addirittura piangono, abbandonano la loro parte aggressiva e tornano ad essere bambini bisognosi di una carezza, del contatto fisico che quel mondo rude e disperato ha estirpato dai 53825949_2381716232058553_6338901429977088000_o-1024x684.jpgpossibili desideri.

In quest'affresco caleidoscopico di toni tenui e azioni gravi, ecco Anna la maitresse tenitrice della casa chiusa (Joele Anastasi en travestì, anche drammaturgo), Don Saro il rais del quartiere (Enrico Sortino solido e convincente) ed altre figure (che impersonano Ivano Picciallo e Alessandro Lui) in un tourbillon di piccole coreografie che si trasforma in coro tra percussioni e ventagli, oppure corse e vestaglie in una musicalità che tutto riempie, dove importanti emergono la ritmica e il timbro del movimento intessuto con le luci, le parole, ora scarne adesso pennellate, intrecciate con le melodie e le arie, le sonorità degli oggetti, i fischi e i giornali svolazzanti, in un continuo vorticare attorno a questo giardino d'inverno (quasi un peep show di Amsterdam) o un piccolo palcoscenico dove si sale per tornare ad essere diversi, dove si entra per cercare quella felicità lontana nel tempo, dentro il quale ci si fa volentieri fagocitare per ritrovare quel Paradise Lost che si è frantumato crescendo.

Concetta è una Circe benefica e benevola, una Santa (una sorta di Penelope Cruz nel ruolo di Italia in “Non ti muovere”), una sirena di fotoImmacolataConcezione_©ES18-1.jpgUlisse che circuisce i maschi solo per perdonarli delle loro miserie e dolori e mestizie. Questa ragazza che ha portato l'armonia, porta anche la guerra nel piccolo centro, conflitto scaturito dalla gravidanza (a seguito di uno stupro fuori dal bordello mentre era ubriaca, violenza che perdonerà amando l'autore del gesto, Turi, che diventerà suo compagno) della giovane (come fosse la Vergine Maria) che il malavitoso vuole far concludere con un aborto o con l'uccisione del bambino (come Erode). Il racconto della vicenda, intervallato con la leggenda di Colapesce, ci mostra l'involuzione degli uomini che, sacrificando come agnello pasquale la vita piena di celestiale grazia della giovane, tornano ad essere animali, perdono la loro umanità, si trasformano in capre con il campanaccio al collo (come tanti ciuchini nel Paese dei Balocchi o come, appunto, i maiali di Circe), tornano ad essere manichini governati dall'istinto, tornano ad essere le scimmie di “2001 Odissea nello spazio”. Come se questi uomini non avessero riconosciuto in lei quella forza alta e sovrannaturale, divina e salvifica, come il popolo ebraico non ha riconosciuto Gesù crocifiggendolo al pari dei due ladri.

