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CATANIA – Ci sono più linee bisettrici per poter affrontare la disamina del nuovo testo di Rosario Palazzolo. C'è il teatro nel teatro, immancabile nelle sue commedie tragiche, c'è l'en travestì cifra consolidata alla quale fornisce sempre nuove sfumature di senso, c'è il disvelamento, il ribaltamento del fake e della realtà, questa verità che si comprime, si nasconde per poi uscire ancora più esplosiva e detonante nella sua desolazione straziante. E poi i continui giochi e rimandi, chiamiamoli scatole cinesi, matrioske a celarsi: “Eppideis” (prod. Teatro Stabile di Catania; andato in scena nel nuovo Teatro Futura che presenta un cartellone di tutto rispetto con sedici interessanti titoli scelti dalla direzione avveduta di Laura Sicignano) che richiama alla memoria i “Giorni felici”, eppideis-2.jpgovviamente il riferimento è a Beckett, ma anche, semplicemente seguendo il suo filo più diretto e commercial, si rifà, almeno nel telaio e nella struttura di contenimento, a quell'“Happy Days”, serie tv U.S.A., che ha forgiato generazioni, che ha instillato una certa idea d'America, che ci ha insegnato le moto, l'amicizia, i baci, i cazzotti al juke box, la felicità. La felicità e la sua ricerca infatti stanno proprio al centro (è il perno che muove la ricerca palazzoliana) di questo progetto che vede come esecutore sentimentale un Silvio Laviano in stato di grazia, attento al carteggio sottinteso, ai non detto presenti nella drammaturgia, a tutte quelle evanescenze e tonalità che amplificano e comprimono il caleidoscopio di colori che si affacciano dentro questo dramma travestito di psichedeliche visioni leggere e fugaci, come ridere nel pianto, come le cadute nelle Comiche, come gli incidenti sottolineati dalla risate finte sghignazzanti di un pubblico virtuale che in audio spalanca le fauci, digrigna i denti e si fa beffe delle disgrazie altrui per non pensare alle proprie. E' un testo cangiante come velluto questo “Eppideis” che quando pensi di averlo capito o inquadrato ha una virata, un colpo di coda e, come toro meccanico, ti disarciona dalle considerazioni che davi per certe.

In una stanza eppideis-3.jpgattrezzata che sembra un set da fiction e dalle cromature sparate il nostro personaggio ci aspetta in scena, perché la scena, il teatro, vive prima di noi spettatori, prima che si apra il sipario, che infatti non c'è, oltre la platea che, forse, non esiste neanche. Questo è un dramma della solitudine e tutto quello che accade là sopra è avvenuto, semmai, soltanto dentro la sua testa, ed anche il pubblico non è altro che un sogno, una proiezione di questo desiderio: lasciare i panni di uomo infelice di mezza età per rinascere come Joanie, la ragazzina figlia dei Cunningham, a Milwaukee negli anni '50. Quindi cambiare genere, cambiare età, Stato, era temporale. Annientare la figura che ti si para tutti i giorni davanti allo specchio, ripulire quell'immagine che non ti rappresenta, azzerare quel volto sgraziato, sgranato e ricostruirsene un altro più vicino a quello che avresti sempre voluto avere. E' in atto una trasformazione e, spesso, per mutare si ha bisogno di cancellare, happy-days-q.jpgdi far morire una parte o tutto l'insieme che non ci appartiene, non ci soddisfa, ci affossa, ci squilibra, ci distrorce.

