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SANTA MARIA A MONTE – Tutti noi pensiamo di conoscere bene la figura di Garibaldi. L'eroe dei Due mondi, Anita, i Mille, l'Obbedisco, le mille targhe viste in ogni città dove sta scritto “Qui ha dormito”. Eppure c'è molto da dire, da tirare fuori dalle pastoie del tempo, da quello che superficialmente crediamo o abbiamo letto di sfuggita senza approfondire. Nozionismo da cruciverba più che altro, al quale la presenza di Andrea Kaemmerle (che il phisique du role per interpretarlo a dir la verità ce lo ha sempre avuto) e la penna fine di Manfredi Rutelli hanno deciso di porvi finalmente rimedio in equilibrio tra la loro inconfondibile ironia, sagacia senza forzature, e una storiografia documentaristica, mai pedante ma preziosa e precisa, delineando un personaggio tout court che non può essere definito se non compreso nella sua interezza, senza limiti, soprattutto in relazione ai tempi in cui ha vissuto. Una vita eccezionale, fuori dagli schemi, per forza leggendaria, sopra le righe, eccentrica, altissima, morale. (Un intermezzo fuori dal coro e fuori dal contesto: “Garibaldi” era anche il soprannome che Maria Cassi dava al suo (e nostro) caro cuoco/chef/scrittore Fabio Picchi, ideatore e curatore del Teatro del Sale e del Cibreo di Firenze, da poco scomparso, che ci manca e che non dimenticheremo). E poi vogliamo ricordare la canzoncina (vagamente canzonatoria) ritornello-stornello “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda i bersaglier”, declinando tutte le parole con le cinque vocali per far ridere i bambini?Kaemmerle Garibaldi.jpg

Ecco da qui il sottotitolo, “Garibaldi, su una gamba”. Garibaldi colpito da fuoco amico nell'agosto del 1862. Ma la vita di GG è per sua stessa natura eroica, convulsa, piena di accadimenti irripetibili, unici, a tratti impossibili: decine di giri del mondo, viaggi in Giappone, ha abitato a Instambul come a New York, tre mogli, infiniti amori, quindici figli ufficiali, arresti e sempre fughe ed evasioni rocambolesche, parlamentare in cinque Stati sovrani diversi. La coppia Kaemmerle e Rutelli decidono per la via non temporale, non progressiva, non didascalica, senza date né appigli né punti di riferimento nel classico incedere, sua firma e cifra, dell'attore che, nella sua corpulenza che si fa parola e carne, gesti e mani a prendere IMG_2097.jpge calcare e tenere e abbracciare tutta la platea, farla propria, un cunto (tutto toscano) che diventa cascata e valanga a strapiombo fin quando non ti sommerge, ti ingloba, fin quando non si fagocita il pubblico. Ha questo potere Kaemmerle di essere esplosivo, di cullare e mordere, di carezzare per infine stilettare con forza, dolce e rude sembra di sentire la tridimensionalità delle sue parole come polpastrelli rustici su gote vergini. Il pubblico ne è travolto, sempre, e lo lascia fare come un turbinio, come un vortice, come una tromba d'aria in mezzo al mare che tutto trancia portando con sé. Raccontare la vita di Garibaldi è impossibile, una volta capito questo assunto la strada è già in discesa.

Ma questo “Garibaldi” procede in una triangolazione originale: non è il Garibaldi narrato dall'autobiografia vergata da Alexandre Dumas né quello tratteggiato dalla coppia di divulgatori Piero Angela-Alessandro Barbero, ma quello che emerge dal ritratto che ne fa Luciano Bianciardi, altro caposaldo della cultura kaemmerliana. La genesi del play è di ritrosia e di disamore: Kaemmerle, che ama e idolatra Bianciardi, crede che lo scrittore toscano, anarchico e polemico, abbia fatto il generale in camicia rossa letterariamente a pezzi. Invece si ritrova le pieghe delle pagine grondanti di stima, di rispetto per l'uomo, per le idee, per il suo lascito. Quello che colpisce non è tanto la sua lezione in vita, che qualcuno potrebbe paragonare ad un Che Guevara più romantico e un po' più annacquato, ma quanto nel tempo, dopo la sua morte, ad ogni latitudine, si sono prodigati, promossi e moltiplicati i movimenti garibaldini e i garibaldinismi che continuano a tramandare quei valori tutt'oggi, in vario modo, a vario titolo. Garibaldi che in vita era una vera rockstar, un semidio intoccabile e le cui gesta, in un mondo senza grandi mezzi di comunicazione, erano seguite grazie a dispacci e bollettini da più parti del mondo. Era un simbolo indomito, di libertà, di potere è volere, repubblicano, anticlericale, senza posa, senza padroni né padrini.Andrea Kaemmerle (2) LH.png

