Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

Il Pierrot Festival di Stara Zagora, in Bulgaria (l’undicesima edizione è stata in scena dal 24 al 29 settembre) è stato una scoperta e una conferma al tempo stesso. Una scoperta perché in questa cittadina, la sesta in Bulgaria per numero di abitanti, in cui le tracce dell’Impero Romano sono fulcro e attrazione (splendidi i resti dell’anfiteatro e della antica strada), la celebre rassegna di teatro di figura per adulti, organizzata e prodotta dallo State Puppet Theatre, è un motore trainante per lo sviluppo della cultura bulgara dentro e fuori il paese: oltre venti spettacoli (di cui dieci in concorso), tre teatri coinvolti, altrettanti spazi usati nel centro della città, performance interattive, concerti, mostre, presentazioni di libri e studi, sale sempre piene, anche di domenica mattina, e animate soprattutto dai giovani. Tanti giovani, tantissimi, fuori e dentro dal teatro, che si occupano di teatro a 360°, giovani attori, giovani autori, giovani registi, giovani critici. Il teatro, in questa parte dell’Europa, fa parte di una genetica che si tramanda di generazione in generazione con ferrea volontà e disciplina.IMGP8292.jpg
Una conferma, invece, per quanto riguarda il teatro di figura tout court, genere che si dimostra un terreno fertile e di incontro per un pubblico adulto, un terreno creativo, composto da tanti tasselli diversi che attingono alle varie forme teatrali. Teatro di puppets, certo, ma che non si limita solo alla gestualità della marionetta o del burattino, alla manualità dell’attore o al sapiente uso della maschera ma anche, e soprattutto, teatro di parola, teatro di narrazione, documentaristico, drammatico, distopico.
Il Pierrot Festival ha offerto una visione a 360° del teatro di figura e non solo con produzioni bulgare e internazionali (italiane, statunitensi, giapponesi, polacche, serbe) che ci hanno colpito per la differenziazione delle pièce e per l’alto livello qualitativo che abbiamo riscontrato in tutta la settimana di programmazione.
Nel nostro personale percorso all’interno della rassegna (dove eravamo anche coinvolti nella giuria internazionale che ha assegnato i vari premi previsti, sei in totale sui sette, dal momento che quello per la “Sperimentazione e nuove forme” non è stato conferito) vi segnaliamo cinque spettacoli che hanno catturato la nostra attenzione per profondità, precisione dell’esecuzione e originalità della narrazione.

Iniziamo connose.jpg il parlare dei due spettacoli che si sono divisi i premi: “Nose”, della compagnia Teatro 199 Valentin Stoychev di Sofia, e “On the wolf’s trail” dei serbi dello Youth Theater, entrambi adattamenti di due testi celebri come il “Naso” di Gogol e “Il richiamo della foresta” di Jack London.
La compagnia bulgara – premiati i due attori Polina Hristova e Georgi Spasov rispettivamente come miglior attrice e miglior attore – diretta da Veselka Kuncheva si è misurata con il testo del drammaturgo russo in modo potente e di grande impatto scenico, andando a esaltare tutti i lati ironici e assurdi propri della narrazione attraverso una prova attoriale importante, fatta anche di grande fisicità e l’ottima trasposizione in maschera degli aspetti cardine del Naso: l’identità e la perdita della stessa, i rapporti e le gerarchie sociali, l’opinione comune, l’omologazione.
Sono proprio le maschere su cui si reggono i nasi, di varie dimensioni, alcuni enormi, che fortificano la scelta registica di porre l’attenzione sulla dimensione dell’assurdo, grottesco e surreale del racconto; il tutto viene rafforzato da una costruzione della scena pulita e efficace, nose2.jpgcon un blocco unico che diventa banco degli imputati, ambiente domestico, teatro, sogno, ufficio amministrativo, archivio di nasi e dalla prova superlativa dei due attori (hanno ritmo e grande interplay) che scelgono di riportare la vicenda del funzionario Kovalev con una recitazione volutamente “sopra le righe”, con inserti comici e, allo stesso tempo, di seria riflessione: il protagonista (encomiabile Polina Hristova) è alla disperata ricerca del naso perduto, una disperazione che viene trasformata in scena in rabbia “deforme” e forte solitudine.
Ne esce uno spettacolo perfettamente costruito, efficace, brillante, intelligente e profondo, simbolo di un teatro di figura immaginifico e di grande resa scenica grazie ai grandi nasi e alle maschere ben fatte che ci restituiscono il senso di omologazione e di assenza di identità propria della società descritta da Gogol.

