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MONTEVEGLIO – Pane, Petrolio e Pasolini, inevitabilmente PPP. Da lì non si scappa, da lì non si può fuggire, da lì tutto nasce, tutto torna, tutto muore, tutto resuscita. Il teatro riesce ad unire l’Emilia e la Romagna e gruppi storici come le Ariette, il pane, la terra, il rurale, e le Albe, Ravenna con le sue raffinerie e le piattaforme, le ciminiere e i suoi fumi velenosi. A ferro di cavallo, nel deposito degli attrezzi, qua tra Bologna e Modena guardando Zocca e la Valsamoggia, dopo le repliche romagnole, siamo immersi in una seduta spiritica, di quelle nelle quali, senza nostalgia, si rievocano fatti e situazioni passate ed andate per capire meglio, spiegarselo, il proprio presente. È un’accettazione di ciò che è stato, senz’acredine, senz’astio, senz’odio. È un incontro tra tempi diversi, che poi il tempo, si sa, non è progressivo ma subisce accelerazioni e frenate brusche, è un elastico che adesso si piega e ora si allunga.pane2.jpg

La cucina è al centro per questo nuovo lavoro, il primo condiviso con un’altra compagnia, o, come in questo caso, con un membro storico di un altro gruppo storico (Luigi Dadina): nella definizione-titolo-didascalia “Pane e Petrolio” c’è tutto, è una fotografia perfetta, non manca niente, è un affresco magnetico e immediatamente riconoscibile e comprensibile. Quaranta persone a replica per questa ennesima cena rituale, questa preghiera laica, questa cerimonia religiosamente atea di condivisione, di passaggi, di scambi. Le tre Ariette più Dadina formano un quadrilatero di racconti che si perdono pane7.jpgnelle loro autobiografie, momenti e parole d’infanzia mentre muovono grembiuli e mattarelli, fornelli e tegami, la sfoglia da tirare e taglieri da riempire, tra pentole che sbuffano fumi profumati e nostalgie tenui che ti viene da stringerti. Non ci si sente soli, non ci si sente persi né perduti. Le biografie dei quattro sono lontanissime e diversissime da quelle di tutti noi ma di fondo c’è un qualcosa che ci unisce: c’è la crescita, c’è un mondo che si rimpicciolisce mentre noi cresciamo prima ed invecchiamo dopo, c’è il cambiamento, c’è il tempo che tutto trafuga, modella, cesella, toglie, morde, mangia, storpia. Stefano ci immerge nella sua visuale di una Bologna stretta tra un vivaio e il cimitero, il padre salumiere e comunista come il nonno, la mamma pia.

Le loro biografie si muovono, scorrazzano e aleggiano in quest’arena rettangolare creata all’interno dei tavoli mentre Pasolini è un leggio fermo e statico al centro assieme ad un’edicola votiva, una Madonna ingenua e fiori rossi. Un’Ave Maria (arriveranno anche Battisti e “Il mondo” di Jimmy Fontana) riecheggia a più riprese scandendo le parti dello spettacolo, i gradini più dolorosi, sottolineando i pane3.jpgpassaggi di consegna. Vedi le Ariette e pensi che sia sempre lo stesso spettacolo, sempre lo stesso format e, in qualche modo, sai già cosa aspettarti. Poi, una volta davanti al loro universo dolce e intenso, ti trovi gentilmente travolto dalle loro parole che parlano di campagna e animali, di genitori e ricordi minimi che qui esplodono e riverberano con i nostri e vanno a braccetto con le nostre vite, trovano rifugio e diritto di cittadinanza e ci estrapolano pezzi nascosti dentro, cose che volevamo seppellire, parti che non volevamo raccontarci né riesumare.
Il loro tirare la pasta (alla fine mangeremo dei tortelli di farina di castagne, triangolari come fanno a Ravenna) è un tirare le fila, un rimettere insieme esperienze e tempi, miscelare tutto in un’unica pasta perché siamo tutti, attori e spettatori, nella stessa pasta, della stessa pasta, facciamo parte indissolubilmente del medesimo magma, ci muoviamo, volenti o nolenti, tutti insieme: nessuno si salva da solo. I gesti sono arcaici, di una bellezza limpida, pura, eterna, pacifica e pacificata, sacri, da contemplare nella giusta lentezza, come quando Stefano e Maurizio spadellano sembrano chierichetti che spargono l’incenso in una navata.

