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CASTROVILLARI – Anche quest'anno è la locandina il miglior biglietto da visita per “Primavera dei Teatri” (dal 27 maggio al 4 giugno), che da ventitré anni porta il teatro contemporaneo nel nord della Calabria: un manichino, una bambola gonfiabile dentro un cellophane su un divano, in attesa di essere usato o buttato lì proprio perché non interessa più a nessuno. Una sorta di azzeramento dei desideri, come quando si lasciano le case delle vacanze e si coprono i mobili per non farli aggredire dalla polvere. Quindi cura ma anche dimenticanza, preoccupazione e abbandono. Tre gli spettacoli che più ci hanno colpito all'interno del cartellone messo a punto dai tre direttori artistici, Dario De Luca, Saverio La Ruina, Settimio Pisano. Il Sud (italiano e del mondo) ha da sempre una marcia in più, teatralmente e non solo. Sicuramente ha ancora qualcosa da dire. Ha le viscere, la pancia, il sentimento, il sangue che ribolle, la lotta, il fermento, la rivoluzione, la grinta, la ribellione sotto pelle.

Questo nostro viaggio parte da Napoli, nasce da “Giorni Felici” di Samuel Beckett e diventa questo “Felicissima jurnata” (prod. Cranpi, Teatro di Napoli) dei Puteca Celidonia: poteva essere una nuova trasposizione in un dialetto regionale di uno dei tanti lavori del maestro irlandese come furono “U' jocu sta finiscennu” dei Krypton in calabrese o “Aspettando Godot” in abruzzese del 2023-06-03 FELICISSIMA JURNATA Puteca caledonia foto PdT  Angelo Maggio DSC01814.jpgTeatro Immediato, ancora Godot che in dialetto bresciano divenne “Che fom? ...Spetom!” di Faustino Ghirardini, o ancora Daniele Benati in reggiano. Invece i Puteca prendono spunto dalla veste beckettiana e ne immettono il proprio contesto, il quartiere napoletano dal quale provengono, il rione Sanità, e ancora più dentro, fino al cuore del loro vicolo (diventando immediatamente un testo eduardiano), applicando a Winnie e ai suoi giorni felici le interviste, le vere parole degli abitanti dei bassi che lì attorno brulicano, le persone che lì nascono e muoiono con quell'unico immaginario visivo negli occhi per decenni, memorie storiche e popolari di un universo bloccato, asfittico, attorcigliato come è la protagonista (dai mille risvolti e atmosfere Antonella Morea con la forza espressiva di Milvia Marigliano e l'efficacia ruvida di Barbara Valmorin) logorroica sepolta dalla vita in giù dentro questo triangolo, impilata e impalata in un cumulo di sabbia che in questa versione partenopea s'ingigantisce divenendo un vulcano (l'iconica scena che riempie le retine è di Rosita Vallefuoco), ovviamente il Vesuvio, ma anche un igloo per il gelo dei sentimenti o una grande gonna-appartamento-ripostiglio sotto la quale traffica e s'ingegna il marito che non proferisce parole, soverchiato dall'abbondanza di quelle a raffica della coniuge, ma soltanto grugniti gutturali e poco più. La drammaturgia (di Emanuele D'Errico) si bilancia con le voci in audio delle interviste che ci raccontano di queste povere, semplici esistenze, di queste sempre uguali giornate tipo composte da riposo, rosario, televisione in case abusive, vite al limite in equilibrio sul poter mettere un piatto in tavola o meno. “Che giornata felicissima” ripete lei per autoconvincersi, per dirsi anche questo giorno siamo sopravvissuti e “Questa giornata deve finire prima o poi” non è altro che la trasposizione del celebre “Adda passà 'a nuttata” di “Napoli milionaria”. Queste persone che si accontentano di poco hanno un'anima, non chiedono, 2023-06-04 STORIE DI NOI Giuseppe Provinzano  PdT foto Angelo Maggio DSC02713.jpgnon sperano più, sussurrano “Non ci possiamo lamentare” in una costante ansia/asma di vivere, respiro corto e affannato nelle preoccupazioni, nella fatica di tirare a campare, nel domani incerto che si spera sia monotono e incolore come il giorno prima che almeno significa salvezza, che un altro giorno lo abbiamo messo in cascina, nell'ammasso dei giorni felici. Onirico e concreto, “Felicissima jurnata” è uno schiaffo al capitalismo, alle lamentazioni dell'uomo contemporaneo, al surplus consumistico che ha schiacciato e azzerato i sentimenti.

Da Napoli ci spostiamo un po' più giù, a Palermo dove troviamo un Giuseppe Provinzano che è, attorialmente e teatralmente, visibilmente cresciuto e maturato padroneggiando meglio la scena, la materia e avendo ideato e architettato davvero un'opera che recupera sì la memoria dei giudici Falcone e Borsellino ma lo fa attraverso storie piccole, laterali, appunto “Storie di noi” di Beatrice Monroy (prod. Babel, Fondazione Giovanni Falcone, Spazio Franco). Storie minime, storie di palermitani che hanno visto, vissuto o anche solamente sentito il fragore, il frastuono, il boato dei due ordigni che cambiarono la geografia, il sentire degli abitanti. Provinzano, anche attraverso la maniera del cunto di Mimmo Cuticchio, dà voce a vicende cittadine, a eventi quotidiani che si sono trasformati in epica, in leggenda. Tra il 23 maggio 1992, la bomba di Capaci, e il 19 luglio 1992, l'autobomba di via D'Amelio, distano 57 giorni, come 57 sono i minuti dello spettacolo che si appoggia su un bel tappeto sonoro, su tante voci off, su una scenografia che ipnotizza: lui al centro ci aspetta palleggiando, attorno distese diverse sagome 2023-06-04 STORIE DI NOI Giuseppe Provinzano  PdT foto Angelo Maggio DSC02830 (1).jpgcome corpi uccisi, stracci che diventeranno lenzuoli immacolati da stendere sul fondale ad ogni capitolo, tanti lumini cimiteriali tutt'attorno, e due macchinine telecomandate che s'inseguono, una Fiat Croma bianca uguale a quella sulla quale viaggiava Falcone, una come la Centoventisei rossa che era stata imbottita di tritolo per l'attentato a Borsellino sotto casa della madre. E ci sono i bambini che giocano in strada, e c'è Giusy che si è appena sposata, e c'è una partita sentitissima di calcio tra due condomini rivali (e qui sembra Davide Enia in “Italia-Brasile 3-2”), e ci sono le figlie piccole di un giudice, e c'è una giornata al mare a Mondello, e c'è lo scagnozzo che prepara le case per i latitanti. Un testo che gronda poesia e sangue, sudore e afa, il tutto accompagnato dall'inquietante filastrocca: “Trema la terra, trema il mondo e tutti giù per terra”.

Da Napoli a Palermo e infine un salto in Argentina, un altro pezzo di Italia nel continente americano. Frutto di una residenza e di uno scambio tra il Sud America e la Calabria, Micaela Farina, con autoironia e passione, ci racconta la sua storia, i suoi fallimenti, le sue cadute, la sua voglia di non mollare. Vuole, da sempre, fare la cantante lirica ma da una parte soffre d'asma e dall'altra viene rifiutata in tutti i provini ai quali partecipa. Un po' Paperino, 2023-06-03 LA CONSAGRACION DE NADIE gonzalo quintana micaela fabira  foto PdT  Angelo Maggio DSC00162.jpgun po' Calimero, un po' Mafalda (non a caso personaggio disegnato dall'argentino Quino). Ne “La consagration de nadie” (scritto insieme a Gonzalo Quintana), ovvero “l'affermazione di nessuno”, perché l'hanno fatta sentire una nullità, ci racconta la sua parabola, l'Argentina, la famiglia, i corsi di canto, il passaporto italiano, lo studio lirico nella terra di Verdi e Puccini: tutto inutile. Una storia di orgoglio ma anche una richiesta d'amore e di affetto, di vicinanza, di partecipazione, di essere vista, guardata, ascoltata, di avere la sua dose di applausi (ne ha avuti moltissimi dal pubblico commosso di Castrovillari), di sentirsi viva. Lei inciampa, cade e si rialza sempre, fino alla prossima delusione, senza fare progressi nel canto e neanche nell'amore (forse le due cose sono connesse), ma non rinuncia testardamente ai suoi sogni. “Mi dicono di no, e io insisto” come una minaccia, un monito a se stessa e al mondo, è il suo lei motiv, il suo refrain, il suo loop, il suo mantra, rivincita e maledizione. Ma è un continuo abisso nel quale annegare e sentirsi sola e abbandonata, dove piangere senza consolazione. Quando parte il video di lei che da adolescente suona e canta la canzone colonna sonora di “Titanic” di Celine Dion è impossibile non avere gli occhi lucidi e bagnati perché siamo stati tutti almeno una volta (mille volte) come Micaela nel sentirsi imbranati, sbagliati mentre avremmo voluto soltanto attenzioni e abbracci, complimenti ed elogi, una pacca sulla spalla, almeno un bravo. Avrebbe soltanto voluto un po' d'amore. “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”, diceva Samuel Beckett. E Napoli si ricongiunge all'Argentina.

Tommaso Chimenti 07/06/2023

Foto: Angelo Maggio

FIRENZE – “Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare, Io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare” (Ivano Fossati, “C'è tempo”).

Nel doppio binario di un tempo interiore e di un altro oggettivo si svolge la vicenda portata alla luce da Saverio la Ruina che, con la grazia e l'eleganza di sempre, ci fa entrare dentro la propria vita, il proprio vissuto, la propria città e famiglia. E lo fa aprendoci la porta su uno dei dolori più grandi per ogni essere umano: la perdita di un genitore, la scomparsa del padre, pilastro saggio, uomo di poche parole ma di grande tempra, senza fronzoli, senza grilli per la testa. “Via del Popolo” è una camminata che facciamo insieme a lui nella quale ci accompagna e ci mostra quel che era e quel che è della sua cittadina, quella Castrovillari famosa teatralmente per il festival “Primavera dei Teatri” organizzato dalla compagnia Scena Verticale che ha fatto conoscere a tutta Italia questo comune sotto al Monte Pollino e a trenta chilometri dal Mar Tirreno come dallo Ionio. Una strada come pretesto per raccontare una città, e una società e una socialità, cambiata, mutata nel tempo, forse peggiorata, sicuramente modificata e diversa. Attraverso questa passeggiata conosciamo la perdita e questo tempo (il vero protagonista della pièce, simboleggiato dalla scena con la riproduzione DSC_2566.jpegdell'orologio fuso e sciolto di Dalì) che passa e trasforma e travolge le persone come le cose e cancella mondi costruendone di nuovi. C'è nostalgia e ricordo ma è un racconto non chiuso nella sua Calabria ma aperto e universale perché ognuno di noi potrebbe apporvi le proprie origini, strade e piazze e provare quel senso di inadeguatezza rispetto ai tempi moderni e un biascicare tra i denti un “ai miei tempi” oppure “quando ero piccolo”.

Il padre e la città, il padre è la città, il padre è la solidità delle pietre, dei muri, delle case, la protezione, il lavoro, quell'intorno costruito e difeso con i denti e le unghie con il sudore e la fatica, la dignità dello sgobbare, la pulizia e l'onestà di farcela con le proprie forze nel rispetto degli altri. Il padre Vincenzo è venuto a mancare qualche anno fa ad 84 anni e c'è commozione nelle parole di Saverio che lo ricorda con il giusto distacco del teatro ma tra le righe l'emozione è, giustamente, forte e con questa lieve fragilità ci rende e dona tutta la sua incredibile umanità, quel suo tocco leggero sulle cose che racconta, quella carezza affabile della sera, quella vicinanza, quell'abbraccio. La città è il padre, è la sua protezione, è il sentirsi al riparo sotto la sua ala di regole salde e principi solidi. La Ruina, con la giacca bianca da cameriere visto che i suoi avevano un bar, ci fa immaginare volti e piazze, incontri e sorrisi, caratteri e vicende con una autobiografia tenace e robusta ma al tempo stesso commovente e toccante nei trascorsi della sua famiglia che è cresciuta, si è consolidata fino alla vecchiaia, fino a quel passaggio naturale delle generazioni, il testimone che scivola di mano in mano con rettitudine, gratitudine, giustizia. Ci si immerge in questo romanzo di formazione e ci si immagina il grande attore DSC_2578 (1).jpege drammaturgo piccolo, poi a giocare a calcio nei campetti polverosi di periferia, a scuola o intento a dare il primo bacio che è ancora stampato nella sua memoria.