On the wolf’s trail”, nell’adattamento della compagnia di Novi Sad (ha vinto il Gran Premio, il premio per la miglior scenografia e per la miglior regia), è stato un vero e proprio wolf.jpgviaggio nel testo di Jack London. Uno spettacolo che si è distinto per la grande complessità della macchina scenica e per l’abilità degli attori nella manipolazione dei pupazzi, veri e propri protagonisti, con una grande cura per i dettagli tanto da farci immergere nella narrazione in completa empatia con essi; la bravura degli attori è stata, infatti, anche quella di farci percepire il cane Buck come punto focale del racconto e non come semplice marionetta, che, in questo caso, ha perso la mera connotazione di semplice oggetto facendosi corpo, respiro, sguardo.
La pièce si è sviluppata su diversi piani spazio-temporali anche grazie a una scenografia efficace (meritato il premio) che ha trasformato il palco del Teatro dell’Opera di Stara Zagora in un mondo di fantasia tra Oceano e grandi foreste del Nord America e alla costruzione del tappeto sonoro in diretta: la presenza del batterista-narratore onnisciente ha dato ritmo e collante mentre la compagnia ha lavorato con un equilibrio quasi magico, sincronizzando perfettamente suono e movimento ad ogni passaggio; elementi che sono risultati essenziali anche per la trasformazione e il passaggio tra interni ed esterni della narrazione, vere e proprie zoomate cinematografiche che hanno ampliato il nostro immaginario. Tutto ci è sembrato reale: il rumore degli attrezzi, gli alberi, la scoperta dell’oro, il viaggio nella nave così come il dolore, la perdita, l’assenza, il richiamo. wolf2.jpg
Un dramma magistralmente costruito con delicatezza e precisione, adatto quindi a un pubblico anche di bambini, ricco di elementi tecnici e con una profonda attenzione al testo originale, sapientemente riadattato e riscritto.

Tra gli altri spettacoli in concorso che a nostro avviso avrebbero meritato un riconoscimento ricordiamo “Collateral Damage”, progetto bulgaro di Class 5x5 e Azaryan Theater, e “Hamlet” del polacco Adam Walny.

Collateral Damage” è un progetto finanziato dal Fondo Nazionale per la Cultura della Bulgaria attraverso il programma “Debuts” realizzato con il supporto delle compagnie sopracitate e del Fondo bulgaro per le donne.
In questo fulgido esempio di teatro storico infatti le donne sono il fulcro di tutto, della drammaturgia e della scena: la storia è basata sulla vera vicenda di alcune collateral.JPGgiovanissime donne russe che hanno preso parte alla Seconda Guerra Mondiale abbandonando i lavori domestici per raggiungere i soldati al fronte ed è tratta dal romanzo del premio Nobel Svetlana Alexievich, “La guerra non ha un volto di donna”.
Dopo l’invasione dell’Unione Sovietica da parte di Hitler, avvenuta con un colossale impiego di uomini e mezzi, l’esercito sovietico non si arrende e dopo un iniziale sbandamento riesce a riorganizzarsi, dando vita ad un’accanita resistenza. È in questo momento che intervengono le donne, centinaia di migliaia di diciottenni che sacrificano la propria giovinezza e gli studi per soccorrere la patria e i propri compagni. Infermiere, radiotelegrafiste, cuoche, lavandaie, soldati di fanteria, addette alla contraerea, carriste, sminatrici, aviatrici, tiratrici scelte, tutte vestite come uomini, tutte a contatto con il sangue, tutte pronte a rinunciare alla propria femminilità e a mettere a rischio consapevolmente la propria vita.
Svetlana Aleksievic ha raccolto le testimonianze di queste donne dopo 40 anni e Makasima Boeva,collateral2.JPG regista dello spettacolo, ha tratto dal romanzo gli elementi più essenziali di questo dramma russo decidendo di restituirlo al pubblico attraverso sei giovanissime attrici. Il teatro di figura qui è un escamotage per rendere grande un testo sconosciuto ai più, le due grandi marionette usate (il generale e il funzionario) sono funzionali alla narrazione ma non essenziali. L’essenza di questo spettacolo è data, infatti, dalle giovani interpreti che con passione, tecnica impeccabile, fisicità e piena consapevolezza del testo ci portano indietro di oltre 70 anni facendoci percepire tutti i dolori di una guerra che non abbiamo vissuto, se non attraverso la Storia e i racconti. La violenza delle memorie e delle parole si trasforma, nel nostro immaginario, in sangue, perdita, polvere da sparo, mancanze, vite straziate e perdute per sempre perché, anche se alcune di loro sono sopravvissute, una volta tornate a casa sono state ripudiate e non accettate dalle stesse donne che erano rimaste. Uno spettacolo potente e toccante.