L'inizio è accattivante con una sorta di confessione di un imputato che, davanti alla Storia, di profilo e con la voce artefatta di un'eco taroccata e meccanica, esprime il suo disappunto di fronte a questo personaggio che realmente nessuno di noi conosce ma del quale abbiamo soltanto qualche piccola nozione sparsa. Ed è vero quello il testo ci dice: “Le statue di Garibaldi ti guardano dall'alto in basso come a dirti Ho fatto l'Italia vedi di non sporcarmela”. Garibaldi, che si è speso e battuto contro il Potere, è diventato nell'immaginario comune, per nostra assoluta ignoranza, il Potere stesso in una traslitterazione che confligge con la realtà degli accadimenti. Kaemmerle, grazie anche all'escamotage del personaggio inesistente, la madre di GG con la quale dialoga, ora è il narratore adesso è lo stesso capitano di ventura: il più grande navigatore, più di Marco Polo, più di Cristoforo Colombo. Il suo primo viaggio per mare, a poco più di vent'anni, è da Marsiglia a garibaldi su una gamba 3.jpgOdessa in barca a vela per caricare del vino. La sua iconografia grafica ci ricorda un po' Gesù, un po' Sandokan e un po' Marx, abbracciando gli estremi, facendo toccare gli antipodi in un unico simbolo. Personaggio mosso da istinti semplici ma proprio per questo il suo messaggio è arrivato in ogni Continente ed è sentito uno del popolo in ogni Nazione nella quale ha messo piede. La Regina Vittoria, così come Marx, non lo vorrà incontrare perché Garibaldi aveva la peculiarità di mettere in ombra chiunque talmente la sua popolarità era ingombrante. Le sue innumerevoli spedizioni vennero foraggiate tra gli altri anche da Verdi, conobbe Victor Hugo, a New York lavorava per Meucci mentre Abramo Lincoln gli scrisse una lettera per assoldarlo come generale nella guerra civile tra Nordisti e Sudisti. Questo “Garibaldi” è una sorta di Zibaldone dove le notizie vengono sparate come pallettoni di carabine e ognuna sembra inverosimile, quanto meno strana o irreale. Una vita avventurosa è il minimo che si possa dire per descrivere quella del Giuseppe Nazionale. Bene hanno fatto Kaemmerle e Rutelli nel riscoprire questa sua imponente figura (teatralmente quasi non affrontata) che tutti crediamo di conoscere (qui la falla della scuola) ma che soltanto pochi hanno percezione della straordinarietà della sua vita sempre in viaggio, sempre in battaglia, sempre pronto all'azione, senza mai tirarsi indietro davanti a nessuna causa, sempre moralmente coerente con i propri valori.