Che cos’è il teatro se non condivisione? Luigi ci apre le porte della sua famiglia fatta di lavoro, di fatica, di sudare. Le donne di casa fumavano e bevevano caffè, il padre operaio-paracadutista; Paola ci spiega di sua madre intenta e occupata nella pulizia della casa e suo padre Tommaso. E ci fanno entrare nei loro meandri più profondi e sinceri mentre tagliano il pane e ognuno si sente a casa propria, tra i propri cari, immerso nei propri sogni. pane5.jpgNel momento dei “dialoghi impossibili” di Luigi con la madre e di Paola con il padre ci sono le parole che non sono riusciti a dirsi (ognuno di noi ha chilometri di dialoghi che avrebbe voluto fare ma che sono rimasti inghiottiti, abortiti nell’esofago, deglutiti tra rabbia e lacrime), tutto il non detto sedimentato e raggrumato che è diventato pietra, mattone, muro. Maurizio ci porta alla sua pompa di benzina, il fratellino morto, lui che diventa “il sopravvissuto”. Tutto è delicato e violento, docile e brusco, mite e brutale. La forma è rasserenata, il contenuto spesso ancestrale, di sopraffazioni e poca giustizia. È stato un ritrovarsi antico e un sempre nuovo abbraccio. È importante il loro lavoro, è paneepetrolio1.jpgimportante che ci siano, è importante essere qua. È sempre un gran bel viaggio su chi siamo, su dove viviamo. Menomale che le Ariette ci sono. Se non li avete mai visti è l’ora di venire a trovarli per trovarvi, se li avete già visti tornare è sempre un nuovo inizio. È una veglia, aspettando l’ombra dell’alba di domani. “Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’avere amato, non l’aver conosciuto”, sta tutto qui.

Tommaso Chimenti 02/11/2019

MODENA – Partiamo da una curiosità abbastanza lampante: la fiaba è donna, è femmina, è mamma, è nonna, è accogliente. Questo è quello che ho percepito nei miei tre anni, felici, di passaggio al “Festival della Fiaba” di Nicoletta Giberti: donne organizzatrici, donne conferenziere, donne ad accompagnare, donne spettatrici, donne attrici, donne lettrici. Forse non è un caso; e non perché la donna sia sognatrice o trasognante o abbia la testa tra le nuvole ma anzi perché, a differenza dell'uomo più concreto (che a volte travalica nel materiale), la donna ha in sé, ha in serbo quel nascondiglio, quell'antro miracoloso, quello spazio generatore di nuovo, di altro, di diverso. Se niente si crea e niente si distrugge ma tutto si trasforma la donna è l'emblema (al contempo naturale e voluptassovrannaturale) di riuscire a trasformare l'infinitesimale e farlo diventare una persona: più miracoloso di così. La fiaba (alla quinta edizione) non è il buonismo snocciolato, non è la melassa, non è la dolcezza. La fiaba è metafora, trasposizione che chiarisce ancora meglio, se la si ascolta fino in fondo, a quale punto del nostro personalissimo percorso siamo, dove siamo arrivati, chiarifica lampante, rilascia certezze, certamente mette in discussione con la sua aura di infantile e magico, di aleatorio e fumoso, di immateriale e nuvoloso, talmente difficile da afferrare da entrarti sottopelle.