L’Amleto s3.pngdi Adam Walny invece ci immerge in una dimensione completamente nuova. E immergere è la parola chiave del nostro ragionamento. L’attore e drammaturgo polacco infatti lavora con le marionette nell’acqua (soluzione originale e mai vista nelle nostre latitudini) e immerge (appunto) i suoi personaggi in grosse e pensati teche trasparenti mosse da un sistema di carrucole con cui viene allestita la scena. Sei personaggi (Polonio, Claudio e Gertrude in un’unica bacheca, Laerte, Ofelia e Rosencrantz) in cinque vetrine, sommersi, boccheggianti, annegati eppure ancora vivi che Walny muove con dinamismo e piccole raffinatezze estetiche che hanno colpito la nostra attenzione (come le bolle che escono dalla bocca delle grandi marionette nell’acqua).
L’unico soggetto al di fuori di questa bagnata realtà è proprio Amleto che in questa rappresentazione ci appare ancora più dannato a trascendente. L’attore, in panni vittoriani, lo manovra e lo fa suo, amplificando le sue ossessioni, le sue paure, spesso sovrapponendosi ad esso in uno scambio continuo tra sogno e realtà, tra visioni e sentimenti, giocando sempre al limite di un filo sottilissimo che spesso ci induce a pensare che i personaggi “annegati” siano tutti frutto dei ricordi di Amleto, della sua follia, messi in vetrina come spettri, a ricordargli per sempre la sua ossessione. La separazione tra il protagonista e gli s4.pngaltri pupi è spiazzante e le due dimensioni in cui si muovono, quella subacquea e quella terrena, sembrano voler sottolineare tutte le imperfezioni del Principe di Danimarca, perso tra i riverberi dello Spirito del Padre, alla ricerca costante di esso e di se stesso ma sempre più solo e isolato, come un pesce fuori dall’acqua.
Uno spettacolo originale, potente, capace di entrare sotto la nostra pelle, dentro la nostra comprensione più profonda nonostante l’handicap della lingua (in polacco senza sottotitoli) che qui, però, non abbiamo minimamente percepito, come solo il grande teatro riesce a fare.