Ma il tempo non lo puoi fermare né governare, certo si può dilatare o restringere come l'universo e i buchi neri: “Il tempo non si può misurare: non vorrai dirmi che un'ora di piacere, un'ora di dolore, una di gioia, una di paura, hanno tutte sessanta minuti?”, diceva il filosofo Raimon Panikkar. Il tempo è strettamente personale e qui La Ruina ci fa partecipi e condivide il suo intimo con tutta la platea, donandosi generoso, aprendo i cassetti della sua esistenza, mettendosi a nudo, senza paure, regalandoci i sorrisi elargiti come il dolore sofferto e patito. Ma è la tenerezza che lo abbandona mai, verso la sua infanzia e adolescenza, verso il suo comune di residenza, verso i genitori, verso il padre tratteggiato mai come padrone ma come caposaldo, colonna, fondamenta alle quali appoggiarsi. E' un viaggio dagli anni '60 ad oggi e che in questi decenni vede parallelamente cambiare la sua famiglia, prima crescere poi invecchiare, e cambiare la sua città, prima modernizzarsi e poi perdere per strada un po' di magia e folclore globalizzandosi come ogni angolo del mondo. Impossibile non riconoscersi non tanto nei luoghi quanto nelle sensazioni e nelle atmosfere degli aneddoti, dei mestieri spariti, i soprannomi, gli amori dimenticati fino a toccare la politica e la malavita della zona. E' un quadro, un affresco dipinto con i colori tenui dell'anima, questa pasta inconsistente che non riesci a stringere ma della quale cogli benissimo l'essenza, come dice da testo “la collina di Spoon River”. Brividi sparsi.

Mi basta il tempo di morire fra le tue braccia così” (Lucio Battisti, “Il tempo di morire”).

Tommaso Chimenti 23/12/2022

CASTROVILLARI – Altri spettacoli ci hanno coinvolto, accerchiato, spostato. E noi li abbiamo annusati, digeriti, abbracciati. Perché a Primavera dei Teatri tutto è subbuglio, un felice calderone organizzato, uno sturm und drang razionale, un pensiero che si fa azione, un gesto che ritorna ad essere parola e scambio, genuino e generoso, soprattutto generatore e generante. Scena Verticale in questi anni ha fatto conoscere la cittadina calabrese sotto al Monte Pollino in tutta Italia, divenendo faro e punto di riferimento teatrale, circoletto rosso in una immaginaria cartina italica. Qui si vedono Maestri assodati come nuove compagnie che tra qualche anno potranno dire la loro. Ed è in questa logica tra affermati e novità che sta la forza di scouting da una parte e di sottolineatura dei fenomeni dall'altra, due solchi che sembrano non toccarsi mai ma che qui hanno motivo non solo d'essere ma anche di coesistenza, di vicinanza, di fratellanza, di passaggio di testimone. Nei quattro spettacoli che analizzeremo qui sotto è lampante il confronto figli-genitori che già abbiamo sottolineato come forte fil rouge di tutto il festival, cifra e scelta da parte della direzione artistica.

Ecco allora che ci colpito piacevolmente “Dammi un attimo” (testo e regia di Francesco Aiello e Mariasilvia Greco; prod. Teatro Rossosimona) che parte come una sit-com ma che, attraverso buoni dialoghi e un'ottima attorialità, ci porta dentro i dubbi e le perplessità esistenziali che stiamo attraversando: fare figli o restare figli? Dammi un attimo perché ci dobbiamo pensare e riflettere, perché siamo impauriti della vita che intorno a noi cambia così velocemente, perché c'è stata la pandemia e c'è l'inflazione e la guerra è alle porte e il precariato macina vittime se non addirittura la disoccupazione, perché siamo infelici e insoddisfatti perennemente alla ricerca di novità e viaggi che ci portino via da noi stessi. Tre personaggi (brave e pronte la stessa Greco e Elvira Scorza) che seDammi un attimo.jpg ne stanno, come scarafaggi, come mummie nei sarcofagi, sul fondo in scatolette illuminate, gabbie sì ma lucenti e colorate, le nostre case-loculo nelle quale non abbiamo bisogno di niente e di nessuno, siamo auto(no)mi se il frigo è pieno, Netflix è acceso, possiamo chiuderci dentro mentre il mondo fuori che rumoreggi pure. Una ragazza e un ragazzo sulla trenta-quarantina sposati e la sorella di lui che si piazza sempre a casa loro perché non vuole stare con marito e figlio a casa propria. Da una parte si cercano fermezze e certezze e punti stabili, dall'altra si è in continua fuga dalle responsabilità, da se stessi, dalle regole. E mentre parlano di figli preparano un pane (vero) in un forno che alla fine tireranno fuori caldo e fumante addentandolo (cannibalizzando il possibile figlio?). Ci ha ricordato, per atmosfere e colori, i quadri di Carrozzeria Orfeo (è un grande complimento). Oggi, nel nostro primo mondo, giustamente la donna non vuole più sentirsi contenitore di vite ma ha i suoi spazi, il lavoro o la carriera, l'indipendenza da difendere. E' un mondo difficile, che corre troppo forte per le nostre retine che non sanno fotografarlo, per i nostri piedi stanchi che gli corrono dietro affannati. Non c'è posa né calma mentre un figlio ti costringe a fermarti e pensare, a riflettere su chi sei, su quello che sei diventato, su quali valori hai da consegnare al nuovo arrivato. E questo fa tremendamente paura. In una nuova ondata di disimpegno da una parte, programmi trash e telefonini e la ricerca del divertimento come esperienza ad ogni costo, e dall'altra di nuove paure, alle succitate aggiungiamoci anche ecologia e ambientalismo oltre al nucleare, ecco che la frittata è pronta per sfornare l'immobilismo, il vivere nel presente senza programmare troppo. E i figli sono un balzo nel futuro, quel qualcosa che che è trampolino tra noi e il domani. E forse non ce lo possiamo permettere né economicamente né emotivamente. Non siamo più pronti. Forse non lo erano neanche le nostre madri ma si sentivano “costrette” culturalmente da un ruolo cucitogli addosso dagli uomini che gli erano intorno. Una profonda analisi, una centrata riflessione, una bella considerazione, un solido ragionamento.

Cominciamo da un'osservazione: da qualche anno gli spettacoli di Mario Perrotta sono diametralmente cambiati, quasi irriconoscibili rispetto alle tematiche forti e sociali grazie alle quali lo abbiamo apprezzato, applaudito, premiato. Certo si cambia, si cresce, ci si evolve, tutto giusto, tutto legittimo, tutto plausibile. Ricordiamo però “Italiani Cincali” e “La Turnata” oppure “Un Bes” o ancora il meraviglioso “Bassa Continua” con i tre percorsi sul Po. Perrotta innamorato delle trilogie, che incuriosiscono e affascinano, fidelizzano il pubblico. E anche stavolta, dal 2018 ad oggi, si è lanciato nella trilogia della famiglia con “In nome del Padre”, “Della madre” e quest'ultimo “Dei figli” (prod. TSBolzano, la Piccionaia, FTS, Permar). Un altro impianto, un'altra forma, trasformato, sicuramente diverso. Per i nostalgici un'altra cosa, lontanissima dalle precedenti esperienze sul palco. Ma il mondo va avanti e non c'è spazio né tempo per chi vuole rimanere ancorato a vecchie idee e concetti sorpassati. Le persone, e gli artisti ancora di più, sono in continua trasformazione e mutamento, guardano avanti. Però possiamo dire, e forse proprio perché siamo nella schiera malinconica dei reazionari che non vorrebbero che niente cambiasse, che la forza e l'impatto di Mario Perrotta in scena, in queste ultime uscite, si è leggermente annacquata, ha perso di quella potenza che ci rovistava l'anima. Chiamala maturità, se vuoi, assennatezza o saggezza. Anche questo “Dei Figli” risulta assolutamente godibile, scorrevole, a tratti divertente, colorato, con buone prove attoriali da parte degli altri tre protagonisti ma il vigore, la vitalità, l'energia che invadeva la platea nelle prove di qualche anno fa era di tutt'altra intensità. Si usciva dal teatro con gli occhi lucidi, il cuore pieno, rinfrancati e scorticati. Adesso siamo più nell'ambito, che nessuno si offenda, del teatro borghese con i suoi quadri, le canzoncine (Loretta Goggi, “I sogni son desideri” o “Musica leggerissima”, arie nazional popolari rassicuranti). In una scenografia che ci ha ricordato gli habitat di Rezza/Mastrella sono posizionate delle strane strutture futuristiche, sedie ondulate. Tre ragazzi abitano in affitto nella stessa casa di Gaetano, Perrotta stesso, che sta tutto il giorno in vestaglia per poi mettersi giacca e camicia e fare brevi conversazioni in video con donne che lo pagano per essere maltrattate eroticamente, dipingendosi come un etero duro e puro mentre nella realtà è omosessuale. I tre giovani sono un'avvocatessa, uno sceneggiatore fallito e un ragazzo che sogna di occupare il Polo Nord. Le loro (s)fortune sono i genitori: o del tutto assenti, o troppo accondiscendenti o ancora assidui controllori asfissianti. Invece che “Dei figli” l'analisi verte più su “Degli Uomini”, infatti sono i maschi che hanno un problema di hikikomorità rimanendo chiusi nelle loro stanze per anni per paura del mondo là fuori, che è diventato pericoloso, indecifrabile, rischioso, incomprensibile. Oltre ai personaggi sul palco, altri cinque si affollano su schermi recitando la parte di congiunti e genitori sopra le righe e grotteschi (emergono Marta Pizzigallo e Maria Grazia Solano) dei tre giovani (tra i quali spicca Luigi Bignone). Sarà che da Perrotta ci aspettiamo sempre tanto. Ripetiamo tutto piacevole e fruibile da una platea sempre più allargata, ma vorremmo rivedere e ritrovare il vecchio spirito di quel ragazzo di Lecce che tanti anni fa si trasferì a Bologna.

Appassionato e REAL HEROES.jpgintenso il progetto di questa giovane compagnia calabrese che si è fatta le ossa e che adesso si sta facendo conoscere anche fuori i confini nazionali: stiamo parlando del gruppo Oscenica, ragazzi saggi, con la testa sulle spalle, con tanti bei progetti. Questo “Real Heroes” è una performance di teatro itinerante come ce ne sono state post pandemia, cuffie e qui, alla fine, anche i visori, ma qui c'è di più. Il progetto (che è già sbarcato in Cile, Argentina, Spagna, Grecia e Uruguay) nasce dall'incastro tra il regista Mauro Lamanna e l'autore cileno Justiniano Aguilera e infatti in audio, mentre camminiamo per Castrovillari, ascoltiamo una storia sudamericana e una prettamente del nostro Sud. Già Caparezza lo rappava nella sua "Eroe": "Sono un eroe, perché lotto tutte le ore, sono un eroe, perché combatto per la pensione, sono un eroe, perché proteggo i miei cari dalle mani dei sicari, dei cravattari, sono un eroe, perché sopravvivo al mestiere". E sono storie tremende di solitudine e abbandono che ci stringono e non ci lasciano andare, prima un padre cileno i cui due figli sono stati rapiti dalla polizia fascista, e un padre calabrese che l'usura ha messo sul lastrico e che poi ha perso il lavoro, la dignità, la famiglia, il figlio. La voce che ci accompagna è calda, gocciola una pioggerellina che non è fastidiosa, quasi rinfrescante, ci fa sentire vivi tra questi muri crepati e questo crepuscolo che s'affaccia tra i cretti della terra spaccata nella vallata e il vento che ci sbatte in faccia la fortuna del godere di libertà e democrazia: “Passeggiare è un atto rivoluzionario”. E c'è poesia urbana in queste parole che scivolano leggere tra il nostro serpentone di cuffie illuminate di blu: “I tetti sono l'ultima cosa dell'uomo e la prima di Dio”. Affascinante e soffice quest'affabulazione che ci prende per mano (ci ha ricordato “Farsi silenzio” di Marco Cacciola): se la prima storia era poderosa ma lontana, la seconda invece è tangibile e sembra di riconoscerne i confini e i contorni tra i marciapiedi divelti e le saracinesche chiuse, tra i luoghi derelitti e i negozi fatiscenti sfitti di Castrovillari. Si parla di usura, di pizzo, di strozzini, di camorra e malavita, dello Stato che non ti protegge prima per poi abbandonarti, lasciarti solo contro i mulini a vento, a lottare contro cose più grandi di te, senza soluzione, senza aiuti fin quando non scivoli nel fango, nella miseria, molti cadono rovinosamente nel suicidio. E' un racconto che ti entra sotto pelle fatto di piccole perle che riscaldano, confessioni di 6 personaggi.jpgLa casa non è un accrocchio di mattoni ma è un respiro”. E ancora: “Errare è camminare e fare errori. Errori ed eroi sono simili: siate errori, siate eroi”. Altro che Steve Jobs che voleva solamente vendermi un telefonino. Lacrime, brividi, applausi.