voluptas2L'edizione 2018 si è spostata da Villa Sorra, alle porte di Modena, nel centro della città dell'aceto balsamico e Pavarotti. Poteva essere un azzardo passare dal bosco incantato di lucciole e passi scricchiolanti, di foglie secche e parole sussurrate nel buio ancestrale, dove solo le stelle potevano rischiarare, al muoversi all'interno di un palazzo. Qui la Giberti, vera anima del tutto, e il suo staff composto da donne e ragazze ugualmente agguerrite e sorridenti, ha saputo ricreare un immaginario soffice, una parentesi nel flusso del Tempo, uno scrigno fatto di candele e lumini, di fiammelle e fiaccole, con quell'aria retrò da respirare a pieni polmoni. Il perno di questa edizione è la piece (sempre sold out, come da tradizione pone lo spettatore e gli attori in un rapporto di uno ad uno) “Voluptas”, concept principe e traino focale di tutta la rassegna sul quale si incastonato e si animano, a spirale come un dna colorato e mistico, altri racconti notturni, mostre, conferenze, passaggi, consegne.

C'è una religiosità nell'aria difficile da spiegare, c'è un campanellino, nel suo tintinnare rituale da silenzio, da campanella scolastica, da qualcosa che sta per accadere nell'immediato, nell'imminente da Pifferaio magico, c'è il cammino condiviso di cinque sconosciuti alla volta, che si immergono (ma ognuno per conto proprio), inoltrandosi in questo palazzo, la porticina in legno che s'apre cigolando e mostrando un mondo nascosto, buio, dove solo le poche fiammelle a terra, come piccole mongolfiere capovolte, rischiarano le alte mura e le volte. Un nuovo mondo ci aspetta: qui non esiste il tempo del fuori, i rumori sono rarefatti, ovattati, come essere immersi in un liquido amniotico che insieme protegge ma anche cerca giù a picco, in profondità, butta l'amo dentro la nostra coscienza e psiche, ricordi e nostalgie, passato e voglia di futuro. Tutti abbiamo qualche peso sull'anima, qualcosa da farci perdonare, groppi da sciogliere, massi da frantumare, nuovi percorsi da riconoscere, paura da addomesticare.

Può uno spettacolo teatrale fare tutto questo? No, certo, gli daremo troppe responsabilità, ma, se si entra con cuore puro, con i canali della percezione aperti e pronti a cogliere ed accogliere, qualcosa, piccolo, lento, fragile, comincia a macerare e lavorare, a muovere e spostare, diventa domanda insistente da non dover calpestare, da non insabbiare sotto l'ennesimo tappeto. “Lungo il sentiero non si torna mai indietro, come nella vita” c'è scritto nel foglio di preparazione, dopo il silenzio è padrone e, finalmente, liberati dai rumori della città, delle chiacchiere inutili, della musica superficiale, dei cellulari assordanti e ronzanti, accompagnati per mano da ancelle, ci introducono in questo piccolo grande viaggio dentro noi stessi. Il format è quello di una mini Via Crucis (quest'anno collegata al mondo degli scacchi), un cammino che porta alla conoscenza, alla consapevolezza, al riconoscimento, al disvelamento di meccanismi di difesa, all'elaborazione, per esorcizzarle, di timori e incertezze. Non uno spettacolo ma un'esperienza che tutti dovrebbero poter fare una volta nella vita. Piccoli gesti gentili ci accompagnano.voluptas3

La domanda di quest'anno è chi o cosa ci guida nelle nostre scelte? Il karma, il daimon, il destino o un'intima nostra personale volontà. Quella volontà che dalla sua etimologia è stata traslata nel mondo occidentale-capitalistico-cristiano in qualcosa di faticoso e difficile, di sudore e sofferenza, mentre la voluptas è legata a doppio filo al piacere del fare la cosa stessa, al desiderio di realizzarla, alla voglia di avvicinarsi, di prenderla, di goderne. Non sforzo ma godimento. Siamo in un anfratto, della città, del tempo, di noi stessi; leggerezza, sospensione ci sostengono, ci supportano, ci spingono nei budelli, nei corridoi e soprattutto lungo il perimetro di un grande chiostro dove al centro emerge, maestoso e protettivo, un leccio di centoventi anni che fa da casa e cupola, da cappuccio e da cappello, da ombrello e tetto, proprio al centro di questo giardino nascosto e privato. Il leccio, non un albero a caso: con questo legno ci facevano le croci, questo albero attira i fulmini.