Chiudiamo il nostro resoconto con la messinscena (fuori competizione) che ha suscitato maggior stupore e meraviglia: “The last man”, tratto da “1984” di George Orwell, una delle due produzioni presentate al Pierrot della compagnia organizzatrice, lo State Puppet Theatre di Stara Zagora.
Un’ora e mezzo di teatro distopico, sfolgorante, creativo estremamente contemporaneo e visionario che mette in luce un futuro annichilente e un’umanità ridotta allo stremo con uomini che diventano numeri, perdendo qualsiasi capacità di ragionamento autonomo (pena l’elettroshock) e di coscienza.
Comandati dalla voce del Grande Fratello20190731-AT902137.jpg – un’attrice e soprano che campeggia la scena senza mai scendere tra i comuni mortali, esplosiva e corroborante – i sette personaggi (gli attori sono una squadra perfetta ed estremamente dinamica) diventano meri esecutori di una vita che non hanno scelto, esempio del genere umano lobotomizzato dai mezzi di comunicazione di massa (esemplificativa infatti la scena del grande quiz), dai meri bisogni materiali comandati dall’alto, privato di sentimenti, privato di scelte e quindi privato della capacità di essere unici. L’individualismo cede il passo, in questo mondo furibondo e infernale, alla globalizzazione delle mente, alla depersonalizzazione, ai gesti meccanici ripetuti in serie fino a distorcere la realtà dei fatti. Il tutto attraversato da un mantra, una sorta di nuovo comandamento moderno dettato dal deus-ex-machina invisibile che i protagonisti sono obbligati a ripetere.
La ripetizione dei gesti e delle parole dà il suono e il ritmo allo spettacolo, una struttura circolare (inizia e finisce, infatti, nello stesso modo) come fosse un rosario laico composto da sudore, paure, violenze, fughe, ritorni, uccisioni, che ci trascina sulla scena senza lasciarci scampo.
Gli elementi scenici - la grande impalcatura nel fondale, le scatole che diventano gabbie – gli effetti sonori stranianti, le voci distorte, il tappeto musicale perfettamente equilibrato e l’uso delle luci sapientemente integrato ai fini della comprensione della narrazione rendono questa grande macchina un organismo teatrale perfetto capace di moltiplicare le visioni, le strade della sperimentazione, aprendone di nuove e impreviste. “The last man” è un fermento drammaturgico che difficilmente incontriamo nelle nostre esperienze teatrali, uno 20190728-AT900229.jpgspettacolo essenziale che meriterebbe i palchi di tutto il mondo.

Il Pierrot, nella sua settimana di programmazione e grazie alla sensibilità della direzione artistica, si è dimostrato un festival ampio, ben organizzato, che ha ricevuto plausi unanimi da parte di addetti ai lavori provenienti da tutta Europa (e non solo) e dal pubblico sempre nutrito, e a cui riconosciamo, soprattutto, la capacità di aver posto grande attenzione alle drammaturgie e ai linguaggi contemporanei applicati al teatro di figura, andandosi così a ritagliare certamente un posto sul podio delle migliori rassegne europee sul genere.

Giulia Focardi

RAVENNA – Sarebbe troppo semplice definire il burattino un pezzo di legno inanimato. E sarebbe alquanto sbagliato descrivere il connubio tra il burattinaio e il pupazzo dipingendolo come un uomo e il suo strumento di lavoro. Qui non si tratta di unire carne e sangue al legno. Da quell'innesto nasce la magia, la poesia, qualcosa di difficilmente riproducibile, ne sgorga polvere di stelle in un unico, indissolubile legame tra la pelle, che presta il suo movimento, e la stoffa che si anima, prende vita e colore, assume un'anima, una coscienza, una consapevolezza, diventa un essere a sé stante, con le sue ambizioni e pulsioni, gioie e tensioni. Alchimia, non c'è altra parola per descrivere il filo che lega burattinaio e marionetta, due cose distanti che, sul palco nel momento dello spettacolo, si fondonoAlbert Bagno.jpg senza più riuscire a capire dove comincia l'uno e dove finisce l'altro. In molti modi è declinabile il Teatro di Figura e il “Festival Internazionale Arrivano dal Mare” (titolo di questa edizione: GenerAzioni), rinnovato e rinvigorito dalla Famiglia Monticelli, grande longevità alla 43esima edizione (tra Ravenna, Cervia, Gambettola, Gatteo e Longiano), ce ne ha mostrato le varie sfumature e discipline in un ventaglio di proposte alte e popolari insieme: il filo, il cunto, i piedi, la mano, i disegni animati.