Ed eccoci a quello che a nostro avviso è stata la più bella ed esplosiva sorpresa tra le proposte osservate, le “Confessioni dei sei personaggi” di Baglioni/Bellani, giovane compagnia umbra (abbiamo seguito negli anni loro lavori come “Gianni” e “Mio padre non è ancora nato”) sempre affiatata, centrata, precisa. Un velatino sul fondale, oggetti sparsi di grande gusto e pathos vintage e una telecamera ad indagare come si può fare, tra thriller e noir, alla ricerca del dettaglio, della minuzia per arrivare, come detective, a sperare di risolvere l'annoso caso pirandelliano. Come sono andate le cose, approfondendo ambiti e scene, scenari e dialoghi sospesi, entrando nella psicologia dei gesti, scavando dentro i giorni che hanno scavato come goccia fino alla tragedia finale. Ogni personaggio prende la parola e si fa corpo, ora in Caroline Baglioni adesso in Stella Piccioni, simili intercambiabili, entrambe puntuali, caparbie, tenaci. Mentre l'una recita l'altra la riprende come camera(wo)man in presa diretta (cinema e teatro si fondono) e il tutto viene riproposto sul velatino-grande schermo. La regia è curata, razionale senza essere cervellotica, passionale senza quell'istintualità che porta a debordare. E' un microcosmo accurato, centellinato al millimetro, che descrive e spazia, un dispositivo che amplia e racconta, un meccanismo intellettuale che ci interroga. Entriamo dentro il perimetro della storia con loro, siamo dentro il dramma, lo viviamo e finalmente sentiamo le varie voci dei Sei in una sorta di diario di quegli anni, di quei giorni. Capiamo il prima, gli antefatti in questa macchina perfetta di momenti e ricordi che riaffiorano come un colpo di tosse o uno sputo, un rigurgito per buttarci in faccia la loro verità, ognuno secondo il loro punto di vista, ognuno annegando nei propri sensi di colpa, senza perdono, senza salvezza, in quel substrato infame e infamante, in quel limbo tra paradosso e sconfitta, schiacciati dall'esistenza senza riscosse né rivincite. E' una sorta di confessionale aperto, al quale abbiamo libero accesso da guardoni onanisti. Queste “Confessioni” sono ben costruite, ben architettate, pensate, ideate, strutturate, calibrate: un vero piacere. Davvero robusto. Questo è il teatro contemporaneo che ci piace, quello che dice: “Sul palco si gioca a fare sul serio”. Usciamo felici e turbati.

Tommaso Chimenti 08/10/2022

CASTROVILLARI – Primavera dei Teatri rimane primavera anche se siamo ad inizio autunno. Per varie vicissitudini, lo scorso anno lo storico festival della Calabria del Nord, PdT è saltato e quest'anno è slittato da fine settembre fino alla prima settimana di ottobre ma questo non ha influito sulla ricerca dei nuovi linguaggi nella nuova drammaturgia non soltanto di casa nostra. La rassegna, diretta da Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano, quest'anno ha raddoppiato gli sforzi con un prologo a Catanzaro con diverse proposte internazionali. A Castrovillari, dove tutto è nato e dove tutto ritorna, abbiamo potuto seguire otto tra spettacoli e performance. Castrovillari sembra sempre la stessa, sembra sonnecchi con il Pollino sopra con la sua croce e le nuvole grigie a fare da cappello, le strade sempre con gli stessi disegni e graffiti che nessuno copre e nessuno migliora e nemmeno nessuno che ne propone di nuovi. Tutto è fermo anche se il fermento c'è, si sente, si percepisce, basti guardare i tanti giovani che affollano i luoghi del festival, il Teatro Vittoria e il Sybaris nel Protoconvento dove i ragazzi pullulano. Non cambia nemmeno l'immancabile Osteria della Torre Infame, che piace proprio perché rimane fedele a se stessa nei decenni: con il proprietario Nicola neo presidente del Castrovillari Calcio in Serie D e gli spaghetti al fuoco di Bacco, cotti nel vino e piccanti, che sono un must irrinunciabile e da soli valgono il viaggio (come non ricordare il caposala Pasquale). Oltre agli spettacoli ci sono stati i commossi ricordi di Maria Grazia Gregori e di Renato Palazzi, due grandi critici teatrali milanesi che ci hanno lasciato nell'ultimo anno. E c'è stata anche la presentazione del volume scritto da Gigi Giacobbe, altra firma prestigiosa stavolta messinese, su Bob Wilson. Come ogni anno ci attira molto la locandina che stavolta propone un uomo gonfiabile, una sorte di omino della Michelin, tutto avvolto dentro il cellophane, quello da scoppiare, quello per salvare gli oggetti fragili. Siamo teneri, siamo delicati e allo stesso tempo vogliamo stare sotto una campana di vetro per non romperci anche se, vicino a noi, come nostro compagno di viaggio esistenziale, c'è un cactus che, anche se piccolo, potrebbe farci esplodere, potrebbe far scoppiare la nostra scorza, il nostro scudo e armatura.Giancarlo Cauteruccio.jpg

Quello che abbiamo notato, nella maggior parte delle proposte, è stata una solida riflessione sul tema figli-genitori e spesso figli-padre. Chissà, forse parlare troppo delle madri e troppo di Genitore 1 e Genitore 2 ha scaturito un'ondata dissonante. Forse i padri mancano oppure non sono più le figure dei No decisi oppure c'è troppa confusione tra i ruoli. Ma la sostanza sono gli spettacoli, dai quali abbiamo attinto, ai quali ci siamo abbeverati di nuove riflessioni e spunti. Come “La Divina Calabria” di Giancarlo Cauteruccio che non smette di stupirci: idea geniale quella di prendere un locale sfitto sulla via principale, accanto ad un bar dai tavolini affollati e un kebab dagli odori e suoni e lingua araba. Tra caffè e carne bruciacchiata messa dentro pane e stagnola ecco che si apre l'antro della Sibilla Cauteruccio che, sull'immancabile carrozzella beckettiana, feticcio e firma, ha aperto il suo temporary shop dove all'interno un cantore, lo stesso Maestro cosentino-fiorentino in dark, due coriste-vocalist-cantanti in nero e sullo sfondo un performer in un'azione che ricordava il riscaldamento pre-nuoto, lo stretching, la ginnastica per cercare di non affogare nello Stige dei nostri peccati. L'eco rimbombava tra le pareti bianche, immersi nelle luci rosse rotanti di sirene, con questa acre Divina Commedia (canti scelti dall'Inferno, 1, 3, Purgatorio, 1, 2, 5, e Paradiso, 1, 10, 33) tradotta in lingua calabrese che pizzica e morde. Il Maestro si contorce sulla sedia a rotelle, con gli occhiali scuri da sole (non vedente tra Tiresia e Finale di Partita), mentre luci d'allarme come piccoli fari girano su se stesse creando un fremito uditivo e visivo e sonoro. Bianco delle mura, neri gli abiti, rosse le luci per un'immersione totale, da ascoltare anche senza capire. Si percepiscono la musicalità e le assonanze, i suoni e le armonie fragorose. A volte sono solo sospiri e respiri, gemiti, altri sono grida e urla. Siamo dentro una grotta moderna mentre fuori le chiacchiere sono attutite dalla musica, le auto continuano a strombazzare, il mondo è lontano. Un Dante in carrozzina in questo rito per poche persone alla volta. Se Cauteruccio è bloccato, il performer, lo snodabile Massimo Bevilacqua, sullo sfondo è in continuo movimento, i canti, delle brave Anna Giusi Lufrano e Laura Marchianò, addolciscono e sottolineano questa potente esibizione.

L'incastro tra il drammaturgo Mariano Dammacco (e la sua attrice di riferimento e sodale Serena Balivo) e il performer a tutto tondo Roberto Latini non è riuscito alla perfezione in questo “Danzando con il mostro” (prod. ERT - Lombardi-Tiezzi) rarefatto affresco giocato più sulle epifanie e sulle apparenze che su una precisa corposa sostanza. Due personaggi in scena, che non capiamo, tra dialoghi surreali (il pubblico ride, e molto purtroppo, sulla reiterata parola “Cog-lioni”, detta proprio così, staccata e con questa scansione) che più che dipingere un habitat metaforico creano una confusione di immagini, sovrapposizioni, spaesamenti, nebbie, fraintendimenti. Dopo poco non si riescono più a cogliere i confini dei personaggi, scivoliamo, cadiamo, chi sono questi due? cosa fanno? perdendoci dentro dialoghi sospesi tra una Balivo-Franca Valeri e un Latini-Petrolini in un incedere che non NITROPOLAROID.jpegtrova un felice sbocco fluido. Diciamo criptico.

Un tempo c'è stato Antropolaroid che tanta fortuna ha portato a Tindaro Granata. Adesso arriva questo “Nitropolaroid” dei Crack24, scatto impressivo di una famiglia esplosiva. Parte benissimo questo scritto, in parte autobiografico, dell'autore Riccardo Lai. Un racconto fortemente tratteggiato dalla calata sarda, un autodramma per dirla con le parole che Strehler usò per definire il Teatro Povero di Monticchiello. A grandi intuizioni seguono acerbità e ingenuità. Lai, protagonista in scena (somiglia a Nicholas Cage), dà subito una bella carica alla platea, tra il sardo e un italiano sardizzato raccontando, da dentro, la sarditudine, la distanza, geografica e culturale, dell'isola, il mirabolante Continente da temere e da affrontare. Seguono scene e quadri, surreali e grotteschi, parodistici, e fin quando si rimane su questa falsa riga il tutto risulta fruibile e godibile. Poi sembra che gli sia sfuggito di mano qualcosa perché cambia bruscamente il clima che si fa cupo e tenebroso tra streghe e omicidi: un altro spettacolo proprio. Nella prima parte (dove la platea era tutta con loro), che ha il sapore di un Far West simpatico, con risvolti sociali e antropologici ma sempre sul difficile terreno ed equilibrio sottile di un'autoironia pungente, si ha la sensazione di una leggerezza intelligente ma allo stesso tempo siamo rapiti dalle sorti di questa famiglia rurale e da questo figlio che vuole seguire orme e sogni differenti. Qualcuno potrà dire generazionale, sì, è vero, però fatto bene. Alcune scene troppo allungate e annacquate, le streghe nel bosco ad esempio, anche se l'impianto a metà tra “Nozze di sangue” di Garcia Lorca e “Macbettu” di Alessandro Serra, sembra funzionare, tra il I Macbeth.jpgmistico e il mitologico, il sogno e la leggenda. Il ritratto del padre o dello zio (parla come un mix tra Maria Amelia Monti e Gianni Brera) sono folcloristici e curiosi, così come la scena delle tre suore (molto Marta Cuscunà). Poi, inspiegabilmente e senza alcuna ragione e spiegazione, si entra su un terreno drammatico pesantissimo che sconfessa tutto il precedentemente espresso: un Cristo in croce fino, appunto, ad una morte violenta che ci coglie impreparati ed è fuori luogo. A tratti la voglia di gag gli ha preso la mano: less is more. Dopo il crack, il punto di rottura segna anche un punto di non ritorno e “Nitro” diventa tutt'altro spettacolo che, improvvisamente, non funziona più. Purtroppo.

Dopo “Riccardo 3” arriva la seconda parte della trilogia shakesperiana frutto dell'incastro tra Vetrano/Randisi e Francesco Niccolini: “I Macbeth”, prod. Arca Azzurra (seguirà Amleto). L'impianto è quello di R3, una struttura di contenimento coercitivo, un carcere manicomiale di loculi e catene dove sono rinchiusi i personaggi delle tragedie del Bardo o persone che si sono così tanto immedesimate da credersi loro e sentirsi tali. Hanno tic e sentono fantasmi dentro le loro teste, dentro le loro orecchie che ritornano e non li lasciano in pace e i loro dialoghi arrivano direttamente dalla letteratura inglese seicentesca con innesti di quella cultura contemporanea voyeuristica televisiva che ben si presta alle vicende di cronaca nera del Belpaese. Così al Macbeth vengono aggiunti Olindo e Rosa e il caso Varani e tutto prende senso e “questa notte atroce e insanguinata” la sentiamo più vicina, più nostra, più tangibile, meno lontana, meno impossibile. I tratti sono cupi, barbari. Ancora manca qualcosa oppure questo secondo step troppo ricalca il primo passaggio da assimilarli.

