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Domenica, 02 Maggio 2021 16:55

"Grounded": nel blu dipinto di grigio

GENOVA – 2021 anno molto importante per il Teatro Nazionale, a 70 anni dalla sua fondazione, e per Genova, a 20 da quel famigerato e mai scordato G8. Potremmo dire: “2021 Odissea nello Spazio”, visione che ci suggerisce l'imponente, mastodontica ed elettrizzante struttura che sorregge “Grounded”, spingendo in orbita le profonde analisi che il testo di George Brant instilla, nella regia illuminata e concreta di Davide Livermore e sostenuta dalla celestiale interpretazione, pungente e coriacea, di Linda Gennari. E' uno spettacolo dal respiro internazionale, dal gusto e sapore che travalica i nostri magri confini; la senti, la percepisci la grancassa che si gonfia, l'importanza nella sua semplicità: una grande attrice, piccola nei confronti della macchineria che la sovrasta e schiaccia, che invece riesce a domarla, a tenerla a bada, a prenderne le redini, a danzarci sopra come l'Avatar sul suo drago, come Amazzone al galoppo, come Aladino sul suo tappeto volante. E' questo incrocio e ossimoro di dimensioni che crea squilibrio e frizione, energia, elettricità; sembra che da un momento all'altro le due piattaforme, il pavimento e un cielo posticcio da Presepe, contornate da neon che la rDavide Livermore Ph. Eugenio Pini.jpgendono vicina ad astronavi uscite da “Incontri ravvicinati del Terzo tipo” o “X Files”, possano comprimere e strizzare questa figura sottile e verticale, una Linda Gennari in stato di grazia e in formissima, in un monologo (1h45' senza togliere il piede dall'acceleratore) intenso, vibrante, tambureggiante come una poesia futurista, una Giovanna d'Arco furente e pasionaria che sprigiona una forza, una concentrazione, e dona un magma di sensazioni e un ventaglio di sentimenti con cambi di registro repentini, dalla dolcezza di mamma all'essere un carrarmato, uno schiacciasassi, una macchina da guerra.

Freddo e caldo insieme, schiaffo e carezza spostano il pubblico, lo fanno oscillare, tenuto sul filo come burattino, sospeso come lo è la protagonista su questo trapezio sorretto da cavi, ondeggiante come transatlantico tra le onde, ora in salita, adesso in discesa come un Tagadà al Luna Park di vetri e plexiglas trasparenti, di tubi e acciaio da Titanic, come un'anatomia di un'ascensore (per l'Inferno). Infatti questa continua salita e discesa, desiderando, raccontando, agognando il blu da parte di questa Top Gun al femminile sprezzante del pericolo, anzi gaudente dell'adrenalina che il volo su obiettivi da bombardare possa regalarle, è, paradossalmente, l'infilarsi nel buco nero dell'esistenza, alla ricerca del senso perduto, quel blu che era vita e sogno diventa incubo e labirinto dentro le pieghe del mondo terreno che le cambia attorno e la trasforma nonostante tutte le sue resistenze. Una pilota, abituata ed addestrata a rischiare la vita per dare la morte ai nemici, si trova “costretta” dalle circostanze della vita ad essere “Grounded”, la peggior offesa e incubo per uno che solca le nuvole: atterrato, appiedato, fermo, statico, con i piedi per terra, parcheggiato. Non più il blu ma il grigio terra dove tutto è piatto e sano e sicuro. Ed è proprio quella salvezza, quella stabilità, che la svuota, la spolpa, la prosciuga. Da bombardatrice dei cieli, sposandosi e diventando mamma, il suo ruolo cambia; adesso starà a terra, guidando un drone da milioni di dollari, e ucciderà i “cattivi” a distanza di migliaia di chilometri, in tutta sicurezza, come se fosse davanti ad un videogioco, senza enfasi, nessun pathos, zero guerriglia. Un lavoro sedentario, da ragioniere, poltrona e joystick.

Linda GennariGrounded_3 ph Federico Pitto.jpg è slanciata, elegante, una fiamma (nell'accezione dantesca di anima) che sale nel blu marino, è decisa e dolce, combattuta tra una fragilità che la sbriciola e l'essere Joe Temerario, “faccio mille acrobazie col mio aeroplano e diecimila volte ho già toccato il cielo, perché come un falco io arrivo a tremila metri e poi mi butto giù in picchiata, ma che emozione ogni volta sfidare la vita rotolando nel cielo sopra il mio aeroplano”. La sensazione della velocità è irrefrenabile a confronto con la scrivania, a combattere nella sua lotta interiore dove è proprio lei a rimanere dilaniata come morsa da cani inferociti, da Cerberi famelici che le strappano le carni in questo dilemma intestino che le ha dato quella serenità che la sta facendo sfiorire, sformare, sfilacciare. Chiusa e stretta tra la voglia di andare e quella di restare. E' proprio questo scollamento tra l'andare a bombardare in poltrona tornando sana e salva ogni sera a casa, come se Ulisse avesse timbrato il cartellino e ogni notte avesse dormito accanto a Penelope, che la turba profondamente non riuscendo ad essere contemporaneamente una borghese che fa la spesa e gioca con la figlia e dopo poche ore distrugge minareti e lancia razzi in mezzo al deserto annientando corpi dei quali vede soltanto il calore attraverso i suoi strumenti di precisione che tutto sentono e analizzano.Grounded_2 ph Federico Pitto.jpg

La Gennari è dolente e rabbiosa, dividendosi tra i chiaroscuri e il senso di colpa, è affascinante e accattivante come un serpente, come una mantide religiosa, come uno scorpione che ti attira a sé, compressa tra deliri di onnipotenza e friabilità e incertezza estreme. Ma "Grounded" è anche una critica al lavoro esternalizzato degli ultimi decenni, al lavoro tolto all'uomo e dato alle macchine che avrebbero dovuto aiutare l'uomo e non sostituirlo. Se volessimo forzare la mano alla drammaturgia potremmo anche avventurarci in un parallelo tra il teatro in presenza e il volo e tra lo streaming e il drone.

Tommaso Chimenti 02/05/2021

Ph: Federico Pitto

CHIANCIANO – “Prima viene lo stomaco, poi viene la morale” (Bertolt Brecht).

La compagnia LST in questi venti anni ha spacciato la sua droga culturale, ha immesso il suo sguardo stupefacente su Toscana e dintorni. Il suo regista, e anima, Manfredi Rutelli, ha collaborato in questi anni con le sue regie al Festival Orizzonti di Chiusi, alla creazione del festival FermentinFesta dedicato alla formazione attoriale e alla direzione del Teatro degli Astrusi entrambi a Montalcino, alle ultime rappresentazioni del Teatro Povero a Monticchiello, e nella direzione del Teatro Caos di Chianciano. E quest'estate si è allargherà fino a San Miniato dove, con Simone Cristicchi in scena, daranno vita al “Paradiso” al Dramma eRnzg3CQ.jpegPopolare. LST dicevamo, Laboratorio Stabile Teatro, è una compagnia teatrale, di quelle che, con sforzo e caparbietà, battono la provincia, i piccoli teatri, quell'off che è linfa. E' la provincia che fa l'Italia, è la provincia che ha più bisogno di idee, di freschezza, di ventate di nuovo, sono i teatrini sperduti che formano questo tessuto, questa ragnatela di rapporti, i cosiddetti “presidi culturali” portati avanti con testardaggine e cocciutaggine da questi gruppi che sfornano attori convincenti, testi contemporanei e portano un po' di luce dove altrimenti arriverebbero soltanto le urla della televisione.

Sempre a cura dell'LST, nei mesi scorsi avevamo assistito a “La Stazione” di Umberto Marino, stavolta hanno messo in scena “Il dio del massacro” di Yasmina Reza, testo portato in tournée nei grandi teatri qualche stagione fa, nella versione con quattro nostrani assi attoriali: Alessio Boni, Anna Bonaiuto, Michela Cescon, Silvio Orlando. Roman Polanski ne aveva tratto il suo affresco cinematografico, spostando la vicenda dalla Francia agli USA, dal titolo “Carnage” con calibri come Jodie Foster e Kate Winslet. Insomma, ce n'erano di punti di riferimento da eludere, di trappole da evitare, di copie da cercare di scongiurare.

Il parco attori a disposizione di Rutelli ha feeling, tempi, buon ritmo e soprattutto amalgama e complicità che, in testi come questo, sono essenziali e in ogni dinamica e scontro si percepisce la velocità d'esecuzione, la cadenza, la cura, le giuste sospensioni, le attese, gli slanci, soprattutto jJJr2uTA.jpegle battute con intenzione; è tutta questa polvere di stelle, tutto questo ammasso invisibile di cose che stazionano shakespearianamente tra cielo e terra che sul palco si animano e danno impulso alla vita in scena che si alimenta dei suoi protagonisti che, come detto, non deludono anzi sono frizzanti, in parte, mai sopra le righe, mai esondanti, sempre nel rispetto del testo e mai cercando di prevaricare il compagno per il fine ultimo dell'ego personale.

Nella conversazione ci si astenga da osservazioni intese a correggere: poiché offendere la gente è facile, migliorarla difficile, se non impossibile” (Arthur Schopenhauer). “Il dio del massacro” (visto in una prova per pochi intimi al Caos) in questione è tutto un gioco sottile di incastri, di cambi repentini d'umore, di scivolamenti, e scivolate a piedi uniti, in bassezze come di grandi discorsi filosofici ad avallare ora l'una ora l'altra tesi; quindi i tempi sono tutto, diventano vitali ed energetici, danno corpo e sostanza alla parola. Teatro appunto di parola questo che vede due coppie di genitori affrontarsi, in un interno borghese, dapprima civilmente, dopo che il figlio di una coppia, identifichiamola come “manageriale”, ha picchiato il figlio della coppia chiamiamola “di sinistra”. Escono fuori rapidamente, dopo situazioni di stallo e finta educazione posticcia messa sul piatto della civile convivenza e parvenza, tutte le differenze di visione del mondo, di status, difendendo ognuno il proprio figlio e quindi, di riflesso, se stessi e le proprie scelte e convinzioni. I figli sono un pretesto, un paravento dietro ai quali nascondersi, quando fa comodo, o esaltarli quando conviene al cognome e al casato.

Tanti cubi smontabili, componibili, spostabili e sovrapponibili (le nostre aree di comfort zone a compartimenti stagni che, per opportunità, possono essere divisi, segmentati o uniti a seconda delle situazioni nelle quali ci troviamo a doverci destreggiare) al cui interno oggetti entrano ed escono, vengono parcheggiati o immessi nella scena come conigli usciti dal cilindro. Cubi bianchi mentre tutti gli altri oggetti che ruotano attorno a questa commedia dark-noir (che parla a tutti noi perché demolisce la nostra società e il politicamente corretto che tanto va di moda rendendoci piatti e scialbi) sono rossi, di un rosso acceso, rosso peccato, rosso sangue, rosso scontro, rosso violento: il telefono, il catino, i tovaglioli, il phon, i fiori, i libri, i piatti, i bicchieri, le ciotole, il cardigan, il lampadario, le unghie, il liquore che stanno bevendo. E' un contrasto cromatico che ci accompagna dall'inizio alla fine mentre sale la tensione, mentre i decibel schizzano, mentre l'atmosfera si surriscalda e diviene bollente e urticante.

Enrica Zampetti (energica, soprattutto nel finale) e Alessandro Waldergan sono la coppia più agiata, soprattutto il secondo (fisicamente, e per timidezza e garbo e gentilezza e postura, ci ha ricordato lo scrittore Fabio Genovesi), che abbiamo apprezzato in svariate versioni, è sempre lucido, pungente, centrato nei cambi di registro, ha tatto e precisione nelle battute come è ficcante nelle punzecchiNgY4pkTA.jpegature mantenendo concentrazione senza perdere mai di vista il fine ultimo del teatro: il racconto, il passaggio, la storia, il personaggio come ingranaggio. Mihaela Stoica (molto attiva e presente, dà il cambio di passo ai vari momenti, è il la, la spinta, l'incipit della valanga) e Gianni Poliziani (tiene il polso della situazione, è il metronomo, dirige dall'interno le operazioni) sono invece la coppia più riflessiva che però mostrerà, messi in discussione e sotto pressione, il loro lato oscuro e isterico. Un gong, come sul ring, chiude le scene e apre immediatamente al cambio di climax: le coppie si confrontano e adesso sono schierate l'una contro l'altra ma i ruoli si invertono e gli aggressori diventano aggrediti, i boia declinano nelle vittime, i carnefici ribaltati nei sacrificati, oppure la solidarietà maschile cementa gli uomini come quella femminile unisce le due signore contro le idee dei due coniugi, le alleanze si consolidano così come le coalizioni si sfasciano. I piani si ribaltano velocemente e le fazioni si creano come precipitosamente si sfaldano, basta una parola o un silenzio per far scattare qualcuno o allontanare un, fino a quel momento, sodale. Le frivolezze e le buone maniere lasciano il posto alle accuse e un salotto compunto diviene terreno di scontro e battaglia, agorà dove far rispettare le proprie usanze, dove gli altri non sono solo avversari ma anche nemici, dove mors tua vita mea diventa motto da urlare sul campo di Marte.