E poi c'è tutta la lingua di Palazzolo che in bocca ai suoi personaggi feticcio, e attori, si fa carne sgrammaticata, pratica tattile, un concentrato di onomatopeicità e fallacità lessicali che crea un tappeto originale dove si riconosce, chiaro, il disagio fatto parola, il degrado fattosi lettera, l'analfabetismo, culturale e affettivo, che si fa sintassi. E tutto è storpiato, tutto è traslato, come se visto con un obbiettivo opacizzante e nella scrittura, nella lettura del testo diventa ancora più effervescente e stimolante: Joanie è Gioni, Ricky è Ruicchi, Cindy è Sindi. Ma anche le perifrasi sono morse e smozzicate proprio perché è stata la televisione a insegnare al pubblico quella grammatica del desiderio: “sono mozionata” o “mi timidite”. Si mescolano immaginazione e una ingenuità colma di tenerezza che ci fa stringere attorno a questa figura che da omaccione, bicipiti e baffi, ha messo vestiti a fiori smanicati e parrucca, e racconta e suda, ci spiega e introduce. Come non vedere in Laviano, eppideis-4.jpgche ha tempra e carattere per dialogare costantemente con la platea scendendo tra le poltrone, testa alta e occhi negli occhi, Mrs Doubtfire, il Freddy Mercury nel videoclip di “I want to break free” o, spingendosi ben oltre, la Valentina di Crepax fino a toccare, sacrilegio, la Natalie Portman di “Closer”.

E' una bambola interrotta, rimane, nella prima come nell'ultima scena, come Pinocchio, ciocco spezzato a gambe aperte quando gli hanno tagliato i fili del burattinaio, il deus ex machina, l'autore che lo ha portato in vita dentro questa sitcom che si accende per poi togliergli la spina, si infiamma per poi scoprire la vacuità, la falsità, il trucco di fondo da smascherare. Se la vita è un inganno forse la verità sta solo nel teatro, nelle sue allucinate visioni, realtà parallela con meno dolori.

E se tutti noi fossimo sogni che qualcuno sogna, pensieri che qualcuno pensa” argomentava Fernando Pessoa. “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d'un sogno è raccolta la nostra breve vita” gli rispondeva William Shakespeare.

Tommaso Chimenti 16/11/2021

 

CATANIA – Quando il mare tempestoso, tumultuoso e irruento dalle onde che spezzano velieri (la scrittura di Rosario Palazzolo) incontra una corrente placida e calma (la grazia e la raffinatezza del duo storico Vetrano/Randisi: a proposito, Rosario_.jpgnon sarebbe l'ora, dopo cinquant'anni di carriera, di assegnargli un Premio Ubu alla Carriera?) quello che si forma sono schiuma e flutti in un incastro imprevedibile e dai colori e risvolti inaspettati. Due mondi che nascono dallo stesso ceppo antropologico, la Sicilia, che hanno le radici nelle stesse fondamenta, Palermo, ma che, per anagrafe, impostazione ed esperienze dissimili, li hanno portati su strade differenti ma non antitetiche. Palazzolo, drammaturgo (con questa “'A cirimonia” ha vinto il premio A.N.C.T.), scrittore (lo scorso anno nella cinquantina finale del Premio Strega) in questi anni ha affinato la sua penna, ha trovato nuove sporgenze, ha tagliato, affilato, appuntito le sue tematiche: l'infanzia, la frizione tra sacro e profano, questo mondo fatto di ultimi, di miseria materiale e umana, di superstiziosi. Abbiamo visto i suoi “Letizia Forever” e la trilogia “Santa Samantha”, carnali, densi, certamente non lasciano indifferenti, mettono le mani nel fango delle piccolezze umane, esaltando quel grottesco, che non si fa mai ridicolo, per espiare debolezze e grettezze dell'animo.

Vetrano-Randisi-1024x683.jpg“'A cirimonia” (prod. Biondo di Palermo e Stabile di Catania; inserito nella stagione estiva “Evasioni” al Teatro Verga, fortemente voluto dalla direttrice del Teatro Stabile di Catania Laura Sicignano; durante la sua pur breve esperienza i milioni di euro di debito accumulati dalle precedenti dirigenze risulta quasi appianato) è un testo del 2009 e non possiamo certo dire che sia “datato” però, proprio perché in queste ultime stagioni abbiamo avuto la possibilità di seguire il percorso artistico dell'autore palermitano, possiamo dire che si sente una scrittura più acerba, meno consapevole, ancora alla ricerca, ancora in divenire. Le ripetizioni, i rafforzativi e una forma ondulatoria e a vortice con le vicende che si sommano ritornando senza fine in loop a creare un mantra, per condurre ad una trance estatica dove anche le parole restano prive di senso e soltanto i gesti tornano a rievocare misteriosi processi e riti ancestrali. Di Vetrano/Randisi conosciamo la gentilezza, in senso lato che mettono dentro la scena e fuori dal palco, il rigore, la precisione nell'affrontare nuove sfide. Come questo incontro fruttuoso che è stato possibile grazie all'intuizione della giornalista e critica teatrale siciliana Filippa Ilardo che ha messo in comunicazione autore e il duo che da oltre trent'anni risiede ad Imola.