Tommaso Chimenti 06/10/2022

CASTROVILLARI – Lockdown maledetto lockdown. Tremenda sciagura la quarantena. Il teatro non può non riflettere sui mesi appena passati e, forse, purtroppo, su quelli che verranno. Chiusi, lontani dalla socialità, lo streaming dal divano da casa, adesso con i posti in teatro ridotti, le prenotazioni, le prove senza contatto. Un mondo stravolto, quello degli attori, delle compagnie, degli organizzatori, dal punto di vista esistenziale ed economico, di possibilità e di visione futura. Un muro improvviso ha chiuso il panorama, serrato le aperture. E così il titolo già di per sé incisivo “Vivere è un'altra cosa” (prod. Corte Ospitale e Olinda) del gruppo milanese Oyes (belli i loro “Vania” e “Io non sono un gabbiano”, meno convincente ma sempre interessante “Schianto”) ha ripercorso, tra leggerezza e profonde ferite, sorrisi e lacerazioni ancora irrisolte e non rimarginate, i tragici momenti di sconforto e abbandono ognuno nelle proprie case, isolati dal resto e collegati al quartiere da banali canzoni trash al balcone, paccottiglia come l'applauso all'atterraggio, tutti quei lenzuoli con su scritto “Andrà tutto bene” quando era ovvio che non andava affatto bene niente, i bollettini di guerra e necrologi delle sei del pomeriggio quando la sera avvampava, il buio là fuori si mangiava un altro giorno e la notte scendeva dentro il petto di ognuno di noi appesi alla speranza che veniva vanificata, le solite interviste ai soliti virologi, i dibattiti e i talk show con i numeri impietosi, le camionette militari con le bare di Bergamo. Praticamente da allora poco è cambiato nel nostro immaginario tranne che, e ovviamente non è poco, anzi è essenziale, il poter uscire, andare, fare, a distanza e con la mascherina, certo, ma pur sempre “liberi finalmente e non saper che fare” come avrebbe chiosato Baglioni.20201015arzanominilockdownrcs_640_ori_crop_master__0x0_640x360.jpg

Cinque attori, diretti dalla mano sicura di Stefano Cordella, in uno spazio aperto hanno raccontato il loro personale autobiografico piccolo calvario di mancanze, di lezioni on line, di figli ai quali non saper cosa dire, di compagni e compagne da sopportare, di questa apatia e depressione che tutti affliggeva, costretti a dover fare esercizi fisici e mentali per non pensare al momento ma spostare l'attenzione, cucinare follemente come a Masterchef, impastare anche se non avevamo mai fatto prima il pane, tutti ora esperti di lievito madre, ora ingrassare per poi diventare salutisti e dimagrire a suon di pilates e kettlebell, plank e yoga, squat e addominali. Al centro della grande scena sgombra un modellino di un palazzo in miniatura, quasi casa di Barbie, che nell'inframezzarsi tra una storia e l'altra, centellinata, sospesa, stoppata e poi fatta ripartire come i giorni o le settimane reclusi e relegati a fornelli e Netflix, si accendeva, si illuminavano le finestre, aperture lucenti che significavano che la famiglia era in casa forzatamente, sprangata nell'attesa di buone notizie che non arrivavano, che non arrivavano, che non arrivavano “ed una radio per sentire che la guerra è finita”, continuando con il Claudio nazionale.

Il quarantenne con compagna, figlia e cane al seguito, insoddisfatto interiormente della propria condizione d'attore che ha perduto quella verve che lo aveva portato a voler stare sul palco, quel fuoco che lo pungeva (Umberto Terruso essenziale, fondamentale), la giovane sposa da sempre fidanzata con il proprio uomo e che si è sempre raccontata felice (Francesca Gemma tenace), il ragazzo schiacciato dalle aspettative familiari e dal successo degli altri componenti del suo nucleo di riferimento (Francesco Meola appassionato, intenso), la ragazza single che ha fatto la quarantena da sola tra piccole euforie momentanee e grandi disagi costanti (Martina De Santis lucida, melò), il quinto convinto single, geloso dei suoi spazi e della propria libertà che poi ha ceduto alla convivenza (Dario Merlini ironico). “Storie di tutti i giorni vecchi discorsi sempre a metà”. Il desiderio di impegnarsi in qualcosa di produttivo per non perdere tempo ma per mettere questa parentesi a frutto facendo o intraprendendo quello che avevi trascurato e messo da parte: corsi, riparazioni, letture, introspezione. Cinque attori e nessun lavoro in vista con la prospettiva di un post lockdown ancora peggiore con recessione, disoccupazione, preoccupazioni di carattere economico ed emotivo.

Uno stop forzato che ha messo un punto a ciò che eravamo e ci ha costretto a pensare, o ripensare, a chi eravamo, a che cosa cercavamo, se eravamo sulla strada o rotta giusta per raggiungere la nostra intima felicità, se quello che stavamo facendo ci stava facendo bene, se mollare o perseverare. Cinque storie, vere, reali, degli attori in scena, che erano, sono, le storie di tutti noi, nelle quali sentirsi rappresentati, fotografati, identificati tra ricordi e commozione, ripensando alle nostre fragilità, alle crepe scricchiolanti dentro le nostre vite superorganizzate, sempre con i minuti contati, le agende, gli appuntamenti, con la sensazione perenne di poter far tutto, andare ovunque, raggiungere chiunque, con quell'idea di mobilità nello spazio come nella crescita personale e nel raggiungimento degli obbiettivi. Ad un certo punto a tutta la carne al fuoco che avevamo messo a cuocere nelle nostre esistenze qualcuno ha spento la fiamma e ci siamo accorti che la carne non era così di prima qualità, che alcune parti erano e sarebbero rimaste crude, e che altre, al contrario, erano già bruciate, andate, corrose, consunte, avariate. E' che quando sei nel vortice, dentro al Sistema, non ti accorgi VIVERE-E-UN-ALTRA-COSA-OYES.jpgdei piccoli rumori degli ingranaggi, ti concentri sul grande movimento senza considerare le minuzie, i moti impercettibili, i gesti dimenticabili. La quarantena ci ha reso più umani? No, semmai, ci ha fatto fare un passo indietro e da un metro più lontano i contorni sono più nitidi e l'affresco si comprende meglio nel suo insieme. Abbiamo capito che siamo una serie infinita di domande più che di soluzioni a buon mercato che qualcuno tenta di spacciarci e venderci, che siamo dubbi e paure e non certezze e solidità, che siamo uomini e non superman, che si può cadere sconfitti.

A pezzi siamo dentro ogni storia, o lo siamo stati, un giorno ci siamo sentiti come quel padre o come quella sposa, come quel ragazzo oppresso dal successo dei propri consanguinei o come l'attrice sola o ancora come l'eterno scapolo; c'era da perdere la bussola, da travisare, da non connettere più in un mondo che parla solo e costantemente di connessione. Non saremo mai 5G dentro. Saremo sempre più vicino alla tartaruga che alla lepre. Siamo (stati) tanti fondi di caffè (come quelli gettati sul palco) usati e polverosi, metafora giusta e perfetta, con l'illusione di rimanere e stare svegli mentre ci addormentavamo stanchi e sfatti, affranti e afflitti, fondi compatti come dischi da hockey che al contatto con il terreno si sfaldano e si sfanno, si parcellizzano, si spezzano, si sfarinano disorientati senza una regola, impotenti tra il desiderio che tutto finisca presto e l'assuefazione a questo nuovo status, racchiuso nel grido sommerso “Non ho voglia che tutto riparta”.

Altra clausura forzata è il recinto che Saverio La Ruina delinea e traccia nella sua piece: una tenda da terremotati dopo una catastrofe naturale, piccole e strette mura di tela e stoffa con tutto il disagio fisico e psicologico dell'aver perso tutto, di un futuro nebuloso se non proprio nero, di speranze azzerate, di convivenze forzate. E' qui, in questa pseudo casa fredda senza ricordi né calore familiare che si ritrovano “Mario e Saleh”, due mondi, due culture, due età, due modi di pensare agli antipodi. Uno cristiano l'altro musulmano, uno anziano l'altro giovane, lo scontro è inevitabile. L'impatto sul teatro italiano di La Ruina in questi anni è stato importante per due motivi, nella scoperta di una lingua, il calabrese, poco o per niente usata, a differenza del napoletano o del siciliano ad esempio, sui palcoscenici, dandogli dignità d'essere e d'esistere scenicamente, e il portare a galla fenomeni e storie altrimenti sepolte, dimenticate e sotterrate, pensiamo alla condizione della donna in “Dissonorata”, agli italiani nati in Albania e non voluti né da una parte né dall'altra dell'Adriatico in “Italianesi”, gli aborti clandestini con ferri arrugginiti ne “La Borto”, l'essere omosessuale in un paesino giudicante del Sud in “Masculu e fiammina”, fino alla violenza domestica in “Polvere”.

Se però il regista, drammaturgo e attore di Castrovillari perde, o accantona, la propria lingua madre che regala immaginario e vigore, allora il discorso si normalizza perdendo quel pepe, quel pungolo, quelMarioeSaleh_fotoTommasoLePera-1.jpg piede di porco per scartavetrare, per far saltare il banco, per aprire il vaso di Pandora delle emozioni ancestrali e così legate al suo territorio d'origine. In qualche modo quelle parole “italianizzate” si depotenziano, non pungono più come attraverso quel dialetto che ferisce e brucia anche nella sua incomprensibilità che infligge una patina di mondi lessicali impossibili da tradurre ma soltanto compresi dal suono, dall'armonia rude, dall'assonanza musicale. Questa la prima riflessione sul linguaggio di “Mario e Saleh”, mentre la seconda si attiene, pur all'interno di una messinscena solida che sempre tiene il punto sia a livello registico che attoriale (l'altro interprete è il convincente Chadli Aloui), al lato più sociale o se vogliamo politico dell'idea che sta alla base del testo. Negli ultimi anni di infiniti sbarchi irregolari e di tensione sociale sempre crescente in un Paese in default, l'Italia, con una crisi galoppante e le periferie che esplodono, il teatro però sembra avere il paraocchi e disegna e identifica sempre i buoni negli immigrati, migranti o extracomunitari, mentre i cattivi sono gli italiani, forse compresi quelli che sono lì in platea ad ascoltare e applaudire. Lo straniero è, come in questo caso, sempre cordiale, gentile, premuroso, generoso, modesto, colto e acculturato, misurato e saggio, mentre noi siamo dipinti come maschilisti, stupidi, machisti, omofobi, sessisti, razzisti, ignoranti, analfabeti. Siamo sempre disposti a concedere il beneficio del dubbio e un'altra possibilità allo straniero ma con l'italiano, con l'occidentale caucasico siamo implacabili, inflessibili, rigidissimi. Forse, per senso di colpa, vogliamo colpire noi stessi, per senso di inadeguatezza vogliamo infliggere all'altro nostro simile quello che non riusciamo a digerire del nostro stare al mondo, pur condividendolo e abitandolo.

Anche in questo MarioeSaleh_fotoTommasoLePera-3.jpgcaso il buono e il cattivo sappiamo subito da che parte stanno, però siamo sempre ben predisposti d'animo con chi arriva, senza i documenti in regola quindi contro le leggi del nostro Stato, non solo da un altro Paese ma addirittura da un altro continente, che ascoltare le istanze di un nostro concittadino che paga le tasse da generazioni. Prima gli italiani ci fa schifo ma prima gli stranieri è assolutamente legittimo. E' il razzismo al contrario con gli stessi preconcetti e prevaricazioni e pregiudizi che vogliamo combattere e condannare in quello ordinario. La tesi anche in questo caso, però, è subito lampante e predefinita e preordinata: il ragazzo nordafricano ce la mette tutta per essere accolto mentre Mario è aggressivo e maleducato, offensivo e predominante, minaccioso e autoritario. Povero Saleh, acriticamente, a priori, per partito preso, e giù diamo addosso a Mario, crocifiggiamolo, anzi sostituiamo tutti i Mario volgari con tanti Saleh così dolci e docili e carini. Il teatro spesso non vede la realtà ma la riporta come vorrebbe che fosse. Anche da questo si nota che lo scontro sociale interno al Paese, spaccato in due (non si parla di bipolarismo), diviso su ogni scelta, dove vince sempre l'ideologia e la strumentalizzazione. Il problema non è essere nazionalisti o sovranisti o addirittura patriottici, tutti termini identificati come negativi. Sarebbe bello che l'immigrato ci portasse saggezza e lavoro, purtroppo sono uomini e donne anche loro, per giunta spesso senza istruzione e con la fame (pochi invece scappano da zone di guerra) che attanaglia la bocca dello stomaco, e quando hai fame, in un Paese come l'Italia dove di lavoro ce n'è poco, è facile cadere nell'illegalità e nella microcriminalità. Se dell'immigrato fai un santino e dell'italiano un carceriere illetterato e scimmiesco, il quadro stona, la realtà viene deformata, l'analisi s'inceppa.

