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CASTROVILLARI – Primavera dei Teatri rimane primavera anche se siamo ad inizio autunno. Per varie vicissitudini, lo scorso anno lo storico festival della Calabria del Nord, PdT è saltato e quest'anno è slittato da fine settembre fino alla prima settimana di ottobre ma questo non ha influito sulla ricerca dei nuovi linguaggi nella nuova drammaturgia non soltanto di casa nostra. La rassegna, diretta da Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano, quest'anno ha raddoppiato gli sforzi con un prologo a Catanzaro con diverse proposte internazionali. A Castrovillari, dove tutto è nato e dove tutto ritorna, abbiamo potuto seguire otto tra spettacoli e performance. Castrovillari sembra sempre la stessa, sembra sonnecchi con il Pollino sopra con la sua croce e le nuvole grigie a fare da cappello, le strade sempre con gli stessi disegni e graffiti che nessuno copre e nessuno migliora e nemmeno nessuno che ne propone di nuovi. Tutto è fermo anche se il fermento c'è, si sente, si percepisce, basti guardare i tanti giovani che affollano i luoghi del festival, il Teatro Vittoria e il Sybaris nel Protoconvento dove i ragazzi pullulano. Non cambia nemmeno l'immancabile Osteria della Torre Infame, che piace proprio perché rimane fedele a se stessa nei decenni: con il proprietario Nicola neo presidente del Castrovillari Calcio in Serie D e gli spaghetti al fuoco di Bacco, cotti nel vino e piccanti, che sono un must irrinunciabile e da soli valgono il viaggio (come non ricordare il caposala Pasquale). Oltre agli spettacoli ci sono stati i commossi ricordi di Maria Grazia Gregori e di Renato Palazzi, due grandi critici teatrali milanesi che ci hanno lasciato nell'ultimo anno. E c'è stata anche la presentazione del volume scritto da Gigi Giacobbe, altra firma prestigiosa stavolta messinese, su Bob Wilson. Come ogni anno ci attira molto la locandina che stavolta propone un uomo gonfiabile, una sorte di omino della Michelin, tutto avvolto dentro il cellophane, quello da scoppiare, quello per salvare gli oggetti fragili. Siamo teneri, siamo delicati e allo stesso tempo vogliamo stare sotto una campana di vetro per non romperci anche se, vicino a noi, come nostro compagno di viaggio esistenziale, c'è un cactus che, anche se piccolo, potrebbe farci esplodere, potrebbe far scoppiare la nostra scorza, il nostro scudo e armatura.Giancarlo Cauteruccio.jpg

Quello che abbiamo notato, nella maggior parte delle proposte, è stata una solida riflessione sul tema figli-genitori e spesso figli-padre. Chissà, forse parlare troppo delle madri e troppo di Genitore 1 e Genitore 2 ha scaturito un'ondata dissonante. Forse i padri mancano oppure non sono più le figure dei No decisi oppure c'è troppa confusione tra i ruoli. Ma la sostanza sono gli spettacoli, dai quali abbiamo attinto, ai quali ci siamo abbeverati di nuove riflessioni e spunti. Come “La Divina Calabria” di Giancarlo Cauteruccio che non smette di stupirci: idea geniale quella di prendere un locale sfitto sulla via principale, accanto ad un bar dai tavolini affollati e un kebab dagli odori e suoni e lingua araba. Tra caffè e carne bruciacchiata messa dentro pane e stagnola ecco che si apre l'antro della Sibilla Cauteruccio che, sull'immancabile carrozzella beckettiana, feticcio e firma, ha aperto il suo temporary shop dove all'interno un cantore, lo stesso Maestro cosentino-fiorentino in dark, due coriste-vocalist-cantanti in nero e sullo sfondo un performer in un'azione che ricordava il riscaldamento pre-nuoto, lo stretching, la ginnastica per cercare di non affogare nello Stige dei nostri peccati. L'eco rimbombava tra le pareti bianche, immersi nelle luci rosse rotanti di sirene, con questa acre Divina Commedia (canti scelti dall'Inferno, 1, 3, Purgatorio, 1, 2, 5, e Paradiso, 1, 10, 33) tradotta in lingua calabrese che pizzica e morde. Il Maestro si contorce sulla sedia a rotelle, con gli occhiali scuri da sole (non vedente tra Tiresia e Finale di Partita), mentre luci d'allarme come piccoli fari girano su se stesse creando un fremito uditivo e visivo e sonoro. Bianco delle mura, neri gli abiti, rosse le luci per un'immersione totale, da ascoltare anche senza capire. Si percepiscono la musicalità e le assonanze, i suoni e le armonie fragorose. A volte sono solo sospiri e respiri, gemiti, altri sono grida e urla. Siamo dentro una grotta moderna mentre fuori le chiacchiere sono attutite dalla musica, le auto continuano a strombazzare, il mondo è lontano. Un Dante in carrozzina in questo rito per poche persone alla volta. Se Cauteruccio è bloccato, il performer, lo snodabile Massimo Bevilacqua, sullo sfondo è in continuo movimento, i canti, delle brave Anna Giusi Lufrano e Laura Marchianò, addolciscono e sottolineano questa potente esibizione.

L'incastro tra il drammaturgo Mariano Dammacco (e la sua attrice di riferimento e sodale Serena Balivo) e il performer a tutto tondo Roberto Latini non è riuscito alla perfezione in questo “Danzando con il mostro” (prod. ERT - Lombardi-Tiezzi) rarefatto affresco giocato più sulle epifanie e sulle apparenze che su una precisa corposa sostanza. Due personaggi in scena, che non capiamo, tra dialoghi surreali (il pubblico ride, e molto purtroppo, sulla reiterata parola “Cog-lioni”, detta proprio così, staccata e con questa scansione) che più che dipingere un habitat metaforico creano una confusione di immagini, sovrapposizioni, spaesamenti, nebbie, fraintendimenti. Dopo poco non si riescono più a cogliere i confini dei personaggi, scivoliamo, cadiamo, chi sono questi due? cosa fanno? perdendoci dentro dialoghi sospesi tra una Balivo-Franca Valeri e un Latini-Petrolini in un incedere che non NITROPOLAROID.jpegtrova un felice sbocco fluido. Diciamo criptico.

Un tempo c'è stato Antropolaroid che tanta fortuna ha portato a Tindaro Granata. Adesso arriva questo “Nitropolaroid” dei Crack24, scatto impressivo di una famiglia esplosiva. Parte benissimo questo scritto, in parte autobiografico, dell'autore Riccardo Lai. Un racconto fortemente tratteggiato dalla calata sarda, un autodramma per dirla con le parole che Strehler usò per definire il Teatro Povero di Monticchiello. A grandi intuizioni seguono acerbità e ingenuità. Lai, protagonista in scena (somiglia a Nicholas Cage), dà subito una bella carica alla platea, tra il sardo e un italiano sardizzato raccontando, da dentro, la sarditudine, la distanza, geografica e culturale, dell'isola, il mirabolante Continente da temere e da affrontare. Seguono scene e quadri, surreali e grotteschi, parodistici, e fin quando si rimane su questa falsa riga il tutto risulta fruibile e godibile. Poi sembra che gli sia sfuggito di mano qualcosa perché cambia bruscamente il clima che si fa cupo e tenebroso tra streghe e omicidi: un altro spettacolo proprio. Nella prima parte (dove la platea era tutta con loro), che ha il sapore di un Far West simpatico, con risvolti sociali e antropologici ma sempre sul difficile terreno ed equilibrio sottile di un'autoironia pungente, si ha la sensazione di una leggerezza intelligente ma allo stesso tempo siamo rapiti dalle sorti di questa famiglia rurale e da questo figlio che vuole seguire orme e sogni differenti. Qualcuno potrà dire generazionale, sì, è vero, però fatto bene. Alcune scene troppo allungate e annacquate, le streghe nel bosco ad esempio, anche se l'impianto a metà tra “Nozze di sangue” di Garcia Lorca e “Macbettu” di Alessandro Serra, sembra funzionare, tra il I Macbeth.jpgmistico e il mitologico, il sogno e la leggenda. Il ritratto del padre o dello zio (parla come un mix tra Maria Amelia Monti e Gianni Brera) sono folcloristici e curiosi, così come la scena delle tre suore (molto Marta Cuscunà). Poi, inspiegabilmente e senza alcuna ragione e spiegazione, si entra su un terreno drammatico pesantissimo che sconfessa tutto il precedentemente espresso: un Cristo in croce fino, appunto, ad una morte violenta che ci coglie impreparati ed è fuori luogo. A tratti la voglia di gag gli ha preso la mano: less is more. Dopo il crack, il punto di rottura segna anche un punto di non ritorno e “Nitro” diventa tutt'altro spettacolo che, improvvisamente, non funziona più. Purtroppo.