Tommaso Chimenti 12/05/2022

TUNISI - Si svolgerà a Tunisi il prologo dell'edizione 2022 del Fortissimo Festival con la direzione artistica del Maestro Filippo Arlia e del Maestro Achref Bettibi. Un' assaggio musicale dedicato ai giovani talenti, in attesa della famosa manifestazione musicale, il Fortissimo Festival che quest'anno non si terrà come di consueto in Calabria ma avrà luogo nel mese di settembre presso l'anfiteatro romano di El Jem in Tunisia.
L’anticipazione “Notti prima del Fortissimo Festival”, incentrata proprio sui giovani artisti come “vero motore di una società moderna e all’avanguardia”, sarà in scena a Tunisi, in varie prestigiose sedi della città, dal 18 al 21 maggio, grazie all’organizzazione del calabrese Conservatorio di Musica Tchaikovsky, diretto da Filippo Arlia (classe 1989, è il più giovane direttore di conservatorio italiano), e alla preziosa collaborazione di IIC di Tunisi - Istituto Italiano di Cultura, il Conservatorio di Musica di Ben Arous e Association Les Solistes diretti da Achref Bettibi.Filippo_Arlia e Cesare Chiacchiaretta - Duettango.JPG
Una collaborazione attiva quella tra i due conservatori che già nel 2021 ha portato alla realizzazione di corsi di formazione indirizzati a giovani maestri d’orchestra, clarinettisti e sassofonisti; un’operazione culturale che ha aperto le porte di un nuovo progetto d’integrazione sociale e musicale sul Mediterraneo. Sarà quindi il confronto tra le due culture musicali e la contaminazione culturale come valore aggiunto e fondante delle nuove società a fare da perno e fil rouge alle quattro serate di questo prezioso prologo.
Il cartellone spazierà dalla musica classica a quella popolare, dal jazz e il tango di Astor Piazzolla, alla lirica con l’omaggio dei giovani cantanti tunisini ai cento anni di Renata Tebaldi.
La rassegna inizierà il 18 maggio presso la sala concerti ISM di Tunisi con "Momenti musicali" dove si esibiranno insieme gli studenti del Consevatorio Tchaikovsky di Catanzaro e quelli del Conservatorio di Musica di Ben Arous di Tunisi, con originali perfomance al pianoforte. I musicisti coinvolti saranno Daniele Di Maria, Maria Scalzo, Jovanny Pandolfo, Francesco Guida, Islem Ben Hamida, Ilef Hiba Matar, Mohamed Mimouni, Haroun Karoui. A seguire, sarà la volta del gruppo da camera Asir Piano Trio con Roberta Ficara, Nico Fuscaldo, Filippo Garruba, al pianoforte, e Giuseppe Laino al trombone.
Si prosegue il 19 maggio presso 4EME Teatro d'Arte con "Mediterraneo in Armonia", un progetto di musica popolare con L'Orchestra Les Solistes arlia foto web.jpgde Megrine diretti da Achref Bettibi, con Alessandro Gaudio alla fisarmonica diatonica. A seguire il Trio arabo con Malek Hamzaoui al kanoun, Youssef Badri al piano, Iskander Ben Amou alle percussioni.
Il 20 maggio il programma si sposta al Teatro Municipale di Tunisi con "Atmosfere di Opere di tango": il "Duettango" con Filippo Arlia al piano e Cesare Chiachiaretta al bandoneon, in apertura, e, a seguire, i giovani cantanti del conservatorio tunisino si esibiranno in un omaggio ai cento anni di Renata Tebaldi, la cantante lirica più amata di tutti i tempi. Si esibiranno Adriana Grekova, Ichraf Salem, Amra Loubiri, Wajih Bejaoui, Mohamed Ammine Bouhel, Ryma Turki, Ilef Hamdi, Ghenwa Krifa, Mahmoud Turki, Narimene Bouchalghuma; al pianoforte Roberto Ficarra Nico Fuscaldo, Filippo Garruba.
Per l’ultima serata, il 21 maggio presso 4EME Teatro d'Arte, andrà in scena il “Gran Galà Classico”, con l’Orchestra Les Solistes De Megrine diretta da Achref Bettibi e Chada Abidi con Adriana Grkova mezzo soprano e al pianoforte Todor Petrov, Roberta Ficara, Nico Fuscaldo, Filippo Garruba, Farh Ben Youssef, Hiba Kraiem, Chaima Ajailia.

Un prologo aperto, quindi, ai vari linguaggi musicali e alle diverse generazioni di interpreti e musicisti che ben rispecchia e rafforza sia l’anima del festival che quella del suo direttore, Filippo Arlia, che seppur giovanissimo vanta un curriculum di altissimo livello, la direzione di numerosi festival e programmi di spettacolo organizzati in collaborazione con il Conservatorio – come la Stagione Sinfonia al Teatro Politeama di Catanzaro, Festival del Mediterraneo, Mediterraneo Radio Festival – e una visione futura della cultura della propria regione e non solo alta e condivisibile: “il mio sogno personale – ha commentato lo stesso Arlia – è senza dubbio un’orchestra stabile per la mia regione, la Calabria, perché è l’unica regione italiana non avere una Istituzione Concertistica Orchestrale, oltre che a non avere un Teatro Stabile; questo purtroppo è un problema che affligge la nostra terra e che costringe spesso i giovani artisti ad emigrare. La nascita di un’orchestra filarmonica stabile e di un teatro per la Calabria rappresenterebbe la diffusione di una cultura innovativa e imprenditoriale che crea lavoro e investe sulle proprie maestranze, altamente specializzate nella cinematografia, nel design artistico, nella realizzazione di spettacoli sinfonici e di teatro musicale. Un’occasione per incentivare nuove piattaforme occupazionali attraverso la costituzione di un’orchestra stabile, composta da musicisti calabresi che tramandino l’opera lirica conosciuta e apprezzata in tutto il mondo”.