voluptas4Da uno step all'altro, questi attori ti mettono gli occhi negli occhi, ti parlano piano, ti ascoltano, ti indagano dentro con la dolcezza di un tocco, con il flebile passaggio di dita sulle nocche, con un palmo di mano che scivola e guida, ti mettono a contatto con il tuo più profondo io. Ascolti ascoltandoti, ti racconti, ti apri come è difficile fare nel veloce mondo che tutto trafigge e trancia là fuori: c'è chi ti fa scegliere un pezzo di legno, che poi si rivelerà un pezzo di scacchi stilizzato, chi tra ungenti e pozioni, alambicchi arabeggianti e fluidi alchemici, miscele di stregonerie e mortai dove pesta liquidi e polveri, ti lascia un segno simbolico su un braccio, chi batte il tempo incessantemente e ti fa sentire, palpabile, che siamo destinati alla fine e che il tempo non aspetta tempo, che il tempo passa e non ritorna, chi disegna dentro il contorno dell'ombra della tua testa, chi ti fa specchiare nell'acqua in un secchio, chi ti fa giocare a scacchi dove vincere o perdere, come nella vita.

Le centinaia di fiaccole sembrano anime in questo girone (paradisiaco per riveder le stelle) attorno al grande albero della vita, sembrano un pratovoluptas6 di lucciole in questo mondo separato dal resto, in questa dimensione pacificata dove la musica di pianoforte lieve dai piccoli tocchi si mischia al batter e levare in lontananza del tempo che fugge, ai ticchettii della pioggia battente e dondolante. I sensi sono ampliati, si sente il battito del cuore, il peso della suola che fa pressione sulla terra, si annusano le parole che ti piombano addosso e che parlano proprio a te, di te, e che dentro cominciano a far rumore. Da una parte ti accarezzano dall'altra ti mettono di fronte alle tue paure, passate e future, ai tuoi bui pensieri, e non ti danno soluzioni ma illuminano soltanto le possibili vie da poter intraprendere: le scelte sono comunque sempre personali. Dalla postazione finale, come partoriti nuovamente, come sbucati da questo pertugio in penombra, nuovamente risputati dall'abisso, mangiando ciliege, si scrutano i nuovi spettatori, i loro passi incerti, le loro titubanze incespicando nel loro destino, affannandosi con il loro passato, vagano assorti e inquieti alla ricerca di sé, dell'incontro con le proprie radici. Solide, ma non statiche, come quelle del grande leccio protettivo che ci abbraccia placido. Tra altri centoventi anni lui ci sarà, sarà lì a difendere e riparare altri come noi, entrati scettici e usciti fiduciosi.

Tommaso Chimenti 11/06/2018

REGGIO EMILIA – Sono le storie i fili che ci tengono legati, come gli aquiloni, alla terra, quel suolo che ci sarà lieve, un giorno, e che altre volte ci fa sentire pesanti, al netto della forza di gravità. Sono le parole che ci fanno uomini, ci rendono passaggi fondamentali di sapere e portatori sani di sapienza, trasmettitori di memoria, connettori di sguardi. E questo lo ha capito bene “Reggionarra” in un susseguirsi di tre giorni dove la città del Tricolore ribolle di piccole grandi, semplici e genuine, mai naif, iniziative che hanno al centro due capisaldi: l'uomo e le sue narrazioni. Che cosa siamo in definitiva senza la parola, quella stessa che si fa essere incarnazione di valori e parabole, leggende e fiabe, arcani e nostalgie ma anche di insegnamenti e conoscenza. C'è chi racconta, mai spiegI lettini delle storie (4).jpga pedantemente, ma c'è, e ci deve essere, chi ascolta in uno scambio continuo, in osmosi, di pensiero e attesa, agognando il passaggio successivo. Le parole, quelle buone che non danno soluzioni precostituite e preconfigurate, ma quelle che scardinano, che spostano, che spingono un po' più in là, che aiutano, che sostengono, che fanno riflettere, che aprono porte e finestre, che mai chiudono, parole che accolgono e includono, che abbracciano e scaldano, che riempiono, che pongono domande, pungolano. Feticcio e iconografia per le storie è quel “C'era una volta” candido da nonna e lenzuolo, quel rimboccare le coperte verso l'età adulta per insegnare non che i draghi non esistono ma che i draghi, quotidianamente, grandi o piccoli che siano, si possono sconfiggere, con la tenacia, la coerenza, la costanza. Il drago è la nostra paura e si può battere soltanto affrontandolo: la fiaba è il primo passo verso la consapevolezza di quel bambino che un giorno sarà adulto. O forse gli adulti non smettono mai di essere bambini.

Da questo “sogno” nasce l'ideazione curata, sempre con attenzione e delicatezza, dal Teatro dell'Orsa (i reggiani Bernardino Bonzani e Monica Morini), i leggeri ed eterei, trasognanti come pan di zucchero e spirituali come lievito, “Lettini delle storie”. Si entra nel loro mondo incantato, in punta di piedi, silenziosi, rispettosi, nel loro immaginario fiabesco, religiosamente laico e profano, che, in un attimo, ti riporta indietro nel tempo quando la nonna o la mamma ti raccontavano una favola, forse sempre la stessa e che volevi ascoltare, per consolidarla, per consuetudine ma anche in maniera consolatoria, ogni sera per provare il piacere della paura e il timore che potesse cambiare il finale. I lettini sanno sempre un po' Monica Morini e Bernardino Bonzani.JPGdi Freud e psicanalisi, di racconto intimo e parole personali, incantate e chiuse in una parentesi, un dialogo profondo tra il narratore e l'ascoltatore. All'interno dell'inquietante Galleria Parmeggiani, tra bauli e armature, vasi e lance da collezionisti che rimbalzano nelle epoche e nei secoli, dove la Storia la senti presente, pressante e pesante, ecco gli angeli in bianco (i tanti giovani narratori che arrivano per l'occasione da tutta Italia formati dall'Orsa e da Antonietta Talamonti), cadaverico o celestiale, che ti conducono per mano, con leggerezza infinita e sfioramenti che abbattono la quarta parete, alla tua postazione, al tuo incontro uno ad uno, occhi negli occhi. E' un rito con le sue formule e i suoi dogmi: ti devi lasciare andare. Si ritorna indietro nel tempo, a ritroso, piacevolmente, ci si lascia cullare, coccolare accoccolati tra queste parole soffuse e lievi che incantano dolci, che scendono quasi a coprire le palpebre o le lacrime.Monica Morini e Bernardino Bonzani (2).JPG

Importante e fondamentale è l'incrocio degli occhi, saldo che non si abbassa mai, e il tatto e contatto, le mani, le dita, i polpastrelli, nei piccoli gesti che fanno casa e rifugio, salvezza e famiglia, forse placenta e posizione fetale, sicuramente riparo. Qui non può succedenti niente, sei al sicuro. Il tuo lettino, vicino ma non troppo ad altri lettini, è lì che ti aspetta. Ti devi togliere le scarpe, lasciare la tua anagrafe fuori da quelle lenzuola immacolate di latte, abbandonare la tua biografia e fare un salto carpiato al te bambino, quello che voleva succhiare ogni parola distillata per rincuorarsi, rinfrancarsi, crescere faticosamente un po' di più ogni sera. Le parole cadono come fiocchi di neve, il tono è basso, tutto è confortevole sdraiati sotto la zanzariera del lettuccio a baldacchino: la coperta è bianca, il cuscino è bianco, l'abito leggero della vestale è bianco. Sei invaso dall'abbacinante bagliore di tutta questa purezza che cozza con la penombra intorno, quella Storia che, attraverso gli oggetti in esposizione tra teche e vetrine, esprime guerra e sangue, battaglie e morte.

I lettini delle storie.jpgHanno costruito un piccolo universo fragile fatto di carezze e sorrisi, di lievità, friabile e amorevole. Sei immerso, per mezz'ora, in un sogno fanciullo e puro, in un'aurea sospesa: è una fortuna esserci. E senti la tua storia (“La Bella e la bestia” uguale per tutti) e ne percepisci pezzi e parti che arrivano e provengono dai lettini vicini, come echi precedenti, il passato che ci accomuna, come riverberi di ciò che stiamo per vivere, il futuro che ci attende. E' una lezione da imparare la gentilezza, la calma, la pazienza, una lezione mai da dimenticare, sempre da alimentare, sempre da foraggiare non tanto a parole quanto con l'esempio. Il Teatro dell'Orsa, come la sua stella di riferimento, indica la strada maestra, la luce da seguire per non perdersi, senza forzature, senza pressioni: la dolcezza dell'incanto, la grazia del sussurro possono salvare il mondo.

Tommaso Chimenti 21/05/2018

REGGIO EMILIA – Tre cosine interessanti, al di là della formula della Relatività, abusata, le ha pur dette Albert Einstein: una era quella di Dio e dei dadi, ma il gioco d'azzardo non fa per noi, la seconda, fuochino fuochino, è quella del calabrone che non dovrebbe volare perché troppo panciuto e le sue ali così piccole e deboli; la terza è quella che ci interessa e che cade come il parmigiano sui tortelli verdi (dopotutto siamo in terra emiliana): “Quando le api scompariranno dalla faccia della terra, agli uomini non resteranno che pochi anni di vita”. Siamo legati a doppio filo a questi piccoli insetti laboriosi, simbolo dell'alacrità e dell'operosità, ma anche di quel sentimento che mette davanti all'individualismo e al personalismo il concetto di collettività. Come a dire, se estrapoliamo e riportiamo l'esempio all'umanità, che l'uomo terminerà la sua corsa sul binario morto dell'esistenza quando finiranno le storie, il passaggio orale, il racconto, la parola, le leggende, la fiaba, la comunicazione fatta di frasi e sillabe e occhi che brillano ad articolarle ed altri che s'illuminano ad ascoltarle. “Noi siamo le api dell’Universo. Raccogliamo senza sosta il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile” (Rainer Maria Rilke).1alv
L'Alveare delle Storie”, ideato dai tipi del Teatro dell'Orsa (gli instancabili Monica Morini e Bernardino Bonzani), costruttori e inventori di “Reggionarra” (per dieci giorni Reggio Emilia diventa la città per eccellenza dell'affabulazione e dei canta e cuntastorie) è un gioco semplice, un impianto lineare, un impatto artistico che miscela un grande teatro all'italiana (in questo caso il Valli) infarcendolo di piccoli gruppi che si annidano, scavano e scovano, sgattaiolano alla ricerca, palchetto dopo palchetto, dei loro narratori ai quali sono stati assegnati. Come carbonari. Un format che potrebbe essere ripreso (il successo è assicurato) in ogni città o comune; entrare nella pancia di un teatro vuoto, nella sua penombra pensosa mentre, si crede, che non sia in scena e in atto uno spettacolo, o almeno non nella versione classica, nella divisione platea-palcoscenico. “L’uomo non è destinato a far parte di un gregge come un animale domestico, ma di un alveare come le api” (Emmanuel Kant).
Si entra in un mondo altro, in una dimensione parallela dove i suoni sono ovattati e le parole hanno un'anima, un sentire, anche un odore e un profumo, una cantilena e una musicalità, una nenia e un'armonia di fondo ci guidano. Trentacinque angeli bianchi, colombi o fantasmi, spiriti o accompagnatori incorporei aleggiano tra gli stucchi dorati e i velluti rossi, i lampadari accesi con la luce bassa, i chiaroscuri che producono ombre magiche o terribilmente paurose. Delle domande vengono gettate nell'agorà; sono interrogativi esistenziali che vanno a scardinare la quarta parete dell'attore e del pubblico. Qui stiamo a contatto di gomiti e ginocchia. Te le dicono piano, passando, senza soffermarsi, quasi fosse una casualità, una fortuita coincidenza (e in questo il play somiglia alle architetture sceniche di Enrique Vargas e del suo Teatros de los Sentidos): 2alvQuante scarpe hai consumato per arrivare fin qua?”, sussurrano lasciando le porte della percezione aperte, quasi spalancate, “Ti fidi della tua storia?”, mormorano ponendoti davanti ad un bilancio, ad un bivio interiore. Siamo nelle mani di tanti Virgilio candidi, di altrettanti Cicerone immacolati e lattei. Ci affidiamo. Le voci di questi guerrieri di pace sono soffuse, leggere, si appoggiano fresche. Potrebbero essere vestali dai passi teneri e soffici come pazienti manicomiali nei loro canti a formare una patina densa, una cappa che spalma e plasma, attorniati dalle loro campanelle come imbonitori o domatori di serpenti, pifferai magici. “Sono una piccola ape furibonda” (Alda Merini).
Una ventina di palchetti sono illuminati al chiarore di un faro fioco, quasi lampara in mezzo al mare. Ovviamente i pesci, con la bocca aperta, siamo noi. Come su una zattera in mezzo a questo mare placido, navighiamo a vista. Se gettiamo l'occhio oltre il nostro porto sicuro, affacciandoci vediamo altre luci fiammeggiare da altri palchi, altre voci che raccontano altre fiabe millenarie, altre api che tessono storie, altre api che hanno assolutamente bisogno di quelle stesse parole che parlano di principesse e incantesimi, di Mito e profezie. È un cicaleggio continuo (la drammaturgia sonora è a cura di Antonella Talamonti), un chiacchiericcio come tappeto sonoro, a volte una parola rimbomba, si sentono rime in questo formicaio. Siamo Hansel e Gretel dentro la casa della strega, siamo Jona dentro la balena, siamo Pinocchio dentro il pescecane: felicemente indifesi. Ogni palco è una sospensione temporale, una parentesi dove aedi cerei e spirituali snocciolano storie come fossero piselli sgranati, le sbucciano come fave fresche, le pelano come patate spugnose. Queste voci calde e corroboranti ti entrano dentro, sbattono nelle orecchie, ciottolano sotto lo sterno. Suoni ed emozioni. Storie di vita e di3alv morte. Gentilezza e memoria. Saggezza e pazienza, rispetto e attesa. Scintillanti come piccoli fuochi in loop. Tra le ombre si racconta di sogni e di forza di volontà. Siamo dentro un grande carillon tra questi gironi celestiali, ci aggiriamo tra questi budelli, in questo intestino che ci dona intimità e profondità. Siamo talpe a scavare fino al cuore della terra, fin dentro le viscere del discorso immateriale e immortale che ha intrapreso l'Uomo fin dai suoi primi bagliori e barlumi. “Vola come una farfalla, pungi come un'ape” (Muhammad Alì).
4alvNe usciamo, sputati come l'omonimo protagonista di “Essere John Malkovich”, con alcuni grandi e semplici insegnamenti: quello di guardare con estrema curiosità dietro le cose e le persone, il non fermarsi alla prima occhiata o alla prima impressione, il cercare strade non battute, l'aspirare ad altri punti di vista. Dai palchetti muoviamo la nostra transumanza al palco in un serpeggiare; adesso guardiamo l'alveare illuminato con altre storie che prendono possesso, che scivolano dalle bocche, che s'intrufolano in altre orecchie. Sentiamo stralci delle favole che abbiamo sentito. In questo ribaltamento, nel vedere nel buio quelli che eravamo e che siamo stati fino a pochi minuti prima, ci viene in soccorso un'altalena che pende vuota, la fanciullezza, la spensieratezza, l'infanzia quando anche i sogni sono reali, ma anche lo slancio e il dondolarsi, il guardarsi ora i piedi e la terra, il vedere adesso il cielo sopra di noi. L'altalena è un ponte, un arco per fare un salto da ciò che eravamo a ciò che vogliamo essere. L'“Alveare” è il bisbiglio della placenta della mamma, è la poesia di una carezza di mani familiari, è il fiore che nasce in uno sguardo profondo. Ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne sogni la tua filosofia. Parole sante. Parole come miele. “C’è un'ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va...Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa” (Trilussa, “Felicità”).

Tommaso Chimenti 21/05/2017

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