Tommaso Chimenti 12/09/2022

COLTANO – Metti un Armistizio che alle nostre latitudini stiamo ancora aspettando in maniera completa, metti la sopraggiunta e improvvisa morte della Regina Pop per eccellenza, metti un'inflazione galoppante e i tassi d'interesse europei aumentati, metti una campagna elettorale estiva acida e rancorosa in atto, metti una guerra evitabile e al tempo stesso banale e preventivabile ed ecco, nel flusso inconscio, concatenarsi questa colata di “Oracoli”, caravanserraglio-presepe e metafora viaggiante dove camminare, correre, perdersi cercando la luce, annusando i bagliori, profumando 18402255_1362717083848624_6869483940300976407_o.jpgle epifanie di lampi in questa notte pesta dell'Umanità. Alessandro Garzella (autore e regista) e i suoi Animali Celesti abitano, smuovono e spostano e fanno loro lo spazio di legno e stalle, di fieno e Far West, di staccionate e zoccoli nella Pineta di Coltano (dalle parti di Pisa) dove sopra passano aerei rancidi con le loro ali molli e il becco a punta verso destinazioni sconosciute nei loro gridi di kerosene e carburanti pompati sulle nuvole innocenti. Qui si recuperano cavalli e asini che hanno subito maltrattamenti, abusati, vilipesi, torturati, bestie bellissime e vederle nel chiaroscuro della notte, mentre la performance rumorosa continua il proprio giro e compie il proprio gioco e giogo, ha un sapore di favola riuscita, di capolavoro risolto, di chiusura del cerchio, la Natura che ha preso nuovamente per mano l'Uomo e insieme hanno portato a compimento l'avventura della salvezza. In questo bosco pare che Pinocchio si mischi a Moby Dick e l'Utopia di Don Chisciotte si possa finalmente toccare, mordere, lisciare. C'è il sogno ma anche la tangibilità delle pozzanghere, l'alta sfera della poesia sparsa, tra capezzoli al vento ORACOLI IN VERSI.jpge una band malinconica sospesa tra matrimoni e funerali, questi pini marittimi che illuminati prendono forme e sembianze, diventano alti giganti e i loro rami braccia e le loro chiome teste di Jimi Hendrix che puntano a leccare queste nubi grigio scure gonfie e cariche ma calde, scenografiche, fondali pannosi spessi ovattati come cuscini di un Alice nel Paese delle Meraviglie scomposto, scoordinato, disunito.

Wunderkammer come ogni passaggio e step e passo dentro questa avventura (della durata di due ore), un vagabondare andante di anime dantesche con candele in mano ad incontrare strumenti stonati e spaventapasseri inquietanti, ma soprattutto ombre a disegnare un terreno che perde contorni e si sfalda, si sfarina, si appropria di altri sensi e significati, si trascina, tracima, si amplia, si sgranchisce, si snocciola. Un asino raglia, un cane abbaia lontano: è la vita che ci riporta con i piedi per terra e ci fa sentire piccoli e inutili in mezzo a questo grande deserto che stiamo attraversando fatto di vicoli e radure, di strade strette tra i rovi per poi aprirsi nel grande circo di corse sudate e manichini antropoformi, di statue e sculture cesellate dalla fiochezza della Luna nascosta nel tambureggiante della nebbia che distorce, nasconde, cela. Il cammino è un andare incontro alle proprie paure e sentimenti, andare in faccia, a specchio, a verità elargite da un guru sotto ad un albero, un Maestro che sembra fuso con i suoi arti tra le radici di questo antico fusto sopra il quale scimmiescamente si aggrovigliano e salgono, 1.oracoli.jpgs'arrampicano e s'accapigliano anime come liane, personaggi letterari tra sibille e ballerine, misteri animaleschi al ritmo di trombettisti e fanfare. Gli oracoli declinano ed elencano i Miracoli, possibili, eventuali, potenziali, pirotecnici, futuribili, di Vita, Morte e Dio a miscelarsi, creare amalgama, una pasta solida inscindibile. Questo “Oracoli” è un play teatrale che prende forza grazie al pubblico che si lascia guidare, si lascia condurre in questo spazio magico, fuori dal tempo, una sospensione fortunata, una parentesi tutta da cogliere e respirare.