Tommaso Chimenti 09/05/2022

Giovedì, 05 Maggio 2022 12:46

La Classe di Garella non è morta

BOLOGNA – La differenza salta agli occhi, diceva un De Gregori che discettava tra il bisonte e la ferrovia. Ma il confronto tra “La classe morta” di Kantor e “La Classe” di Nanni Garella sta proprio in quella mancanza, in quell'assenza di quell'aggettivo pesante, ingombrante, assoluto. Sembra poco, un aggettivo, ma qui dà nuovo senso alle stesse parole, alle stesse azioni, dona speranza per una compagnia per metà composta da attori (sei) e per l'altra metà da componenti dell'Associazione Arte e Salute, pazienti del Dipartimento di salute Mentale di Bologna. Sulla scena la dozzina è ben calibrata e se ne perdono i confini in un equilibrio artistico e attoriale che li fa essere sullo stesso piano, senza sbavature, senza discordanze, scarti e difformità che l'arte e la recitazione e lo stare su un palco, dentro le parole La classe ph Stefano Triggiani (8).jpgkantoriane, ha azzerato. “Morta” è stato eliso perché recitare, nel piccolo e intimo e raccolto Teatro delle Moline (dove ERT mette in scena piccole produzioni nostrane di grande apertura e respiro, ruolo fondamentale di un Nazionale), è vita, rinascita, sorpresa, scoperta, nuova linfa.

Testo La classe ph Stefano Triggiani (9).jpgmigliore non poteva esserci per questa compagnia nata a fine millennio scorso. L'impianto è quello dell'originale del '75 del regista polacco (ma senza una figura che ne ricalchi la sua presenza in campo): banchi di scuola funerei che sembrano inginocchiatoi penitenti da chiesa ottusa e claustrofobica, abiti pece stinti e facce bianche cadaveriche per un'installazione umana che si anima dopo un torpore secolare, come un sogno che ricompare catartico, un ritornare alla vita passata, un incedere dentro le pieghe del tempo andato, un ripercorrere anni e traumi, in un loop che sa di rivincita, di riconquista, di contrappasso, di purificazione. Infatti le azioni sono reiterate e prendono vigore proprio dalla loro riproposizione continuativa, come un riflesso che si propaga cambiandone i contorni, rafforzandone il contenuto ad ogni mossa, ad ogni nuovo ciclo. La classe come microcosmo dell'esistenza con i soprusi, i maestri, i kapò, il potere che soverchia il popolo, le angherie, la massa che si fa caos; come una fisarmonica si riempie e si svuota. Adesso l'aula è sovraffollata perché ognuno degli attori ha in mano dei pupazzi, quasi a grandezza naturale, i loro doppi di quando erano ragazzi, giovani, bambini, si portano in giro, si coccolano come marionette e bambole, si accudiscono con dedizione e cura e delicatezza. Ognuno di noi dentro ha sempre il fanciullino che una volta è stato, compresi i traumi che ha vissuto, passato, subito.

E' nella ripetizione meccanica degli avvenimenti che si esalta e sublima il senso di questo limbo purgatoriale, le processioni vorticose attorno ai banchi sembrano una danza, una coreografia di dervisci la-classe-luca-sgamellotti-2_1000x0_79620d41ddda236ca32c486beca1c7f2.jpgche incanta, che trascina in un'altra dimensione, una spirale che spalanca le porte del tempo. Come le filastrocche e le canzoncine, quelle nenie cullanti e inquietanti che trascendono in un mondo parallelo, seppiato e offuscato, scolorito e immaterico. Ognuno con il suo alter ego deve sempre fare i conti, ogni personaggio colpisce violentemente il suo fantoccio, lo uccide, li accatastano in un angolo, in quella crescita che disconosce l'età fanciullesca, quell'adultità che vuole cancellare le origini, rinnegando il prima in cerca di un futuro vergine da conquistare. Senza il passato e la memoria, lo sappiamo, non può esserci un domani limpido.