Come una filastrocca, che porta nenia ed inquietudine, assuefazione, dondolio ma anche allerta, ci fanno dolcemente entrare in questo microcosmo cupo e oscuro, all'interno di questa liturgia. Un mondo accatastato di un'oggettistica in disuso e mal funzionante (un parallelo tra le cose attorno e loro due), rifiuti non gettati, ricordi di una vita che non hanno avuto il coraggio né di buttare né di cambiare. Come in un garage (abbiamo pensato al programma tv “Sepolti in casa”), immersi nelle loro stesse cose quasi come ne “L'ultimo nastro di KrappFOTO07.jpga rievocare qualcosa di perduto per sempre cercando di rianimare un tempo andato, facendo la respirazione bocca a bocca ad eventi che ormai si sono sbriciolati e polverizzati nell'ammasso dei granelli della clessidra che ha raggiunto il fondo. Ci vuole sensibilità da vendere per rendere e riportare questo sottobosco senza scivolare nel patetismo, senza cadere irrimediabilmente nel lacrimevole o, all'opposto, nel giudizio che mette distanze. Vetrano/Randisi invece hanno il potere della catarsi da una parte e di far immedesimare la platea dentro meccanismi e vicende, dentro dinamiche lontane, arcaiche, dai suoni profondi e gutturali, spaventose e tenui allo stesso tempo di questi personaggi che in definitiva non sono altro che animali feriti e impauriti dalla vita, autoreclusi gomito a gomito con i loro attrezzi e arnesi feticcio (da sottolineare che tutti gli oggetti in scena provengono realmente dall'abitazione dei due, un altro punto di verità) in disuso, la cui visione quotidiana è consolatoria, autoemarginati da un fuori che, se c'è, ha smesso di bussare alla loro porta e del quale neanche l'eco se ne sente più. Sono nel loro buco, affetti da una sorta di barbonismo domestico, nel loro rifugio scrostato e ormai spento cercando di ricreare un'atmosfera, un sapore che si è dissolto nell'aria e che non sono più riusciti a recuperare nella memoria che ormai FOTO011.jpgscarseggia, si inceppa, frigge. Immaginatevi la ruvidezza di Scaldati mantecata con la rarefazione beckettiana in un italiano sicilianizzato onomatopeico che riluce e abbaglia. Tutt'attorno, a semicerchio, quasi fosse passato un tornado a spazzare, pezzi di una vita che ha perso i suoi contorni di veridicità diventando mitica e mistica: ombrelloni da spiaggia e cornici ma senza quadro, valige però svuotate di viaggi, una ruota senza bicicletta per poter andare, partire. Tutto ci indica una staticità che ci fa male. Uno è vestito da sposa, l'altro è cieco, uno somiglia ad Amanda Lear, l'altro a De Gregori: ma tutto è intercambiabile, labile, fluido, liquido, trasognante, onirico.