Dopo “Riccardo 3” arriva la seconda parte della trilogia shakesperiana frutto dell'incastro tra Vetrano/Randisi e Francesco Niccolini: “I Macbeth”, prod. Arca Azzurra (seguirà Amleto). L'impianto è quello di R3, una struttura di contenimento coercitivo, un carcere manicomiale di loculi e catene dove sono rinchiusi i personaggi delle tragedie del Bardo o persone che si sono così tanto immedesimate da credersi loro e sentirsi tali. Hanno tic e sentono fantasmi dentro le loro teste, dentro le loro orecchie che ritornano e non li lasciano in pace e i loro dialoghi arrivano direttamente dalla letteratura inglese seicentesca con innesti di quella cultura contemporanea voyeuristica televisiva che ben si presta alle vicende di cronaca nera del Belpaese. Così al Macbeth vengono aggiunti Olindo e Rosa e il caso Varani e tutto prende senso e “questa notte atroce e insanguinata” la sentiamo più vicina, più nostra, più tangibile, meno lontana, meno impossibile. I tratti sono cupi, barbari. Ancora manca qualcosa oppure questo secondo step troppo ricalca il primo passaggio da assimilarli.

Tommaso Chimenti 06/10/2022

SPOLETO – Gli esperti ci dicono che Don Giovanni e Casanova hanno tratti dissimili, lontani, divergenti. Eppure hanno in comune, a nostro avviso, da una parte la cupezza della disperazione esistenziale che li porta a cercare la carne non come soddisfazione ma come dissoluzione e disfacimento e distruzione, dall'altra la morte che aleggia, quasi la ricerca furiosa e forsennata della stessa, quasi fosse una punizione autoinflitta, una discesa agli inferi attraverso i piaceri smodati, attraverso l'abuso, l'eccesso, la caduta. “Don Giovanni” (3h 30' con intervallo) può essere rappresentato in forma leggera o in una versione più introspettiva, questa del Teatro Lirico Sperimentale spoletino, diretto da Salvatore Percacciolo e per la regia di Henning Brockhaus, tira molto sul lato comico, la prima parte, 02_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpge pesantemente drammatica la seconda, pur sembrando ridondante, troppo sottolineata. Rimane lievemente nel guado, nella non scelta, in un equilibrio equidistante che non soddisfa né l'una né l'altra parte restando imbrigliato in un gioco di colori sgargianti e soprattutto in una scenografia esondante, piena di riferimenti, anche non coerenti, colma di segni e oggetti che hanno spostato l'attenzione sui significati, sulla forma più che sull'analisi profonda di un testo multisfaccettato e composito come appunto il Don Giovanni. Se lo rappresenti soltanto come un donnaiolo irriducibile, un guitto, un bravo, un guappo (forse dovrebbe anche farci simpatia?) che ottiene le virtù delle fanciulle con stratagemmi, furbizie, inganni e violenze, fai un torto alla sua figura e, in maniera maggiore, a tutto il marcio, il sommovimento interiore emotivo psicologico di un personaggio che incontra la Morte, uccidendo caravaggescamente il Commendatore, e portandosi addosso come stigma, il simbolo dell'inferno. Un Don Giovanni che all'inizio entra dentro una tela da pittore, come un Dorian Grey, sfondando la parete ed entrando in un disegno più grande di lui.

Qui, nel primo atto in maniera evidente ma anche nel finale, si cerca più uno sfogo burlesco, burlone e gioviale, si fa leva sul battutistico (ad esempio un Leporello, disegnato con giacca di cuoio alla Fonzie, è raffigurato soltanto come un ruffiano bieco quando in realtà è l'altra faccia della medaglia di Don Giovanni). Si punta molto sul sesso, sugli incontri, sugli amplessi patologici, sul gioco d'accumulazione, anche se sembra che il nostro Cavaliere, rocker irrispettoso, impetuoso, libertino e arrogante, ami più la conquista seriale e sincopata e bulimica che la carnalità vera e propria: come se avendo perso la propria anima volesse cibarsi vampiristicamente di altre aure per riempire questa sua mancanza profonda e vuoto siderale succhiando la vita di vergini per ritrovare la purezza e il candore dissipati e smarriti per sempre. E ci ha lasciato stupiti la decisione di vietare la visione dell'opera mozartiana ai minori di diciotto anni: la parte più scabrosa, ad essere fiscali e ortodossi, era la locandina (scena non presente sul palco perché è un dipinto di Jack Vetriano) con Don Giovanni in piedi e una fanciulla seduta su una sedia 04_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpgdi spalle in una posa da possibile, ma non esplicita, eventuale fellatio. In scena invece nessun momento di nudo, nessun quadro discinto o smaccatamente violento, con i costumi delle ragazze che ricordavano il Moulin Rouge con qualche fondoschiena al vento ma niente che non si trovi in ogni sito internet pubblicizzando lingerie e pizzi vari.

La cosa però più ingombrante e imponente che ha destato in noi più perplessità è stata la scenografia monstre, curata più per colpire nella sua abbondanza e voracità che per l'efficacia e la funzionalità: tra i fondali che si susseguono forse soltanto il primo, con sette donne di schiena (una sorta di ballerine di Degas con in mostra in prima vista i sederi rotondi) e l'ultimo con uno sbaffo di vino (sangue e sesso) possono in qualche modo essere in linea con il titolo, gli altri che si susseguono, astratti, riescono a complicare maggiormente la visione di ulteriori colorazioni e cromatismi. 05_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpgIn alto restano sospese decine di sedie (Ionesco?) alle quali non siamo riusciti a trovare un significato soddisfacente. Cadono dall'alto infinite paia di scarpe femminili con tacchi vertiginosi per feticisti, mentre ai lati della scena, un po' nascosti e nel buio, stanno banchetti con tavole imbandite, quasi brechtiane, e candelabri con uomini e manichini nudi di donna come se la scena che stiamo-stanno guardando sia teatro nel teatro all'interno di un locale da spettacoli hot, come le odalische nei palchetti con le bolle di sapone. Addirittura, ad un certo punto, spunta anche un orso polare bianco (sembra quello di uno spot anni '90 della Coca Cola) che, con tutta la buona volontà, non siamo riusciti a collocare né filologicamente né come scelta azzardata e contemporanea. Insomma tanto, molto, troppo, un frullato 06_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpgdai tanti gusti aggiunti per somma e forse non per esigenza narrativa o drammaturgica.

Le donne in bianco virgineo, mentre Don Giovanni inguaribile uomo senza onore, mentitore e traditore e bugiardo è in un giubbotto nero da motociclista demoniaco, non hanno libero arbitrio ma si lasciano prendere come burattini senza scelta né consapevolezza per poi, alla fine, cercare di fargli la pelle per punirlo moralisticamente: “Questo è il fin di chi fa mal”. Anche il Commendatore, che torna dal mondo dei defunti per colpirlo con le fiamme degli Inferi, si presenta dalla Platea (tecnica qui spesso usata per non dire abusata) con i led che lo illuminano da sotto la giacca. Più che l'opera incede e più zoppica. Infine sottolineiamo i costumi di Giancarlo Colis e tra il cast spicca Alessia Merepeza nei panni di Donna Elvira.

Tommaso Chimenti 20/09/2022

Foto: Ludovica Gelpi

FORLI' – Senza voler essere necessariamente esterofili, le due proposte provenienti dall'Olanda, all'interno del fitto e corposo cartellone della rassegna “Colpi di Scena” (organizzato da Accademia Perduta/Romagna Teatri e Ater Fondazione), festival di teatro per ragazzi e giovani tra Forlì e Faenza, sono state le più incisive, sicuramente le più moderne e contemporanee, con linguaggi aperti a riflessioni stratificate, interessantissime suggestioni piene di senso e contenuti adatti ad ogni età e non chiusi nella scatola-definizione-dicitura-didascalia “teatro ragazzi” che alle nostre latitudini limita la visuale e semplifica l'immaginazione.

