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REGGIO EMILIA – Sono le storie i fili che ci tengono legati, come gli aquiloni, alla terra, quel suolo che ci sarà lieve, un giorno, e che altre volte ci fa sentire pesanti, al netto della forza di gravità. Sono le parole che ci fanno uomini, ci rendono passaggi fondamentali di sapere e portatori sani di sapienza, trasmettitori di memoria, connettori di sguardi. E questo lo ha capito bene “Reggionarra” in un susseguirsi di tre giorni dove la città del Tricolore ribolle di piccole grandi, semplici e genuine, mai naif, iniziative che hanno al centro due capisaldi: l'uomo e le sue narrazioni. Che cosa siamo in definitiva senza la parola, quella stessa che si fa essere incarnazione di valori e parabole, leggende e fiabe, arcani e nostalgie ma anche di insegnamenti e conoscenza. C'è chi racconta, mai spiegI lettini delle storie (4).jpga pedantemente, ma c'è, e ci deve essere, chi ascolta in uno scambio continuo, in osmosi, di pensiero e attesa, agognando il passaggio successivo. Le parole, quelle buone che non danno soluzioni precostituite e preconfigurate, ma quelle che scardinano, che spostano, che spingono un po' più in là, che aiutano, che sostengono, che fanno riflettere, che aprono porte e finestre, che mai chiudono, parole che accolgono e includono, che abbracciano e scaldano, che riempiono, che pongono domande, pungolano. Feticcio e iconografia per le storie è quel “C'era una volta” candido da nonna e lenzuolo, quel rimboccare le coperte verso l'età adulta per insegnare non che i draghi non esistono ma che i draghi, quotidianamente, grandi o piccoli che siano, si possono sconfiggere, con la tenacia, la coerenza, la costanza. Il drago è la nostra paura e si può battere soltanto affrontandolo: la fiaba è il primo passo verso la consapevolezza di quel bambino che un giorno sarà adulto. O forse gli adulti non smettono mai di essere bambini.

Da questo “sogno” nasce l'ideazione curata, sempre con attenzione e delicatezza, dal Teatro dell'Orsa (i reggiani Bernardino Bonzani e Monica Morini), i leggeri ed eterei, trasognanti come pan di zucchero e spirituali come lievito, “Lettini delle storie”. Si entra nel loro mondo incantato, in punta di piedi, silenziosi, rispettosi, nel loro immaginario fiabesco, religiosamente laico e profano, che, in un attimo, ti riporta indietro nel tempo quando la nonna o la mamma ti raccontavano una favola, forse sempre la stessa e che volevi ascoltare, per consolidarla, per consuetudine ma anche in maniera consolatoria, ogni sera per provare il piacere della paura e il timore che potesse cambiare il finale. I lettini sanno sempre un po' Monica Morini e Bernardino Bonzani.JPGdi Freud e psicanalisi, di racconto intimo e parole personali, incantate e chiuse in una parentesi, un dialogo profondo tra il narratore e l'ascoltatore. All'interno dell'inquietante Galleria Parmeggiani, tra bauli e armature, vasi e lance da collezionisti che rimbalzano nelle epoche e nei secoli, dove la Storia la senti presente, pressante e pesante, ecco gli angeli in bianco (i tanti giovani narratori che arrivano per l'occasione da tutta Italia formati dall'Orsa e da Antonietta Talamonti), cadaverico o celestiale, che ti conducono per mano, con leggerezza infinita e sfioramenti che abbattono la quarta parete, alla tua postazione, al tuo incontro uno ad uno, occhi negli occhi. E' un rito con le sue formule e i suoi dogmi: ti devi lasciare andare. Si ritorna indietro nel tempo, a ritroso, piacevolmente, ci si lascia cullare, coccolare accoccolati tra queste parole soffuse e lievi che incantano dolci, che scendono quasi a coprire le palpebre o le lacrime.Monica Morini e Bernardino Bonzani (2).JPG

Importante e fondamentale è l'incrocio degli occhi, saldo che non si abbassa mai, e il tatto e contatto, le mani, le dita, i polpastrelli, nei piccoli gesti che fanno casa e rifugio, salvezza e famiglia, forse placenta e posizione fetale, sicuramente riparo. Qui non può succedenti niente, sei al sicuro. Il tuo lettino, vicino ma non troppo ad altri lettini, è lì che ti aspetta. Ti devi togliere le scarpe, lasciare la tua anagrafe fuori da quelle lenzuola immacolate di latte, abbandonare la tua biografia e fare un salto carpiato al te bambino, quello che voleva succhiare ogni parola distillata per rincuorarsi, rinfrancarsi, crescere faticosamente un po' di più ogni sera. Le parole cadono come fiocchi di neve, il tono è basso, tutto è confortevole sdraiati sotto la zanzariera del lettuccio a baldacchino: la coperta è bianca, il cuscino è bianco, l'abito leggero della vestale è bianco. Sei invaso dall'abbacinante bagliore di tutta questa purezza che cozza con la penombra intorno, quella Storia che, attraverso gli oggetti in esposizione tra teche e vetrine, esprime guerra e sangue, battaglie e morte.