Tommaso Chimenti 

 

CASTROVILLARI – Sembra che in questi ultimi vent'anni poco o niente si sia mosso a Castrovillari. Le scritte stinte e stanche sono al loro posto, nessuno ha tinteggiato nuovamente il muro o la facciata del palazzo, nessun altro ragazzo ha vergato frasi inneggianti ai successi recenti, limpidi o meno, della Juventus. Tutto pare fermo, cristallizzato, immobile. Cambiano soltanto i necrologi e i manifesti elettorali. Le cose inevitabili. Le stesse buche, le stesse crepe, gli stessi marciapiedi rialzati dalle radici degli alberi. Che niente cambi. Neanche gattopardesco. Nessun scossone, nessun stravolgimento. Le solite fontane secche, i giardinetti aridi e incolori, spogli, sdruciti, sciupati, ricoperti delle carte che svolazzano e di quella sporcizia quotidiana della quale nessuno si preoccupa, c'è, c'è stata e ci sarà, ormai fa parte del panorama. Neanche i cani ci vanno più a marchiare il territorio. Grossi cani infreddoliti che si trascinano in cerca di un riparo, di un pezzo di pane. Nessuno si cura neanche di loro. Abbondano invece negozi d'abbigliamento che si alternano con i bar. E te li figuri gli abitanti del comune calabrese sotto il Pollino sfoggianti sempre nuovi vestiti e una tazzina in mano, neanche fossimo a Napoli. Sui camion della frutta e verdura spuntano adesivi di Madonne che hanno visto giorni migliori e che hanno perso i loro colori per la pioggia e il tempo, a terra peperoncini caduti nel giorno di mercato.

Resiste la scritta più iconica (e laconica) del centro cittadino, nel “salotto buono” sotto una panchina di marmo vicino al municipio, con lo spray blu, che ormai ha perso la sua forza: “Tu sei solo mia”. Messaggio d'amore giovanile, lievemente machista ma perdonabile perché sicuramente adolescenziale. Qualcuno, però, in fondo all'aggettivo possessivo ci ha aggiunto una O, cambiandone il significato, parodiandolo, modificandolo, certamente smitizzandolo e migliorandolo. Impossibile ogni anno non fotografarla: “Tu sei solo miao”, a metà strada dall'essere gatta e quel “Sei tutto chiacchiere e distintivo” de “Gli Intoccabili”, di stampo poliziottesco-mafioso: sei un miagolio e basta, nemmeno abbai, figuriamoci se puoi mordere, al massimo graffiare. 121095407_10213913211262799_1859308194492316627_o.jpgSi aggira anche il solito “disagiato del villaggio” con le sue gag sgangherate, con le sue piccole manie e molestie modeste alle quali nemmeno lui crede più quasi dovesse assolvere un copione: la richiesta di spiccioli, di sigarette, elemosinare un caffè insistentemente fino ad essere cacciato in malo modo fino al prossimo bar, in loop nel suo girone dantesco. L'unica cosa che in questi venti anni è cambiata è Scena Verticale, la compagnia teatrale diretta dalla Triade Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano, che a fine anni '90 ha ideato, progettato e poi fatto crescere e arricchito di edizione in edizione, il festival “Primavera dei Teatri”, punto di riferimento non regionale ma nazionale, e non da oggi. In questi lustri si è tarata verso l'alto l'organizzazione, la scelta, l'occhio critico, il ventaglio di possibilità di una rassegna fiore all'occhiello che forse, ancora, le amministrazioni che si sono succedute a Castrovillari non hanno compreso a pieno il peso artistico e il valore “politico”, nella sua accezione più alta, abbia avuto e continui ad avere a livello italiano.

Primavera si è evoluta anche se Castrovillari (quest'anno protagonista di una delle prime tappe del Giro d'Italia, la sesta, fino a Matera) sembra almeno in apparenza non aver assorbito la lezione, lasciandosi scivolare addosso un festival che si svolge in un triangolo cittadino eccezionale composto dal Castello Aragonese, il Protoconvento bianco candido, dove si svolgono principalmente gli spettacoli, e l'Osteria della Torre Infame (con Nicola, burbero ma generoso, supportato da Pasquale, ruvido ma sempre disponibile) che sfama gli ospiti con la sua celebre Fuoco di Bacco, spaghetti piccanti risottati cotti nel vino, una delle chiavi del festival. Triangolo che però risulta un'isola felice ma sempre isola rimane, lontana dal centro; non certo periferico ma appare più una parentesi in fondo alla strada principale che in discesa arriva fino allo snodo prima di scegliere se addentrarsi verso la cultura o risalire e attraversare con lo sguardo altri negozi con i loro mirabili sconti e nuovi bar. Negli scorsi anni, con l'apertura del Teatro Vittoria nella centrale via Roma, quella dello struscio, si voleva, e ci erano riusciti, ovviare a questa esclusione di “Primavera” dalla vita sociale del paese, e che invece, quest'anno, causa Covid, non è stato possibile riaprire.

Basta constatare il gusto nel confezionare, anno dopo anno, le locandine che identificano, disegnano e incorniciano il festival: uno spot, un lancio, una fiamma, un flash di colori e significati sempre incisivi, sempre attuali e contemporanei, sempre sul pezzo. Quest'anno (il festival dal consueto fine maggio è stato spostato per la pandemia a ottobre, dall'8 al 14) raffigura una porta che si apre sul domani e una ragazza dai tratti afro che prende per mano, quasi per condurla in un'altra dimensione, in un nuovo mondo dai colori più tenui rispetto al viola della stanza in primo piano (come non pensare a Gino Paoli?), una ragazza biondissima, nordica. Due mondi che si toccano, due mondi non più così lontani innestati nell'universo femminile. In quelle due mani strette c'è fiducia, affidarsi, complicità. “Primavera” è sempre stata avanti, oltre le mode, senza il bisogno di cavalcare le onde facili del momento ma spostando l'asticella di volta in volta, stimolando il dibattito.

Anche in questa ventunesima edizione tante proposte (tre al giorno e poi incontri e presentazioni, conferenze e convegni, laboratori e mostre) dove il fil rouge era la luce. Partiamo proprio da quello che il direttore De Luca ha definito un “festival nel festival”: il videomapping del Maestro Giancarlo Cauteruccio. Se l'appellativo Maestro è stato abusato e scialacquato, appena ti soffermi davanti a queste idee concettuali del regista calabro-fiorentino, ne senti tutto il peso, la forma, l'importanza, la cadenza. Il fondatore della compagnia Krypton (ci mancano, come ci manca il loro spazio innovativo nell'hinterland fiorentino, il Teatro Studio di Scandicci) ha scelto cinque luoghi simbolo della cittadina in provincia di Cosenza equidistante trenta chilometri dal Tirreno come altrettanti dallo Ionio: il Municipio, la Cattedrale, il Castello, Palazzo Cappelli (al cui interno purtroppo hanno permesso l'apertura di una pizzeria a taglio) e l'Ospedale. Il titolo già scandaglia e scalfisce: “Alla luce dei fatti. Fatti di luce”. Un'idea che, per una settimana, ha ravvivato, vivacizzato, fatto esplodere di senso e colori, questi cinque punti cardinali della città, da starne davanti ed esserne travolti, trasportati, da vedere e rivedere ogni sera, sempre uguali eppure sempre con sfumature e particolari nascosti e celati oppure trascurati alla prima fugace visione. Apparizioni, epifanie. Esperienza assolutamente da ripetere ed esperimento che ha dato un tocco magistrale, d'autore, una firma, soprattutto le proiezioni sul Castello che diventava così agorà e foyer allargato di un ideale gigantesco teatro, piazza dove scambiarsi e incontrarsi accanto a queste luci che trasformavano un parcheggio scialbo in un'opera d'arte potente in continuo divenire e tramutarsi, un'araba Fenice che risorgeva con nuove luci dalle ceneri delle precedenti: poderoso, irradiante, da naso all'insù. Mai più senza.

La luce Corpo_arena.jpgche Cauteruccio ha spruzzato sulle mura antiche, i Mammut Teatro l'hanno direzionata per andare a fondo e analizzare l'oggetto materia umana nel loro “Corpo/Arena”, prima trance di un trittico scritto dall'autrice portoghese Joana Bertholo, progetto all'interno di Europe Connection. Cibo, Insonnia e Vecchiaia, i tre stadi umani studiati. Per la regia pulita e netta, senza essere didascalica, ma precisa e sottolineante, senza sovrabbondanza, di Gianluca Vetromilo, tre personaggi con tute acetate, quelle che servono per dimagrire, e lucide come quelle degli astronauti, sono ingabbiati e intrappolati dentro un garage in un'attesa beckettiana spasmodica attendendo il loro cibo ordinato con lo smartphone. Si ingozzano e non sanno neanche il perché: perché così è stato e non sanno, non riescono, non vogliono cambiare prospettiva alla loro esistenza che appare segnata sui binari della non-scelta. La digressione sul cibo da fisica e materiale si fa metaforica, disegnandoci dei pazienti più che degli accaniti consumatori buongustai, dei degenti più che selezionati gourmet. Sono dipendenti ma non se ne sono mai resi conto; è proprio in questa assenza, in questa mancanza prolungata (potremmo trovarci un parallelismo delle nostre vite durante il lockdown impostoci) prendono coscienza delle proprie possibilità e che quello che credono di volere, il cibo in ogni sua forma, altro non è che un tranquillante soporifero che li acquieta, li stordisce, non gli permette di protestare, di cercare la propria felicità perché istupiditi, intontiti, confusi, immobilizzati da jungle food e troppa tv. Sono (siamo?) Vite al Limite: “Non siamo grassi perché divoriamo il mondo ma è il mondo che divora noi”. Sapiente uso delle luci che tagliano, squadrano, zoomano.

Luce, ancora luce, sempre luce. Non c'è luce più abbagliante di quella in fondo al tunnel, la luce celestiale del post, l'Aldilà. Senza pesantezze né eccessiva enfasi o pathos patinato, anzi con naturalezza e quella leggerezza che riesce ancora meglio a trascinare e a far passare le emozioni, quelle più eteree e impalpabili, quelle che teniamo nascoste, Maurizio Aloisio Rippa è riuscito a costruire un perfetto equilibrio tra le arie, da lui cantate meravigliosamente accompagnato dalla chitarra di Amedeo Monda, e le parole, musica e narrazione. Sono piccoli momenti di vita (e necessariamente anche di morte), piccoli estratti che sembrano ininfluenti, minimali, spiccioli, vite quotidiane, “normali”, che non lasceranno il segno se non nei pochi con le quali sono entrati in contatto. E un'anima non muore mai se viene ricordata e “riportata in vita” dalla memoria di coloro che restano. Sono “Piccoli Funerali” (ha vinto i Teatri del Sacro) elegie cantate in questa Spoon River dove Rippa (visto, e sempre ad altissimi livelli, con Latella come con Punzo) si apre, si scioglie, tra ricordi autobiografici e una scrittura semplice, diretta che non cerca giri di parole, piccoli lampi (a proposito di piccolo, ci ha ricordato i due pamphlet “Momenti di trascurabile (in)felicità” di Francesco Piccolo) che vanno a ritroso a cercare queste esistenze che sono sparite nel dimenticatoio, che non hanno fatto la Storia ma che sono state ugualmente importanti. Siamo nel chiostro bianco di Morano dove il clima freddo fa conflitto con il calore dei racconti di Rippa che danno brividi, commozione, lacrime che bagnano mascherine. Una canzone fa da specchio ad un suo ricordo in un dialogo continuo e la platea si trova naufraga sempre Rippa 3.jpgpiù imbrigliata, piacevolmente e con strazio, nella nostalgia della memoria personale, nel ripensare ai propri cari, alla propria famiglia, al proprio passato, le manchevolezze, le parole non dette e quelle che non potrà mai più dire a qualcuno che se n'è già andato. Non è uno spettacolo, o per lo meno non è un semplice spettacolo, non è un recital, ma è un aprirsi a cuore aperto e il pubblico ha fiducia e si mette nelle mani di questo sciamano che rievoca le figure universali che ci accomunano tutti toccandoci, un Rippa (una voce dolorosa a tratti come il frontman di Antony and the Johnsons, fluttuante e flautata come una grappa morbida senza essere soft, tra Tony Hadley e George Michael) in stato di grazia, phisique du role da sacerdote ortodosso che rende questo teatro cantato o questo concerto teatrale una serie di epitaffi che ci sconquassano di lacrime e ci lasciano una patina strana addosso miscuglio tra malinconia e quel senso di impotenza nei confronti del Cosmo, della Natura, del misterioso Creato.