Per primi ci siamo trovati davanti ad “Hermit” (significa “Eremita”) del gruppo Simone De Jong Company, mezz'ora di purezza, trenta minuti da vivere, respirare, capire, assaporare. Tutto si svolge dentro, a fianco, attorno ad un cubo. Facile il primo aggancio semiotico e sentimentale al Cubo di Rubik o, al limite, ai bozzoli di Cocoon; infatti siamo davanti ad un rompicapo, ad un bivio esistenziale, ad un passaggio in perenne contraddizione tra la voglia di stare e quella di scappare, tra il desiderio di abitarlo e quello di cercare la libertà trovandosi di volta in volta insoddisfatti e delusi da una CairoHermitIMG-20200307-WA0000.jpgdelle due condizioni. Dentro il cubo-bara una lucina ne illumina le pareti e subito ci appaiono i classici segni semicircolari di una ecografia: nasciamo da un luogo claustrofobico ma caldo, costrittivo ma comodo e, durante l'esistenza, ci muoviamo come trottole per ricercare e ritrovare quella sensazione di pace e di benessere. Sembra un lavoro scritto durante la pandemia, o almeno sembra calato in questi nostri tempi dove più che l'andare fisico sembra che ci basti viaggiare sepolti e impigriti dai nostri divani, sprofondati nei letti o nelle poltrone delle scrivanie con l'illusoria convinzione, malsana e ipocrita, che ci vendono i nostri smartphone facendoci credere che tutto sia a portata di click quando sullo schermo la realtà che vediamo è soltanto bidimensionale mancando la profondità, mancando appunto noi dentro quel panorama. Il nostro protagonista (sembra un astronauta nella sua navicella, sembra un giapponese nel suo loculo) se ne sta rannicchiato dentro, compresso, è come impaurito; ai tanti campanelli che installa all'esterno delle pareti protettive del suo guscio, sonagli che evidentemente dovrebbero logicamente servire per essere trovato, risponde perennemente con “Non sono in casa” non volendo entrare in nessuna relazione con gli altri, affetto da una forma di patologica misantropia accelerata all'ennesima potenza. Quando la sua voglia di uscire si fa esondante e finalmente riesce a prendere coraggio per esplorare gli intorni del suo spazio e prendere consapevolezza del proprio corpo al di là dei confini imposti dalla sua pelle, esce dall'oblò e comincia una furiosa e forsennata corsa felice e liberatoria e di risate a bocca piena, gambe in spalle che sanno di gioia e soprattutto libertà. Ma, come kleur-_dadodans_foto-ben-van-duin-12.jpgsi dice, se non puoi uscire dal tuo tunnel allora arredalo. Una volta resosi conto della presenza di tanti sconosciuti, di molti occhi a fissarlo, la paura e il timore del contatto (forse del contagio) lo assale ferocemente facendolo ritirare dentro la sua sicurezza e fortezza. Con il lockdown è cambiata radicalmente l'idea di casa; adesso l'abitazione è una propaggine di sé, come la chitarra per Jimi Hendrix, ci deve assomigliare perché lì dentro ci passiamo, ci passeremo molto tempo. E la riflessione prende una piega drammatica: se possiamo stare tranquillamente in casa e lì lavorare non abbiamo più bisogno di uscire per raggiungere il posto di lavoro, non ho più bisogno del cinema perché ho Netflix e Prime Amazon, non ho bisogno di andare a fare la spesa perché me la porta direttamente un deliveroo, non ho più bisogno di relazioni perché parlo con Alexa, posso chattare con sconosciuti e tutto risulta essere anche più asettico e pulito. Quando non vado d'accordo con qualcuno posso bannarlo o bloccarlo e cancellarlo così che il problema viene estirpato alla radice. La paura dell'altro ci fa rinchiudere nel nostro guscio di chiocciola, come un paguro nella conchiglia, come una tartaruga all'interno del carapace. Questo chiudersi al mondo, illudendosi di lasciare fuori di casa i problemi, crea nuovi hikikomori: il futuro è grigio, bisogna per questo aprire le finestre per cambiare l'aria e respirare a pieni polmoni. Gli altri non sono un problema, il problema siamo noi stessi.

Anche il secondo “Kleur+” (significa “Colore”) della compagnia Dadodans è una performance senza preclusioni, per tutti i tipi di pubblico. Kleur-DadoDans-82-scaled.jpgUn gioco di una performer (concept e coreografia di Gaia Gonnelli) immersa in una scena dove la fanno da padroni visivamente palle argentate di varie dimensioni. E qui scattano due illuminazioni, due direzioni che sembrano opposte anche se entrambe hanno a che vedere con la creazione, con la nascita. La prima è che l'attrice potrebbe essere la metafora di Dio, o per esso la Natura, che gioca a dadi con gli uomini in questo sistema solare che sposta a piacimento, muove, fa rotolare galileianamente. Facendo tintinnare e barcollare le sfere qualcuna si apre e si rompe facendo fuoriuscire della polvere rossa, allegoria della saharizzazione del mondo come del tanto sangue versato dall'uomo, sua creatura principale fatto a sua immagine e somiglianza, come se giocasse con il sangue, calpestandolo, e con le continue guerre degli uomini stolti. Quelle strisce rossastre ricordano il sangue rimasto nell'arena, nella Plaza de Toros dopo che il bovino imbufalito è stato trascinato, ormai morto, fuori dalla corrida con il carro dei cavalli. Il rosso che imbratta la scena, che alla fine sarà di pollockiana memoria (ma potremmo andare anche a Kandinsky o Rothko) apre alla seconda immagine forte esplicita che balena quando la grossa goccia, che è appesa come un gigantesco punchingball pugilistico a mezz'aria, anch'essa si apre e lascia colare (come la rottura delle acque) liquido di vernici impastanti appiccicose. Potremmo essere all'interno di un utero e la maxigoccia essere l'ovulo: certamente un'immagine potente. Due proposte che ci fanno capire in quale direzione stia andando non soltanto il teatro ma anche il teatro ragazzi nel mondo dove non esistono distinzioni e non esistono categorie, perché fondamentalmente ci sono solamente due tipi di teatro: quello fatto bene e quello fatto male. L'arancione rimane un bel colore.

Tommaso Chimenti 02/07/2022

TORINO – La ferita che ha lasciato il Covid nell'animo e nelle vite delle persone è ancora profonda, troppo aperta e sanguinante per poterla affrontare come un qualsiasi altro argomento. Troppo fresca per parlarne, per esorcizzarla attraverso l'arte, soprattutto attraverso il teatro, l'arte per eccellenza che sublima e innesca, che fa metafora della realtà, che astrae, estrae, sintetizza, rielabora. Questo non significa che dobbiamo applicare censure o rimozioni collettive però crediamo che la nostra società, soprattutto quella occidentale che è stata travolta e stravolta da questi due anni prima di privazione della libertà poi dilaniata dal conflitto 03_L'estinzione della razza umana_ph Luigi De Palma_RR60995.jpgvax/novax e infine colpita da inflazione e recessione, ancora non voglia confrontarsi con il tema del virus e abbia bisogno di altro tempo per allontanarsi dalla minaccia, relativizzare il passato, fare un passo indietro e guardare a quest'ammasso di emozioni contrastanti con un occhio meno partecipe e meno coinvolto. Tutto è talmente troppo vicino (le mascherine in teatro, aereo e treno si continuano a portare, e i morti collegabili alla malattia ci sono quotidianamente) che non possiamo ritenerci immuni, che non possiamo parlarne come un dato del nostro recente passato perché ne siamo ancora invischiati e la coda lunga, soprattutto nell'economia, si farà sentire per svariati anni. Se siamo ancora dentro al vortice è difficile e complicato poter argomentare con lucidità, prendere posizione con un coerente distacco, con la giusta distanza.

La gente vuole sentire parlare di Covid o in questo preciso momento storico cerca, non tanto il disimpegno, quanto altri porti e sbocchi, altre questioni non così pesanti e pressanti che non ci possano far ripiombare nei momenti appena trascorsi? Se sei appena uscito da un incubo, se hai appena subito un importante trauma che ha completamente ribaltato la società dei consumi e sterilizzato il nostro modo di vivere, l'ultima cosa che vorresti è sprofondare nuovamente nelle stesse trite e tristi dinamiche, continuare a parlarne, a sviscerare situazioni e sviluppi, andare a fondo, 04_L'estinzione della razza umana_ph Luigi De Palma_RR61233.jpganalizzare. Ancora, secondo noi, i tempi non sono maturi per un'esposizione collettiva, quale è il teatro, per una condivisione comune della faccenda. Infatti non molti testi contemporanei parlano di Covid. Si respira un blocco emotivo a riguardo.