I lettini delle storie.jpgHanno costruito un piccolo universo fragile fatto di carezze e sorrisi, di lievità, friabile e amorevole. Sei immerso, per mezz'ora, in un sogno fanciullo e puro, in un'aurea sospesa: è una fortuna esserci. E senti la tua storia (“La Bella e la bestia” uguale per tutti) e ne percepisci pezzi e parti che arrivano e provengono dai lettini vicini, come echi precedenti, il passato che ci accomuna, come riverberi di ciò che stiamo per vivere, il futuro che ci attende. E' una lezione da imparare la gentilezza, la calma, la pazienza, una lezione mai da dimenticare, sempre da alimentare, sempre da foraggiare non tanto a parole quanto con l'esempio. Il Teatro dell'Orsa, come la sua stella di riferimento, indica la strada maestra, la luce da seguire per non perdersi, senza forzature, senza pressioni: la dolcezza dell'incanto, la grazia del sussurro possono salvare il mondo.

Tommaso Chimenti 21/05/2018

REGGIO EMILIA – Tre cosine interessanti, al di là della formula della Relatività, abusata, le ha pur dette Albert Einstein: una era quella di Dio e dei dadi, ma il gioco d'azzardo non fa per noi, la seconda, fuochino fuochino, è quella del calabrone che non dovrebbe volare perché troppo panciuto e le sue ali così piccole e deboli; la terza è quella che ci interessa e che cade come il parmigiano sui tortelli verdi (dopotutto siamo in terra emiliana): “Quando le api scompariranno dalla faccia della terra, agli uomini non resteranno che pochi anni di vita”. Siamo legati a doppio filo a questi piccoli insetti laboriosi, simbolo dell'alacrità e dell'operosità, ma anche di quel sentimento che mette davanti all'individualismo e al personalismo il concetto di collettività. Come a dire, se estrapoliamo e riportiamo l'esempio all'umanità, che l'uomo terminerà la sua corsa sul binario morto dell'esistenza quando finiranno le storie, il passaggio orale, il racconto, la parola, le leggende, la fiaba, la comunicazione fatta di frasi e sillabe e occhi che brillano ad articolarle ed altri che s'illuminano ad ascoltarle. “Noi siamo le api dell’Universo. Raccogliamo senza sosta il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile” (Rainer Maria Rilke).1alv
L'Alveare delle Storie”, ideato dai tipi del Teatro dell'Orsa (gli instancabili Monica Morini e Bernardino Bonzani), costruttori e inventori di “Reggionarra” (per dieci giorni Reggio Emilia diventa la città per eccellenza dell'affabulazione e dei canta e cuntastorie) è un gioco semplice, un impianto lineare, un impatto artistico che miscela un grande teatro all'italiana (in questo caso il Valli) infarcendolo di piccoli gruppi che si annidano, scavano e scovano, sgattaiolano alla ricerca, palchetto dopo palchetto, dei loro narratori ai quali sono stati assegnati. Come carbonari. Un format che potrebbe essere ripreso (il successo è assicurato) in ogni città o comune; entrare nella pancia di un teatro vuoto, nella sua penombra pensosa mentre, si crede, che non sia in scena e in atto uno spettacolo, o almeno non nella versione classica, nella divisione platea-palcoscenico. “L’uomo non è destinato a far parte di un gregge come un animale domestico, ma di un alveare come le api” (Emmanuel Kant).
Si entra in un mondo altro, in una dimensione parallela dove i suoni sono ovattati e le parole hanno un'anima, un sentire, anche un odore e un profumo, una cantilena e una musicalità, una nenia e un'armonia di fondo ci guidano. Trentacinque angeli bianchi, colombi o fantasmi, spiriti o accompagnatori incorporei aleggiano tra gli stucchi dorati e i velluti rossi, i lampadari accesi con la luce bassa, i chiaroscuri che producono ombre magiche o terribilmente paurose. Delle domande vengono gettate nell'agorà; sono interrogativi esistenziali che vanno a scardinare la quarta parete dell'attore e del pubblico. Qui stiamo a contatto di gomiti e ginocchia. Te le dicono piano, passando, senza soffermarsi, quasi fosse una casualità, una fortuita coincidenza (e in questo il play somiglia alle architetture sceniche di Enrique Vargas