Canta in spagnolo (“Alfonsina y el mar” da Mercedes Sosa), in inglese (“Oh, Danny Boy” o “Over the rainbow”), in napoletano (“Casa sulitaria” di Murolo), ci fa sognare e tremare, commuovere e ci riporta bambini quando tutto era possibile, quando il mondo dei grandi era lì per proteggerci, quei grandi che adesso se ne stanno andando. Non si ride mai ma si sorride, di noi soprattutto, delle nostre minime esistenze, di quanto ci prendiamo sul serio, di quanto tutto potrebbe essere più semplice e spensierato se non avessimo sempre il coltello tra i denti Maurizio Aloisio Rippa.jpege la sensazione di essere invincibili e soprattutto immortali. Siamo fragili ed è inutile nasconderci, siamo di passaggio, non dobbiamo piangere, stiamo soltanto dirigendoci verso un altro viaggio. Nell'ultima scena, quasi una consegna dell'ostia, del perdono o di una assoluzione, in fila andiamo richiamati dal nostro Pifferaio Magico e in quell'attimo di pura, vera, sincera condivisione, nello sguardo tra il performer e ogni persona del pubblico, lì, proprio lì, non esiste più il teatro ma la vita, l'esperienza di stare nello stesso luogo con ogni centimetro del proprio corpo: un insieme di gratitudine. L'onda lunga di “Piccoli funerali” si propaga nel tempo, non finisce con la fine dello spettacolo. Anzi, sorridete perché la fine non è mai la fine, ci dice Rippa, la fine non è una tragedia.

L'auspicio è che Castrovillari diventi ad immagine e somiglianza di “Primavera dei Teatri”, la speranza è che, prima o poi, nel prossimo ventennio, il virus della “Primavera” (non araba ma calabrese) colpisca, attacchi e intacchi, contagi anche il territorio; sarebbe davvero una rivoluzione copernicana.

Tommaso Chimenti

15.10.2020

CASTROVILLARI – Non è un caso se il festival “Primavera dei Teatri” termina la sua corsa ogni anno il 2 giugno, data simbolica, Festa della Repubblica, unione ideale di tutto lo Stivale tricolore, momento alto anche per l'intero movimento teatrale nostrano. A Castrovillari, in questo spicchio di Calabria che guarda la Basilicata ed è equidistante dal Mar Tirreno come dallo Ionio, dove l'odore di salmastro è lontano mentre sono molto più pregnanti e pressanti gli aromi della montagna, il Pollino che attira sempre nuvole gravide e scure, il teatro ha cambiato l'intorno, il paese che in questa settimana, a cavallo tra fine maggio e inizio giugno, si raccoglie e sgomita per seguire i tre spettacoli al giorno, le performance, i laboratori, le conferenze che il gruppo Scena Verticale ogni anno, con attenzione, mette in piedi. Venti anni. Due grandi ics campeggiano sul manifesto del 2019 con un funambolo in equilibrio a districarsi tra la caduta e la corda. La ics, la croce che ci riporta anche alle Elezioni Europee che proprio in quei giorni sono andate in scena. La pioggia è stata sicuramente una delle protagoniste meno attese e mal volute ma non ha rovinato i piani. Il Fuoco di Bacco, la pasta piccante cotta nel vino rosso, servita da Nicola e Pasquale all'Osteria della Torre Infame davanti al Castello Aragonese, anche quest'anno è stata citata, ringraziata, elogiata, 2019-0-26 PDT Contro la liberta  DIVINA MANIA foto Angelo Maggio P1510809.jpgricordata, fotografata, divenendo un simbolo stretto a doppio filo al Festival della Triade, Settimio Pisano-Dario De Luca (che debuttava a Cosenza sulle rive del fiume in un progetto speciale site specific che sarà presente anche al Napoli Italia)-Saverio La Ruina, grandi professionisti e grandi persone. Elezioni Europee che qui hanno avuto il loro riflesso nei testi, due catalani e uno tedesco, collegati al bellissimo progetto Fabulamundi che Primavera accoglie da un paio d'anni: prendere testi di autori del Vecchio Continente e farli dialogare con giovani compagnie emergenti calabresi; un interessante modo di mischiare le carte, far esplodere energie, rompere gli schemi e vedere come nuovi germi e virus riescano a crescere, espandersi, fiorire.

Ci hanno 2019-05-27 PDT semi stivalaccio teatro  foto angelo maggio DSC06142.jpgcolpito le maschere di “Semi” di Stivalaccio Teatro, i puppets della premiata “La Classe”, l'ironia grottesca dei sette quadri di “Contro la Libertà” della compagnia Divina Mania, la scena e la crudeltà de “La ragione del terrore” dei Koreja. Dopo la loro cavalcata-maratona tutta agita dentro le pieghe della Commedia dell'Arte, i veneti Stivalaccio utilizzano le maschere, uscendo dai testi della tradizione, e indagando la contemporaneità, l'ambientalismo (sarebbe certamente piaciuto anche a Greta) e l'ecologismo mischiati con quella sana follia che li caratterizza. All'interno della Banca dei Semi in Norvegia (luogo reale dove effettivamente sono conservati decine di migliaia di semi di piante) due soldati, nel classico scontro tra efficiente e stolto, ruoli che si ribaltano inevitabilmente, sono messi sotto attacco da terroristi. Il tema è alto e le finestre aperte sono molteplici come l'idea di futuro e di evoluzione della specie che semioticamente (appunto) la parola “semi” contiene: il seme che può essere quello vegetale come quello dell'uomo funzionale per la procreazione. Tra un colonnello dal sapor garibaldino, una recluta cialtrona, echi di Isis e Pussy Riot, spot alla Pulp Fiction, “Semi” è una girandola leggera e onesta di divertimento con più di un rimando alla politica sotto una coltre di risate, di baruffe chiozzotte dove spicca anche un mix tra Mara Venier e Barbara D'Urso, il vero luogo ormai dove si fanno i processi, dove si direziona il pubblico, dove si espongono teorie e dove, purtroppo, si allevano adepti istupiditi da tanta propaganda spacciata per intrattenimento. Un salto di qualità per Stivalaccio.2019-05-29 la classe iacozzilli-crampi  foto angelo maggio DSC07850.jpg

Non era affatto semplice trasformare il testo di Esteve Soler, “Contro la Libertà”, suddiviso in sette scene, una drammaturgia che si prestava più facilmente per una versione cinematografica (che l'autore catalano ha effettivamente realizzato proprio quest'anno) che per un passaggio teatrale. Invece Mauro Lamanna, Gianmarco Saurino e Elena Ferrantini (giovani, carini e molto occupati), i tre giovani attori di Divina Mania, hanno ampiamente superato le aspettative e conquistato tutti. Sette differenti quadri spostati in una società distopica non così lontana dalla nostra attuale, un testo duro, violento, cinico, crudele, drammatico e allo stesso tempo grottesco, assurdo, sarcastico, diabolico. Hanno risolto il dilemma costruendo una struttura che riuscisse a contenere tutte e sette le situazioni, irriverenti, caustiche, tremende, una gabbia sullo sfondo (di Andrea Simonetti), una costruzione pulita, fusion, minimalista e lineare supportata con tocchi di luce eleganti (Luca Annaratone) e musiche pirotecniche e decisive (Samuele Cestola). Un testo che parte da un “contro”, quindi un movimento verso qualcosa fuori di noi, che invece ci parla e vuole insistere sulle nostre debolezze, i nostri demoni, il fascismo che alberga in ognuno di noi, anche senza accorgersene. Nel primo una madre e un figlio sono alla frontiera, lei nel Primo Mondo, lui invece è un migrante e sono collegati da un grosso cordone ombelicale, nel secondo due sposi sono all'altare pronti per il fatidico sì quando alla sposa sorgono dubbi spiazzanti, nel terzo in una situazione di guerra i soldati sono più propensi alla realtà virtuale che si agita nei loro telefonini, il quarto ha dei rimandi a Fahrenheit 451, il quinto è un colpo allo stomaco e vede protagonisti una coppia e un bambino, nel sesto c'è una ditta clandestina dentro un guardaroba e nel settimo si vendono degli appartamenti con delle presenze per qualcuno inquietanti per altri, ormai, purtroppo, normali. I nostri sette peccati capitali quotidiani.

Arrivato 2019-05-29 la classe iacozzilli-crampi  foto angelo maggio DSC08169.jpgqui con un grande carico di aspettative “La Classe” ha confermato la sua bontà e qualità giocando sul doppio binario, e creando la necessaria tensione emotiva (alla fine standing ovation), da una parte dei puppets, infantili e morbidi e teneri, e dall'altra con l'inserto dei racconti, in presa diretta, interviste ai ragazzi, oggi adulti, compagni di classe alle elementari della regista Fabiana Iacozzilli. E' una storia di dolore e sopraffazione, di sadismo e prevaricazioni quella che la Iacozzilli dopo oltre trent'anni riesce catarticamente a mettere in scena togliendosi un peso, respirando. Deve essere stato un trauma enorme portarselo dietro per tutti questi anni. E' una confessione, un teatro di denuncia che ci pone davanti alla questione dei “maestri”. La tesi che ne fuoriesce è che nella vita servono anche i brutti ricordi e tutto entra nel grande calderone della crescita ma soprattutto che servono i maestri che essi siano buoni o cattivi. La suora in questione, protagonista con i suoi metodi a dir poco militareschi di punizioni corporali e sevizie psicologiche, ha in qualche modo, questo si evince dalle parole della stessa regista romana, forgiato la passione per il teatro della stessa ma non solo, ha anche instillato in lei l'amore per il perfezionismo, l'alzare sempre più l'asticella, il mai accontentarsi e, dall'altro lato, la poca propensione alla maternità. La scena, banchi che si muovono in coreografie, e una lavagna, con questi pupazzi dai grandi occhi spauriti (recentemente Premio “In-box” a Siena) è già di per sé un capolavoro, così come i movimenti che gli attori-aiutanti in nero compiono danzando attorno a cartelle mignon, a penne micro, ad occhiali minuscoli. 2019-05-29 la classe iacozzilli-crampi  foto angelo maggio DSC08267.jpgAleggia, già dal titolo, la lezione kantoriana, soprattutto quando, sul finale, la stessa regista, discende dalla platea e con qualche tocco fa scattare brividi e commozione. Il pupazzo interagisce con l'uomo cercando in lui salvezza e conforto ai colpi, alle derisioni, chiede un po' d'amore. “La classe” è, giustamente, il vero eclatante caso teatrale dell'anno.

Il testo di Michele Santeramo sembra scritto proprio pensando a Matera, alla capitale europea della cultura di quest'anno, con le sue grotte trasformate in spa, con la sua sofferenza di qualche decennio fa tramutata in ristoranti stellati e b&b di lusso. Partiamo dalla scena che è d'impatto, quasi fosse un'onda pronta a rompersi, gli attori surfer in equilibrio precario e noi impreparati ad accogliere la potenza della violenza trasmessa senza fine. Perché, ci dice l'autore pugliese (lo spettacolo è prodotto dai Koreja leccesi), esiste sempre una “Ragione del terrore” (regia di Salvatore Tramacere), un incipit, un prima dopo il quale tutto è andato a valanga, prendendo velocità impossibile da fermare. Dicevamo la scena 2019-05-28 la ragione del terrore teatro koreja michele santeramo foto angelo maggio DSC07110.jpg(di Bruno Soriano) è una casa colorata (ossimoro delle vicende cupe e buie), anzi uno spicchio di abitazione, quasi da elfi, da Puffi, un connubio tra Escher e De Chirico, dove tutto è storto, triangolare, da fiaba noir, una casa delle bambole montata senza le istruzioni dell'Ikea, dove tutto è in discesa pericolosa, obliqua, diagonale, squilibrato, scivoloso verso il basso, verso gli istinti più animali e infimi. Michele Cipriani dà voce (uno, assieme a “La Classe”, dei vincitori morali di Primavera: perché non istituire un premio collegato al festival?) a questo disgraziato punito dalla sorte, dalla Storia, dal corso degli eventi, senza rivalsa, senza rivincita, senza possibilità di cambiare il corso delle cose. E dicevamo anche di Matera, all'inizio di questo ragionamento; già perché gli appuntamenti lucani artistici di quest'anno si basavano tutti attorno alla parola “Vergogna” proprio perché Togliatti così aveva definito la condizione nella quale erano stati abbandonati, fino agli anni '60 inoltrati, gli abitanti di quella valle. Cipriani è carnale, sanguigno, è una palla infuocata lanciata a tutta velocità, ci mette tutto se stesso nel rendere e restituire la vita di quest'ultimo, che non può, fin dalla nascita, andare che male, senza redenzione, senza alcuna gioia, né amore né vittoria. Come la struttura è inquietante e cadente così il racconto che si fa livido, atroce, violento (la moglie, sempre silente, è Maria Rosaria Ponzetta nel suo mutismo gonfio, goffo, carico di sofferenza indicibile); e si sente tutta la povertà, la miseria, ricorda Hansel e Gretel, l'insoddisfazione, la rassegnazione, la rabbia, la morte, arriva in soccorso anche “Dogville”. Il Sud, ancora una volta, è la materia sviscerata, con perizia e cura, da Santeramo, quasi un'autopsia su un cadavere malconcio.