Anche chi è largo di vedute e progressista presto scende dal piedistallo delle sovrastrutture dell'educazione e delle buone maniere per atterrare volentieri sul terreno scivoloso della violenza, della minaccia, della forza. Si vogliono dare lezioni a vicenda, i toni si alzano e l'inciviltà prende il posto della compostezza. Gli uni sottolineano agli altri le mancanze dei loro figli e quindi della loro famiglia che viene continuamente messa in discussione. r3cFdy2w.jpegI “pacifici”, sulla carta, diventano così provocatori, gli “aggressivi” rintuzzano e colpiscono in contropiede, si puniscono miscelando finta moderazione e calma apparente con crisi nervose e attacchi impulsivi all'arma bianca, insinuazioni e scuse, prediche e offese, colpe e sfide in un'altalena di sensazioni e sentimenti che chiedono alla platea, continuamente, di posizionarsi e schierarsi adesso con l'una ora con l'altra coppia. Un testo che ti tira per la giacca, ti smuove e ti scuote perché parla del nostro Occidente imploso, del nostro voler regolamentare anche la violenza dentro “canoni accettabili”, di voler legiferare ogni aspetto della vita rendendola noiosa, paludata, fangosa e soprattutto falsa e pesante. Diventano cinici, cattivi, corrosivi: in definitiva sono/siamo criceti dentro la nostra ruota a correre a perdifiato per non pensare, intenti a non renderci conto, dolo(ro)samente, la reale forma della nostra condizione, animali all'ingrasso che devono bruciare energie e aggressività altrimenti si estinguerebbero.

Il fatto che l’uomo sappia distinguere il giusto dallo sbagliato prova la sua superiorità intellettuale sulle altre creature; ma il fatto che egli possa agire in modo sbagliato prova la sua inferiorità morale rispetto a qualsiasi creatura che non può farlo” (Mark Twain).

Tommaso Chimenti 17/04/2021 

GENOVA – Avete mai provato ad iscrivervi a quei siti che propongono di trovarvi velocemente un lavoro? Ecco, non sono altro che contenitori per raggranellare indirizzi mail di persone che effettivamente stanno, disperatamente, cercando un'occupazione e che verranno, da allora in poi, subissate di mail di corsi di formazione (a pagamento, ovviamente), di master, di diplomi online utilissimi per riuscire finalmente a trovare l'impiego giusto per te. La sensazione è quella del parcheggio, del limbo, della sala d'attesa mentre l'obbiettivo si sposta sempre più fino a smaterializzarsi, a diventare nebuloso e, dopo alcuni anni, chiedersi che cosa stavo cercando e, non trovando risposta, smettere di cercarlo. In Italia il tasso di disoccupazione è quasi al 10%, mentre quello giovanile (15-24 anni) sfiora il 30%. E questi dati nel Sud Italia aumentano vertiginosamente. Un Paese basato sui bar e sulle pizzerie altro che cultura, sul lavoro nero altro che la dieta mediterranea e il Patrimonio Unesco.Il mercato della carne 12_ph Federico Pitto.jpg

Diminuiscono sempre più le persone che cercano un lavoro, rassegnandosi, e andando ad ingolfare la categoria degli “inattivi” ovvero chi non studia, non lavora e nemmeno cerca più un lavoro. Mettiamoci la crisi degli anni 2000, il Job Act, il Covid e il fatto che le aziende vogliono soltanto stagisti inesperti da formare, con sgravi fiscali annessi, e che una volta formati vengono “liberati” sul mercato e rimpiazzati con nuovi ragazzi a stipendio da apprendista. Siamo in troppi e troppo scolarizzati. Anche l'università è diventata un grande parcheggio dove sostare dopo le superiori per altri cinque anni minimo in attesa che qualcosa si sblocchi e alla fine di quel corso-periodo di studio ti accorgi che da una parte sei più consapevole e quindi, dall'altra, ancora più infelice. Anche perché ti stai affacciando sul mercato del lavoro ad un'età compresa tra i 25 e i 30: il mutuo non te lo darà nessuno, la pensione scordatela, vivi ancora con i tuoi perché un affitto è difficile da pagare soprattutto in una grande città. E intanto su Instagram vedi soltanto fotografie di aerei privati, piscine e luoghi da sogno che non potrai mai raggiungere. E' il post capitalismo, bellezza.

E' di Il mercato della carne 21_ph Federico Pitto.jpgquesta grande bolla-farsa generazionale che parla l'autore Bruno Fornasari (codirettore insieme a Tommaso Amadio del Teatro dei Filodrammatici milanese) nel suo testo “Il mercato della carne” dove i ragazzi, le persone non sono nemmeno numeri ma oggetti da spostare, sostituire, neanche vendere ma illudere giorno dopo giorno di un nuovo step da inseguire, di un nuovo piccolo traguardo da conseguire per essere più appetibili nei confronti del famigerato mondo del lavoro che chiede esperienza senza averti mai messo nelle condizioni di poterla fare, che chiede che tu sappia le lingue straniere, meglio se cinese o russo o arabo, che ti chiede di essere sempre al top quando mancano le basi, l'abc della sopravvivenza. Non si parla di felicità ma proprio di sussistenza. E questa drammaturgia, messa in scena qualche anno fa all'interno del laboratorio di recitazione Oltrarno del Teatro della Pergola, scuola di formazione del mestiere dell'attore diretta da Pierfrancesco Favino, dove Fornasari era docente, e stavolta portata sul palcoscenico dal Teatro Nazionale di Genova con gli allievi appena diplomati, crea un immaginario purgatoriale dove l'attesa snervante sposta di ora in ora, di giorno in giorno, di mese in mese non tanto l'impiego agognato ma quanto la possibilità, preceduta da test complicatissimi, di poter accedere quanto meno ad un misero e basilare colloquio. Quindi si lotta e si fatica, ci si scervella e ci si contorce non per il successo, non per il goal ma per avere soltanto la possibilità di poter essere ascoltati e messi alla prova.Il mercato della carne 49_ph Federico Pitto.jpg

Questo “Mercato della carne”, nel contingente reale, racconta anche di molto altro: i ragazzi in scena si sono diplomati lo scorso febbraio e pensavano di entrare nel mondo del lavoro attoriale dalla porta principale, invece il Covid ha annullato prima le repliche già fissate per maggio '20 e saltate per il primo lockdown al quale è seguita un'apertura dei teatri e dunque procrastinate a novembre ma a quel punto era intervenuta la seconda quarantena a zone colorate e infine nuovamente cancellate. A metà aprile, in una prova aperta a pochissimi operatori, è andato finalmente in scena, quasi un parto, un respiro, un cerchio che si chiude, una boccata d'ossigeno, la degna conclusione di un percorso triennale che senza questo approdo sarebbe rimasto zoppo, infelice, monco. Questo spettacolo è un segno di rinascita, di ritorno, di speranza, di domani. E proprio in questi giorni la scuola del TN di Genova festeggia il ritorno degli allievi in presenza. Stop allo streaming, stop alla dad, l'attore si fa guardandosi, toccandosi, sudore e carne.

La carne di questo distopico (neanche poi tanto) scritto che confeziona una decina di figure lontanissime (che compongono tutto lo spettro dei caratteri) tra di loro in uno spazio claustrofobico carico di tensione, aspettative, illusioni e conseguenti forti e acre disillusioni. Come se facessi una maratona e alla fine ti aggiungessero sempre nuovi chilometri, il miraggio della ricompensa che sfiorisce, tu che sei sempre più stanco, più depresso, meno motivato, svuotato e senza forze mentre il Mercato ti chiede sempre di stare sull'attenti, sempre pronto perché eventualmente, forse, non si sa mai che la ruota giri. E, nella penuria dei posti di lavoro, vincono le raccomandazioni (e anche l'alibi delle raccomandazioni altrui), le conoscenze, le amicizie, le promesse, i cognomi. Che tutti gli altri si scozzino in questa agorà senza dignità, tutti a cercare un posto al Sole quando tutti i lettini da abbronzatura sono stati occupati e per te non c'è più posto se non nella fredda ombra.

La regia di Simone Toni, al quale è stato appena conferito il “Premio Ivo Chiesa” proprio da parte del Teatro Nazionale di Genova (e attore per Ronconi, Castellucci e Lavia) costringe questi ragazzi in una sorta di scantinato dalle pareti a scomparsa, quasi boudoir, o separè da casa giapponese, che chiudono, limitano, soffocano. In alto campeggia la scritta “La città dei mestieri” che sembra uno di quei tanti slogan ministeriali che sono efficaci soltanto a parole ma che nei fatti si sbriciolano davanti alla dura realtà, al muro solido della mancanza di prospettive. Pare di essere dentro Pinocchio con i giovani, che non cercano neanche più il Paese dei Balocchi disfatti da alcool e droghe, che sostano, che aspettano il loro momento, il loro treno che mai passerà. Sembra di vedere quasi le folle oceaniche di migliaia di persone che si accalcano per avere una chance in un Reality pur avendo la netta sensazione di non essere all'altezza, di non sapere quale profilo stanno cercando, di parteciparvi per mancanza di alternative.

La crisi è permanente e qui in scena la puoi palpare con mano, nelle parole, nei discorsi, negli atteggiamenti, nelle posture, tutto non ha più ormai alcun senso, la vita, la morte, il sesso, il domani, la scala valoriale ha smesso di avere una logica. Ma tra il Mercato della Carne, i ragazzi cestinati nello sgabuzzino, e il lavoro ci sono sempre intermediari senza scrupoli che se ne approfittano, che si ingozzano e s'ingrassano sul desiderio di molti di uscire da quella condizione. E il gioco, al massacro, è tutto tra questi dieci nuovi schiavi e il caporale con marcato accento del Sud, tra i dieci laureati e un ignorante, maleducato, rozzo, grezzo che dispone dei loro destini facendosi pagare per dare loro la falsa illusione di un probabile, futuribile colloquio con i cinesi, i nuovi padroni. Incontro che, come accade con i miraggi, mai si potrà toccare con mano ma che sempre si sposterà un po' più in avanti, come oasi nel deserto.

C'è Il mercato della carne 60_ph Federico Pitto.jpgquella che guarda sempre il telefonino, chi dormicchia ubriaco ma quando si sveglia ragiona di genocidi e politiche economiche complesse, chi ascolta conferenze sul clima, chi è timido e introverso come Woody Allen, chi estroso e dinamico come Damiano il cantante dei Maneskin (Michele De Paola tiene botta), chi è depressa e, forse per questo, si è rifatta il seno, l'attore innamorato del “Gabbiano” cechoviano, l'uomo che esce dalla spazzatura saggio angelico con il suo palloncino come uno Smile inebetito e fuori luogo, il kapò appunto e la sua geisha. Sono rabbiosi ma anche senza forze. Potrebbero essere clandestini ad un qualsiasi confine in attesa del lasciapassare che oggi non arriverà e neanche domani e forse, vedremo un giorno, e intanto invecchi, appassisci e forse, in un futuro prossimo ti daranno quel foglio non saprai più che neanche fartene, non avrà più senso, non avrai più energie per andare dove volevi andare quando era importante arrivarci. Anche mantenere la lucidità emotiva e psichica è complicato. L'infelicità si cura con lo xanax, rimane l'assuefazione a quel nulla pallido e smorto. Non si arriva mai, siamo sempre in apnea.