E' un continuo colorato portarsi via carnasciale, di corpi infusi d'eros, di canti tra il proibito e la preghiera e nel naso l'odore dell'erba bagnata, il profumo dell'umido della notte di fine estate e quella patina di rugiada che imperversa, attinge e fa cappa alle suole delle scarpe come al respiro confuso da tanto nuovo vergine ossigeno. Bisogna lasciare andare gli occhi senza soffermarsi sugli incroci e sugli incastri, sul fluire dei passaggi, sulle trame e le frontiere, accogliere i sensi senza doversi spiegare versi e concatenazioni talmente è l'ammasso e il flusso di coscienza che esonda felice nelle performance (dieci musicisti e una ventina di performer tra i quali spiccano Ilaria Bellucci, Satyamo Hernandez, Sara Capanna, Chiara Pistoia, Carlo Gambaro, 2.oracoli.jpgFrancesca Mainetti) che diventano atto in una sovrabbondanza, caustica e ricca, di parole, mo(vi)menti, tentativi. Ti puoi soffermare su una sorta di sposa-Marilyn, ti puoi far catturare e affascinare dalle campane della Chiesa che rintoccano e ti svegliano dal torpore, puoi rimanere invischiato nel riflettere se, come dice la domanda in loop, nella tua vita “sei vittima o boia”. La comunicazione è aperta, i sensi dosano la loro forza cercando anche i dettagli inesistenti in una piena condivisione tra attori e pubblico e Luogo e Natura. Le parole non sono compartimenti stagni (né patimenti) ma hanno facce e volti e sostanza e riesci a vederle tridimensionali, ora Angeli, adesso Demoni, ora carezze, adesso bestemmie. Siamo innocenti e siamo allo stesso tempo anche Orchi che cercano il loro posto nel mondo, la strada per raggiungersi, per ricongiungersi.

“Oracoli” non può che essere un grande rito collettivo d'iniziazione, grandemente architettato, supportato, gestito, dove vengono snocciolati i Miracoli (dopotutto siamo vicini a Pisa e al suo Campo dei Miracoli) che, negli interstizi tra Cielo e Terra, tra le pieghe della Realtà, tra le righe del mondo e dei suoi abitanti, capitano, occorrono, si palesano, si manifestano oppure solamente avrebbero potuto e invece non sono stati capaci di materializzarsi. Le luci che si innalzano da terra in questo bosco sembrano esplosioni cosmiche, aurore boreali verdi e blu in cerca di un abbraccio accogliente e incandescente. “Cogli l'attimo” ci grida un urlo evergreen che ridesta le nostre priorità tra i rumori accordati e armoniosi di una sega suonata con l'archetto, in questi spiazzi di polvere che sanno di sale e Apocalisse, di Luna piena e di Luna Park, di balle di fieno e di balle di fiele. Immersi in questa festa-concerto gitano non possiamo far altro che seguire la corrente come salmoni, attratti dalla luce, dallo sbocco sul fondo, rincorriamo la triste euforia, la ricerca della grazia, della gabbia come della malinconia, la liberazione, la santità e la pazzia, la cura e la malattia, l'inizio e la fine. Siamo le carte degli Oracoli, siamo gli Ultimi da salvare. Meno male che ci sono ancora gli Animali Celesti, anime della Volta Celeste, spazio di manovra, pensiero libero.

Tommaso Chimenti 10/09/2022

Fotografie di Michele Lischi

PISA – “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare” (Pastore Martin Niemoller).

La batteria in primo piano, come terzo protagonista a tutti gli effetti accanto alle due sedie da scuola elementare, ci ha fatto sobbalzare alla mente quelle operette rock, quel teatro punk proprio dell'Europa del Nord, quella mixture caratteristica di 2568_big_La nostra maestra è un troll 2.jpgcerte performance che sfociano nel punk dove non riesci più a distinguere monologo e concerto. E infatti Sandro Mabellini, regista che si cimenta sia nel teatro di prosa che in quello per ragazzi (dicotomia tutta italiana, all'estero la linea di demarcazione non è netta), è di stanza da molti anni a Bruxelles e in Belgio, tra Jan Fabre, Jan Lauwers e Milo Rau, i motivi di visione e gli accessi al contemporaneo esondano e pullulano e le possibilità di abbeverarsi e alimentarsi a nuove forme sceniche è pressoché quotidiano. Il mash up di arti che si fondono e si inseguono sul palco è cosa consolidata, non crea scalpore né stupore. Alle nostre latitudini una batteria in scena diventa già “Wow”. Forse, andando indietro con la memoria, sovviene a riguardo quel “Roccu u stortu” per la regia di Fulvio Cauteruccio con la compagine musicale de Il Parto delle Nuvole Pesanti che dal vivo argomentava, grattava, solcava, cospargeva le scene di note piene e mai sazie.