E, secondo Emanuele Aldrovandi, il suo debutto “L'estinzione della razza umana” (visto al Teatro Gobetti torinese; prod. Teatro Stabile Torino, Associazione Autori Vivi, Corte Ospitale) non parla del virus partito dalla Cina. Però c'è una malattia respiratoria, a metà tra la famigerata Sars19 e l'aviaria, però c'è un lockdown con tutte le relative causali e conseguenze concatenate. La pandemia mondiale, all'interno della dialettica che l'autore reggiano ha dipanato tra cinque personaggi (Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi), va a caduta sul cambiamento climatico e su quanto la sovrappopolazione del globo abbia influito e influisca sulla salute del Pianeta. Molta carne al fuoco, molte tematiche spesse e piene e corpose. Si ride e si riflette. La scrittura di Aldrovandi (per noi è prima di tutto un autore, uno scrittore e poi un drammaturgo e infine un regista) la mettiamo nel paniere assieme a quelle illuminate di Fausto Paravidino e Bruno Fornasari, esempi di concretezza, profondità, tenacia, lenti d'ingrandimento sull'oggi senza tralasciare l'ironia sulla nostra specie, riflessioni senza le pesantezze della tragedia, senza finte commozioni. In un condominio (la scena di Francesco Fassone) che diventa habitat e gabbia di zoo si confrontano due coppie (l'autore aveva in mente un qualcosa che ricordasse “Il dio della carneficina” di Yasmina Reza) che diventano fazioni che si trasformano in guerriglia. Prima il maschio dominante contro l'altro maschio alfa, il nodo del contendere era che uno dei due voleva uscire e andare a correre mentre l'altro glielo impedisce perché siamo il decreto del lockdown lo vieta, poi le donne sono solidali, adesso si aggregano gli uomini, dopo si scontrano le famiglie, infine anche le donne, soprattutto sul tema maternità visto06_L'estinzione della razza umana_ph Luigi De Palma_RR60935.jpg che una delle due è diventata madre da poco mentre l'altra ha scelto di non averne perché non ha fiducia nel genere umano e perché la vita umana uccide il pianeta, si accapigliano in un tutti contro tutti infelice.

Interessante è questo colore, tra il celestino e il grigio, che ricorda vagamente una cromatura ospedaliera di lenzuola o di camici da infermiere o addirittura la mascherina chirurgica, un non-colore scialbo delle mura, delle finestre che si spande e si scioglie nelle loro tute-divise anch'esse grigie, quasi da carcerati, che li appiattiscono alle mura, che li fanno scivolare nell'anonimato. Colore che ogni tanto si incendia di rosso gracchiante e d'allarme pulsante. Divertente è la deriva apocalittica e distopica delle conseguenze dell'aver contratto il virus: le persone si trasformano in grossi tacchini (come Pinocchio e gli altri studenti discoli in ciuchini da macello) con tanto di piume sulla schiena e bargigli e cresta e becco. La scelta grottesca però non viene spinta ma soltanto accennata, invece poteva essere il gancio giusto per staccarsi dal contingente e fare di questo racconto una favola noir dove l'oggi si tramutava in incubo visionario. E ancora, avvincente e curioso è il fatto che più i quattro personaggi principali (il quinto è il rider che porta i pacchi di Amazon o il dottore che torna dai turni massacranti in ospedale) esprimono le loro idee e prese di posizione sul mondo, sulla vita e sulle loro libertà e scelte esistenziali e politiche, e più ogni volta ci sentiamo d'accordo con tutti, dando sempre ragione all'ultima riflessione lanciata sul piatto.

La scrittura di Aldrovandi ci mette alle corde, ci sprona, ci punge, ci sbalza dalle nostre convinzioni proprio perché la ragione non sta acriticamente da una parte soltanto. In queste figure, nelle loro salde certezze e sinceri convincimenti, però quello che risalta è la loro fragilità (la nostra), il nostro spaesamento, il nostro naufragare alla ricerca di notizie, di verità, nuotando a scansare fake news, ad evitare manipolazioni e pubblicità che ci vogliono sempre più usare come pedine e consumatori invece che come cittadini pensanti. Nel mare 08_L'estinzione della razza umana_ph Luigi De Palma_RR60770.jpgmagnum dell'informazione ci siamo assuefatti alle bugie del mercato, dei politici, della tv, degli esperti, tanto che non riusciamo più a capire chi mente e chi ci vuole mettere in guardia, confondendo sempre più il Gatto e la Volpe con il Grillo Parlante. Tutto e il contrario di tutto, tutto è il contrario di tutto, e siamo spaesati e disillusi e annaspiamo in perenne balia. Ecco perché ci sono stati i seguaci di Trump poi i novax, adesso i putiniani e gli orsiniani: “Quanti perfetti e inutili buffoni, questo Paese devastato dal dolore” urlava disperato inascoltato Franco Battiato. Le persone si sentono sole e abbandonate, hanno paura e si rifugiano in regole nette e schemi semplici per cercare conforto, per non sentirsi stupidi, anzi per credere di essere intelligenti, in perenne lotta contro l'establishment, in conflitto con i “poteri forti” che spesso non esistono come i mulini a vento di Don Chisciotte.

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“L'estinzione della razza umana” ben fotografa questo momento storico che stiamo affrontando nel quale molti ignoranti si affidano alle ricette di qualche guru da web che impasta, maneggia e adultera dati e informazioni, documenti e notizie per certificare e consolidare le proprie tesi, spesso politiche, faziose, parziali, settarie, facinorose per loro tornaconti. A molti è mancata la scuola e l'istruzione, ad altri, quelli che si credono furbi e geniali per il solo fatto di non stare nella maggioranza, manca l'umiltà di capire talmente sono indottrinati dall'arroganza, dal potere, imbevuti di odio edi presupponenza verso i propri simili che, evidentemente, considerano inferiori, quelli che chiamano “il gregge”. Il condominio di Aldrovandi è un affresco plausibile di quello che ogni giorno è la dialettica sui social network, le battaglie a colpi di nuovi link, non tanto per convincere l'altro ma quanto per sentirsi più intelligenti, meno fregabili, meno fallibili, meno allocchi. Magra consolazione se le foreste vanno in fiamme, se gli oceani sono pieni di plastica, se le temperature diverranno inaccessibili e inaccettabili: “Intanto la primavera tarda ad arrivare”. “Viviamo strani giorni”.

Tommaso Chimenti, visto al Teatro Gobetti di Torino il 17/05/22

Foto: Luigi De Palma e Bruno Cattani

Sabato, 14 Maggio 2022 17:09

"Kassandra": interpretazione capolavoro

BOLOGNA – Ci sono alcuni testi che hanno necessariamente bisogno di alcune messe in scena per esaltarsi e ci sono alcuni modi di usare il corpo e la voce e lo spazio e il palco che rendono alcuni testi memorabili. Quando questo avviene, quando siamo di fronte non soltanto all'attore, non soltanto alla recitazione ma ad un qualcosa di più ampio e compiuto, di totalizzante, elettrizzante, assoluto, allora, solo allora, si può parlare a pieno titolo di performance. La “Kassandra” di Sergio Blanco (in questo momento nel mondo ne esistono ventisette diverse versioni; qui, prod. Ert/Teatro Nazionale, per la regia di Maria Vittoria Bellingeri, che DSC3220-scaled.jpgcura anche scene e costumi) diventa uno show vissuto, sudato, traslato, solcato dall'anima di Roberta Lidia De Stefano che ha riempito con ogni suo centimetro, con ogni suo stilla di fatica, con ogni sua cellula il senso più profondo della drammaturgia senza dimenticare l'edonismo, l'estetica, l'estasi della raffigurazione, quel sottile strato magico che si crea, osmotico e di trasporto, tra la platea folgorata e la scena che frigge, che frange, che sprizza, che spiazza, che sfrigola. Ci siamo trovati davanti ad un insieme di qualità, attoriali e artistiche, che difficilmente convergono nello stesso corpo, un corpo che si fa sensuale e meccanico, che ha al suo interno tutto il metallo del Futurismo fuso ora con la dolcezza adesso con la durezza e rudezza che soltanto la strada forgia. In mezzo alla nebbia, una piccola macchina a DSC3890-scaled.jpgfari accesi e una figura (“Non sono né un uomo né una donna”) con il suo inglese maccheronico e schematico, scandito e primordiale attende i possibili clienti in una sorta di “Nella solitudine dei campi di cotone” in solitaria.