“No future” urlavano i Sex Pistols ma a differenza degli anni '70, quando curavano il male con la protesta e i buchi nelle braccia, adesso con un telefonino, gli aperitivi e una parabola ci hanno silenziato. Per essere scelti i ragazzi devono avere in dote dinamismo, ottimismo e intraprendenza ma il Mondo ha succhiato ai candidati queste qualità perché quel Mondo si nutre di quella determinazione, di quella costanza e di quella voglia di arrivare e la spolpa fino all'ultima goccia prima di passare alla nuova informata di giovani da sgonfiare. I tentativi di suicidio sono all'ordine del giorno. Un testo acido, critico che non ci fa vedere la luce, anche se alla fine vengono aperti i grandi finestroni laterali e le porte a far circolare aria, ossigeno e chiarore, lucentezza, luminosità e splendore. Dopotutto il teatro è il luogo dove l'impossibile diventa possibile, dove il non credibile diventa incredibilmente plausibile. Dopotutto, come diceva il grande Eduardo, “il teatro non è altro che il disperato sforzo dell'uomo di dare un senso alla vita”.

Tommaso Chimenti 17/04/2021

Ph: Federico Pitto

RAVENNA – Tutto nasce dalla Famiglia, diventa, si sfa, si sbriciola, si ricompone, si organizza, si dipana, si scioglie, si argomenta, si secca. La Famiglia come fusto d'albero, i figli come foglie che splendono al sole o marciscono come frutti infetti non troppo lontano dalle radici avariate e corrotte. La famiglia è sempre un cortocircuito con il quale dover sempre fare i conti. E' all'interno di questa analisi, frutto di esigenze autobiografiche e sentimenti alla ricerca di spiegazioni che diano una linearità al passato, che sboccia questo “Adam Mazur e le intolleranze sentimentali” a cura del neonato Collettivo LaCorsa, scritto tutto attaccato come se avesse avuto talmente tanta fretta, appunto correndo e sprintando e sudando, da dimenticarsi di staccare articolo e sostantivo. Lacorsa perché costola di Punta Corsara, la compagnia di Scampia che così bene ha fatto in questi ultimi dieci anni. Di questa nuova formazione fanno parte Gianni Vastarella, qui autore e regista, Giusy Cervizzi, Valeria Pollice, tutti ex corsari, ai quali si sono aggiunti Pasquale Palma, volto noto della trasmissione “Made in Sud”, Vincenzo Salzano e Gabriele Guerra.Adam Mazur 3.jpeg Il secondo dei tre step in programma, dopo la menzione all'ultimo Premio Dante Cappelletti, nella fucina del Teatro Vulkano (dove abbiamo potuto assistere alle prove) è nato grazie alla collaborazione con il Teatro delle Albe, legame forgiato una quindicina d'anni fa con l'esperienza di Marco Martinelli e dei suoi tre “Arrevuoto”.

E' cupo questo “Adam Mazur” a tinte fosche, tra cadute e slanci, fallimenti e scoperte, sempre in bilico tra il grottesco colorato e un interiore dramma tutto da derubricare, sezionare e digerire. Uno strano albergo come fondale di una tragedia in un interno, abitabile e dell'anima, un hotel che ci ha ricordato l'Overlook di “Shining” come il “Million Dollar Hotel” di Wim Wenders, con quel quid che potrebbe essere uscito dal “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson. Dalla pece, delle stanze e interiore, spunta e sbuca, come fiore psichedelico, raggiante e raggelante, un rosso rosaceo sparato erotico pruriginoso in quel vedo e non-vedo che lascia spazio, che socchiude come occhiolino, che cela e tracima.

Uno scrittore torna a casa spinto a ricostruire i passi della sua autobiografia ma, attratto come mosca dagli escrementi, si imbatte in questa strana casa abitata- boudoir voluttuoso e carnale quanto miserevole da un manipolo variegato che sembra uscito dalla “Famiglia Addams” come dal “Rocky Horror Picture Show” dove il desiderio si mescola al senso di colpa, la lussuria al macerato sfilacciato, il godimento al trasandato impiastricciato, impuro e immondo. Come un elastico che attrae e allontana, avvicina e separa inesorabilmente nella continua frattura tra ciò che si è per dna e imprinting, che non ci toglieremo mai da sotto la scorza, e quello che, faticosamente, siamo voluti diventare. Adam Mazur 2.jpegLe atmosfere, che oscillano tra Lynch e Cronenberg, accolgono zuccherine e melliflue così come sono urticanti come un massaggio che friziona togliendo le impurità con unguenti putridi. Sembra di percepire la decadenza, il disfacimento, la caduta, la disfatta. Sono proprio le sabbie mobili del passato che, appena ha rimesso piede sul suolo dell'infanzia, lo riavvolgono e lo tirano verso lo sfacelo, verso il fondo. Quel posto chiamato “casa” lo affossa e fa emergere in lui gli istinti più biechi azzerando tutto il buono, l'arte, che aveva costruito in questi anni lontano da quel vortice di delirio e perdizione. A volte bisogna ricordarsi da dove si viene per non tornarci più.

Tutto è giocato sul filo del rasoio del vero e del fake, del plausibile e dell'impossibile: lo scrittore destabilizzato (Roberto Magnani), piagato dagli eventi, che sferraglia sulla sua macchina da scrivere (pare Snoopy piegato sulla cuccia) sembra creare il mondo che lo circonda di ruffiani smancerosi (Pasquale Palma) e peripatetiche consunte, lise e laide che appaiono materializzandosi con il suo premere sui tasti metallici, tutti gli avventori della casa chiusa si fanno chiamare con il nome del celebre romanziere (chi sarà quello vero), la sgualdrina anziana (Valeria Pollice “giapponese”) si rivelerà essere tutt'altro così come l'impellicciata (Gabriele Guerra en travestì) svelerà la sua natura scioccante e sconvolgente. In questo continuo gioco di specchi e di rimandi, dove niente è ciò che sembra e tutto pare prendere tangenti e sfumature, sfaccettature da Tunnel degli Orrori distorto di una realtà frastornata e frantumata, trasmigrata e traslucida, Adam Mazur 4.jpeglo scrittore, arrivato per trovarsi, per ricomporre i pezzi del suo puzzle esistenziale, si perde definitivamente, sciogliendosi a poco a poco dentro le dinamiche e i meccanismi illogici del postribolo. Odore di morte e voglia di cambiamento.

Ma questo sembra un buco dove tutto viene decongestionato e digerito, frullato e sfibrato fino a perderne i contorni originali. Sembra l'anticamera dell'Inferno dove personaggi smodati, sguaiati, deformi e squallidi, quasi animaleschi (gorgogliano come scimmie, belano come ovini) trascinano nell'incubo l'autore omonimo del titolo che si ritrova rapito da risate isteriche inquietanti all'interno di una patina sdolcinata e melensa. Così come il sonoro scelto per i vari quadri che, in maniera ossimorica, ad una melodia scanzonata e dolce abbina scene tremende e devastanti creando quel mash-up che fa tentennare, quello squilibrio che sposta. La scrittura di Vastarella, che si rifà ai “Fantasmi” di Eduardo come a quelli ibseniani, punge e scalfisce ma deve controllare e bilanciare lo stravagante, lo strambo e il ridicolo sul piatto Adam Mazur 5.jpegdella bilancia con la riflessione più intimista, non cedere e non concedere al riso, tentare, senza forzature, di non cadere nel facile mantenendo la crudezza come parametro, trasformando ogni possibile abbraccio in una stilettata, i baci in schiaffi, i perdoni in derisione insistendo maggiormente sulla parte acida e ustionante. Meno Fratelli Coen e spingere più su Bergman, scandagliare più il fango di Jon Fosse e meno le assurdità di “Fargo”. L'oggetto iconico è senz'altro il paravento fatto di ombre, che nasconde e abbellisce nelle sue forme nere anche i corpi meno apprezzabili. Come asprezza ricorda quel meraviglioso “Sterminio” delle Albe da Werner Schwab con queste terrificanti e spaventose figure che popolano questo sottobosco fatto di aghi, spigoli, punture e bruciature. Se Edipo ed Elettra dormono nello stesso letto il trauma (e non traum che in tedesco significa sogno) è la logica conseguenza.

Tommaso Chimenti 18/02/2021

VENEZIA – Non è morte a Venezia ma aleggia un odore di morte in laguna che fa spavento, terrore, paura. Mancano i giapponesi che scattano compulsivi fotografie, sono rimasti soltanto i piccioni imperterriti senza più briciole da beccare. Non c'è più neanche l'acqua alta atterrata dal Mose che anche senza l'accento finale fa aprire le onde spugnose e marroni. Lugubre il profumo rancido che sale, ti guardi intorno e sei solo. Finalmente e purtroppo. Manca la vita, rimangono le case, spesso disabitate che aspettano nuovi turisti, i mattoni colano pioggia che pare che piangano, le piazze deserte, panchine vuote senza anziani, la malinconia, la disperazione di avere a disposizione un orizzonte visivo libero e non saper che farci. Ti senti sperduto e solo, i vicoletti angusti, bui, le ombre che si ingigantiscono al passaggio, un senso di sconfitta che striscia e serpeggia infido s'intrufola tra i pensieri e fa sbagliar rotta. Tutte le calli diventano simili senza il vociare stupito, senza il codazzo da marcia che ti indica i punti cardinali da raggiungere o superare, Piazza Roma, San Marco, Rialto. Tutto azzerato, appiattito, azzoppato. Gondole a riposo, barchette coperte, tutto è fermo, statico. Sembra di muoversi all'interno di un quadro dove tutto sta ordinato in un proprio caos del quale non capisci il disegno, la fine ultima, il destino. Se ti fermi a pensare sei risucchiato e tutto sembra scartavetrato, esposto, scrostato. Senza pelle, gli organi al vento.BackstageIgemelliVeneziani20112020-2813.jpg

E' la stessa sensazione che ti lascia, acre e pungente, la visione de “I due gemelli veneziani” (produzione Teatro Stabile del Veneto, TPE - Teatro Piemonte Europa, Teatro Metastasio di Prato) passati sotto il torchio e la pialla di Valter Malosti (al suo primo avvicinamento goldoniano) che, con la sua cifra chiara e riconoscibile, ha smontato e rimesso in piedi una macchineria spesso mostrata soltanto nella sua accezione brillante e comica e che qui, invece, fortunatamente sorprende con un noir-thriller, spingendo sui chiaroscuri, forzando sulla pece interiore, giocando macabro, forgiando il testo e piegando i personaggi verso un intenso e cupo scandaglio dell'anima. Adattato insieme ad Angela Demattè, il plot, fatto di misunderstanding e scambi di persona colorati dalla Commedia dell'Arte, prende corpo e si trasforma in dramma, nella tragedia della vita che trasfigura se stessa, trancia, taglia, spezza, toglie gli orpelli agli uomini lasciandoli nudi davanti alle proprie manchevolezze, scelleratezze, ineffabili debolezze sordide.

Malosti 31F3cv0w.jpegha il pregio, tra i tanti, sempre di costruire un cast ottimamente equilibrato come potenzialità ed espressività (anche nei ruoli comprimari, tutti estremamente validi i vari Alessandro Bressanello, il piglio di Anna Gamba, Andrea Bellacicco, il furore drammatico di Irene Petris, Vittorio Camarota, Valerio Mazzucato, l'energia di Camilla Nigro), non trascurando dettagli, anzi esaltando la cornice che puntella e fa scintillare nuovamente azioni e protagonisti. Un pool d'attori che alimentano l'un l'altro la scena illuminando il cono di buio caravaggesco dentro questo percorso esistenziale fatto di consapevolezze ritrovate e perdita d'innocenza. Alla squadra amalgamata e affiatata sul palco si aggiunge un altro personaggio dall'eguale virtù, dignità e rispetto, il suono (a cura di G.U.P. Alcaro) che con il regista torinese non si può mai definire semplicemente “tappeto sonoro” né basicamente accompagnamento musicale né tanto meno rumori di fondo. La musica qui preme, s'agita, cresce, pulsa, dà vita, risuona, aumenta, scivola ma non è mai secondaria, mai cedevole, mai in secondo piano. E' proprio la sonorità inquietante, che non abbandona mai l'azione, assieme alle luci (di Nicola Bovey), o al suo misurato uso centellinato, a creare un'armonia frastagliata di sentimenti sensoriali come nave che ondeggia in attesa della secca che spezzi le vele. Perché nell'aria si annusa l'imminente calamità, la catastrofe che sta per travolgere ogni pagliuzza, il disastro che strapazza sogni e aspettative, la disgrazia che ammanta i gesti impulsivi di uomini piccoli, la sciagura che si respira solida, la rovina che potresti delinearne i confini, che puoi vederla lontano avvicinarsi come un transatlantico traboccante di oblò che affiora in San Marco.

“I due gemelli veneziani” sarebbe dovuto andare in scena proprio in questi giorni di dicembre 2020 e solo la lungimiranza, e apertura e respiro, del Teatro Stabile del Veneto ha fvKAvINQ.jpegpermesso e concesso di assistere alle prove, una boccata d'ossigeno, un importante segnale fresco portatore di futuro. Si comincia con la fine, mettendo in chiaro le cose, urlando sommessamente che non sarà una passeggiata tra lazzi, frizzi e risate, che qui andremo a cercare quel punto profondo dentro, quell'idea che per trovarla devi forzatamente e necessariamente aprirti, sventrarti, prosciugarti, squartare il petto e frugarci ansioso e impaurito con le mani sporche. E' un viaggio cupo e avvelenato e rancido, tra Hitchcock, Kubrick e Lynch, e senza salvezza quello nel quale ci guida, con aria affabile e fintamente leggera, l'intuizione dell'inserto di un Pulcinella (esplosivo, flessuoso e seducente Marco Manchisi) conducente delle anime in un Purgatorio rassegnato che non punisce né lenisce, che non perdona né salva, ma, freddamente, fotografa l'assenza di valori, le mancanze degli uomini, la terrenità spicciola e scivolosa dove tutti alla fine cadiamo senza possibilità di risalita. Pulcinella, nel suo napoletano dolce nenia che coccola e tramortisce, che culla e verga, è un Caronte accompagnatore, demone che suggella le fragilità dei terrestri mettendoli di fronte, ma senza cercare vendetta o confessione, ai loro stessi inevitabili difetti e delitti, peccati e zoppie. Possiamo dire che questo “I due gemelli” sia un lungo epitaffio, una strada tortuosa che ci spinge sempre più in profondità, in quel buco dalle pareti lisce che è lo scorrere del Tempo e la fine delle speranze e delle congetture da stratega.

Tocchi da vjaC_TeA.jpegricordare e sottolineare: lo schiaffo al rallenti è una pausa ristoratrice nel traffico, il napoletano Arlecchino che tenta di conversare in veneto, il monologo toccante di Padre Pancrazio sulla carnalità e sul maceramento interiore tra sesso e spirito, il saluto finale di Zanetto tra ammissioni e incomprensioni. Rosaura che vuole intraprendere un matrimonio vantaggioso con lo stolto Zanetto, uno dei due gemelli, la serva Colombina che aspetta Arlecchino per condurlo all'altare, Tonino, l'altro fratello del titolo, che vuole accompagnarsi a Beatrice, il tutto contornato da padri e amanti in una giostra dolente, nel gioco lacrimevole e sciagurato di mosse da scacchi per stanare l'altro, una guerriglia che di spassoso ha soltanto la patina. Qui si scava a mani nude, con le unghie spezzate, in questo mondo feroce dove non basta la lampada di Diogene. Zanetto e Tonino, facce della stessa medaglia, vengono interpretati pirandellianamente Z5o4P3Hw.jpege bipolarmente da un Marco Foschi maturo e profondo, ha corpo, voce e forza interpretativa debordante, una continua percussione precisa nel rilanciare adesso il primo istupidito e sottomesso, ora il secondo sbrigativo, rude e conscio dei propri mezzi. Ha carattere il Padre Pancrazio di Danilo Nigrelli, sottile tramestatore di ingarbugliati traffici, alla fine sconfitto e annullato nella sua stessa macchinosa voglia di rivoluzione personale.

Ma è tutto “I due gemelli”, di rubensiane atmosfere fosche, che lotta e play nel doppio ora affiorante adesso che affonda come sabbie mobili, un doppio che si cela dentro i personaggi e proprio per questo inestirpabile, introvabile, inespugnabile. Come un tumore il doppio cresce e si sviluppa, si aggancia e s'attacca alla carne, il doppio sta lì a ricordarti la parte oscura, le crepe, gli spigoli, il doppio punge e ferisce, il doppio non ha anima né senso di colpa come lo è il riflesso in uno specchio opacizzato dal tempo che lo fa sembrare incerto e imbrattato, tremolante e titubante come l'acqua increspata della laguna. Odore di morte a Venezia.

Tommaso Chimenti 07/12/2020

TORINO – La formula della serialità a teatro non è cosa nuova ma rinverdisce il format dello sceneggiato in bianco e nero prima che fosse sorpassato dalle soap opera, poi dalle fiction e, in tempi recenti, dalla serie tv. Proprio per il suo incedere progressivo, con ogni spettacolo a sé stante e indipendente ma anche globale se visto nell'ottica più ampia delle puntate precedenti e di quelle successive, una serie teatrale incuriosisce da una parte, soprattutto i giovani così tanto abituati a Netflix e Sky e Amazon Prime, e dall'altra fidelizza il pubblico attorno ad una storia, ad un cast, ad un progetto. L'ultima volta che avevamo assistito ad un'operazione simile, riguardo alla serialità, era stato sempre a Torino con “I tre moschettieri” al Teatro Astra, grande produzione del Tpe dell'allora direttore Beppe Navello con ogni piece affidata ad un regista differente. Poche stagioni prima c'era stato a Roma anche l'esperimento “Bizzarra” di Manuela Cherubini da Spregelburd e, ancora Torino protagonista, con “6Bianca” per la regia di Serena Sinigaglia a cura della Scuola Holden. Una serie a teatro affascina, attira, crea una comunità di spettatori attorno ad un'idea, attorno ad un'attesa.104A5359 copia.jpg

Ultima in ordine di tempo, ma siamo sicuri che la tendenza riprenderà con forza, è questo “Radio International” che ha inaugurato, per tutto il mese di ottobre, tre repliche a puntata, la stagione “Re-play” di Fertili Terreni Teatro, nel magico spazio di San Pietro in Vincoli, gestita da ACTI Teatri Indipendenti, CUBO Teatro, Tedacà e Il Mulino di Amleto. Cinque le puntate (ma aspettiamo tutti gli episodi in un'unica giornata) che hanno immerso il pubblico nel mondo della radio, del giornalismo d'inchiesta, nell'informazione senza padroni né padrini, nelle fake news che sempre più popolano i nostri schermi, in un futuro distopico dove la democrazia è messa in forte discussione e dove le poche fonti di notizie indipendenti dai poteri forti rischiano di essere silenziate, svendute, azzittite, comprate. On Air: sei in onda.

Il progetto di Beppe Rosso (sua anche la regia) e Hamid Ziarati ci conduce tra microfoni e ovatta rossa alle pareti per attutire e attenuare voci e musica, cabine di registrazione in plexiglas e mixer, fonici e una redazione battagliera che vuole contrastare i mali del mondo contemporaneo come veri Robin Hood, che si spende in prima persona, sempre dalla parte degli ultimi. Recentemente la radio è tornata ad essere un elemento che ha fatto da sfondo ad alcune delle serie tv più seguite: parliamo dell'argentina “Felice o quasi” su Netflix e l'italiana “Passeggeri notturni” su Raiplay. Ci sono venuti in mente anche gli intramontabili “Good morning, Vietnam” o “I Guerrieri della Notte” con la bocca rossa che sembra mangiarsi il microfono nel raccontare le imprese notturne dei nostri Warriors. Per non parlare di “Radio Freccia” di Ligabue o di Radio Aut di Peppino Impastato. Sarà che in tempi di lockdown c'è stata una riscoperta della radio intesa come quella ritualità Radio International_ph E. Basile_104A5347.jpgdi voce lontana e soffice che sembra parlarci all'orecchio, soffusa e vicina, amica da confessione, a toccarci intimamente pensieri e incubi, sogni e speranze: la radio lascia spazio all'immaginazione molto più di tv e cinema.

In questa redazione radiofonica dove si fa controinformazione nelle puntate precedenti è successo di tutto: hanno seguito il caso di una bambina siriana che voleva passare la frontiera tra Italia e Francia, un ragazzo mediorientale ha impugnato una pistola minacciandoli, adesso il futuro è incerto per tutti, nubi nere all'orizzonte, scenari pessimistici. La leggerezza, affidata principalmente al personaggio di Luca - Francesco Gargiulo, smemorato e svampito che deve assumere medicine altrimenti ha enormi vuoti mnemonici (quasi come Dory di “Nemo”), si mischia al dramma nel cercare fonti attendibili sul campo e informatori che possano dare ragguagli sulle condizioni della bambina che porta con sé documenti segreti. Sono tutti molto pasionari: Lorenzo Bartoli è Roberto un po' il Jack Folla di turno che inneggia e colpisce, che accusa e sottolinea, cerca mobilitazioni e protesta contro il Governo, mentre Grazia – Barbara Mazzi è guerrigliera e arcigna, sempre pronta alla pugna e alla lotta contro le ingiustizie. L'Italia ha chiuso le frontiere in entrata e in uscita e indirà un referendum popolare per chiedere ai propri cittadini se restare o uscire dall'Unione Europea, in una mossa simil Brexit. Dalla regia si susseguono “Because the night” di Patti Smith come i Police o gli Spandau Ballet, mix che dà energia e scalda, fomenta e spinge.Radio International_ph E.Basile_104A5345.jpg

La drammaturgia semplifica e comprime, nell'impasto e nell'andamento tra il serio e il faceto, concetti pesanti triturando complottismi vari e la deriva dei social network in una sorta di riassunto compattato e facile, così come il ruolo dell'Europa che “deve fermare le guerre” per poi, dall'altro lato, essere sgridata, ancora una volta di colonialismo, e tacciata di voler esportare la democrazia. Come nel paragonare gli italiani che andavano a lavorare in Francia o negli Stati Uniti a chi prende una barca, pagando uno scafista illegalmente, viene soccorso da ONG straniereRadio International_ph. E.Basile_104A5349.jpg battenti bandiere di chissà dove e scaricati sulle coste italiane ai quali dobbiamo dare prima assistenza, poi casa, istruzione, sanità, un lavoro e pagare cooperative che se ne curino: le due situazioni non sono neanche minimamente paragonabili. L'Italia poi paragonata all'Ungheria sembra il peggior incubo noir, adesso che poi non c'è più il cattivo per eccellenza Salvini ma i buoni per antonomasia del Pd. Speriamo che i tristi presagi politici messi al centro del dibattito e nell'agorà del discorso teatrale si rivelino infondati. Comunque la soluzione proposta è soltanto una: l'Europa deve sentirsi in colpa su tutti i fronti e deve soltanto accogliere silente chiunque arrivi, con qualunque mezzo e senza i documenti in regola. Tesi esposte ed elargite leggermente naif. “Radio International” resta un altro modo di vedere e godere il teatro. Attendiamo la maratona delle cinque parti: ormai vogliamo vedere come va a finire.