Detto della batteria rossa e delle due sedie (non può non arrivare in superficie la recente polemica sui banchi monoposto con rotelle comprati dalla ditta Arcuri-Azzolina-Conte per 700 milioni di euro e inutilizzati), sul fondale campeggia il titolo dello spettacolo, “La nostra maestra è un troll”, segno che Mabellini aveva già utilizzato con il precedente “Trainspotting”. Il regista, appassionato di letteratura e drammaturgia d'Oltre Manica, ha preso il testo di Dennis Kelly, per intenderci l'autore delle serie tv “Utopia” e “The third day” e del musical “Matilda”, foriero di spunti e riflessioni sul potere, sulla ribellione, sulla nascita dei regimi, sul bullismo, e ne ha tratto una storia frontale piena di simbolismi, leggera per animi 2570_big_La nostra maestra è un troll 14.jpgcandidi fanciulleschi e, al contempo, scavando, instillatrice di interrogativi e aperture. Visto in presenza durante una diretta on line per le scuole al Cinema Teatro Nuovo a Pisa diretto da Carlo Scorrano, la favola noir splatter “La nostra maestra è un troll” (prod. Fontemaggiore Accademia Perduta/Romagna Teatri) vede la presenza di Edoardo Chiabolotti nella sua dolcezza e la svagatezza stralunata, tra Stanlio e Chaplin, di Liliana Benini (attrice anche per il Maestro Marthaler) nei ruoli dei due gemelli Teo e Alice. Ci piace pensare al fratello di Van Gogh e alla bambina nel Paese delle Meraviglie.

In questa scuola viene nominata una nuova professoressa-preside che è appunto un Troll, un mostro bavoso e squamoso che comincia a mangiare bambini staccando loro la testa e smangiucchiandoli amabilmente. Mentre il Troll elenca nella sua lingua norme assurde e infinite burocrazie a danni dei bambini, i professori lì dietro sogghignano e sghignazzano contenti che finalmente sia arrivato qualcuno a ristabilire l'ordine costituito, qualcuno dal pugno duro, l'Uomo forte buono per tutte le stagioni. Vengono instaurate nuove regole d'oppressione, giustificate con il fatto che i bambini sono discoli e monelli, viene regolato il lavoro minorile ed ogni protesta viene chiusa nel sangue e nel conseguente silenzio-assenso. I docenti (dai nomi ridicoli come a volte lo sono gli adulti: il Signor Piatti e Creduloni, Trabiccoli e Spunzoni fino a Banali) annuiscono grati e fieri e sadici fin quando le regole senza senso del Troll non colpiscono anche loro, ma a quel punto è impossibile ribellarsi. Le dittature nascono così, si insinuano piano piano, in molti casi supportate e spinte dalla cosiddetta “brava gente”, dalla borghesia che vuole tornare a leggi chiare e fermezza. Ricorda il crescendo del nazismo sostenuto dai benpensanti che si turavano occhi e naso.2571_big_La nostra maestra è un troll 15.jpg