Di solito quando diciamo che una cosa è fatta con i piedi intendiamo che è fatta male anche se con i piedi si danza sulle punte, si corre a perdifiato, si gioca a calcio. I piedi sono libertà, ma nel linguaggio comune sono bistrattati e messi sempre in secondo piano rispetto alle mani. Ad esempio tutti conoscono i nomi delle dita di una mano, mignolo, anulare, medio, indice e pollice, e pochi quelli dei piedi. Eccoli: alluce, illice, trillice, pondulo e mellino. Ma anche con i piedi è possibile fare molto, fare tanto, fare qualcosa di eccezionale come Laura Kibel con il suo sensibile “Va dove ti porta il piede” che riprende, parodiandolo, il successo della Tamaro, mostrandoci quante cose possono diventare alluci e laura-kibel-2.jpgcalcagni. Nessun feticismo. Decine le valige colorate sul palco ed ognuna delle quali contiene mondi e universi di personaggi e spettacoli. La Kibel, vera Maestra e artista di questa particolare branchia che ha un lato acrobatico, da ginnasta e circense, sciorina, facendo diventare i suoi piedi angeli e diavoli, un anziano sul ginocchio, un simpatico toreador spagnolo che lotta con un toro picassiano, che grazie alle note di Besame mucho riesce a trasformare la bandiera di McDonald che gli viene sventolata in faccia in quella del WWF. Spettacolare il parterre di pappagalli e tucani sudamericani come il Pulcinella arrestato dai Carabinieri (come non pensare prima a Pinocchio e poi al “Giudice” di De Andrè?), il direttore d'orchestra dai capelli a pagliaio e le mani gigantesche come il clown a metà strada tra Profondo Rosso, ispirato all'It di Stephen King, e i Simpson, suggerito da Krusty. Un lavoro intelligente.

Piccolo e gentile quanto affascinante e vintage è il mini carrozzone del norvegese Teater Fusentast dove, per quattro spettatori alla volta immersi in una sorta di cannocchiale, al suo interno si svolgono le vicende del “Parisian pillow case”, ovvero il caso del cuscino parigino. E' una storia semplice di amore e nostalgia per le cose vecchie ma che hanno importanza anche se non hanno valore, passando per una critica all'arte contemporanea e alla stupidità delle mode e di come gli esseri umani possano essere influenzabili. Un uomo che, durante un viaggio aDSCN1974.JPG Parigi, perde il suo amato cuscino dal quale, come coperta di Linus, non si separa mai. Un feticcio, sgualcito e usurato, riesce ad attrarre una serie di personaggi per un on the road (6 minuti la durata) di una carrellata di disegni che s'animano e scorrono davanti ai nostri occhi che tornano bambini: il cuscino, quasi una sorta di Forrest Gump che si trova nelle situazioni più disparate, arriva in testa al Primo Ministro in una parata, finendo nelle mani di un clochard che non ne ha mai avuto uno, viene rubato da un gabbiano, barattato al mercato del pesce (qui ci è venuto in mente l'incipit del romanzo “Profumo” di Suskind), sgraffignato da un gatto (senza gabbianella) fino ad arrivare in una galleria d'arte e cambiare la moda parigina. E' la differenza tra prezzo e importanza, tra costo e affettività, ben spiegata dalla poesia “Considero valore” di Erri De Luca.

Ci sono incontri che cambiano la vita o almeno mutano la percezione del reale, delle prospettive, delle priorità. E la marionetta riesce sempre, con la sua plasticità e ingenuità, e rimettere le cose a posto, a rintracciare i fili, far capire le dinamiche, cercare traiettorie più vere. E' la storia di Horacio Peralta, rocambolesca e avventurosa, dall'Argentina passando per Panama, approdando a Parigi, girovagando con la sua valigia di personaggi, ed oggi stanziale a Valencia. Che poi “Il Burattinaio”, il titolo del suo spettacolo che riassume la sua vita artistica e personale, inevitabilmente intrecciate, non può essere stanziale e sedentario in un unico luogo, deve andare, muoversi, ce l'ha nel dna il movimento, a volte appBig_a893b203e2ccb5d6868513563b9ba297.jpgla fuga. Horacio ci parla di amore per la vita, del lasciarsi andare all'oggi, del prendere da ogni casuale incontro, del sapere vedere la fortuna ad ogni bivio, di abbracciare il domani con ottimismo, lui scappato dalla dittatura argentina diretto a Panama con pochi averi. In un continuo palleggiarsi tra la vita reale, i suoi ricordi, le sue memorie, e le figure da lui ideate, che si affacciano sul palco, presentandosi e prendendo forma, ci fa conoscere Maria e Pier due personaggi che Horacio ha fatto vivere lavorando nelle carrozze del metrò nei freddi inverni parigini. E' quest'arte d'arrangiarsi che fa in modo di trovare soluzioni e nuove direzioni, senza mai fermarsi, senza mai abbandonare, senza mai mollare o sentirsi sconfitti o demoralizzati. Ripercorre la sua vita, che è la sua carriera, di personaggi stralunati e teneri come lo scultore o come il dolcissimo mostro peloso, simile ad uno struzzo, che s'imbatte in una sua simile e scatta l'amore a prima vista. Pupazzi che hanno un'anima come il suo “Idiota” scimmiesco e stupido che si ribella al suo creatore e richiede un'autonomia tutta sua, come la “Vecchia” che sta sempre in una scatola e quando esce non ne vuol sapere di rientrarvi, protestando e mettendo in dubbio le facoltà intellettive e “psichiche” del burattinaio in uno sdoppiamento della personalità che apre la porta a molte riflessioni. Infine “La Morte” che ci lascia con quelle che potrebbero essere le parole che meglio riescono a descrivere la vita di Horacio: “Buon viaggio, approfittatene”. Una leggerezza profonda ci pervade, commozione e riso si mischiano.