 

Foto di Angelo Maggio

Tommaso Chimenti 03/06/2019

CASTROVILLARI – Ci sono dei bambini che corrono a perdifiato, a rotta di collo, giù per una duna di sabbia. Lavora, come sempre, sull'ambiguità e sull'ambivalenza dell'intelligenza la locandina della diciannovesima “Primavera dei Teatri”: se da un lato c'è il gioco, la corsa, la velocità, dall'altra c'è la caduta rovinosa, la nostra fanciullezza che va verso la discesa inarrestabile, il crash inevitabile e tutto intorno il deserto, arido, caldo che brucia e infiamma. Castrovillari, comune calabrese sotto il Monte Pollino, nella settimana a cavallo tra maggio e la Festa della Repubblica del 2 giugno, ha il suo rilancio. Qui le parole d'ordine sono peperoncino e Amaro del Capo (anche se ora si sta imponendo L'Amaro Silano, assolutamente da provare). Siamo tra la Basilicata e lo Ionio, i funghi del bosco e il sapore di mare. “Primavera” è una certezza, da sempre in equilibrio tra grandi conferme e nuovi linguaggi, tra assodati gruppi, consolidati artisti e felici scoperte.

Le tre anime principali del festival calabro, Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano, dopo venti anni vanno ancora d'accordo, anche questo è un piccolo miracolo. Si respira un bel clima, e noncastrobuonaed soltanto meteorologico, disteso, rilassato e al contempo professionale, preciso con quell'informalità (dopo tutto siamo in estate) propria della radice dalla quale proviene la parola festival: la festa, appunto. Ed in questa festa, per gli occhi e le orecchie, per la scena e il palato (must irrinunciabile una puntata all'Osteria La Torre Infame, proprio davanti al Castello Aragonese, con gli intramontabili Nicola e Pasquale vere colonne culinarie che sfamano gli appetiti festivalieri; peccato capitale è andare a Castrovillari e non assaggiare il Fuoco di Bacco, gli spaghetti piccanti cotti nel vino), abbiamo selezionato tre buoni motivi, tre slanci scenici, tre diverse angolature preziose dello stare sulla scena, tre urgenze, tre morsi, tre graffi, tre applausi focosi e appassionati. Da sottolineare anche l'ideazione dell'interessante “Progetto Europe Connection” che ha abbinato a tre compagnie calabresi (Brandi/Orrico, Aiello/Rossosimona, Saverio Tavano) altrettanti autori internazionali, da Polonia, Repubblica Ceca e Romania (il più compiuto e riuscito è stato “Confessioni di un masochista” di Roman Sikora con il parallelismo tra bondage e fruste e il mondo del lavoro sottopagato e frustrato), con alterne fortune e risultati con però l'importante risultato della commistione, del mix che porta a nuovi impulsi.

La Piccola Compagnia Dammacco chiude la sua trilogia con un salto produttivo e scenico in questo complesso e sfaccettato “La Buona Educazione” (coproduzione con Teatro di Dioniso di Michela Cescon) che rileva e sottolinea la bravura già ampiamente emersa di Serena Balivo (Premio Ubu under 35 lo scorso anno) che esalta le parole del regista e drammaturgo Mariano Dammacco. In una realtà leggermente spostata in avanti nella deriva dei sentimenti e dei social network, una donna volutamente senza figli (“Chi fa un figlio dà un ostaggio al destino”) viene improvvisamente travolta dalla morte della sorella e dal conseguente affidamento del nipote. La Balivo è effettivamente molto brava nel calarsi in questo contemporaneo (come argomentazioni e dipanatura delle riflessioni) teatro classico (come impostazione) e ambientandosi tra il divano immerso tra le solide e inquietanti figure-sculture antropomorfe (impregnante la scena di Stella castrobuonaed2Monesi; sul pavimento terra da arare, dalla quale nascono i frutti ma anche si seppelliscono sogni e cari) che pullulano in questo salotto di reclusione, in questa sala d'aspetto dove la donna ci racconta delle incomprensioni e delle distanze culturali e generazionali tra lei e il ragazzo. Inserti drammaturgici squillanti, originali e illuminantemente stralunati: la Giuria popolare del web, che decide delle nostre sorti, ci lancia dentro un grande Truman Show o Grande Fratello, le citate 4:48 sarahkaniane degli incubi del piccolo, quell'atmosfera cupa e ammorbante da “Città di K” della Kristof, il controllo dell'anima che pare un Allegro Chirurgo, l'innamorarsi degli oggetti al pari delle persone.

Un adolescente che si esprime coniugando, come un primitivo, i verbi all'infinito e che la denuncerà ad ogni suo rifiuto, ad ogni necessario NO per la crescita. Qualche appunto però dobbiamo farlo: la scrittura coglie e accoglie, fa pensare nell'ironia ma la piece raggiunge il suo climax quando la protagonista-Mary Poppins (sempre avvolta e “aggredita” dai suoi fantasmi amletiani che la consigliano e soprattutto redarguiscono) parla, nell'immensa poesia, della parmigiana alle melanzane della madre. Quello è il focus più alto e la commozione era tanta in sala, purtroppo al buio del cambio quadro si sono succeduti altri venti minuti (troppi innesti e sovrabbondanze in successione) che hanno chiuso le parentesi e messo a posto tutte le finestre aperte cercando una conclusione ininfluente che niente ha aggiunto. L'attrice, inoltre, forte e comoda nelle parole del suo autore, ha calcato molto la mano, si è appoggiata e sostenuta, sottolineando la calata, accentuando le risate dal pubblico quando ha sentito che poteva far leva su quell'espediente (ci ha ricordato la brillantezza di Sabina Guzzanti) per rafforzare la buona riuscita di questa prima nazionale. “La buona educazione” (al contrario della “Mala educacion” almodovariana) ci dice che forse in questo mondo non serve o non paga averla e metterla a disposizione del prossimo sempre pronto a pugnalarti; con le dovute cesoie sarà un testo che la provincia ben accoglierà, uno dei testi di maggior circuitazione per i suoi molti spunti e svariati livelli di lettura.

Coraggiosi, di rottura e iconoclasti sono, restano i Babilonia che tornano all'antica protesta frontale molto punk e soprattutto stavolta molto rock. Già dal titolo, quel “Calcinculo” che sa d'infanzia, dicastroBab adolescenza, di gioventù e Luna Park, di altalena e lanciarsi in alto, in cielo per prendere quella catenella che scendeva dalle nuvole. Oppure i calci in culo, non più altalena a bocche aperte e trasognanti ma le repressioni, le costrizioni, le punizioni di questo mondo, di questa società (“Calcinculo al presente immobile e inevitabile”). Calcinculo è più che altro un concerto vero e proprio e i Babilonia ci dimostrano attraverso la forma leggera, vengono in mente i vari talent show, da Amici a X Factor fino a Italian's Got Talent, di poter far passare contenuti densi e pregni, di lotta, di protesta, di ribellione. Ci sono le bandiere del Veneto con il Leone (loro che hanno vinto il Leone d'Argento alla Biennale!), ci sono gli estintori con i quali creare una difesa, un fortino all'allarme sociale, alle paure inscenate e alimentate da giornali e tv. E c'è agitazione e angoscia nelle loro parole pur se sciorinate da versi e strofe, c'è “La mia depressione che fa orario continuato, ha chiesto un part time e non gliel'hanno dato”. Tormentoni: “Devo fare il tagliando ai castroBab2miei ideali, senza manutenzione non c'è rivoluzione” danno il termometro e la scala dei valori di queste montagne russe tra l'impostazione leggera e la profondità del pensiero che ne sta alla base. E non hanno paura del giudizio e sono sfrontati e aizzano il pubblico tirandogli addosso i cartoncini di plastica per un giro al calcinculo della vita, oppure lo lisciano con una passerella di cani campioni di bellezza da esposizione (“Il mio vicino ha voce solo per bestemmiare, solo per chiamare il cane”). Fanno entrare una ventina di alpini per il coro finale fino all'eccessiva esaltazione, meramente come manifestazione estetica di spettacolo planetario, delle regie di morte dell'Isis che sopravanzano qualsiasi finzione scenica di cinema, teatro o fantasia (per aver detto che “L'11 settembre è stata la più grande opera d'arte mai esistita” il famoso pianista tedesco Karlheinz Stockhausen è stato emarginato dalla comunità artistica e accademica ed è morto nel disonore), inneggiando alla distruzione della Scala o del Colosseo. Speriamo che Salvini non se ne accorga, altrimenti ci aspettano picchettaggi all'entrata dei teatri come quelli che colpirono (e provocarono una nuova enorme ondata di pubblicità mondiale) Romeo Castellucci in occasione del suo “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”. Noi possiamo solo dire che vogliamo subito il cd delle canzoni con i testi di Enrico Castellani e la voce di Valeria Raimondi: farebbe le scarpe alle varie Michielin o Fedez.

Il funambolico e visionario Roberto Latini invece ha scovato un suo perfetto alter ego, PierGiuseppe Di Tanno, un “gigantesco” e dotato performercastrofortebraccio capace di vette vocalistiche, di movimenti sinuosi di danza, di flessibilità, di compostezza come di una resistenza fisica notevole, di cime interpretative che hanno attanagliato la platea a questo corpo, a quest'ugola, a quell'enfasi magica da lui creata. “Sei” (paradossalmente in questo periodo gira per teatri e festival un'altra rivisitazione del “Sei personaggi” pirandelliano a cura di Scimone e Sframeli) mantiene il testo con Di Tanno che presta voce e corpo ad ogni personaggio infarcendo il discorso con didascalie e note dell'autore. Diventa un racconto mentre lui se se sta su quest'isola claustrofobica e circoscritta su uno sgabello in alto (ci ha ricordato Silvia Gallerano ne “La merda”), una maschera di morte in faccia (come quella del gruppo indie “Tre allegri ragazzi morti”), tanto sudore e sofferenza, “Vivo e senza vita”, un collare elisabettiano shakespeariano, i leggins in latex. C'è tutto l'immaginario latiniano, l'erotismo sinuoso, l'eclettismo muscolare, le sfaccettature delle corde vocali, lo straordinario ventaglio di possibilità, la caduta agli Inferi. Di Tanno, una vera scoperta da premiare per forza, precisione, accuratezza e presenza scenica che tutto riempie, è piratesco appollaiato su questa “colonna” antica del teatro, ora è un Arlecchino adesso un demone abbandonato su quest'isola deserta, faro da dove scorgere i nemici. castrofortebraccio3Dopo “I giganti della montagna” Latini scompone e decostruisce anche i “Sei personaggi” inserendo anche pezzi dell'amato Amleto come nella scena finale, molto formale, della vasca da bagno con schiuma che fa tanto Marilyn. Un Pirandello frullato e centrifugato. Di Tanno è chiuso, rinchiuso, recluso, non può fuggire, isolato, relegato, bloccato; urla, si dilania, si duole, si strazia, s'angoscia, si strazia, si smarrisce, si lamenta e piange in uno stato osmotico con il pubblico che, insieme a lui, prova e cede, sente ed è altrettanto ferito. E noi con lui siamo folgorati, atterriti, sgomenti, partecipati. La riflessione di Latini sul teatro, sui suoi meccanismi e dispositivi, scandagliando le sue pieghe, continua, felice, scomposta, rarefatta, potente.