Tommaso Chimenti 23/10/2020

Ph: Emanuele Basile

CASTROVILLARI – Lockdown maledetto lockdown. Tremenda sciagura la quarantena. Il teatro non può non riflettere sui mesi appena passati e, forse, purtroppo, su quelli che verranno. Chiusi, lontani dalla socialità, lo streaming dal divano da casa, adesso con i posti in teatro ridotti, le prenotazioni, le prove senza contatto. Un mondo stravolto, quello degli attori, delle compagnie, degli organizzatori, dal punto di vista esistenziale ed economico, di possibilità e di visione futura. Un muro improvviso ha chiuso il panorama, serrato le aperture. E così il titolo già di per sé incisivo “Vivere è un'altra cosa” (prod. Corte Ospitale e Olinda) del gruppo milanese Oyes (belli i loro “Vania” e “Io non sono un gabbiano”, meno convincente ma sempre interessante “Schianto”) ha ripercorso, tra leggerezza e profonde ferite, sorrisi e lacerazioni ancora irrisolte e non rimarginate, i tragici momenti di sconforto e abbandono ognuno nelle proprie case, isolati dal resto e collegati al quartiere da banali canzoni trash al balcone, paccottiglia come l'applauso all'atterraggio, tutti quei lenzuoli con su scritto “Andrà tutto bene” quando era ovvio che non andava affatto bene niente, i bollettini di guerra e necrologi delle sei del pomeriggio quando la sera avvampava, il buio là fuori si mangiava un altro giorno e la notte scendeva dentro il petto di ognuno di noi appesi alla speranza che veniva vanificata, le solite interviste ai soliti virologi, i dibattiti e i talk show con i numeri impietosi, le camionette militari con le bare di Bergamo. Praticamente da allora poco è cambiato nel nostro immaginario tranne che, e ovviamente non è poco, anzi è essenziale, il poter uscire, andare, fare, a distanza e con la mascherina, certo, ma pur sempre “liberi finalmente e non saper che fare” come avrebbe chiosato Baglioni.20201015arzanominilockdownrcs_640_ori_crop_master__0x0_640x360.jpg

Cinque attori, diretti dalla mano sicura di Stefano Cordella, in uno spazio aperto hanno raccontato il loro personale autobiografico piccolo calvario di mancanze, di lezioni on line, di figli ai quali non saper cosa dire, di compagni e compagne da sopportare, di questa apatia e depressione che tutti affliggeva, costretti a dover fare esercizi fisici e mentali per non pensare al momento ma spostare l'attenzione, cucinare follemente come a Masterchef, impastare anche se non avevamo mai fatto prima il pane, tutti ora esperti di lievito madre, ora ingrassare per poi diventare salutisti e dimagrire a suon di pilates e kettlebell, plank e yoga, squat e addominali. Al centro della grande scena sgombra un modellino di un palazzo in miniatura, quasi casa di Barbie, che nell'inframezzarsi tra una storia e l'altra, centellinata, sospesa, stoppata e poi fatta ripartire come i giorni o le settimane reclusi e relegati a fornelli e Netflix, si accendeva, si illuminavano le finestre, aperture lucenti che significavano che la famiglia era in casa forzatamente, sprangata nell'attesa di buone notizie che non arrivavano, che non arrivavano, che non arrivavano “ed una radio per sentire che la guerra è finita”, continuando con il Claudio nazionale.

Il quarantenne con compagna, figlia e cane al seguito, insoddisfatto interiormente della propria condizione d'attore che ha perduto quella verve che lo aveva portato a voler stare sul palco, quel fuoco che lo pungeva (Umberto Terruso essenziale, fondamentale), la giovane sposa da sempre fidanzata con il proprio uomo e che si è sempre raccontata felice (Francesca Gemma tenace), il ragazzo schiacciato dalle aspettative familiari e dal successo degli altri componenti del suo nucleo di riferimento (Francesco Meola appassionato, intenso), la ragazza single che ha fatto la quarantena da sola tra piccole euforie momentanee e grandi disagi costanti (Martina De Santis lucida, melò), il quinto convinto single, geloso dei suoi spazi e della propria libertà che poi ha ceduto alla convivenza (Dario Merlini ironico). “Storie di tutti i giorni vecchi discorsi sempre a metà”. Il desiderio di impegnarsi in qualcosa di produttivo per non perdere tempo ma per mettere questa parentesi a frutto facendo o intraprendendo quello che avevi trascurato e messo da parte: corsi, riparazioni, letture, introspezione. Cinque attori e nessun lavoro in vista con la prospettiva di un post lockdown ancora peggiore con recessione, disoccupazione, preoccupazioni di carattere economico ed emotivo.

Uno stop forzato che ha messo un punto a ciò che eravamo e ci ha costretto a pensare, o ripensare, a chi eravamo, a che cosa cercavamo, se eravamo sulla strada o rotta giusta per raggiungere la nostra intima felicità, se quello che stavamo facendo ci stava facendo bene, se mollare o perseverare. Cinque storie, vere, reali, degli attori in scena, che erano, sono, le storie di tutti noi, nelle quali sentirsi rappresentati, fotografati, identificati tra ricordi e commozione, ripensando alle nostre fragilità, alle crepe scricchiolanti dentro le nostre vite superorganizzate, sempre con i minuti contati, le agende, gli appuntamenti, con la sensazione perenne di poter far tutto, andare ovunque, raggiungere chiunque, con quell'idea di mobilità nello spazio come nella crescita personale e nel raggiungimento degli obbiettivi. Ad un certo punto a tutta la carne al fuoco che avevamo messo a cuocere nelle nostre esistenze qualcuno ha spento la fiamma e ci siamo accorti che la carne non era così di prima qualità, che alcune parti erano e sarebbero rimaste crude, e che altre, al contrario, erano già bruciate, andate, corrose, consunte, avariate. E' che quando sei nel vortice, dentro al Sistema, non ti accorgi VIVERE-E-UN-ALTRA-COSA-OYES.jpgdei piccoli rumori degli ingranaggi, ti concentri sul grande movimento senza considerare le minuzie, i moti impercettibili, i gesti dimenticabili. La quarantena ci ha reso più umani? No, semmai, ci ha fatto fare un passo indietro e da un metro più lontano i contorni sono più nitidi e l'affresco si comprende meglio nel suo insieme. Abbiamo capito che siamo una serie infinita di domande più che di soluzioni a buon mercato che qualcuno tenta di spacciarci e venderci, che siamo dubbi e paure e non certezze e solidità, che siamo uomini e non superman, che si può cadere sconfitti.

A pezzi siamo dentro ogni storia, o lo siamo stati, un giorno ci siamo sentiti come quel padre o come quella sposa, come quel ragazzo oppresso dal successo dei propri consanguinei o come l'attrice sola o ancora come l'eterno scapolo; c'era da perdere la bussola, da travisare, da non connettere più in un mondo che parla solo e costantemente di connessione. Non saremo mai 5G dentro. Saremo sempre più vicino alla tartaruga che alla lepre. Siamo (stati) tanti fondi di caffè (come quelli gettati sul palco) usati e polverosi, metafora giusta e perfetta, con l'illusione di rimanere e stare svegli mentre ci addormentavamo stanchi e sfatti, affranti e afflitti, fondi compatti come dischi da hockey che al contatto con il terreno si sfaldano e si sfanno, si parcellizzano, si spezzano, si sfarinano disorientati senza una regola, impotenti tra il desiderio che tutto finisca presto e l'assuefazione a questo nuovo status, racchiuso nel grido sommerso “Non ho voglia che tutto riparta”.

Altra clausura forzata è il recinto che Saverio La Ruina delinea e traccia nella sua piece: una tenda da terremotati dopo una catastrofe naturale, piccole e strette mura di tela e stoffa con tutto il disagio fisico e psicologico dell'aver perso tutto, di un futuro nebuloso se non proprio nero, di speranze azzerate, di convivenze forzate. E' qui, in questa pseudo casa fredda senza ricordi né calore familiare che si ritrovano “Mario e Saleh”, due mondi, due culture, due età, due modi di pensare agli antipodi. Uno cristiano l'altro musulmano, uno anziano l'altro giovane, lo scontro è inevitabile. L'impatto sul teatro italiano di La Ruina in questi anni è stato importante per due motivi, nella scoperta di una lingua, il calabrese, poco o per niente usata, a differenza del napoletano o del siciliano ad esempio, sui palcoscenici, dandogli dignità d'essere e d'esistere scenicamente, e il portare a galla fenomeni e storie altrimenti sepolte, dimenticate e sotterrate, pensiamo alla condizione della donna in “Dissonorata”, agli italiani nati in Albania e non voluti né da una parte né dall'altra dell'Adriatico in “Italianesi”, gli aborti clandestini con ferri arrugginiti ne “La Borto”, l'essere omosessuale in un paesino giudicante del Sud in “Masculu e fiammina”, fino alla violenza domestica in “Polvere”.

Se però il regista, drammaturgo e attore di Castrovillari perde, o accantona, la propria lingua madre che regala immaginario e vigore, allora il discorso si normalizza perdendo quel pepe, quel pungolo, quelMarioeSaleh_fotoTommasoLePera-1.jpg piede di porco per scartavetrare, per far saltare il banco, per aprire il vaso di Pandora delle emozioni ancestrali e così legate al suo territorio d'origine. In qualche modo quelle parole “italianizzate” si depotenziano, non pungono più come attraverso quel dialetto che ferisce e brucia anche nella sua incomprensibilità che infligge una patina di mondi lessicali impossibili da tradurre ma soltanto compresi dal suono, dall'armonia rude, dall'assonanza musicale. Questa la prima riflessione sul linguaggio di “Mario e Saleh”, mentre la seconda si attiene, pur all'interno di una messinscena solida che sempre tiene il punto sia a livello registico che attoriale (l'altro interprete è il convincente Chadli Aloui), al lato più sociale o se vogliamo politico dell'idea che sta alla base del testo. Negli ultimi anni di infiniti sbarchi irregolari e di tensione sociale sempre crescente in un Paese in default, l'Italia, con una crisi galoppante e le periferie che esplodono, il teatro però sembra avere il paraocchi e disegna e identifica sempre i buoni negli immigrati, migranti o extracomunitari, mentre i cattivi sono gli italiani, forse compresi quelli che sono lì in platea ad ascoltare e applaudire. Lo straniero è, come in questo caso, sempre cordiale, gentile, premuroso, generoso, modesto, colto e acculturato, misurato e saggio, mentre noi siamo dipinti come maschilisti, stupidi, machisti, omofobi, sessisti, razzisti, ignoranti, analfabeti. Siamo sempre disposti a concedere il beneficio del dubbio e un'altra possibilità allo straniero ma con l'italiano, con l'occidentale caucasico siamo implacabili, inflessibili, rigidissimi. Forse, per senso di colpa, vogliamo colpire noi stessi, per senso di inadeguatezza vogliamo infliggere all'altro nostro simile quello che non riusciamo a digerire del nostro stare al mondo, pur condividendolo e abitandolo.

Anche in questo MarioeSaleh_fotoTommasoLePera-3.jpgcaso il buono e il cattivo sappiamo subito da che parte stanno, però siamo sempre ben predisposti d'animo con chi arriva, senza i documenti in regola quindi contro le leggi del nostro Stato, non solo da un altro Paese ma addirittura da un altro continente, che ascoltare le istanze di un nostro concittadino che paga le tasse da generazioni. Prima gli italiani ci fa schifo ma prima gli stranieri è assolutamente legittimo. E' il razzismo al contrario con gli stessi preconcetti e prevaricazioni e pregiudizi che vogliamo combattere e condannare in quello ordinario. La tesi anche in questo caso, però, è subito lampante e predefinita e preordinata: il ragazzo nordafricano ce la mette tutta per essere accolto mentre Mario è aggressivo e maleducato, offensivo e predominante, minaccioso e autoritario. Povero Saleh, acriticamente, a priori, per partito preso, e giù diamo addosso a Mario, crocifiggiamolo, anzi sostituiamo tutti i Mario volgari con tanti Saleh così dolci e docili e carini. Il teatro spesso non vede la realtà ma la riporta come vorrebbe che fosse. Anche da questo si nota che lo scontro sociale interno al Paese, spaccato in due (non si parla di bipolarismo), diviso su ogni scelta, dove vince sempre l'ideologia e la strumentalizzazione. Il problema non è essere nazionalisti o sovranisti o addirittura patriottici, tutti termini identificati come negativi. Sarebbe bello che l'immigrato ci portasse saggezza e lavoro, purtroppo sono uomini e donne anche loro, per giunta spesso senza istruzione e con la fame (pochi invece scappano da zone di guerra) che attanaglia la bocca dello stomaco, e quando hai fame, in un Paese come l'Italia dove di lavoro ce n'è poco, è facile cadere nell'illegalità e nella microcriminalità. Se dell'immigrato fai un santino e dell'italiano un carceriere illetterato e scimmiesco, il quadro stona, la realtà viene deformata, l'analisi s'inceppa.

Tommaso Chimenti 

 

CASTROVILLARI – Sembra che in questi ultimi vent'anni poco o niente si sia mosso a Castrovillari. Le scritte stinte e stanche sono al loro posto, nessuno ha tinteggiato nuovamente il muro o la facciata del palazzo, nessun altro ragazzo ha vergato frasi inneggianti ai successi recenti, limpidi o meno, della Juventus. Tutto pare fermo, cristallizzato, immobile. Cambiano soltanto i necrologi e i manifesti elettorali. Le cose inevitabili. Le stesse buche, le stesse crepe, gli stessi marciapiedi rialzati dalle radici degli alberi. Che niente cambi. Neanche gattopardesco. Nessun scossone, nessun stravolgimento. Le solite fontane secche, i giardinetti aridi e incolori, spogli, sdruciti, sciupati, ricoperti delle carte che svolazzano e di quella sporcizia quotidiana della quale nessuno si preoccupa, c'è, c'è stata e ci sarà, ormai fa parte del panorama. Neanche i cani ci vanno più a marchiare il territorio. Grossi cani infreddoliti che si trascinano in cerca di un riparo, di un pezzo di pane. Nessuno si cura neanche di loro. Abbondano invece negozi d'abbigliamento che si alternano con i bar. E te li figuri gli abitanti del comune calabrese sotto il Pollino sfoggianti sempre nuovi vestiti e una tazzina in mano, neanche fossimo a Napoli. Sui camion della frutta e verdura spuntano adesivi di Madonne che hanno visto giorni migliori e che hanno perso i loro colori per la pioggia e il tempo, a terra peperoncini caduti nel giorno di mercato.