Blanco prende il Mito greco e lo trasporta in una contemporaneità nostrana occidentale dove le donne sfruttate in mezzo ad una strada con i loro corpi sono la testimonianza viva e diretta delle guerre, delle lotte, delle sopraffazioni, della povertà in altre parti del mondo: la prostituzione è soltanto la punta dell'iceberg di fenomeni più ampi e profondi che l'uomo moderno del Primo Mondo vuole rimuovere cercando di sfruttare questi corpi e farne soltanto oggetti per usarli e violentarli e umiliarli per un po' di sesso a buon mercato senza sentirsi complici di quel sistema che ha strappato queste donne alle loro case, ai loro affetti. Ci è subito venuto in mente un parallelismo con il toccante “Medea per strada” del Teatro dei Borgia dove il pubblico viaggia insieme ad una donna dell'Est su un pulmino mentre si sta preparando per cercare i clienti tra la periferia e l'asfalto.

La De Stefano (dove è stata finora? Chissà quante gemme attoriali sono nascoste e non vengono notate e non hanno possibilità di emergere né alcuna opportunità per mettersi in mostra né grandi palcoscenici dove mostrarsi?) è vulcanica, spaventosamente energica, potente e poderosa, straripante e calibrata, lontanissima da qualsiasi stereotipo; è tutto quello che il pubblico vorrebbe vedere ogni volta che varca la soglia del teatro: quell'eccessivo ma mai smodato, quella foga che trova il suo equilibrio nel talento, quella potenza che non fa sbandare ma trattiene tutte le particelle dell'atomo, quella tensione che non cede, quel tremore che fa gridare gli occhi, quell'esaltazione difficile da contenere, quel brivido che non diventa mai manieristico. Il suo stare in scena ci ha ricordato DSC3962-scaled.jpgl'altrettanto abbagliante “Sei”, di Roberto Latini, con il clamoroso e stupefacente Piergiuseppe Di Tanno, anche lui fulmine a ciel sereno. Viene in mente l'iconica scena di “Tutto su mia madre” quando la telecamera si sposta dal campo, dove le prostitute attendono tra i fuochi dei bidoni, e si apre l'immagine sulla vallata, sulla distesa di luci di Barcellona mentre parte la devastante e straziante e dilaniante “Tajabone” con l'armonica a bocca che farebbe piangere anche un nazista.

Questa DSC4249-scaled.jpgKassandra (una sorta di “Pretty woman”, in stivaloni e latex), nel suo “bad english”, racconta la sua storia, ricordando Ecuba e Andromaca, Paride e Achille, Menelao e Patroclo: è un'amazzone giunonica lanciata in una esibizione fascinosa e affascinante, accattivante , accecante; parla in inglese, in francese, in greco antico, suona il piano, canta meravigliosamente. Adesso ci riferisce di Elena e Clitennestra, di Medea o Antigone. L'attrice è un'artista totale che catalizza ogni sguardo, anche in una tuta adamitica da catwoman, è eccezionale, straordinariamente in forma, confezionando un vero e proprio dj set, un concerto techno-house, per una prova di stampo europeo (ci ha ricordato le messinscene di Jan Lauwers), un'interpretazione “berlinese” graffiante e ironica, profonda, tragica ed eccentrica, gigantesca, illuminante, straordinaria (ovvero oltre l'ordinario al quale siamo abituati), super, dimostrando una maturità e una consapevolezza lirica e debordante, dolorosa (come Gabriella Ferri) e generosa, versatile, un fuoco che travolge come una valanga, un turbinio carnale, una slavina sanguigna che sconvolge. Un frullatore di emozioni ci trascina, ci investe, ci rovescia, ci abbatte. “Kassandra” è rara potenza aulica e poesia delicata urbana, gratta come smog in gola, scartavetra come guance sul cemento.

Tommaso Chimenti 14/05/2022

NAPOLI – Guardi la scena e ti senti pericolosamente avvinto, avvinghiato da profumi decadenti, da un odore di fiori marci e cromature alla David Lachapelle, in un miscuglio tra l'erotico e il cimiteriale, in un afflato caldo e vulcanico, incandescente e dannunziano. In queste coloriture che si spandono, in questa atmosfera demodé, in questo respiro melò che traspira e trascende, i Vucciria espongono la loro cifra, sempre più dolorosi e caravaggeschi, in quel solco tra il dramma e la sensualità, tra lo strazio e la passione dove protagonista è il senso di colpa intriso di tormento, trasporto ed emozione. Un gazebo centrale, che ricorda il piedistallo delle danzatrici di carillon, e attorniato da manichini, ci fa cadere in preda alle percezione più estreme: il loro è sempre più un teatro sensoriale; sembra di sentire i rasi e le sete sotto i polpastrelli, sembra di sentire nelle narici i profumi pesanti o le colonie, sembra di vedere il giallo dei campi di grano povero, sembra di sentire il sudore dei corpi. Un teatro tattile e immaginifico, che ti porta altrove con l'aroma di incenso sparso, con i mandarini a spruzzare l'ambiente di quell'acido rurale, così fresco così pungente.

116-immacolata.jpgI Vucciria sono lavici: nelle loro rappresentazioni eros e thanatos si inseguono, vanno a braccetto, si confondono, si cercano per poi, finalmente, morire l'uno tra le braccia dell'altro, sovrapponendosi, perdendosi l'uno nell'altro in un amplesso caustico e definitivo. Come se le rime aspre di Rimbaud incontrassero l'Urlo di Munch, come se il dandy che albergava dentro Oscar Wilde ballasse con le facce cancellate di Francis Bacon, come se l'abbraccio di Rilke finisse la sua corsa nelle paludi lagunari veneziane di Thomas Mann. Come frullare i Ricci/Forte con Emma Dante e Annibale Ruccello. Teatrali nel senso più alto del termine, il gusto barocco dei Vucciria mette al centro la carnalità (la materia umana, i suoi bisogni e desideri) così come un forte senso estetico (ricordando certe ambientazioni prettamente “siciliane” di Dolce & Gabbana o altre “spagnoleggianti” aldomovariane). Carne tremula e sopraffazione in questo “Immacolata Concezione” (vincitore dei Teatri dei Sacro; visto al ridotto del Teatro Bellini, che lo produce). Ti frugano dentro, ti mettono con le spalle al muro, ti obbligano a guardare il mondo con prospettive diverse in un'altalena di sensazioni che oscillano e fibrillano, che spostano e confondono: la violenza sta insieme ai sorrisi, il piacere convive con il predominio, gli uomini scambiati con le bestie in un magma inscindibile dove la morale si deve fare da parte e il contesto sopravvive solo all'interno di regole primordiali, arcaiche, primitive, ancestrali, animalesche.

Una ragazza (entra in scena nuda Federica Carruba Toscano) permutata dal padre con alcune capre, una ragazza ingenua, solare, pulita, talmente cristallina da diventare vittima di un sistema dal quale però non sente di essere aggredita ma che, attraverso la sua gentilezza e amore e grazia, riesce a trasformare in dolcezza e pace. Una prostituta di bordello che non sa di esserlo e che soprattutto rimane miracolosamente vergine dopo gli innumerevoli incontri con tutti gli uomini del paese, un piccolo borgo polveroso dove tra i clienti in fila, come da favola urbana deandreiana che si rispetti, non possono mancare né il prete né il boss del circondario, il potere spirituale e quello terreno. Concetta, questo il suo nome, emana una luce limpida, propaga un'armonia che riequilibra l'odio e la rabbia, rasserena, calma, addolcisce; con lei gli uomini parlano o si fanno abbracciare, addirittura piangono, abbandonano la loro parte aggressiva e tornano ad essere bambini bisognosi di una carezza, del contatto fisico che quel mondo rude e disperato ha estirpato dai 53825949_2381716232058553_6338901429977088000_o-1024x684.jpgpossibili desideri.

In quest'affresco caleidoscopico di toni tenui e azioni gravi, ecco Anna la maitresse tenitrice della casa chiusa (Joele Anastasi en travestì, anche drammaturgo), Don Saro il rais del quartiere (Enrico Sortino solido e convincente) ed altre figure (che impersonano Ivano Picciallo e Alessandro Lui) in un tourbillon di piccole coreografie che si trasforma in coro tra percussioni e ventagli, oppure corse e vestaglie in una musicalità che tutto riempie, dove importanti emergono la ritmica e il timbro del movimento intessuto con le luci, le parole, ora scarne adesso pennellate, intrecciate con le melodie e le arie, le sonorità degli oggetti, i fischi e i giornali svolazzanti, in un continuo vorticare attorno a questo giardino d'inverno (quasi un peep show di Amsterdam) o un piccolo palcoscenico dove si sale per tornare ad essere diversi, dove si entra per cercare quella felicità lontana nel tempo, dentro il quale ci si fa volentieri fagocitare per ritrovare quel Paradise Lost che si è frantumato crescendo.