Ma c'è, veemente, anche una forte critica sociale; i bambini che vessati si rivolgono alle autorità per vedere rispettati e garantiti i loro diritti chiedendo aiuto prima alla famiglia, che non crede a quello che sente, poi al dirigente scolastico, che minimizza, successivamente alla Polizia che ha di meglio da fare come organizzare il ballo annuale dell'Arma e che si nasconde dietro la frase “I troll non esistono” (sostituite troll con mafia), infine, come extrema ratio, arrivando pure al Presidente della Repubblica che li usa per le foto di rito e li liquida in politichese. Le istituzioni che non aiutano i cittadini né tanto meno le categorie più fragili. Non rimane che farsi giustizia da soli, scendere in piazza, protestare qui con grazia e delicatezza facendo comprendere al Troll le loro ragioni. Un mostro, e qui la piccola parentesi sul problema-fenomeno del bullismo a scuola, che si 2575_big_La nostra maestra è un troll51.jpgcomporta da brutto, sporco e cattivo proprio perché tutti lo vedono come tale non facendo altro che rispettare la profezia che si autoavvera. L'inclusione del diverso porta sempre benefici. Importante il tappeto sonoro e le scelte musicali, tra la risata di John Cage, il pezzo al pianoforte di Aphex Twin, l'elettronica dei Daft Punk, fino ad Avro Part e la chiusa con “Billie Jean” di Michael Jackson da battimano e battipiede, tasto che potrebbe essere più spinto se il Troll, qui immaginifico e suggestione creata dalle parole di Chabolotti-Benini, che si scambiano anche i ruoli, fosse proprio il batterista che potrebbe parlare a colpi di grancassa e rullante, che potrebbe rockeggiare duro sui piatti, che si potrebbe scatenare menando con le bacchette come John Bonham dei Led Zeppelin in un dialogo feroce tra la forza bruta prima della conversione e della comprensione.

Tommaso Chimenti 24/03/2021

PISA – “Povera patria schiacciata dagli abusi del potere di gente infame che non sa cos'è il pudore, si credono potenti e gli va bene quello che fanno e tutto gli appartiene” (Franco Battiato, “Povera Patria”).

“La notizia è quella cosa che qualcuno, da qualche parte, non vuole sia pubblicata. Tutto il resto è pubblicità” (Lord Northcliff).

Purtroppo vanno fatti anche i conti macabri: negli ultimi dieci anni una stima dice che sono stati uccisi nel mondo 702 giornalisti e 348 sono in carcere. Abbiamo ancora negli occhi il nostro Giulio Regeni, ucciso per le sue inchieste sui sindacati egiziani, la strage nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi o la giornalista maltese Daphne Caruana Galizia fatta saltare insieme alla sua macchina per i suoi articoli o Anna Politkovskaja, la giornalista russa freddata per le sue inchieste sulla Cecenia, o del recente caso di Jamal Khashoggi. Senza scordare gli indimenticati Ilaria AlpiGiancarlo Siani, Mauro4.csilvia lelli 211117 0498 Rostagno, Peppino Impastato, Pippo Fava, Mino Pecorelli e chissà quanti altri. Per non parlare della scorta a Roberto Saviano o quella, appena tolta (che scelleratezza!), a Sandro Ruotolo. Ma oggi ci sono altri 19 colleghi sottoposti a dispositivi di protezione mentre sono 167 le misure di vigilanza adottate a tutela di rappresentanti degli organi di informazione e sono stati 90 gli episodi di intimidazione registrati nel 2017 (fonte giornalistitalia.it). Insomma fare il giornalista era e resta, a qualsiasi latitudine, un mestiere pericoloso. “Se la libertà di stampa significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire” (George Orwell).

E il “Va Pensiero” (prod. ERT fondazione e Ravenna Teatro) del Teatro delle Albe (spettacolo che si incastona nella recente presa di posizione e di teatro di denuncia della ditta Martinelli-Montanari da “Pantani” passando per “Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi”; abbiamo amato maggiormente i loro “Sterminio”, “Stranieri” o “I Polacchi”, “detto Moliere” e ancora “Rumore di acque”) prende le mosse, nel titolo, dai nostalgici versi “Oh mia patria sì bella e perduta”. E' una vicenda piccola e semplice, di provincia e di periferia, che però ha riacceso, a livello nazionale, i riflettori sulle mafie che fanno affari nei centri del Nord e che, per pigrizia, per quieto vivere e noncuranza, non vengono non solo debellati ma nemmeno curati fino a che il territorio ne risulta corrotto, marcio fin nelle fondamenta. E' la storia vera di un piccolo grande uomo, Donato Ungaro (presente alla replica pisana al Teatro Verdi diretto da Silvano Patacca) che di mestiere faceva il vigile urbano ma svolgeva anche, con puntigliosità e meticolosità, quello del reporter. La sua è una storia (in quindici anni ha vinto cinque processi, lo hanno licenziato, ha dovuto cambiare domicilio, adesso guida i bus, ha ricevuto e riceve tutt'oggi minacce di morte come in passato buste con proiettili) piccola ma dimostra come anche un solo uomo, se retto e con la schiena dritta, con la sua onestà intellettuale e senza piegarsi di fronte ai poteri forti, possa cambiare il corso delle cose, possa far emergere quelle verità nascoste che fa comodo, a tutti, tenere sotto il tappeto. “Un vero giornalista non deve niente a chi governa il suo paese. Egli deve tutto al suo Paese” (Vermont Royster).