Resiste la scritta più iconica (e laconica) del centro cittadino, nel “salotto buono” sotto una panchina di marmo vicino al municipio, con lo spray blu, che ormai ha perso la sua forza: “Tu sei solo mia”. Messaggio d'amore giovanile, lievemente machista ma perdonabile perché sicuramente adolescenziale. Qualcuno, però, in fondo all'aggettivo possessivo ci ha aggiunto una O, cambiandone il significato, parodiandolo, modificandolo, certamente smitizzandolo e migliorandolo. Impossibile ogni anno non fotografarla: “Tu sei solo miao”, a metà strada dall'essere gatta e quel “Sei tutto chiacchiere e distintivo” de “Gli Intoccabili”, di stampo poliziottesco-mafioso: sei un miagolio e basta, nemmeno abbai, figuriamoci se puoi mordere, al massimo graffiare. 121095407_10213913211262799_1859308194492316627_o.jpgSi aggira anche il solito “disagiato del villaggio” con le sue gag sgangherate, con le sue piccole manie e molestie modeste alle quali nemmeno lui crede più quasi dovesse assolvere un copione: la richiesta di spiccioli, di sigarette, elemosinare un caffè insistentemente fino ad essere cacciato in malo modo fino al prossimo bar, in loop nel suo girone dantesco. L'unica cosa che in questi venti anni è cambiata è Scena Verticale, la compagnia teatrale diretta dalla Triade Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano, che a fine anni '90 ha ideato, progettato e poi fatto crescere e arricchito di edizione in edizione, il festival “Primavera dei Teatri”, punto di riferimento non regionale ma nazionale, e non da oggi. In questi lustri si è tarata verso l'alto l'organizzazione, la scelta, l'occhio critico, il ventaglio di possibilità di una rassegna fiore all'occhiello che forse, ancora, le amministrazioni che si sono succedute a Castrovillari non hanno compreso a pieno il peso artistico e il valore “politico”, nella sua accezione più alta, abbia avuto e continui ad avere a livello italiano.

Primavera si è evoluta anche se Castrovillari (quest'anno protagonista di una delle prime tappe del Giro d'Italia, la sesta, fino a Matera) sembra almeno in apparenza non aver assorbito la lezione, lasciandosi scivolare addosso un festival che si svolge in un triangolo cittadino eccezionale composto dal Castello Aragonese, il Protoconvento bianco candido, dove si svolgono principalmente gli spettacoli, e l'Osteria della Torre Infame (con Nicola, burbero ma generoso, supportato da Pasquale, ruvido ma sempre disponibile) che sfama gli ospiti con la sua celebre Fuoco di Bacco, spaghetti piccanti risottati cotti nel vino, una delle chiavi del festival. Triangolo che però risulta un'isola felice ma sempre isola rimane, lontana dal centro; non certo periferico ma appare più una parentesi in fondo alla strada principale che in discesa arriva fino allo snodo prima di scegliere se addentrarsi verso la cultura o risalire e attraversare con lo sguardo altri negozi con i loro mirabili sconti e nuovi bar. Negli scorsi anni, con l'apertura del Teatro Vittoria nella centrale via Roma, quella dello struscio, si voleva, e ci erano riusciti, ovviare a questa esclusione di “Primavera” dalla vita sociale del paese, e che invece, quest'anno, causa Covid, non è stato possibile riaprire.

Basta constatare il gusto nel confezionare, anno dopo anno, le locandine che identificano, disegnano e incorniciano il festival: uno spot, un lancio, una fiamma, un flash di colori e significati sempre incisivi, sempre attuali e contemporanei, sempre sul pezzo. Quest'anno (il festival dal consueto fine maggio è stato spostato per la pandemia a ottobre, dall'8 al 14) raffigura una porta che si apre sul domani e una ragazza dai tratti afro che prende per mano, quasi per condurla in un'altra dimensione, in un nuovo mondo dai colori più tenui rispetto al viola della stanza in primo piano (come non pensare a Gino Paoli?), una ragazza biondissima, nordica. Due mondi che si toccano, due mondi non più così lontani innestati nell'universo femminile. In quelle due mani strette c'è fiducia, affidarsi, complicità. “Primavera” è sempre stata avanti, oltre le mode, senza il bisogno di cavalcare le onde facili del momento ma spostando l'asticella di volta in volta, stimolando il dibattito.

Anche in questa ventunesima edizione tante proposte (tre al giorno e poi incontri e presentazioni, conferenze e convegni, laboratori e mostre) dove il fil rouge era la luce. Partiamo proprio da quello che il direttore De Luca ha definito un “festival nel festival”: il videomapping del Maestro Giancarlo Cauteruccio. Se l'appellativo Maestro è stato abusato e scialacquato, appena ti soffermi davanti a queste idee concettuali del regista calabro-fiorentino, ne senti tutto il peso, la forma, l'importanza, la cadenza. Il fondatore della compagnia Krypton (ci mancano, come ci manca il loro spazio innovativo nell'hinterland fiorentino, il Teatro Studio di Scandicci) ha scelto cinque luoghi simbolo della cittadina in provincia di Cosenza equidistante trenta chilometri dal Tirreno come altrettanti dallo Ionio: il Municipio, la Cattedrale, il Castello, Palazzo Cappelli (al cui interno purtroppo hanno permesso l'apertura di una pizzeria a taglio) e l'Ospedale. Il titolo già scandaglia e scalfisce: “Alla luce dei fatti. Fatti di luce”. Un'idea che, per una settimana, ha ravvivato, vivacizzato, fatto esplodere di senso e colori, questi cinque punti cardinali della città, da starne davanti ed esserne travolti, trasportati, da vedere e rivedere ogni sera, sempre uguali eppure sempre con sfumature e particolari nascosti e celati oppure trascurati alla prima fugace visione. Apparizioni, epifanie. Esperienza assolutamente da ripetere ed esperimento che ha dato un tocco magistrale, d'autore, una firma, soprattutto le proiezioni sul Castello che diventava così agorà e foyer allargato di un ideale gigantesco teatro, piazza dove scambiarsi e incontrarsi accanto a queste luci che trasformavano un parcheggio scialbo in un'opera d'arte potente in continuo divenire e tramutarsi, un'araba Fenice che risorgeva con nuove luci dalle ceneri delle precedenti: poderoso, irradiante, da naso all'insù. Mai più senza.

La luce Corpo_arena.jpgche Cauteruccio ha spruzzato sulle mura antiche, i Mammut Teatro l'hanno direzionata per andare a fondo e analizzare l'oggetto materia umana nel loro “Corpo/Arena”, prima trance di un trittico scritto dall'autrice portoghese Joana Bertholo, progetto all'interno di Europe Connection. Cibo, Insonnia e Vecchiaia, i tre stadi umani studiati. Per la regia pulita e netta, senza essere didascalica, ma precisa e sottolineante, senza sovrabbondanza, di Gianluca Vetromilo, tre personaggi con tute acetate, quelle che servono per dimagrire, e lucide come quelle degli astronauti, sono ingabbiati e intrappolati dentro un garage in un'attesa beckettiana spasmodica attendendo il loro cibo ordinato con lo smartphone. Si ingozzano e non sanno neanche il perché: perché così è stato e non sanno, non riescono, non vogliono cambiare prospettiva alla loro esistenza che appare segnata sui binari della non-scelta. La digressione sul cibo da fisica e materiale si fa metaforica, disegnandoci dei pazienti più che degli accaniti consumatori buongustai, dei degenti più che selezionati gourmet. Sono dipendenti ma non se ne sono mai resi conto; è proprio in questa assenza, in questa mancanza prolungata (potremmo trovarci un parallelismo delle nostre vite durante il lockdown impostoci) prendono coscienza delle proprie possibilità e che quello che credono di volere, il cibo in ogni sua forma, altro non è che un tranquillante soporifero che li acquieta, li stordisce, non gli permette di protestare, di cercare la propria felicità perché istupiditi, intontiti, confusi, immobilizzati da jungle food e troppa tv. Sono (siamo?) Vite al Limite: “Non siamo grassi perché divoriamo il mondo ma è il mondo che divora noi”. Sapiente uso delle luci che tagliano, squadrano, zoomano.

Luce, ancora luce, sempre luce. Non c'è luce più abbagliante di quella in fondo al tunnel, la luce celestiale del post, l'Aldilà. Senza pesantezze né eccessiva enfasi o pathos patinato, anzi con naturalezza e quella leggerezza che riesce ancora meglio a trascinare e a far passare le emozioni, quelle più eteree e impalpabili, quelle che teniamo nascoste, Maurizio Aloisio Rippa è riuscito a costruire un perfetto equilibrio tra le arie, da lui cantate meravigliosamente accompagnato dalla chitarra di Amedeo Monda, e le parole, musica e narrazione. Sono piccoli momenti di vita (e necessariamente anche di morte), piccoli estratti che sembrano ininfluenti, minimali, spiccioli, vite quotidiane, “normali”, che non lasceranno il segno se non nei pochi con le quali sono entrati in contatto. E un'anima non muore mai se viene ricordata e “riportata in vita” dalla memoria di coloro che restano. Sono “Piccoli Funerali” (ha vinto i Teatri del Sacro) elegie cantate in questa Spoon River dove Rippa (visto, e sempre ad altissimi livelli, con Latella come con Punzo) si apre, si scioglie, tra ricordi autobiografici e una scrittura semplice, diretta che non cerca giri di parole, piccoli lampi (a proposito di piccolo, ci ha ricordato i due pamphlet “Momenti di trascurabile (in)felicità” di Francesco Piccolo) che vanno a ritroso a cercare queste esistenze che sono sparite nel dimenticatoio, che non hanno fatto la Storia ma che sono state ugualmente importanti. Siamo nel chiostro bianco di Morano dove il clima freddo fa conflitto con il calore dei racconti di Rippa che danno brividi, commozione, lacrime che bagnano mascherine. Una canzone fa da specchio ad un suo ricordo in un dialogo continuo e la platea si trova naufraga sempre Rippa 3.jpgpiù imbrigliata, piacevolmente e con strazio, nella nostalgia della memoria personale, nel ripensare ai propri cari, alla propria famiglia, al proprio passato, le manchevolezze, le parole non dette e quelle che non potrà mai più dire a qualcuno che se n'è già andato. Non è uno spettacolo, o per lo meno non è un semplice spettacolo, non è un recital, ma è un aprirsi a cuore aperto e il pubblico ha fiducia e si mette nelle mani di questo sciamano che rievoca le figure universali che ci accomunano tutti toccandoci, un Rippa (una voce dolorosa a tratti come il frontman di Antony and the Johnsons, fluttuante e flautata come una grappa morbida senza essere soft, tra Tony Hadley e George Michael) in stato di grazia, phisique du role da sacerdote ortodosso che rende questo teatro cantato o questo concerto teatrale una serie di epitaffi che ci sconquassano di lacrime e ci lasciano una patina strana addosso miscuglio tra malinconia e quel senso di impotenza nei confronti del Cosmo, della Natura, del misterioso Creato.