e del suo Teatros de los Sentidos): 2alvQuante scarpe hai consumato per arrivare fin qua?”, sussurrano lasciando le porte della percezione aperte, quasi spalancate, “Ti fidi della tua storia?”, mormorano ponendoti davanti ad un bilancio, ad un bivio interiore. Siamo nelle mani di tanti Virgilio candidi, di altrettanti Cicerone immacolati e lattei. Ci affidiamo. Le voci di questi guerrieri di pace sono soffuse, leggere, si appoggiano fresche. Potrebbero essere vestali dai passi teneri e soffici come pazienti manicomiali nei loro canti a formare una patina densa, una cappa che spalma e plasma, attorniati dalle loro campanelle come imbonitori o domatori di serpenti, pifferai magici. “Sono una piccola ape furibonda” (Alda Merini).
Una ventina di palchetti sono illuminati al chiarore di un faro fioco, quasi lampara in mezzo al mare. Ovviamente i pesci, con la bocca aperta, siamo noi. Come su una zattera in mezzo a questo mare placido, navighiamo a vista. Se gettiamo l'occhio oltre il nostro porto sicuro, affacciandoci vediamo altre luci fiammeggiare da altri palchi, altre voci che raccontano altre fiabe millenarie, altre api che tessono storie, altre api che hanno assolutamente bisogno di quelle stesse parole che parlano di principesse e incantesimi, di Mito e profezie. È un cicaleggio continuo (la drammaturgia sonora è a cura di Antonella Talamonti), un chiacchiericcio come tappeto sonoro, a volte una parola rimbomba, si sentono rime in questo formicaio. Siamo Hansel e Gretel dentro la casa della strega, siamo Jona dentro la balena, siamo Pinocchio dentro il pescecane: felicemente indifesi. Ogni palco è una sospensione temporale, una parentesi dove aedi cerei e spirituali snocciolano storie come fossero piselli sgranati, le sbucciano come fave fresche, le pelano come patate spugnose. Queste voci calde e corroboranti ti entrano dentro, sbattono nelle orecchie, ciottolano sotto lo sterno. Suoni ed emozioni. Storie di vita e di3alv morte. Gentilezza e memoria. Saggezza e pazienza, rispetto e attesa. Scintillanti come piccoli fuochi in loop. Tra le ombre si racconta di sogni e di forza di volontà. Siamo dentro un grande carillon tra questi gironi celestiali, ci aggiriamo tra questi budelli, in questo intestino che ci dona intimità e profondità. Siamo talpe a scavare fino al cuore della terra, fin dentro le viscere del discorso immateriale e immortale che ha intrapreso l'Uomo fin dai suoi primi bagliori e barlumi. “Vola come una farfalla, pungi come un'ape” (Muhammad Alì).
4alvNe usciamo, sputati come l'omonimo protagonista di “Essere John Malkovich”, con alcuni grandi e semplici insegnamenti: quello di guardare con estrema curiosità dietro le cose e le persone, il non fermarsi alla prima occhiata o alla prima impressione, il cercare strade non battute, l'aspirare ad altri punti di vista. Dai palchetti muoviamo la nostra transumanza al palco in un serpeggiare; adesso guardiamo l'alveare illuminato con altre storie che prendono possesso, che scivolano dalle bocche, che s'intrufolano in altre orecchie. Sentiamo stralci delle favole che abbiamo sentito. In questo ribaltamento, nel vedere nel buio quelli che eravamo e che siamo stati fino a pochi minuti prima, ci viene in soccorso un'altalena che pende vuota, la fanciullezza, la spensieratezza, l'infanzia quando anche i sogni sono reali, ma anche lo slancio e il dondolarsi, il guardarsi ora i piedi e la terra, il vedere adesso il cielo sopra di noi. L'altalena è un ponte, un arco per fare un salto da ciò che eravamo a ciò che vogliamo essere. L'“Alveare” è il bisbiglio della placenta della mamma, è la poesia di una carezza di mani familiari, è il fiore che nasce in uno sguardo profondo. Ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne sogni la tua filosofia. Parole sante. Parole come miele. “C’è un'ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va...Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa” (Trilussa, “Felicità”).

Tommaso Chimenti 21/05/2017

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