Ogni anno (ma forse ogni giorno tanta è la ciclicità del ricominciare all'infinito) mettono in scena questa cerimonia, la “festa nostra”, quasi a voler trovare il germe della felicità, quel piccolo barlume lontano e sfocato che si avvicinava ad un senso di vicinanza, di famiglia, di unione, di trasporto sentimentale. La mettono in atto per combattere una solitudine spessa che morde. E il testo non lascia passiva né tranquilla la platea, la sobilla, usa fioretto e sciabola, la prende, la sconquassa, adesso sembra che la lasci quieta per poi ripartire ed affondare i denti nella carne della materia. Al centro davanti a loro una torta, ma sembra più un pane da comunione cristiana, con infilzato un coltello: da lontano sembra un seno con un capezzolo che emerge, la madre che tutto genera, la madre che accudisce, che dà la vita e il nutrimento, la madre che è placenta sicura e liquido amniotico che protegge, tutto ciò che adesso manca ad entrambi. Come fosse una seduta spiritica o una psicoanalitica, come puntine su dischi rotti e dai solchi troppo inesorabilmente consunti, hanno sprazzi di lucidità per poi incartarsi, incepparsi, inciampare, bloccarsi alla ricerca del Paradiso perduto. “Non lo toccare, si può rompere”, dice uno all'altro. “E' già rotto”, gli risponde. “La fine del giorno sta tutta qua”, esalerebbe Pietro Savastano.

Tommaso Chimenti 28/05/2021

MILANO – E' recente la notizia di una rivalutazione e rivisitazione delle fino a poco tempo fa obsolete cassette musicali. Dopo la riesumazione dello scomparso vinile adesso è l'ora di cassette, da girare con un lapis o una penna quando il nastro fuoriusciva, e dei mangianastri. La cassetta, con i suoi tasti play o rev, è l'oggetto feticcio (come nel beckettiano “L'ultimo nastro di Krapp”), lo spartiacque e l'apriscatole di “Letizia Forever” (prod. ACTI – Teatri Indipendenti Torino, Teatrino Controverso e T22; visto al Teatro Libero di Milano all'interno della rassegna Palco Off – Storie di Sicilia, diretta da Francesca Vitale), da quattro anni in giro e oltre 120 repliche in tutta Italia (longevità sintomo di qualità, durata che significa potenza della scrittura quanto dell'interpretazione), testo a forte componente siciliana ma ampliabile ad un universo di frustrazione e disperazione comune a qualsiasi latitudine. Questa Letizia, nel suo abitino misero a pois che fanno rima con i pallini della luce stroboscopica che le zampillano intorno, parla la lingua sporca e sgrammaticata messa a punto da Rosario Palazzolo, regista, attore di teatro e al cinema (sarà nella prossima pellicola di Marco Bellocchio), scrittore di prosa, drammaturgo palermitano che ha affondato le mani e affinato questa terminologia che ha nell'onomatopeico come nell'erroneo, nel grossolano come nella sintassi sconclusionata quel che di tenerezza e ingenuità fanciullesca che accolgono, avvicinano, abbracciano.whatsapp-image-2018-03-08-at-18-33-02-1-600x336.jpeg

Dicevamo le cassette, anzi questa playlist di “genere d'amore italiano”, che fa da sottofondo ma ha anche una forte valenza drammaturgica perché accompagna e sottolinea i vari momenti di questa “intervista” che intervista poi non è. Il personaggio Letizia è un Giano bifronte, interpretato non semplicemente en travestì ma da un uomo corpulento ma anche con una grande, lunga e profonda barba. Di uomini che a teatro hanno impersonato donne ne sono pieni i palcoscenici, da Franco Scaldati a Emma Dante, da Saverio La Ruina alle Nina's Drag Queens, da Paolo Poli o Filippo Timi fino ad Annibale Ruccello ma in questo caso la vista e l'estetica cozzano e confliggono talmente tanto con il significato intrinseco di cui è portatore che, paradossalmente, Salvatore Nocera (frontman del gruppo musicale di Caltanissetta Pupi di Sùrfaro) risulta altamente credibile per la forza compressa espressa nel suo phisique du role da rugbista, per questa leggerezza mista a rassegnazione, per questa dolcezza mischiata alla speranza marcita, per quei piccoli docili gesti che ne tratteggiano l'interiorità violata e la carne percossa di privazioni.