Canta in spagnolo (“Alfonsina y el mar” da Mercedes Sosa), in inglese (“Oh, Danny Boy” o “Over the rainbow”), in napoletano (“Casa sulitaria” di Murolo), ci fa sognare e tremare, commuovere e ci riporta bambini quando tutto era possibile, quando il mondo dei grandi era lì per proteggerci, quei grandi che adesso se ne stanno andando. Non si ride mai ma si sorride, di noi soprattutto, delle nostre minime esistenze, di quanto ci prendiamo sul serio, di quanto tutto potrebbe essere più semplice e spensierato se non avessimo sempre il coltello tra i denti Maurizio Aloisio Rippa.jpege la sensazione di essere invincibili e soprattutto immortali. Siamo fragili ed è inutile nasconderci, siamo di passaggio, non dobbiamo piangere, stiamo soltanto dirigendoci verso un altro viaggio. Nell'ultima scena, quasi una consegna dell'ostia, del perdono o di una assoluzione, in fila andiamo richiamati dal nostro Pifferaio Magico e in quell'attimo di pura, vera, sincera condivisione, nello sguardo tra il performer e ogni persona del pubblico, lì, proprio lì, non esiste più il teatro ma la vita, l'esperienza di stare nello stesso luogo con ogni centimetro del proprio corpo: un insieme di gratitudine. L'onda lunga di “Piccoli funerali” si propaga nel tempo, non finisce con la fine dello spettacolo. Anzi, sorridete perché la fine non è mai la fine, ci dice Rippa, la fine non è una tragedia.

L'auspicio è che Castrovillari diventi ad immagine e somiglianza di “Primavera dei Teatri”, la speranza è che, prima o poi, nel prossimo ventennio, il virus della “Primavera” (non araba ma calabrese) colpisca, attacchi e intacchi, contagi anche il territorio; sarebbe davvero una rivoluzione copernicana.

Tommaso Chimenti

15.10.2020

Venerdì, 09 Ottobre 2020 14:41

Forever Young '20 finisce in "Gloria"

RUBIERA – Nella campagna che si apre tra Modena e Reggio Emilia c'è un chiostro che si fa teatro e un teatro che è racchiuso tra colonne e volte secolari. Incute rispetto e silenzio, passeggiare lenti e l'ascolto più del brusio. Ma c'è anche la festa del sole che cade a strapiombo nel quadrato al centro che illumina e abbaglia. Nebbia, zanzare e, in alcuni periodo dell'anno, anche quell'odore acre di allevamenti che sale su dalla terra. Il contatto con la concretezza qui è fondamantale: il terreno e il materiale accanto alle nuvole e ai voli pindarici artistici. Le zolle appuntite feriscono lo sguardo che si perde in quest'orizzonte indefinito tra piccoli alberi in lontananza, in dissolvenza, che sembrano pennellate stanche ai lati della tela. Una bruma sottile scalfisce l'aria, quei colori leggermente pastellati, quel velatino che offusca opaco questa distesa di campi e trattori dove, nel mezzo, sta la Corte Ospitale. Di nome e di fatto. Lo è stata per i pellegrini fin dal Cinquecento, lo è oggi con una carrellata annuale di residenze artistiche che formano, danno sostegno e supporto a tante compagnie che hanno bisogno di tempo (qui allo stesso tempo dilatato e concentrato), di spazi per provare e per poter innescare le loro parole (tecnici e tecnologie a disposizione), di competenze per meglio entrare nel sistema senza venirne travolti.

Tra queste stanze d'intonaco scalfito ma solide e ancorate, dove il chiostro acceca per bellezza e apre il respiro, da tre edizioni, biennali, va in scena l'importante concorso teatraleIl Crepuscolo LA Gloria mail- fotografia di Leo Merati-2.jpgForever Young” che permette al gruppo vincitore (l'età media dei componenti deve essere under 35) un premio di produzione di 8.000 euro e la distribuzione a cura proprio della Corte Ospitale, centro all'avanguardia riconosciuto per professionalità, attenzione, lungimiranza. 160 le candidature arrivate, giudicate su testo, e cinque i finalisti in gara che, durante l'anno, avevano già usufruito della residenza da 15 a 20 giorni nella struttura di Rubiera dove è di casa Danio Manfredini. Una bella opportunità di visibilità. La commissione giudicante, formata da Claudia Cannella (Hystrio), Carlo Mangolini (Teatro Stabile del Veneto), Fabio Masi (Armunia), Giulia Guerra (La Corte Ospitale), Giulia Delli Santi (Teatro Pubblico Pugliese) era assente, Gilberto Santini (AMAT) e Fabio Biondi (L’Arboreto-Teatro Dimora), ha certificato la vittoria della compagnia Il Crepuscolo con il testo “La Gloria” di Fabrizio Sinisi: primo posto meritatissimo del quale parleremo più avanti.

Ma Canaglie.JPGcominciamo con “Canaglie” (di Giulia Bartolini) del gruppo CARLeALTRI divertente famiglia, parodia di tutta quella cinematografia mafiosa o para tale, che propugna e propaga i suoi (dis)valori passandoli ai figli. Brillante e frizzante la prima parte mentre nella seconda si percepisce (ma tenere il ritmo di trovate e invenzioni era oggettivamente complicato, anche per l'eccessiva durata) una stanchezza generale, e lentezza, che contrasta con i fuochi d'artificio dell'incipit. Una madre, in nero, molto Morticia o Crudelia Demon, con i suoi tre figli, il maggiore prediletto (ricorda Gomez, sempre degli Addams), la piccola finta invalida (Mercoledì?) e l'ultimo incompreso e insicuro che vorrebbe vivere una vita da onesto, il che fa rabbrividire il resto della congrega. Sembrano impomatati e borghesi e ligi alle regole, invece poco a poco si scopre la Banda del Buco, la gang de I Soliti Ignoti, furfanti da strapazzo da truffe cialtrone e ladri da quattro soldi. Hanno guanti come fossimo dentro un fumettone, tipo Banda Bassotti, Casa di Carta o Roger Rabbit, immersi in un'atmosfera in bianco e nero fumosa come una canzone di Fred Buscaglione, con l'unico intento di abbindolare gli altri e soprattutto lo Stato cattivo e malvagio e arrivare a fine mese, perché la crisi si sente anche nel loro settore. Giulia Trippetta è la Madre-Vedova nera attorno alla quale ruotano attori e drammaturgia, ed è una sintesi tra Lady D e Lady MacBeth, tra Rosanna Cancellieri e Nicoletta Braschi in “Johnny Stecchino”, tra Eva Kant e Sue Ellen, la moglie di JR in “Dallas”, tra una Bond girl e Cat woman, tra Monica Vitti e Aldo Fabrizi: diabolica, mefistofelica, tra preghiere sballate e balletti strampalati, perno di questa commedia noir ricca di rimandi e citazioni nascoste in una caccia al tesoro esorcizzante per sentirsi cittadini modello.

Ancora una famiglia, imbevuta in tutt'altro climax, immagini rarefatte tra sogno, incubo e una realtà che si perde nel tempo, che si sfibra e sfilaccia nella leggenda, inquietante e morbosa. “Born Ghost” a cura di Coppelia Theatre (regia e scene di Jlenia Biffi, drammaturgia e performer Mariasole Brusa) è tecnicamente un buon lavoro sul versante performativo e nell'uso del puppet in scena che diviene a tutti gli effetti personaggio autonomo, mentre sul lato contenutistico è una scossa, una denuncia sulla diversità e sulle dinamiche che il gruppo, il branco, la maggioranza mettono in atto, da sempre, per stigmatizzare, allontanare, emarginare chi può sembrare alieno al sistema per piccole o grandi differenze, siano esse fisiche o caratteriali. C'è da dire che una finestra e un fantasma creano immediatamente quella patina nazional-popolare che ci porta a “Psycho”. born ghost ph. M. Sini.jpgQui una bambina albina, siamo a metà del Trecento, viene in vita segregata in casa, morta vivente, perché fuori dal castello il popolo la ritiene portatrice delle più svariate sfortune. Il lenzuolo, che movimenta la Brusa (che danza, recita e manovra la testa del fantasma) dal quale emerge come la Winnie beckettiana, si trasforma in bosco e siepe, corda per saltare e sentiero da percorrere, bimbo in fasce e giaciglio-letto, scopa per pulire o mantello, pancia di donna incinta. Un teatro povero con pochi oggetti che si fa immaginifico, magico. La Brusa ci ha ricordato Marta Cuscunà mentre il puppet somiglia a Carla Fracci in un gioco, alquanto spaventoso e misterico, che rimanda al teatro delle ombre come alle maschere giapponesi, dove il non detto è molto più solido e presente dell'esibito.

Altamente politico e attuale con risvolti impregnati di contemporaneità, il testo di Fabio PisanoNotte all'italiana” che riprende quello di Horvath del 1930 e che lo scorso anno fu messo in scena da Ostermeier a Berlino. In una sorta di futuro distopico prossimo la politica è divisa in due, Repubblicani da una parte (la Sinistra) e i Sovranisti (la Destra). Una volta l'anno questa festa popolare rievoca e riporta alla mente leggerezze, vino e spensieratezze di un mondo appena trascorso. Segreto Pisano.jpegSi beve, appunto, si ascoltano canzoni frivole. I tre uomini attorno al tavolo sono divisi tra il Consigliere (Ciro Masella sempre valido e inappuntabile) e due giovani, uno rigido (Cassandra) nel perseguire i valori della Sinistra, l'altro più fluido e libertino che pensa alla politica ma non soltanto. Fuori intanto aleggiano i naziskin che minacciano di entrare. Il Consigliere ha la chioma hitleresca. Fare politica come missione o come una delle tante attività dell'esistenza? Credere fermamente o lasciarsi andare anche ai piaceri della vita e al disimpegno? Però c'è qualcosa, nella messinscena, che lievemente scricchiola, dalla scelta delle canzoni, non ad esempio Bella Ciao o qualche ballata da partigiano, ma “Ti amo” dei Ricchi e Poveri o “Sapore di mare” fino a Julio Iglesias, che non è neppure italiano, “Tuca tuca” della Carrà e “Il triangolo” di Renato Zero. Una sinistra che si è destrizzata tra aperitivi e vacanze low cost, tra social e abbigliamento trash. Non convincono appieno i ruoli femminili, troppo poco spazio concesso alle due attrici e relegate in un angolo dell'azione. Anche i due ragazzi sono più muscolari che interiori, esprimono più forza che, forse sarebbe stata necessaria, quella presa di coscienza ora di senso di colpa introspettiva poi, che avrebbe reso il plot più sussurrato e quindi, paradossalmente, più profondo e inquietante: è mancato un quid impalpabile per renderlo più credibile.

Ed eccoci ai vincitori: “La Gloria” di Fabrizio Sinisi. Il giovane Adolf, che vuole entrare senza successo nell'Accademia delle Belle Arti, si confronta con l'amico August che invece effettivamente riuscirà a passare l'esame per il Conservatorio. In mezzo a loro la loro amica Stephanie, l'ago della bilancia tra passione e calcolo, l'Arte che si lascia andare solo a chi vuole goderla e goderne senza secondi fini. Incidentalmente qui stiamo parlando di un Adolf particolare, che di cognome faceva Hitler. August è invece Kubizek, realmente esistito, che scrisse, a guerra conclusa, “Il giovane Hitler che conobbi”. Qui si parla di giovani, di sogni, di frustrazioni, di futuro, di quella Gloria che può accecare, distruggere, calpestare. E' un testo (bellissimo, strepitoso) quello di Sinisi poetico senza essere altisonante ma vanaglorioso, dove i dialoghi pungono e scorrono e lasciano in una stato d'estasi le scene come un riflesso su un lago ghiacciato, sospese e talmente tangibili da risultare quotidiane. Un linguaggio alto senza presunzione, facile all'ascolto e liberatorio ma anche colto, messo in bocca a due straordinari interpreti Alessandro Bay Rossi, sempre incisivo e naturale (da Latella a Pier Lorenzo Pisano) e Marina Occhionero (la sua presenza non passa mai inosservata) che la vedi giovane e minuta ma che quando prende la parola tutto il palco s'illumina, la voce ferma, convincente e le frasi s'aprono e tutto prende senso e si dipanano nell'aria che sembra vederle e leggerle come fumetti di fiato nella neve. Infine la regia di Mario Scandale ha puntellato con video mai didascalici ma accompagnanti queste visioni-digressioni-discussioni, ha coordinato lo spazio lasciando una libertà d'azione che, nell'artificio di attrazione e repulsione, ha esaltato corpi e intenzioni e tutto quel tra le righe che prepotente è emerso, quelle emozioni irrefrenabili tornate a galla impossibili da soffocare: una nostalgia da tagliare a fette, in un parallelo tra la fine di un'epoca, quella dell'adolescenza, e la fine di un'era, quella di Pace. Come dire che l'età adulta faccia rima, sempre, con tragedia. Battimano convintissimi.