E qui ilaclasse14.jpg bambolotti sostituiscono i vivi sulle panche, le loro essenze che non si sono mai allontanate da quell'atmosfera restrittiva (il messaggio politico allora era chiaro, nel nostro caso, all'opposto, forse il riferimento è all'infanzia inteso come tempo neutrale prima della consapevolezza e della malattia conclamata e certificata), che non sono mai riuscite definitivamente a staccarsi, sganciarsi da quella cupezza, da quel legno bruno. Questo manipolo di uomini e donne eterei e chapliniani, pittoreschi al limite dell'essere foloniani, fragili e vulnerabili, con i loro movimenti automatici istintivi quasi involontari pinocchieschi, oniricamente incastonati e relegati nel tempo paludato, asfittico e impantanato, esotericamente imprigionati e imbrigliati, fantasmi attanagliati nella maglie della clessidra potrebbero essere un coro greco di anime o parte di quelle manifestazioni di lamentazioni funebri pubbliche, prettamente del folclore del Sud Italia, le prefiche, che si sciolgono e dolgono rumorosamente e plasticamente in sceneggiate lacrimevoli, in pianti rituali strazianti, adombrandosi in lagnanti litanie angosciose e laceranti. Come se il tempo si fosse inceppato in una seduta spiritica, come un disco rotto con la puntina gracchiante arrugginita, a rievocare lo spirito di se stessi quando, forse, erano felici non sapendo di esserlo.

Tommaso Chimenti 05/05/2022

visto al Teatro delle Moline il 03/05/2022

Foto: Stefano Triggiani, Luca Sgamellotti

ROMA – “La scuola non è riempire un secchio, ma accendere un incendio” (William Butler Yeats).
La scuola forma e trasforma, la scuola ci cambia e ci rimane appiccicata addosso, la scuola è la porta verso il mondo adulto, la scuola è trauma o scoperta. A scuola impariamo i ruoli, le regole e il loro rispetto, l'autorità, lo studio e l'imparare ma anche le relazioni con i coetanei, le liti, le fazioni, gli amori, le amicizie che durano una vita. A scuola cresciamo, volenti o nolenti, non passiamo soltanto del tempo, diventiamo persone, ci appassioniamo, diventa il fulcro e il cardine delle giornate, le ansie e il sapere come affrontarle. Per questo la scuola rimane negli incubi e anche nei lucciconi delle foto di classe o nei ricordi delle gite scolastiche: “ditemi, chi non si è mai innamorato di quella del primo banco, la più carina, la più cretina, cretino tu, che rideva sempre”, il primo magico Venditti ben fotografava quella sensazione sia in “Compagno di scuola” che in “Notte prima degli esami”, quello scoramento, quel trambusto tra libri ed ormoni, quel subbuglio esistenziale che la scuola connetteva, rimetteva in circolo, tentava di canalizzare cercando di aprire il pensiero, la mente, imparando a gestire emozioni e parole.La Classe foto gruppo.jpg

E “La classe” è l'iconico pezzo teatrale di Kantor come l'omonimo titolo di Fabiana Iacozzilli ma anche il recente di Nanni Garella. I Pink Floyd in “Another La-Classe-3-ok-Paolotti-Casadio-ph-Federico-Riva.jpgbrick in the wall” ipotizzavano la distruzione delle classi mentre deve aver avuto qualche problemino Caparezza: “Una classe di classici figli di, ho dubbi amletici tipici dei 16, essere o non essere patetici? Eh si, ho gli occhiali spessi, vedessi, amici che spesso mi chiamano Nessy, indefessi mi pressano come uno stencil, Bud Spencer e Terence Hill repressi”. E poi c'era “La scuola” di Daniele Luchetti, prima a teatro e poi sul grande schermo sempre con Silvio Orlando nei panni del professore. Ma anche Pinocchio parlava di scuola, così come “Io speriamo che me la cavo” e certamente non possiamo non citare “L'attimo fuggente” di poesia e brividi.

Ma i riferimenti che più crediamo si possano si avvicinare a questo “La Classe”, scritto da Vincenzo Manna, ormai un cult da diverse stagioni su piazza, per la regia di Giuseppe Marini e la coproduzione tra Società per Attori, Accademia Perduta e GoldenArt, possiamo trovarli in “Nemico di classe” di Nigel Williams (un'importante edizione fu quella che lanciò Gabriele Salvatores), e nelle pellicole “La classe” di François Bégaudeau, palma d'oro a Cannes nel 2008 e “L'Onda” di Dennis Gansel e in qualche modo anche il nostrano “Il rosso e il blu” (come i colori degli errori più o meno gravi da sottolineare) di Giuseppe Piccioni. Senza dimenticare due opere a firma di Stefano Massini: a teatro “L'ora di ricevimento”, al cinema “La prima pietra”.La-Classe-Andrea-Paolotti-Federico-Le-Pera-Claudio-Casadio_-ph-Tommaso-Le-Pera-scaled.jpg

Un professore e un manipolo di studenti “difficili” in un quartiere di frontiera oggetto di forte immigrazione e di tensioni razziali. Gli ingredienti per far saltare il banco ci sono tutti. Siamo dentro ad una polveriera con un cerino acceso in mano, siamo di fronte ad una pentola a pressione che singhiozza e sbuffa. La scuola, e questa classe particolare, come cartina di tornasole per quello che accade fuori, le tensioni sociali tra gli ultimi, la guerriglia quotidiana tra i ceti più poveri. In questa classe i ragazzi con delle insufficienze devono seguire dei corsi di recupero per poter essere promossi; ma sono bulli e arroganti, presuntuosi e provocatori, offensivi e altezzosi, non vogliono imparare niente ma solo avere il pezzo di carta finale per poi “fare quello che voglio”. L'evocativa scena, di Alessandro Chiti, dove a lavagna e cattedra e banchi e sedie, l'idea semplice ma geniale di un pavimento costellato da distese di fogli di carta strappati dai libri, la cultura calpestata, ben si sposa e si esalta grazie alle luci, di Javier Delle Monache, cangianti come sentimenti (e le musiche a timbrare i momenti di Paolo Coletta) che intessono il dramma che monta, riflettono gli umori che guerreggiano e cozzano sul campo di battaglia dell'aula.

Un La Classe - Casadio, Monno, Frullini, Marino, Paoletti.jpggiovane professore molto volenteroso, ancora vergine del sistema e ingenuo, (Andrea Paolotti robusto, ha polso e ben si muove tra le pieghe del testo) e un preside più scafato e disilluso (Claudio Casadio sempre presente, capace con quella sua imperturbabilità candida e quell'incedere autorevole anche in mezzo ai marosi) sono la parte civile e istituzionale della scuola con la quale i ragazzi focosi si scaldano e si accapigliano. Gli studenti sono rabbiosi, hanno alle spalle storie familiari devastate, solitudine, povertà, miseria, abbandono. La scuola però è anche un'ancora di salvezza, che i ragazzi non riconoscono fino in fondo però, rispetto allo “Zoo” (a Calais c'era la “Jungle”, a quella fa riferimento la drammaturgia) uno spazio franco dove sono ammassate migliaia di immigrati irregolari. La guerra dialettica che si scatena è tra i figli dei nullatenenti, marocchini, zingari, e i nuovi poveri ancora più agguerriti ed affamati. Il professore tenta con tutte le carte che ha a disposizione ad interessare i ragazzi non tanto allo studio quanto all'ascolto, all'apprendimento, all'impegno, alla passione per il gruppo e per i progetti collettivi. Ognuno dei ragazzi è fragile e solo e azzannano soltanto perché non sanno che gusto possono avere le carezze, e aggrediscono perché non sono mai stati abbracciati e urlano perché nessuno li ha mai ascoltati, non vogliono responsabilità perché non hanno autostima e quindi hanno paura di fallire anche se non lo ammetteranno mai. Il professore riuscirà nel suo intento, immettendo il germe che con l'impegno e unendo le forze si possono raggiungere dei risultati e delle soddisfazioni, riuscendo, forse, a salvarne qualcuno mentre qualcun altro rimarrà irriducibile e sarà la strada che gli darà lezioni ben peggiori di un compito o di una interrogazione. Tra le note leggermente non così accordate, la grande consapevolezza e il lessico dei ragazzi, soprattutto nella seconda trance dello spettacolo, studenti non proprio modello ma che dimostrano proprietà di linguaggio ai limiti del forbito, e la troppa carne al fuoco immessa nell'agorà: la scuola, l'immigrazione, fino all'Olocausto e allo stupro.

“Colui che apre una porta di una scuola, chiude una prigione” (Victor Hugo).

Tommaso Chimenti 28/04/2022

Foto di scena: Federico Riva e Tommaso Le Pera

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