Tommaso Chimenti 05/06/2018

Foto: Angelo Maggio

CASTROVILLARI – Ci sono festival che chiudono e festival che raggiungono la maggiore età. Primavera dei Teatri compie diciotto anni. E li festeggia riaprendo una sala, il Teatro Vittoria, chiuso per un incendio da trenta anni, e adesso riconsegnato alla città. Castrovillari è sempre la stessa, il centro saldo delle operazioni è ancora la sua Fortezza, mentre il monte Pollino dietro gonfia il petto e all’ora del tramonto fa ombra, s’incupisce sereno e placido. Quest’anno la squadra di calcio della città è retrocessa. Nessuna paura, qui si tifa Juventus. Il vento scende sul corso che taglia e in discesa arriva fino all’Osteria della Torre Infame. Infame perché lì stavano i condannati a morte in attesa dell’esecuzione. In-fame perché, se ne hai, te la puoi togliere gettandoti in pasto agli “Spaghetti al Fuoco di Bacco”, piccanti e cotti nel vino, i “Maccaruni a firrittu del pastore”, con la ricotta, i “cancariddi arrustuti” (peperoni secchi fritti), le “patane mblacchiate” castro1(patate e peperoni). O puoi provare “cucurriddi e mirlingiane” (zucchine e melanzane), lasciarti tentare dalla “saburizza” (salsiccia piccante, e che te lo dico a fare). Nduja patrimonio dell’Umanità. Il palato schiocca, la lingua s’attorciglia in questo scioglilingua.

Lingua che è incipit e soglia, sosta e prolungamento, scivolamento e consonanza, caduta e risalita nel lavoro di Giuseppe Cutino, regia, e Sabrina Petyx, drammaturgia. “Lingua di cane” ci porta al “Cuore di cane” di Bulgakov. Pezzi, muscoli, organi. Son quelli che ci vogliono per sopravvivere, per tentare almeno di farlo. È anche un cercare di parlare di un fenomeno, quello dei migranti, sul quale in questi ultimi anni, anche e soprattutto in teatro, si è detto tutto ma sempre, o nella quasi totalità dei casi, in maniera diretta, dritto per dritto, raccontando l’orrore. Però, lo sappiamo, il teatro ha bisogno della metafora, del simbolico, del detto tra le righe, senza riproporre la cronaca, senza rincorrere la realtà che è molto più potente di qualsiasi racconto. A meno che non si scelga un’altra strada. Quella di una poesia cruda (certo la retorica è a tratti inevitabile) che coinvolge, spinge, sposta, dilania, riprende, recupera, porta in superficie sensazioni e situazioni, perfino corpi. E sono questi corpi (i siciliani della Compagnia dell’Arpa; in sei frontalmente emmadantescamente) ammessi a questa messa di ammassi di stracci, abiti galleggianti come fiori di loto in uno stagno, che non salvano ma affossano, pesanti d’acqua imbrigliano, s’attorcigliano agli arti impedendoti il nuoto e la risalita.
castrocaneBoccheggiano, i respiri si fanno profondi e intensi e sempre più la lingua vira verso un ennese stretto, i loro movimenti sono onde che sbattono sulla battigia, riflussi in un andare e tornare di fiordi e gorgoglii che forma curve della schiena e di polmoni, una danza macabra come un elastico che prende la rincorsa, si schianta e ritorna al suo posto. Un teatro fisico la cui portata s’ingigantisce, monta come panna, suda in questi frammenti che tolgono il fiato, affannano l’esofago in questa lotta feroce per la sopravvivenza. È un vortice quello che fluttua di vestiti e cenci che sanno di cimitero, Diluvio Universale e Olocausto, che sa di gioco crudele e fisarmoniche, come uscire da un bozzolo e nuovamente proteggersi come fa il riccio o l’armadillo, si annidano e si rannicchiano in un cantato-nenia-urla-preghiera soul e porosa. Vengono alla mente la “Venere degli stracci” di Pistoletto ma anche “L’Isola dei morti” di Bocklin e per finire il continente di rifiuti e plastica che staziona e s’amplia nell’Oceano Indiano. Le domande escono senza trovare riparo né soddisfazione, la barca è alla deriva (la loro reale? Noi, l’Europa metaforica?). La morte peggiore non è il decesso ma la sparizione. Se sei disperso, e non classificato come morto, non puoi attingere al senso di colpa, alla pietas, alla consacrazione, alle lacrime, alla perdita, alle cerimonie, ai fazzoletti, all’indignazione. Lo sapevano bene i generali argentini.

C’è un amore per la P, la lettera, nei titoli del gruppo veronese, Leone d’argento ’16 alla Biennale di Venezia, Babilonia Teatri. Sicastrobab parte da “Popstar”, passando per “Pinocchio”, “Purgatorio” e arrivando a quest’ultimo nato “Pedigree”. Che la P è anche l’iniziale di Padre che è centrale nel loro discorso scenico dove è proprio l’assenza del genitore maschio a farsi presenza ingombrante fino ad essere ossessione, tarlo, domanda strisciante che riempie le giornate e i pensieri di una vita. Un ragazzo ormai uomo (ritorna la forza espressiva di Enrico Castellani, vigoroso senza essere tragico) va a ritroso, indietro a scoprire i perché di quel buco nero che lo cinge e stringe. Cresciuto, e molto amato, da due madri, ha sempre sentito un vuoto incolmabile. Il padre biologico ha donato il suo sperma in una banca del seme per l’egoismo delle due donne che l’hanno sì ben cresciuto ma anche privato della sfera maschile utile, necessaria, fondamentale. L’indagine, scandita dalle musiche sdolcinate e ammiccanti, sensuali e pelviche (il gesto della penetrazione che manca a due donne), di Elvis, fa capolino sulla famiglia e sulla discriminazione paesana, sui giudizi provinciali sulle coppie di fatto.
Ma non è qui, comunque la si pensi, che i Babilonia si soffermano. Il salto è andare indietro, a quella mancanza paterna di questo genitore-milite ignoto, fumoso e allo stesso tempo onnipresente. Perché, indubbiamente, anche se il genitore mancante non ha potuto influire sull’educazione e sull’atteggiamento, sul DNA e sui tratti fisici quello sì. Quella del ragazzo è una “vendetta” lontana e distante: ogni anno per Natale organizza una cena, irreale, che riempie d’attesa tutti gli altri giorni dell’anno, con gli altri “figli” biologici dello stesso padre sparsi per il globo. Ed è questo senso della famiglia che forse lo lega maggiormente rispetto al rapporto con le due donne. Il sangue, seppur inspiegabile, pulsa più dell’affetto, per quanto grande sia. E sempre per vendetta diventa a sua volta donatore, mettendosi nella stessa condizione del padre. Il padre (ma anche la madre in caso di due uomini che allevano figli), come figura simbolica, è necessaria, non solo a livello biologico; non si può estrapolare e censurare, cancellare e nascondere la sua presenza terrena, materiale, costante. Padre e madre non possono chiamarsi semplicemente “genitore 1” e “genitore 2”. Con buona pace dei vendoliani.

Tommaso Chimenti 05/06/2017

CASTROVILLARI – Ci sono locandine che rimangono impresse nel cuore e negli occhi per la potenza e l’acume che esprimono a distanza di anni. La locandina, per uno spettacolo o per una rassegna, non è solo l’emblema e il frontman dell’intero progetto, non deve riassumere il plot ma passare l’essenza, il punteruolo che ne sta alla base, il pungolo e lo stimolo, il perché che scardina, la riflessione con il sorriso, il dettaglio prima nascosto e adesso evidente. Una locandina è per sempre, fotografa un momento storico, ne imprime le perplessità, i vigori, le istanze, è un concentrato di freschezza e presente, è un’immediata ondata che ti immerge nella catarsi della pièce o del festival. Una locandina deve riuscire, con piccoli tocchi, a delineare il vortice di pdt16energie che stanno alla base della costruzione, dell’ideazione, del fermento che sbatte e gorgoglia nel momento della creazione. E ci sono locandine più riuscite di altre. In questi diciotto anni il festival “Primavera dei Teatri” ci ha sempre abituato a manifesti irriverenti e pensanti, carichi e depositari di una sostanza impalpabile, quella stessa materia che, ad ogni nuovo sguardo, rilascia nuove sensazioni e atmosfere, fornisce nuove parole a scandagliare quella patina di colori e facce, movimenti e gesti arroccati in un rettangolo incorniciato e appeso. Hanno profondità le ideazioni concettuali del trio La Ruina-Pisano-De Luca.
Lo scorso anno avevamo una ragazza sovrappeso, abbastanza hopperiana, che sembrava uscita da qualche pellicola di mafia americana, di protezionismo, una sorta di Marilyn gonfiata, che guarda il vuoto tra rassegnazione e leggera noia. Le gambe un po’ discoste ma senza alcun atteggiamento sessuale né alcun riferimento sensuale, e questo divano dietro, nel suo arancione acceso, che sta, immobile come la giovane signora, in attesa. Andiamo a ritroso.
Pdt14Nel 2015 una bella bambina borghese tutta in ghingheri da festa, come fosse una damigella da matrimonio, offriva una banana, senza alcun timore, ad un gigantesco gorilla; lui sì che era spaventato, seduto accanto a lei sul sofà. C’era scarto e spostamento, quella banana così gialla, e lasciva anche e fallica, passata dalle mani dell’innocenza a quelle delle forza bruta, ribaltando i piani, le aspettative, il consueto modo di pensare.
Pinteriana quella del ’14, con una festa di compleanno andata, evidentemente, a finire male. L’invitato principale, che forse ha festeggiato in solitudine, ha la testa, come colto da malore, infilata dentro la torta a più strati; c’è un solo cappellino e neanche il gusto di un alcolico: solo succo. Ti stringe il cuore.
Nel 2013 un altro essere sovrappeso: un uomo calvo (nessun riferimento mussoliniano, tranquilli) con una sdraio alle sue spalle, guarda una nube minacciosa chepdt13 avanza. Sembra sia scoppiato qualcosa: la terza guerra mondiale, i missili della Corea del Nord, o “soltanto” i fumi cancerogeni dell’Ilva. Sembra che aspetti che questo getto di polvere e detriti, quasi una tromba d’aria calda, lo investa; non scappa, non si muove, accetta asceticamente il suo destino, senza paura: quel che sarà, sarà.
Eccoci al 2012 con un Babbo Natale depresso nonostante la giovane età, in mutande rosse, proprio perché, unica volta, il festival per problemi di finanziamenti era stato forzatamente posticipato a novembre. Un BN senza gioia, le spalle in avanti, curvo, in un clima di festa posticcio, senza enfasi, senza gioia.
Ancora catastrofi nel 2011. Ma non lo possiamo mai derubricare a pessimismo: è sano realismo. Un uomo, in un interno borghese, d’antan con la carta da parati demodè, senza rinunciare a giacca e cravatta, indossa pdt12una maschera a gas. Anche lui si sta preparando all’imminente sconosciuto, ma ben poco roseo, domani.
Nel 2010 uno dei più iconoclasti e irriverenti cartelloni di PdT: una banana che, una volta sbucciata, al suo interno, presenta un grosso peperoncino,pdt11 prodotto tipico calabrese, simbolo e icona caratteriale dei suoi abitanti: la focosità. I riferimenti fallici, ovviamente, si sprecano, ma quel verde del gambo, il rosso del peperone, il bianco dell’interno del frutto, rendono una bandiera italica fondata sull’estro del piccante, sulla legnosità del picciolo, sulla durezza e l’allappante esotico; siamo, anche, un mix di queste caratteristiche.
Scendiamo ancora più giù nel tempo. Nell’edizione 2008 un’inquietante bambola rosso fuoco, dal sapore di Stephen King o che rievocava le nenie di infantili di Dario Argento, ci guardava con fare sorpreso e allo stesso tempo allarmato e preoccupante. Qualcosa stava arrivando, qualcosa stava cambiando. E qua con il passato ci fermiamo.

pdtl17Quest’anno invece la scelta è caduta su un uomo accartocciato su se stesso - potrebbe essere l’Otto del 18 (le edizioni del festival) - appoggiato sul fondo di una piscina a identificare l’infinito ma rannicchiato a protezione, come a non voler sentire quello che arriva e avviene fuori da quel guscio amniotico, placenta ovattante; mentre le gambe sopra (l’Uno), presumibilmente di una ragazza, spinneggiano verso l’alto fuggono, se ne vanno, in cerca di salvezza, volano o più facilmente, potremmo essere sott’acqua, risalgono a prendere aria. Il cielo è sempre più blu. Se riesci a tornare in superficie.

Tommaso Chimenti 03/06/2017

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