Tommaso Chimenti 09/10/2020

PALERMO – Esiste un fil rouge, neanche troppo nascosto, che lega Palermo a Napoli. Sarà l'aleggiare del Regno delle Due Sicilie ancora presente e vivo, sarà la musica neomelodica (ma anche Gigi D'Alessio va ancora forte) che rimbalza e sfonda le casse di piccole utilitarie lanciate con i finestrini abbassati per far sentire meglio “la potenza della lirica dove ogni dramma è un falso”. Palermo la città dei calcinacci e delle transenne che ormai fanno parte del paesaggio immutato, e immutabile, “na carta sporca e niscuno se ne importa”. Le cose più pericolose da fare a Palermo sono camminare sui marciapiedi, tutti dissestati e tutti disseminati di escrementi, non tutti canini, da farci lo slalom, quindi occhi sempre a terra, e attraversare sulle strisce, qui il pedone non ha nessuna protezione, quelle linee bianche, rettangoli panciuti perpendicolari alla carreggiata non danno sollievo né diritto ad alcun privilegio: devi muoverti, devi accelerare il passo, devi correre, noi certamente non ci fermeremo, non rallenteremo, al limite ti suoniamo il clacson pressante per farti capire che non dovresti stare lì. Palermo non è una città per pedoni.Cantieri_Culturali_della_Zisa_di_Palermo_A.jpg

Ma tra lo sgarrupato e il divelto, tra l'intonaco che cade, o è caduto da millenni e sta ancora lì per terra a ricordarcelo, e i tubi innocenti arrugginiti messi lì anni fa e lì rimasti a perdere la propria innocenza, in questa decadenza che fa folklore, soprattutto per le fotografie dei turisti, in questo decadimento e disfacimento si cela la bellezza, del mercato del Capo, la strada della Vucciria, il grande Ballarò. Bellezza da scorgere, scoperchiare, nei volti, negli occhi, in quella somma di atteggiamenti che formano una stratificazione culturale. Ecco, se Napoli è un teatro a cielo aperto, Palermo è un market, un suk. Il legame con Napoli è ancora più chiaro quando vedi i cestini con il filo scendere da terrazze e finestre in alto per avere la spesa senza “scendere abbasc”, quando visiti le Catacombe dei Frati benedettini che in qualche modo ricordano il partenopeo Cimitero delle Fontanelle, i baracchini dove friggono l'impossibile. Un caos ordinato e ordinario. Per chiamarsi urlano il meraviglioso “Vita mia” che, come le insegne delle macellerie che riportano la vecchia “Carnezzeria”, ci porta inevitabilmente a Emma Dante. Palermo che ha visto nascere artisticamente, oltre alla regista del recente “Le Sorelle Macaluso”, esperienze come Vetrano e Randisi, Ciprì e Maresco, Franco Scaldati, Mimmo Cuticchio, Massimo Verdastro, Rosario Palazzolo, Vincenzo Pirrotta.

All'istituzionale Teatro Biondo, diretto da un paio di stagioni da Pamela Villoresi, e al Teatro Libero, da marzo 2018 si è aggiunto nel panorama palermitano anche uno spazio vivo, fresco, giovane all'interno di un centro polifuzionale attivo che sembra funzionare. Lo Spazio Franco, nome evocativo che sa di contrabbando di idee e di libertà dove tutto possa essere possibile, sorge ai Cantieri Culturali alla Zisa, piccola oasi (erano gli edifici del vecchio mobilificio Officine Ducrot) fatta di capannoni bassi che stonano piacevolmente con i palazzoni intorno che la cingono e ne parano l'orizzonte, fanno ombra, la racchiudono come riserva indiana. Decine e decine di caseggiati-ex laboratori, alcuni rimessi a nuovo e ricostruiti, e affidati a progetti culturali, un bel polo dove accadono le cose, dove il fermento si sente e percepisce nell'aria, dove, per architettura e clima(x), non sembra di essere in Italia, dove si respira ossigeno d'internazionalità che pare d'essere ad Amsterdam, a Berlino o in Scandinavia dove spazi d'archeologia industriale (hangar e street art) recuperati rendono fascinoso il paesaggio e salvifico il loro apporto alla città, a quartieri periferici difficili. Ecco qui hanno trovato casa e sede il Cinema De Seta, lo Spazio Zut, il Goethe Institut o il Centro sperimentale di Cinematografia, l'Accademia delle Belle Arti e l'Istituto Francese, il centro di fotografia Letizia Battaglia: un grande polo culturale dove poter attingere, per i giovani ma non solo. Ci sono ancora tanti spazi da riportare a nuova vita.

1540059840.jpgEd è in questo scenario che nasce, e sta crescendo, il “Mercurio Festival”, che fiorisce dentro lo Spazio Franco (concessione dell'area da parte del comune per dodici anni; ci sono voluti 70.000 euro di investimento per i lavori di ristrutturazione), diretto (per questa seconda edizione non si potrebbe affermare) da Giuseppe Provinzano, anima fino a qualche anno fa del gruppo Sutta Scupa e oggi della compagnia Babel Crew. Una direzione non-direzione perché gli artisti (quasi una ventina) selezionati lo scorso anno hanno scelto a loro volta, a cascata, altre formazioni e progetti in una sorta di “sponsor” e “tutoraggio”, più che altro passaggio di consegne e di testimone, una presa di coscienza, di responsabilizzazione e di consapevolezza da parte delle compagnie nelle decisioni di una rassegna: se vogliamo un'idea rivoluzionaria che ribalta il concetto di direttore al vertice dell'iceberg e artista come manovalanza e filiera, quantità all'interno di un cartellone, e fa divenire la kermesse non verticale ma orizzontale e “democratica”. Il pianeta Mercurio presenta innumerevoli vulcani attivi, il mercurio stava fino a qualche anno fa nei termometri (e in periodo di Covid come non pensare continuamente alla febbre?), il mercurio se ingerito è velenoso, il mercurio è l'argento vivo, è un ottimo conduttore di elettricità, è un metallo ma allo stesso tempo è tenero e duttile: il nome pare perfetto per identificare questa esperienza.

All'interno della sua programmazione abbiamo scelto di raccontare “Sala Party” di Giustina Testa, “Zero A/V Show” del collettivo torinese Spime.im, e “La mia battaglia” di Elio Germano e Omar Rashid. Quindi teatro di narrazione tradizionale, teatro d'attore il primo, videomapping il secondo, narrazione ma in video-soggettiva con gli oculus, occhialoni ipertecnologici per vedere a 360 gradi, il terzo. Tante anime, tante sfaccettature da declinare hanno il “teatro”, l'arte dal vivo, la performance.

In “Sala Party” (titolo che appena la piece entra nel vivo è un ulteriore colpo alla stomaco) parte brillante e finisce, anzi s'acuisce sempre più, in una spirale di spine e spigoli, di lame e pugnali, GIUSTINA-SALA-PARTI.pngin una tragedia che pare senza fine, in un girone infernale, punizione corporale per qualche pena da espiare. Proprio in questi giorni è uscita la notizia del cimitero romano dei non-nati con i nomi delle madri (la privacy?) su croci (vergognoso il tutto). Si pensa sempre all'aborto (il riferimento va a “Lettera a un bambino mai nato” di Oriana Fallaci), forse è la parte maschilista della società, come a qualcosa di naturale, come un'eventualità, una possibilità che possa accadere e quando avviene si può reagire alzando le spalle e dicendosi “riproviamo”. Non è esattamente così. “Sala Party” (tutt'altro che giubilo) ha proprio questa valenza, chiamiamola, didattica, di pura conoscenza, nell'aprire le porte della Sanità senza umanità, senza competenze, senza empatia tra dolori lancinanti fisici e strazianti sofferenze e tormenti interiori e psicologici che non finiscono certo appena usciti dall'ospedale. Comincia brioso e il climax che si crea, tra palco e platea, è positivo, frizzante, di comprensione ma anche di sorrisi, in una grande digressione che non fa altro che instradarci in un tunnel senza sfondo, in un martirio e supplizio che mette a dura prova, fisicamente, commoventemente, anche l'audience. Il senso di colpa ci affligge tutti in quest'anatomia personale (troppo) che avrebbe bisogno di altri palcoscenici più intimi, in questo senso di impotenza “ricattatorio” di dolore esibito che tracima l'arte diventando autodramma, non più letterario ma che si fa seduta psicoanalitica unidirezionale in una spettacolarizzazione riservata. La festa non c'è, rimane un funerale che ci taglia tutti a pezzi.

Nel lungo missile bianco di 140 metri di lunghezza s'avvolgono e s'intrecciano le musiche sperimentali, elettroniche e acide del collettivo Spime.Im con le immagini che s'aggrovigliano e si rincorrono mettendo con le spalle al muro retine e cervello che deve decodificare, velocemente, rimandi, rimbalzi, connessioni, sinapsi, associazioni intellettive, culturali, contemporanee. Un razzo che sembra una supposta e noi dentro sballottati in questo flusso di colori e rumori deformanti creati con un guanto di sensori che parte dalla Creazione, dal Big Bang, con questi due dj schermidori-danzatori immobili duellanti agitatori che producono rumori ancestrali fino agli spari e alla guerriglia nella giungla. Show emotivo che colpisce per forma (tutti a testa alta a guardare queste immagini che s'ammucchiano), per contenuto (a contemplare la disgrazia e l'infausto destino dell'impatto dell'Uomo sul Pianeta Terra). Non possono mancare le immagini di rifiuti e di chilometri quadrati di plastica, mari e fiumi inquinati, spime-im-1280x640 copia.jpgi cumuli di scorie con queste grandi vibrazioni disturbanti fonte di scosse e scuotimento, di denuncia sociale. Tutto si spacca, tutto esplode, si espande. Con il braccio come marionettisti, a tirare colpi all'aria, un braccio per difendersi adesso, per attaccare ora, i due sulla scena, protetti dal loro rifugio-trincea mixer-altare (sono gli officianti del rito), mitragliano e bombardano l'aria tra colpi d'arma da fuoco, siringhe, trasformazioni di corpi, passando dall'eroina al botulino fino agli steroidi, dagli immigrati in mare agli yacht ipermiliardari, dai videogame ai robot in uno slittamento sintattico, semantico e percettivo della deriva plausibile e possibile di ogni scoperta umana nata per migliorare l'esistenza e che finisce sempre con il danneggiarla, peggiorarla, distruggerla. Una tecnica di ripetizione in loop che morde alle caviglie.

Il progetto di Elio Germano (non presente) e Omar RashidLa mia battaglia” ha aperto (il progetto comunque era stato attivato pre-Covid) una nuova fruizione dello spettacolo dal vivo in un ibrido che rimane in equilibro tra il remoto (il video preregistrato) e la realtà (il video è in soggettiva a 360 gradi e ogni spettatore si trova inserito in prima fila in teatro). Certo manca il tattile ma l'esperienza rimane quasi completa e, dopo alcuni minuti di assestamento e assuefazione alla nuova condizione (non ci si vede le mani o i piedi ad esempio) in questa bolla incorporea, si ritrova il piacere della tridimensionalità e della profondità quello che non riesce a dare la pellicola o il video che ci lascia sempre un passo indietro rispetto all'opera, distanti. Qui invece sei dentro, immerso. Questa la scatola (da non sottovalutare), la cornice dentro la quale Elio Germano, che si muoveva lì ad un passo da noi che pareva di poterlo toccare ma come ologramma era irraggiungibile, avatar impalpabile di se stesso, si muoveva nel suo racconto di un Mondo Nuovo, un mondo da rifondare e ricostruire dalle basi, un universo sociale che torna alle origini per ristabilire concetti e giustizia, meritocrazia contro burocrazia, il talento al posto delle conoscenze familiari. E' un escalation per convincere il pubblico della bontà delle proprie parole che alzano sempre un po' più il tiro ad ogni passaggio e sottolineate (con troppa enfasi da risultare organizzate e coordinate) da una fetta di pubblico sparso in sala (cooptato per l'occasione). Chi poi alla fine si stupisce della deriva dello spettacolo non ha mai tradotto il titolo in un'altra lingua europea molto dura. C'è poco da stupirsi della fine (anche troppo manieristica e fintamente iperrealistica da divenire riconosciuta costruzione teatrale) ma l'ascesa delle idee che da giuste e moderate passano a borghesi e finiscono per divenire estremiste sono il ciclo naturale delle società che hanno in sé nascita, lotta e declino. Il nostro mondo è nell'ultima fase. Attendiamo azzeramento e ricostruzione.

Tommaso Chimenti 04/10/2020

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