ED img12345063Il vigile urbano Ungaro (la dote fondamentale di ogni giornalista dovrebbe essere quella di essere vigile) con i suoi articoli ha denunciato il sistema malavitoso a Brescello, comune poi sciolto per mafia, e gli interessi tra amministrazione e clan della ndrangheta che facevano accordi e affari, chiedevano il pizzo, cambiavano a piacimento i piani regolatori, costruivano case abusive, interravano rifiuti tossici, o volevano costruire centrali elettriche. Un solo uomo (lasciato solo; per fortuna può ancora raccontare le sue vicende, è molto attivo soprattutto nelle scuole) con la sua curiosità, fermezza e taccuino (“La penna è più potente della spada”) ha smascherato le collusioni tra politica e mafie, grazie alle sue scoperte ha fatto aprire processi, alle quali sono seguite condanne svelando quello che forse era sotto gli occhi di tutti (nella piece gli abitanti di Brescello, il paese reggiano dove si svolgevano le vicende di Peppone e Don Camillo sono ossessionati e danno la caccia alle nutrie, l'unica vera reale minaccia per loro) ma talmente abbagliante da risultare, ormai, normali. La scusa più semplice è che “le cose ormai vanno così”, si volge la faccia da un'altra parte facendo finta di non aver visto, non aver sentito. “Il nostro ruolo non è quello di essere per o contro; è di girare la penna nella piaga” (Albert Londres).

Storia vera e interessante e quindi un grande plauso alle Albe e al regista Marco Martinelli che l'ha fatta sua e portata alla luce, donandole quellaMarco Martinelli visibilità utile per salvare gli avvenimenti dall'oblio e il suo protagonista. Donato Ungaro è a tutti gli effetti un eroe del nostro tempo (seguite il suo blog donatoungaro.it). Per quanto riguarda la messinscena invece se da una parte i quadri soffrono di troppo realismo, togliendo il necessario filtro dell'artificio teatrale essenziale su un palcoscenico, facendocelo assomigliare ad una serie di eventi concatenati, descritti e riportati ai quali manca quella sana dose di finzione scenica. Il “teatro” si sente e arriva, nel secondo tempo, con il pulsante e toccante monologo di Ermanna Montanari (anche quest'anno maxresdefaultPremio Ubu) e negli innesti del coro che appare e sparisce in dissolvenza sul fondale (in ogni città un coro del territorio), per il resto appare più come una soap non aiutata dalle sottolineature e didascalie delle varie stanze-location dove le azioni si svolgono: l'ufficio del sindaco, la gelateria chiusa per mafia, lo studio dell'avvocato, i bagni dell'autogrill, che rendono la narrazione poco fluida, molto cadenzata, sicuramente temporalmente troppo estesa (tra gli attori segnaliamo l'efficace Ernesto Orrico nella parte del capo clan Dragone). Spettacolo non perfettamente riuscito però necessario e altamente politico che rincuora e rinfranca come le parole commosse finali di uno schivo Donato Ungaro: “Ho fatto solo il mio dovere”.

“Non ho paura delle parole dei violenti ma del silenzi degli onesti” (Don Puglisi).

“Il compito di un dottore è guarire i pazienti, il compito di un cantante è cantare. L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede”. (Anna Politkovskaja).

Tommaso Chimenti 04/02/2019

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