Una vera lectio magistralis è quella che intavola invece Mimmo Cuticchio, voce imponente tenorile così come la figura che incute rispetto e1-cuticchio.jpg autorevolezza, voce solida gassmaniana, barba da Mangiafoco, è deciso e intenso, ha carisma, potenza, presenza. E' un viaggio il suo a ritroso nelle origini della sua famiglia, nella Sicilia degli anni '50, '60 e '70, ma anche un caleidoscopio per capire l'arte, il teatro, le sue trasformazioni sociali durante il dopoguerra, mentre l'Italia stava cambiando grazie al cinema, alla televisione, al turismo. Siamo in una chiesa, consacrata, ed è affollata come difficilmente lo sono questi luoghi la domenica. Starlo a sentire è una gioia per le orecchie. Un uomo che si è fatto da solo, che ha messo a frutto gli insegnamenti, sul campo, del padre e di un Maestro. Cuticchio, qui senza pupi, nel suo circolare “recitar cantando”, ad occhi chiusi, nella sua armoniosa voce dei carrettieri, ora rude altre enfatica, con quei colpi di spada nell'aria e a terra con il piede da far risvegliare i morti da far rimbombare le pareti e l'anima, la rottura sincopata in apnea delle frasi, ci racconta dei genitori e dei sette fratelli, di una gioventù sul palco, a montarlo, recitarci, dormirci, dei 371 canovacci e trame su Carlo Magno e i Paladini di Francia nei quali il padre aveva suddiviso le gesta eroiche, dei 400 pupi che avevano appesi alle pareti. L'arrivo dei Cuticchio nei paesini, quando cinema e tv non c'erano, era un appuntamento atteso tutto l'anno, come una soap anni '80, come una fiction anni '90, come una serie tv d'oggi. Nelle sue parole c'è la storia del teatro ma anche quella sociologica di un Paese che stava uscendo dalla miseria. Dopo tanto girovagare i Cuticchio tornano a Palermo stanziali perché i pupi non attirano più nei piccoli centri soppiantati dalla televisione ma anche da biliardini, flipper e juke box che attirano i più giovani. Una sconfitta che diventa rinascita e possibilità: a Palermo i Cuticchio attirano i turisti, siamo nei '70, che arrivano da tutto il mondo. Ma i turisti, soprattutto i tour operator, anche se alle origini, chiedono ai pupari di portare in scena sempre lo stesso copione. Il giovane Mimmo invece vuole recuperare la tradizione e non si accontenta dei biglietti garantiti dai turisti. Dopo una lite generazionale con il padre, Mimmo lascia la famiglia e incontra Don Peppino Celano, ultimo cuntista, drammaturgo e costruttore di pupi. I due aedi cominciano un'alleanza, una ditta che vede il giovane Mimmo carpire e “rubare” i segreti della scena a Don Peppino fino all'investitura con lo spadino del '700 (che Cuticchio tutt'oggi usa nei suoi spettacoli) regalatogli proprio dal Maestro che segna il vero e proprio passaggio di consegne. Una fortuna avere la possibilità di stare ad ascoltarlo, la bocca aperta e gli occhi sgranati.

Tommaso Chimenti 24/09/2018

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM