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Quindici edizioni per il Festival Internazionale delle Arti della Marionetta a Saguenay. Quindici edizioni per questa manifestazione biennale che attrae da svariate parti del globo compagnie, performer, direttori artistici e giornalisti nella regione del fiordo della regione in Quebec, a quasi sei ore di viaggio da Montreal. Un viaggio, appunto, sia esteriore, fatto di strade dritte e sicure e boschi infiniti, che interiore: quello che il teatro di figura ci porta a fare ogni volta che ci relazioniamo con esso attraverso marionette, pupi, pupazzi, ombre, oggetti, disegni, ma soprattutto tanta immaginazione, consentendoci un passo indietro, anzi un passo dentro la nostra capacità di fare i conti con la nostra fantasia.68596745_2591847594180169_5451386652037480448_o.jpg

Circa trentacinque spettacoli per il Fiams 2019 (andato in scena l’ultima settimana di luglio) tra la programmazione principale – tra centri culturali e auditorium di scuole e università – e un’altra off e gratuita organizzata negli spazi esterni di Chicoutimi e Jounquiere, lungo il fiume; alle perfomance si sono aggiunte poi numerose attività professionali e di formazione, indirizzate soprattutto a far conoscere il lavoro delle compagnie locali (interessante anche il grande supporto e scambio con la scena francese, connessione incentivata da Institute Francaise del Quebec), e collaterali, come la presentazione dell’emblematica e profonda mostra fotografica di Alice Laloy, Pinocchio(s), che ci ha turbati e spinto alla riflessione.
In questo nostro percorso abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con molteplici forme di teatro di figura, ma abbiamo deciso di soffermarci su quattro spettacoli che maggiormente ci hanno ampliato il cuore e lo sguardo, rendendolo più attento e profondo, necessariamente umano.

Ed è proprio mi gran obra_2.jpgsull’umanità che l’artista catalano David Espinoza punta la sua lente di ingrandimento nello spettacolo “Mi gran obra”, una rara e perfetta macchina di geometrie interiori e di lillipuziane misure. L’idea iniziale è geniale: costruire il teatro più piccolo del mondo, un teatro trasportabile che raggiunga il pubblico di tutto il mondo e non il contrario (in questo caso un trolley da viaggio) in cui veniamo metaforicamente invitati ad entrare. Con binocolo alla mano (se il teatro è il più piccolo del mondo anche gli “attori” ne rispettano le dimensioni) siamo pronti ad immergerci in cinquanta minuti di un teatro a misura d’uomo, non per la grandezza dei minuscoli pupazzini manipolati dal demiurgo Espinoza ma per il contenuto che è capace di far penetrare nelle nostre menti. Il regista, vero e proprio deus ex machina del suo micromondo, dirige la propria umanità con abilità e delicatezza costruendo, scena dopo scena, azioni, sentimenti, sacramenti, vizi, virtù, peccati e peccatori, passato, presente e futuro della nostra società miope. Coadiuvato da alcuni video su tablet, da un gioco di luci intelligente e dalla musica come perfetta cucitura della sua drammaturgia e necessaria nel condurre il nostro pensiero, l’artista catalano compone per rapida e minuziosa sottrazione di elementi grandi raduni di piazza, feste, balli, matrimoni, orge, marce militari, l’assassinio del Presidente degli Stati Uniti, i Mariachi che suonano (il pensiero va d’istinto al muro americano) storie d’amore, l’andamento di una vita intera fino alla morte.
Espinoza costruisce uno spettacolo prezioso con un’impronta fortemente politica, una vena polemica, ironica, senza mi gran obra_3.jpgl’uso di parole e questo è un valore aggiunto; sono le mani a imbandire frasi, i gesti leggeri, precisi e millimetrici a creare quel montaggio delizioso e irriverente di metafore e immagini potenti e immediate che fanno luce nella nostra mente. Sono le mani a dettare il ritmo, a creare l’azione, a cambiare la fisionomia dei personaggi e anche il nostro sentire che muta tra divertimento, senso di solitudine, empatia, imbarazzo, vergogna rendendoci tutti piccoli, minuscoli, vulnerabili. Una piccola grande opera necessaria.

Se vogliamo tratteggiare una linea immaginaria di senso che colleghi gli spettacoli di cui parliamo, sullo stesso piano di intensità di “Mi gran obra” abbiamo trovato “Vida” dello spagnolo Javier Aranda, sia per l’uso esclusivo delle mani nella costruzione della narrazione, sia per l’immediatezza e l’essenzialità dei messaggi veicolati che per quel clima di vicinanza e di forte intimità che l’artista è stato in grado di creare con il pubblico, aiutato anche dallo spazio in cui è stato presentato lo spettacolo: il piccolo teatro cabaret Coté-Cour, caldo e accogliente, forse la venue che abbiamo maggiormente apprezzato al Fiams.
“Vida” è un fiore che sboccia con delicatezza proprio davanti ai nostri occhi e che, come ci suggerisce il titolo, parla dell’esistenza nella più semplice delle concezioni: il nostro protagonista cresce, diventa un adulto, si innamora di colei che gli resterà accanto per tutta la vita, diventa padre, diventa anziano, sopravvive alla morte della moglie per poi spegnersi dopo poco tempo. La vita nei suoi tratti più essenziali, negli aspetti universali che sappiamo riconoscere, nella suaun-instante-de-la-representación.jpg semplicità appunto; anche se tanto semplice alla fine non lo è mai, nessuno si salva dal dolore, dai tormenti, dalle perdite, dalle partenze senza ritorno, ma soprattutto – e anche su questo sembra vertere il cuore della drammaturgia di Aranda – “nessuno si salva da solo”.
Il performer spagnolo mette in scena la storia dei suoi protagonisti, che assomiglia alla vita di ciascuno di noi, usando le proprie mani: tre abili tocchi e al posto delle dieci dita vengono fuori naso, occhi, bocca e capelli, tre abili tocchi e l’uomo che sta dietro alla macchineria scompare lasciandoci di fronte ai due personaggi, ai loro umori, alle loro sensibilità, ai loro sentimenti, i quali, grazie anche agli efficaci costumi, prendono corpo a se stante. Corpi che dialogano con il proprio regista, che dialogano con noi, che sanno essere ironici, sferzanti, teneri, sognatori, vicini alla nostra umanità, a quel sentire diffuso e condiviso che ci unisce e ci fa commuovere.
Una pièce delicata e profondissima che ci ha confermato i confini illimitati del teatro di figura, universale e potente.

Un’esperienza altrettanto immersiva è stata quella del piccolo teatro d’appartamento Ephémère Chez dove la compagnia Théatre Cri ha presentato, in prima assoluta, il piccolo ed esplosivo “Aisseselles et bretelles”, letteralmente “ascelle e bretelle” cioè gli elementi utili a Guylaine Rivard (regista, unica attrice in scena, e fondatrice della compagnia) per costruire il suo spettacolo o meglio per costruirselo addosso. Costumi vittoriani, collari elisabettiani, gonne voluminose, pantaloni ottocenteschi, giacche, giacchine, camicie sempre più sottili e accessori di scena utilizzati con sagacia per un teatro a strati, una narrazione modulata addosso alla sua interprete istrionica e creativa che crea su di sé uno scenario immaginifico e fantastico. AISSELLES1.jpg
L’impianto drammaturgico si basa sulla più classica delle fiabe: la storia di un principe ereditario e di una regina madre bellissima e cattivissima. Ma la Rivard, eccellente trasformista, manipola l’universalità della favola impastando tutto con irriverenza (il principe si chiama Adolph e ha il volto di Trumph), un tono dissacratorio irresistibile e un montaggio di figure, disegni pop up, piccoli pupazzi e burattini di grande qualità. Ci sono Biancaneve con tutti i nani, Raperonzolo, Cenerentola, Ali Babà, Alice, Cappuccetto Rosso, il genio della lampada, la principessa sul pisello, Buchettino, Pinocchio, il Principe Ranocchio, il Pifferaio magico e molti inserti pop (tra tutti il riferimento a Zombie di Michael Jackson) in questo mosaico piccolo e infinito, questo patchwork quasi casalingo di alto livello che a ogni strato, a ogni passaggio cambia forma ma mai volto come fosse una matrioska di storie. L’attrice è il grande libro di tutte le storie e anche della nostra storia, le indossa, le cambia a suo piacimento, le distorce, le amplifica, le comprime, le distilla con sapienza; è la parola e l’immaginario che scopriamo non coincide con quello che avevamo da bambini e che qui diventa grottesco.
C’è alta artigianalità in “Aisselles et bretelles” e una capacità di costruzione della drammaturgia “alla Monty Python” che trasforma fiabe universali in una commedia sferzante e visionaria, ironica e politica da cui veniamo inevitabilmente travolti. Un format geniale che ci piacerebbe vedere anche in Italia.

Concludiamo il nostro resoconto con quello che consideriamo lo spettacolo di punta di tutto il cartellone, “Ogre”, portato in scena dalle due compagnie quebecchesi La Tortue Noire e Théatre la Rubrique (produttrice del festival), diretto da Dany Lefrançois (direttore artistico del Fiams insieme a Benoît Lagrandeur) e basato sul testo di Larry Tremblay.
Una pièce img_5910-580x870.jpgche rientra nel grande mare magnum del teatro di figura ma che potrebbe essere certamente presentato in programmazioni di teatro contemporaneo che travalichino generi e modalità di rappresentazione, essendo caratterizzata da una drammaturgia per adulti dai temi scabrosi e contemporanei (il testo ha vent’anni): un uomo, credendosi filmato dalle telecamere, umilia sua moglie portando a casa l'amante straniera, commette un incesto con sua figlia, spinge suo figlio al suicidio, uccide la sua amante per eccesso di amore e firma un contratto per dodici spettacoli. Ci troviamo di fronte a una sorta di Truman Show rivisitato in chiave grottesca e noir che ci impegna in un’indagine profonda anche dentro noi stessi, tutti fortemente “mediatizzati” e tendenti all’egocentrismo per “virtù” o necessità, schiavi del nostro tempo, contemporaneamente vittime e carnefici.
L’impatto è forte e immediato: un pupazzo imbottito di schiuma di oltre quattro metri sta seduto al centro della scena, con le spalle rivolte al pubblico; inerme ma paradossalmente vivo. A muoverlo tre performer che assumono, nel corso della narrazione, le caratteristiche e i ruoli degli altri personaggi. A dargli anima un attore vero e proprio (Éric Chalifour, potente), alla voce e al mixer, vero e proprio alter ego del gigante.
Un monologo per una “marionetta egocentrica”, squallida e detestabile che però scopriamo capace di un umorismo spietato: rivolta alle telecamere che immagina vomita la propria verità, la propria vita discutibile e agisce seguendo una fame perenne di visibilità e centralità. L’orco è enorme e grasso, sfama il proprio ego e la propria follia con l’illusione della televisione e sentendosi sicuro del plauso del pubblico non segue la morale ma i bassi istinti animali. Si rivolge a sua figlia, sua moglie, suo figlio, ma loro non rispondono e la differenza di dimensioni tra il pupazzo e gli attori caratterizza questi momenti e sottolinea anche ogre-760x500-752x490.jpgla grande solitudine del protagonista; il gigante e le formiche, il megalomane e i fantasmi che ruotano attorno alla sua vita e che, immancabilmente, finisce per schiacciare. Gli altri personaggi non hanno voce, sembra tutto e solo isolato nella sua mente, in quella bolla di finzione controllata dal grande occhio della televisione che lo induce a una forma di paranoia evidente e ossessiva. Il regista costruisce lo spettacolo sul rapporto tra il pupazzo e l’attore, tra il demone e il super-io, tra l’istinto e la morale; l’attore e il pupazzo si spostano insieme fino a separare movimenti e intenzioni, dall’essere una cosa sola diventano due entità distinte che dialogano tra loro, in contrasto e antagoniste. È la coscienza dell’orco che tenta di ribellarsi al suo “involucro” in un coinvolgente corpo a corpo di parole tra l’attore e il pupazzo che annullano le distanze, in scena e fuori, tra la finzione e la realtà, tra l’essere animato e quello inanimato.

“Il teatro non è il paese della realtà: ci sono alberi di cartone, palazzi di tela, un cielo di cartapesta, diamanti di vetro, oro di carta stagnola, il rosso sulla guancia, un sole che esce da sotto terra. Ma è il paese del vero: ci sono cuori umani dietro le quinte, cuori umani nella sala, cuori umani sul palco.” (Victor Hugo). E cuori umani anche nelle marionette.

Giulia Focardi 

Photo: Sophie Lavoie

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