Sulla sua sedia, che è divenuta il suo trono fragile, ogni giorno Letizia è costretta a ritornare sui passi che l'hanno condotta lì, è forzata nel ricordare i dettagli delle sue azioni, a spiegare nuovamente ciò che ha già detto (quel “forever” del titolo che magicamente ci riporta a “Mary per sempre” per assonanze linguistiche regionali e ambientali), a tirare fuori gli scheletri dall'armadio. Tutto questo le fa un male cane, le procura lacerazioni indicibili che possono essere alleviate soltanto con la musica, la colonna sonora dei “fabulosi anni '80”,Salvatore-Nocera-in-Letizia-Forever-di-Rosario-Palazzolo.jpg decade spensierata che finisce con l'ingresso nell'età adulta, prima la fuitina a Milano, poi la vita coniugale, monotona, ripetitiva, senza amore, senza passione, senza gioia, senza alcun gesto di vicinanza, indulgenza, solidarietà, costellata di silenzi, di assenze, di vuoti. E il testo è anche infarcito di piccoli segnali per una sorta di “caccia al tesoro” con il pubblico, con il quale Letizia dialoga nel suo monologo in cerca di comprensione: il suo nome è proprio il contrario di ciò che ha vissuto, l'evento scatenante che connota la sua situazione attuale è avvenuto il 9 marzo, appunto il giorno dopo l'abusata Festa della Donna, il marito si chiama Salvatore, di nome ma non di fatto visto che non è riuscito né a salvare se stesso né tanto meno Letizia dalla miseria, dalla povertà, dall'aridità di prospettive, dalla tristezza infinita che li ha assaliti e divorati, così come la strada dove hanno abitato, “via dell'ortica”, che ci ricorda fastidiosi e pungenti pruriti.

La musica è l'unica cosa che allevia le sofferenze di questa donna che mai è stata libera, passando dalle frustrazioni di una famiglia tradizionale siciliana alle castrazioni di un marito anaffettivo, la musica è il grimaldello e piede di porco che alzano la botola del dolore e scoperchiano l'abisso, aprono il Vaso di Pandora di una memoria volontariamente messa a tacere e sepolta sotto il tappeto del tempo che non può tornare indietro. Come per magia però Viola Valentino e Pupo, Gianni Togni e Franco Simone, Giuni Russo e Nada così come Alberto Camerini e Alan Sorrenti riescono a riportarla ai rari momenti di spensieratezza, quando aveva davanti tutta la vita, quando era ragazza. Il trauma ha LETIZIA-FOREVER-FOTO-PER-RECENSIONE.jpgfermato il tempo, bloccandolo e congelandolo e Letizia è rimasta sospesa, attaccata con le unghie a quelle rime facili, a quelle strofe demodé, a quegli amori impossibili, a quei sentimenti totalizzanti e strazianti. Non si può non volerle bene, non si può non restare avvinghiati a questa donna piccola davanti alle “purcherie” di un mondo a matrice maschilista che non ha saputo mantenere le attese prospettate di “Sorrisi e Canzoni” (la sua bibbia) e le promesse patinate di “Grand Hotel” (il suo romanzo di formazione).

Letizia 44516086_10218298675124528_4281776669749936128_n.jpgè la vittima di questo sistema che l'ha usata e trattata come uno straccio insignificante, che l'ha resa marginale e abbandonata, che non le ha regalato niente di bello ma solo indifferenza. Anche adesso in questi istanti dove, come cavia da laboratorio, viene fatta confessare ogni giorno (ricorda il mito di Prometeo e l'aquila che gli mangia il fegato quotidianamente), istigata e obbligata da altri maschi oppressori che la deridono, la puniscono con un'inutile rievocazione del già ammesso. Palazzolo, come Scimone e Sframeli, come Ciprì e Maresco, come Moscato, riesce a ricreare scenicamente atmosfere di spazi angusti soffocanti nei quali esplodono l'asfissia degli affetti, l'anoressia dei sentimenti, l'afasia dei rapporti umani, il soffocamento della felicità, la claustrofobia dell'essere umano ormai annientato senza futuro. Un pungo al cuore e uno allo stomaco. Senza carezze.

Tommaso Chimenti 26/01/2019

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