Concetta è una Circe benefica e benevola, una Santa (una sorta di Penelope Cruz nel ruolo di Italia in “Non ti muovere”), una sirena di fotoImmacolataConcezione_©ES18-1.jpgUlisse che circuisce i maschi solo per perdonarli delle loro miserie e dolori e mestizie. Questa ragazza che ha portato l'armonia, porta anche la guerra nel piccolo centro, conflitto scaturito dalla gravidanza (a seguito di uno stupro fuori dal bordello mentre era ubriaca, violenza che perdonerà amando l'autore del gesto, Turi, che diventerà suo compagno) della giovane (come fosse la Vergine Maria) che il malavitoso vuole far concludere con un aborto o con l'uccisione del bambino (come Erode). Il racconto della vicenda, intervallato con la leggenda di Colapesce, ci mostra l'involuzione degli uomini che, sacrificando come agnello pasquale la vita piena di celestiale grazia della giovane, tornano ad essere animali, perdono la loro umanità, si trasformano in capre con il campanaccio al collo (come tanti ciuchini nel Paese dei Balocchi o come, appunto, i maiali di Circe), tornano ad essere manichini governati dall'istinto, tornano ad essere le scimmie di “2001 Odissea nello spazio”. Come se questi uomini non avessero riconosciuto in lei quella forza alta e sovrannaturale, divina e salvifica, come il popolo ebraico non ha riconosciuto Gesù crocifiggendolo al pari dei due ladri.

Tommaso Chimenti 12/05/2022

Giovedì, 05 Maggio 2022 12:46

La Classe di Garella non è morta

BOLOGNA – La differenza salta agli occhi, diceva un De Gregori che discettava tra il bisonte e la ferrovia. Ma il confronto tra “La classe morta” di Kantor e “La Classe” di Nanni Garella sta proprio in quella mancanza, in quell'assenza di quell'aggettivo pesante, ingombrante, assoluto. Sembra poco, un aggettivo, ma qui dà nuovo senso alle stesse parole, alle stesse azioni, dona speranza per una compagnia per metà composta da attori (sei) e per l'altra metà da componenti dell'Associazione Arte e Salute, pazienti del Dipartimento di salute Mentale di Bologna. Sulla scena la dozzina è ben calibrata e se ne perdono i confini in un equilibrio artistico e attoriale che li fa essere sullo stesso piano, senza sbavature, senza discordanze, scarti e difformità che l'arte e la recitazione e lo stare su un palco, dentro le parole La classe ph Stefano Triggiani (8).jpgkantoriane, ha azzerato. “Morta” è stato eliso perché recitare, nel piccolo e intimo e raccolto Teatro delle Moline (dove ERT mette in scena piccole produzioni nostrane di grande apertura e respiro, ruolo fondamentale di un Nazionale), è vita, rinascita, sorpresa, scoperta, nuova linfa.

Testo La classe ph Stefano Triggiani (9).jpgmigliore non poteva esserci per questa compagnia nata a fine millennio scorso. L'impianto è quello dell'originale del '75 del regista polacco (ma senza una figura che ne ricalchi la sua presenza in campo): banchi di scuola funerei che sembrano inginocchiatoi penitenti da chiesa ottusa e claustrofobica, abiti pece stinti e facce bianche cadaveriche per un'installazione umana che si anima dopo un torpore secolare, come un sogno che ricompare catartico, un ritornare alla vita passata, un incedere dentro le pieghe del tempo andato, un ripercorrere anni e traumi, in un loop che sa di rivincita, di riconquista, di contrappasso, di purificazione. Infatti le azioni sono reiterate e prendono vigore proprio dalla loro riproposizione continuativa, come un riflesso che si propaga cambiandone i contorni, rafforzandone il contenuto ad ogni mossa, ad ogni nuovo ciclo. La classe come microcosmo dell'esistenza con i soprusi, i maestri, i kapò, il potere che soverchia il popolo, le angherie, la massa che si fa caos; come una fisarmonica si riempie e si svuota. Adesso l'aula è sovraffollata perché ognuno degli attori ha in mano dei pupazzi, quasi a grandezza naturale, i loro doppi di quando erano ragazzi, giovani, bambini, si portano in giro, si coccolano come marionette e bambole, si accudiscono con dedizione e cura e delicatezza. Ognuno di noi dentro ha sempre il fanciullino che una volta è stato, compresi i traumi che ha vissuto, passato, subito.

E' nella ripetizione meccanica degli avvenimenti che si esalta e sublima il senso di questo limbo purgatoriale, le processioni vorticose attorno ai banchi sembrano una danza, una coreografia di dervisci la-classe-luca-sgamellotti-2_1000x0_79620d41ddda236ca32c486beca1c7f2.jpgche incanta, che trascina in un'altra dimensione, una spirale che spalanca le porte del tempo. Come le filastrocche e le canzoncine, quelle nenie cullanti e inquietanti che trascendono in un mondo parallelo, seppiato e offuscato, scolorito e immaterico. Ognuno con il suo alter ego deve sempre fare i conti, ogni personaggio colpisce violentemente il suo fantoccio, lo uccide, li accatastano in un angolo, in quella crescita che disconosce l'età fanciullesca, quell'adultità che vuole cancellare le origini, rinnegando il prima in cerca di un futuro vergine da conquistare. Senza il passato e la memoria, lo sappiamo, non può esserci un domani limpido.

E qui ilaclasse14.jpg bambolotti sostituiscono i vivi sulle panche, le loro essenze che non si sono mai allontanate da quell'atmosfera restrittiva (il messaggio politico allora era chiaro, nel nostro caso, all'opposto, forse il riferimento è all'infanzia inteso come tempo neutrale prima della consapevolezza e della malattia conclamata e certificata), che non sono mai riuscite definitivamente a staccarsi, sganciarsi da quella cupezza, da quel legno bruno. Questo manipolo di uomini e donne eterei e chapliniani, pittoreschi al limite dell'essere foloniani, fragili e vulnerabili, con i loro movimenti automatici istintivi quasi involontari pinocchieschi, oniricamente incastonati e relegati nel tempo paludato, asfittico e impantanato, esotericamente imprigionati e imbrigliati, fantasmi attanagliati nella maglie della clessidra potrebbero essere un coro greco di anime o parte di quelle manifestazioni di lamentazioni funebri pubbliche, prettamente del folclore del Sud Italia, le prefiche, che si sciolgono e dolgono rumorosamente e plasticamente in sceneggiate lacrimevoli, in pianti rituali strazianti, adombrandosi in lagnanti litanie angosciose e laceranti. Come se il tempo si fosse inceppato in una seduta spiritica, come un disco rotto con la puntina gracchiante arrugginita, a rievocare lo spirito di se stessi quando, forse, erano felici non sapendo di esserlo.

Tommaso Chimenti 05/05/2022

visto al Teatro delle Moline il 03/05/2022

Foto: Stefano Triggiani, Luca Sgamellotti

MILANO – Quello che abbiamo visto assistendo alla novità “Bed Boy Jack” (prod. Filodrammatici, Stabile Veneto, Next '20) scritto e diretto da Bruno Fornasari si potrebbe racchiudere nell'epitaffio di Schopenauer “Il mondo come volontà o rappresentazione” ovvero il reale là fuori è la mia rappresentazione e tutte le rappresentazioni sono oggetti del soggetto e tutti gli oggetti sono rappresentazioni quindi il mondo è copia e non realtà vera. Perché è di questo che si discute e discerne sullo sfondo della vicenda, di cronaca vera, di Jack Unterweger serial killer di prostitute austriaco,Jack Laila Pozzo-6.jpg che uccideva le proprie vittime formando un cappio attorno al collo con il loro reggiseno. Figura particolare, tra gli anni '70 e '90, putto mefistofelico che riassume tratti positivi e malesseri psicologici profondi, bollato come assassino poi in carcere elevato a santo ed eroe, capro espiatorio della società, reietto che, attraverso la cultura, aveva saputo redimersi, ripulirsi, farsi perdonare e restaurare una reputazione che sembrava compromessa e reinventarsi una verginità davanti al mondo, preso ad esempio anzi, innalzato come uomo di spicco capace di cambiare strada e direzione, di migliorarsi grazie ai libri, alle letture e alla scrittura e per questo messo sul piedistallo come fulgida e positiva dimostrazione filosofica, etica ed esistenziale che il sistema carcerario poteva, se non repressivo ma accogliente e tollerante, essere una molla per riformare la comunità.

Attorno a Jack ruotavano personaggi particolari e molto influenti come Gunter Grass e Elfriede Jelinek (non a caso due futuri Premi Nobel per la Letteratura) per avvalorare le tesi di una certa sinistra progressista. Il tagliente dramma messo in piedi da Fornasari (autore troppo trascurato in Italia; stavolta nessuna nota di ironia caustica a differenza dei suoi testi precedenti dove miscelava argomentazioni profonde e un grande sarcasmo provocante) scivola nell'abisso di un equilibrio precario tra i ricordi della realtà, viziata, offuscata, collusa, camuffata, distorta, e la sua, appunto, rappresentazione come se, e il set sul palco sta lì ad indicarcelo, fossimo proprio davanti, dentro una location da fiction (compreso un tappeto di foglie secche; le scene iconiche di Erika Carretta), da serie tv con i piani a sovrapporsi in dissolvenza: i quattro fari laterali come il nastroJack© Laila Pozzo-3.jpg giallo della polizia che indica una zona interdetta perché in quel perimetro si è consumato un delitto. Si è dentro i fatti ma si assiste alla vicenda anche in una sorta di ulteriore allontanamento, un passo indietro, come se i personaggi, ovviamente già ruoli attoriali, impersonassero se stessi nel momento di rimettere in scena dettagli e attimi accaduti in una sequenza che adesso devono essere riallocati, ridisegnati, riaggiustati per meglio comprendere tutto il processo, il progressivo svolgersi del tempo, il riannodare le bobine e il dispiegarle sul tappeto di una logica che rimane sospesa, alla fine comunque senza una soluzione certa, nel limbo creato ad hoc dalla regia (che scandaglia e fiuta le paludi del non detto, dell'interruzione dell'evidenza, di quel Purgatorio dove l'innocenza come la colpevolezza sono entrambi estremi eccessivi) che mischia i piani sequenza temporali, mixa tempistiche, mostra apparizioni e fantasmi, connette il mondo dei vivi con quello dei defunti, fa parlare gli animali.

Personaggio contorto e complicato, e per questo affascinante, che Tommaso Amadio ha incarnato in una bellezza ora disarmata adesso velenosa, in comportamenti melliflui e accondiscendenti a cercare conferme e carezze come in iraconde fuoriuscite di lava, ora oratore capace di dialettica ed eloquenza adesso bruto feroce delinquente manipolatore, con i capelli impomatati ricordandoci Hitler, anche lui (e forse non è un caso) austriaco. Come in “American History X” ha il corpo tatuato, come il Fuhrer ha un cane e proprio un pastore tedesco e proprio una femmina, uscito dal carcere si mise a scrivere libri come il brigatista Cesare Battisti libero e trionfante in Francia protetto dalla dottrina Mitterand, dopo aver ucciso e scontato la sua pena una volta in libertà ha commesso lo stesso reato come Angelo Izzo Jack© Laila Pozzo-5.jpgdel massacro del Circeo. Il Male in tutte le sue forme ripercorre strade già viste e segnate, solca la via del non ritorno, si perde nelle nebbie, cade si rialza e inganna. Attorno a Jack-Amadio (istrionico e fascinoso come Di Caprio in “The wolf of Wall street” e psichedelico e allucinato come Christian Bale in “American Psycho”) ruotano in questo variopinto Luna Park tra mass media e sangue, un ispettore, lo stesso Grass, un pappone (Emanuele Arrigazzi sul bordo di un perenne baratro oscuro con i chiaroscuri guasti e corrotti dei suoi personaggi tanto amorevoli quanto limite), una prostituta, la moglie di Grass, la Jelinek (Sara Bertelà che colora di nuance tenere e tenaci le sue battute, calibrata), la giovane fidanzata minorenne e il cane, che ci ha ricordato quello di “The Summer of Sam” di Spike Lee (Chiara Serangeli leggera, assorta, effervescente come spuma).

Perché il punto focale (meglio, in questo caso, nodale visto che le vittime furono uccise con un nodo scorsoio) è tutto giocato tra la realtà dei fatti, che in definitiva non si è mai appurata oltre ogni ragionevole dubbio ma solo supportata da un processo indiziario, e quello che Jack ha fatto credere agli amici intellettuali, ai giornali, alle tv che lo intervistavano incessantemente, ai tabloid che pubblicavano i suoi articoli, alle donne che lo amavano per il fascino perverso del malvagio, alle prostitute che, pur riconoscendolo, stavano al gioco credendolo cambiato, redento, tornato puro. Un inganno continuo per cercare di apparire in una forma celestiale (il suo completo intonso e candido) per celare il nero interiore e la voglia di morte e vendetta che covava dentro. Fuori un uomo nuovo da portare sul piedistallo e dentro l'uomo antico narcisista patologico che aveva bisogno di nuovo sangue, forse, ogni volta, per tentare di uccidere metaforicamente quella madre prostituta che lo aveva abbandonato, che non sapeva fermarsi davanti alle sue malate perversioni e pulsioni omicide e sadiche. Due i refrain musicali che si intervallano e ritornano come cantilena che ricongiunge e riannoda i fili, creando una ragnatela che tutto cuce e cesella: “Der Kommissar” di Falco, non a caso anche lui austriaco, e “Sono come tu mi vuoi” di Mina ad indicare la sua propensione camaleontica a modellarsi sui bisogni e desideri dell'astante per coglierne fiducia e disvelare i suoi punti deboli.

E' fragileJack© Laila Pozzo-8.jpg, piange, fa la vittima, si professa non colpevole a gran voce, la piazza e la pancia del Paese si divide tra giustizialisti e innocentisti, non ha alibi ma non ci sono prove marmoree, è simpatico, lusinga i suoi interlocutori, è un Grande Burattinaio che tira i fili delle sue marionette. Un Angelo demoniaco o un diavolo paradisiaco che è riuscito a toccare le pieghe e le piaghe del nostro mondo contemporaneo Jack© Laila Pozzo-14.jpgche si fa volentieri abbagliare dalla forma, sceglie consapevolmente di farsi ingannare perché è più charmant, è più divertente, perché siamo pigri e spesso è molto più semplice prendere per buona la confezione ammaliante che analizzare, con la fatica del dubbio e dell'intelletto, il suo contenuto. Il binomio Amadio/Fornasari, ancora una volta, riesce a far riflettere, riesce a non far finire lo spettacolo con la fine della piece, ci fa portare “i compiti a casa”, ci scuote, ci mette in imbarazzo, ci costringe nell'esercizio di osservare il male fuori per scorgerlo dentro di noi, non ci lascia dormire sonni tranquilli: il loro non è certamente un teatro borghese consolatorio né inutilmente e pretestuosamente provocatorio. Nei testi di Bruno Fornasari c'è carne per andare a fondo, c'è materia e magma, c'è fuoco vivo e mercurio guizzante, c'è intelligenza, da sempre vaccino contro le soluzioni facili e a buon mercato.

Tommaso Chimenti 31/03/2022

Foto: Laila Pozzo

BOLOGNA – In Italia scorrono circa 1200 fiumi che principalmente nascono dagli Appennini o dalle Alpi. Il più lungo è il Po che attraversa la Pianura Padana per oltre 650 km. Proviamo adesso a calcolare le migliaia di chilometri di argini che ci sono, che ci sarebbero dovuti essere, che mancano perché la manutenzione nel Bel Paese è roba da emergenza, da stato di calamità, fatta di malaffare e corruzione e cattiva politica. E allora ecco il Polesine nel '51 con 100 morti e 200mila sfollati, gli straripamenti del '54 a Salerno con oltre 300 morti, il Vajont nel '63 con 2000 morti, l'alluvione di Firenze nel '66, nel '68 a Biella e Asti con 78 morti, Una-Riga-nera-ph-Mario-Zanaria.jpgnel '94 ancora in Piemonte con 68 deceduti, il fiume di fango nel '98 a Sarno con 160 morti. Negli ultimi anni ricordiamo Livorno e Genova ed anche la tempesta Vaia (raccontata mirabilmente in teatro da Andrea Pennacchi), ma di eventi distruttivi naturali, che potevano essere controllati dall'uomo, avvengono ogni anno sul nostro territorio ed è facile dopo, a cose avvenute, scandalizzarsi, mettersi le mani nel capelli, piangere, indignarsi, fare una raccolta fondi per la ricostruzione.

Una riga nera al piano di sopra” (il titolo evocativo e bellissimo che sembra uscito da una poesia di Mariangela Gualtieri) rende bene, in un attimo, la fotografia della disperazione umana davanti alla furia dell'acqua, una riga nera che sembra rimmel sbafato sugli occhi piangenti di una donna di campagna, una riga tracciata tra ciò che era prima e quello che non sarà mai più, tra quel che c'era e quello che sarà trasformato perdendone la memoria e la tradizione, una riga come limite purtroppo valicato, una riga come confine deturpato e frontiera sfondata, una riga come spartiacque tra il fiume che era e il fango e detriti carichi di morte e povertà che adesso tracima e corre e travolge e sporca e lorda ogni cosa vivente e inanimata. Matilde Vigna (ha un volto “antico”; già due Premi Ubu nel suo palmares) è originaria del basso Veneto, terra di polenta e pane biscottato, una campagna dura rispetto ai merletti di Verona, i lussi di Padova, agli sfarzi di Venezia, ai palazzi di Vicenza. Un altro Veneto, più vero, più terreno, più tattile, fatto di mani e calli e lavoro. La Vigna (farà grande il teatro italiano nei prossimi 50 anni; ha un che della Vanoni; davanti a sé un futuro radioso da nuova “Maria Paiato”) è al suo primo testo che ha portato al Teatro delle Moline bolognesi nel bel progetto di produzione Ert sempre attenta alla nuova drammaturgia.

Un testo una-riga-nera-8-ph-Mario-Zanaria.jpgsolido, compatto, denso con l'attrice che ci aspetta in sala e una panca grigia che divide l'orizzonte dello sfondo nero alle sue spalle (fondamentale il disegno luci di Alice Colla). Ha in mano una pianta, un bonsai, quella natura che si ribella, quella natura che ha bisogno di noi, quella natura da cui inevitabilmente dipendiamo che però vogliamo distruggere e non rispettare per amore dell'asfalto e del cemento, di un illusorio progresso. La faccia è nascosta, celata, nella penombra, nell'oscurità. Ci apre alla memoria della sua terra con passione, tenerezza, senza fronzoli. Polesine 1951. Una performance carica di pathos e forza espressiva (teatro civile quasi paoliniano) nelle parti ombrose e in chiaroscuro dove è l'alluvione e lo stravolgimento delle terre soverchiate come delle vite trascinate nella melma a tornare in superficie, un racconto pieno, commovente, toccante, incisivo, corrosivo che ci arriva fino in fondo alle ossa e farci sentire il gelo dell'acqua fredda, quella miseria che la puoi toccare con mano. Parallelamente il percorso drammaturgico devia in un nuovo binariouna-riga-nera-al-piano-di-sopra-ph-mario-zanaria-4_1000x0_1ee8dbe6c85c42d219d01dab2263cb86.jpg che fa da contraltare a quello del ricordo, una parte più autobiografica, che intervalla quella drammatica, in piena luce anche sul pubblico, nella quale l'attrice si lancia in un filone generazionale di case, affitti, amori andati a male, ritorni a casa, valige da fare e smontare, rifare e lasciare.

Certo la metafora della valigia è centrale e subito la mente va agli sfollati di tutto il mondo, ai migranti di ogni epoca, oggi inesorabilmente al popolo ucraino. Ma lo scarto, in un equilibrio fragile e precario (certamente voluto), tra le due componenti è abissale: da una parte la scena spettrale di fumo e nebbia della furia del fiume in piena (il progetto sonoro di Alessio Foglia ben coadiuva le parole che diventano armoniose quasi poesia futurista onomatopeica, parole che si inseguono e corrono come una valanga, una cadenza, una scansione tambureggiante da ruscello di montagna, una musicalità che sembra una percussione industriale) dall'altra la “leggerezza” dell'oggi tra sogni infranti (Bridget Jones?) e le incertezze dei trentenni sul futuro (già visto, già sentito) che spezza l'armonia, blocca il trasporto, ferma l'emozione e il sentimento. La Vigna è un grande patrimonio del nostro teatro, “Una riga nera” è un bel punto di partenza come drammaturga.

Tommaso Chimenti 24/03/2022

Foto: Mario Zanaria

FIRENZE – E' un inno alla provincia questo stare sfrontato e bonario assieme di Andrea Pennacchi davanti al suo leggio e al suo microfono, quasi fosse sul pennone del Titanic ad ammonirci, a solleticarci, a istruirci, a punzecchiare le nostre debolezze, le nostre false credenze, i nostri preconcetti. Va alla pancia “Pojana e i suoi fratelli” (visto al Teatro Puccini; il titolo è anche un volume edito), colpisce giù duro ma poi Pennacchi ti dà sempre la mano per farti rialzare, pesta pesante ma la lotta deve essere schietta, pulita, a rompere le ossa ma sempre con il sorriso sornione e una pacca cannavacciuolesca sulle scapole per farti tossire e sputare l'anima. Pennacchi elargisce e mette sul piatto il ventaglio dei suoi personaggi grotteschi dentro i quali, a pezzetti, come un mosaico, c'è sempre qualcosa che ci tocca, che ci fa sobbalzare: quel razzismo strisciante, quel perbenismo diffuso, quell'animosità difensiva di chi ha molto da perdere in questo mondo che cambia pelle velocemente, che mischia le carte, così come gli alleati e i nemici, e fa sbarellare i punti di riferimento.Andrea-Pennacchi-chi-e-4.jpg

Pennacchi (ormai il “Pojanistan”, dopo Propaganda Live, è diventata una vera e propria “religione”) sembra un saggio “umarèll” bolognese; direttamente dalla Treccani: “pensionato che si aggira, per lo più con le mani dietro alla schiena, presso i cantieri di lavoro, controllando, facendo domande, dando suggerimenti o criticando le attività che vi si svolgono”. Ci indica le crepe dei nostri tempi malati e confusi; e noi ridiamo con lui ma anche di noi stessi. Ha una vena rock spiazzante che tranquillizza e inquieta, ha energia punk trascinante e ruota su se stesso come un derviscio debordante, balla con la birra d'ordinanza in mano (mai proporgli un prosecco, potrebbe adombrasi e incupirsi), prende forza dalla sua corpulenta forma che dà sicurezza. Mischia idioma veneto con l'italiano e tutto prende il suono e l'atmosfera di un mondo che forse ci è scivolato tra le mani rimanendo soltanto ricordo e racconto e leggenda. L'aria da paese, da sagra, quegli odori nelle narici, quei profumi sulla pelle.

Innamorato di Shakespeare, Pennacchi (autore brillante e al tempo stesso impegnato), che si accende come Romeo degli Aristogatti, usa il dialetto come grimaldello, da rafforzativo, da miccia per farci entrare dentro il folk del Nord-Est tra gli “spritz” e gli “schei”, i “boccia” e i “mona” che non solo soltanto traslitterazioni di parole paritetiche italiane ma aprono gallerie e finestre di senso radicate nei secoli, attraverso la sua voce roca che diventa mantra, calda, passionale, materica: un quintale di prestanza, vigoria, gagliardia e vitalità, un condottiero greco con la lancia in pugno. 6522521_23085848_andrea_pennacchi.jpgIl suo animale spirito-guida è il cinghiale, schivo, diretto, rude, fiero, pugnace. Le sue storie toccano centri nervosi latenti accompagnate da scelte musicali azzeccate (con Giorgio Gobbo e Gianluca Segato ottimi interpreti alla chitarra), da Nick Cave ai Clash tradotti in veneto: si ride sfrenato ma amaro.

E' un capopopolo acido, con una grande presenza scenica, amatissimo dal pubblico, capace di coinvolgere e tenere, pennacchi-800x800-1.jpegabbracciare e stringere la platea, severo ma giusto, che ci presenta il suo Veneto come un Far West, un Texas nostrano, un Vietnam. Burbero e malinconico (a tratti ricorda Natalino Balasso), semplice e colmo di naturalezza, ha la sapienza spietata di chi ne ha viste molte, dei vecchi che giocano a carte al bar che conoscono come gira il mondo pur essendo rimasti lì fermi per decenni con il sedere sulle stesse sedie impagliate tra bestemmie incancrenite e Tressette all'ultimo sangue. E la sua indagine (assolutamente sul campo) è sia storica che sociologica e le sue figure stereotipate, arrabbiate, immaginarie evocate, da Franco Ford a Edo il Security, da Tonon il derattizzatore ad Alvise il Nero, denotano un grande amore per il Veneto (lui padovano doc), per l'Italia, per il nostro essere tricolore sempre sospesi tra il cialtrone e il genio, l'artista e il ciarlatano, saltimbanchi e poeti.

Tommaso Chimenti 07/03/2022

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