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Sipari chiusi, non vuol dire morte di un’idea. Idea che di certo il filtro dell’arte ha saputo rendere a prova d’usura, inviolabile rispetto alla fame della ruggine. Ci sono dei racconti nati nel secolo scorso ai tempi in cui l’HIV falcidiava il mondo, introduceva nei costumi sentimentali i concetti di paura e diffidenza, riscriveva da zero la socialità. C’erano gli untori e il drammatico equivoco umano di relegare l’“altro” ad un’etichetta sanitaria declinata nella dittatura del binomio “immune” o “a rischio”. È il caso di Questo buio feroce, uno spettacolo del 2009 di cui Pippo Delbono ha fatto recente dono ai canali streaming di Ert, in un momento in cui anche l’arte che più di tutte è caratterizzata dall’irripetibilità del prodursi, si è stretta negli schermi della sua quarantena.
Si ricordano le circostanze in cui Delbono, in un viaggio in Birmania, entrava in contatto con Questo buio feroce, storia della mia morte, autobiografia scritta nel ’99 da un Harold Brodkey prossimo alla fine dopo aver contratto l’aids, virus che scrisse l’epilogo ad un secolo tragico. Ma che ci dice di quanto la storia sia sempre testimone generosa d’esempi che si somigliano, di equivoci fatali che si ripetono e che l’arte, in tal caso il teatro, ha la capacità di fissare in alto con un pungolo d’eternità.
La camera bianca che ospita questo racconto di attesa è una sala d’aspetto, in cui i malati sono chiamati da una voce che tuona il loro numero identificativo. E in questo bianco abbacinante, che in paesi lontani sarebbe segno di lutto, si muovono tutti i maledetti della terra interpretati dai volti familiari della compagnia. A partire da Nelson Lariccia, vestito solo di slip, che offre ai dardi acuminati di luce le costole sporgenti in un corpo-simbolo della malattia, per finire al compianto Bobò e Gianluca Ballarè in abiti da Arlecchino catturati in una struggente e dolcissima danse macabre proprio sull’orlo del precipizio. Fra loro, una parata di spettri viventi che, in successione lenta e disadorna, quadro dopo quadro, riempie l’attesa con un cabaret di barocca volgarità, abbottonati fino all’ultimo automatico in qualcosa che si fa chiamare civiltà ma che è simile soltanto ad un brutto carnevale.4136518277 6a636d0019 z

Ebbene, il buio luminoso di certi racconti non ha perso nemmeno una parte della sua originaria ferocia. Forse perché attraverso il teatro, Delbono rompeva il silenzio sulla morte e l’attesa, i grandi scomparsi dall’orizzonte di realtà dell’uomo ma che sono tornati a rivendicare il loro diritto d’esistenza nell’oggi, colpito dalla scure dell’immobilità. Nei nostri schermi affollati della carovana di morti nei mezzi militari, di una Piazza San Pietro orfana di fedeli nel giorno di pasqua, di città fatte soltanto di sopravvissuta bellezza. Li aveva raccontati attraverso la sua stessa voce di regista-narratore, consegnando a pochi interventi registrati il commento ad un’umanità che aspetta, con le sue maschere, con le sue isterie, con la sua fragile necessità di ballare, brandire un microfono e lasciare che le parole di My Way o The House of the Rising Sun, spiegassero quei tempi duri. “E la verità”, dice il narratore, è che “la storia è uno scandalo come lo sono la vita e la morte”, che ci sono “uomini che muoiono, gli esclusi, i diseredati, affinché altri continuino a sentirsi liberi e felici nei loro appartamenti con aria condizionata”, affinché “noi” ci sentiamo liberi e felici, affinché “tu”, spettatore, ti senta libero e felice.

Oggi siamo tutti spettatori di un funerale che si sta producendo dietro al sipario aperto della vita vera, improvvisamente sfuggita al nostro controllo ma che ci ha ricordato tante nostre storture.
E proprio in tempi di funerali negati, il finale di questa storia è una meravigliosa assoluzione.
Quando una nera congrega coi suoi mille volti di calce chiude lo spettacolo chiamando gli applausi, Pippo Delbono resta sul fondo a danzare sulle note di Aznavour, perché la morte non sia orrore.
Oggi che abbiamo scoperto di non avere un linguaggio o altrettanta musica capace di raccontare cosa accade, si potrebbe afferrare questo coltello offertoci dall’arte, anche se non dalla parte del manico.
E andare nel regno della ferocia, a riprendersi le attese.

 

Pippo Delbono prende parte al cartellone #laculturanonsiferma, presentato dalla Regione Emilia-Romagna in collaborazione con Emilia Romagna Teatro. Assieme a Questo buio feroce(2006), i video degli spettacoli Dopo la battaglia(2011), Orchidee(2013) e Vangelo(2016) saranno disponibili sul sito di ERT per un mese dalla data di pubblicazione.

Gabriella Longo  (20/04/2020)

LISBONA – Trentacinque anni di festival, quarant'anni della compagnia che lo organizza. Numeri tondi e importanti per il Festival de Almada, quello spicchio di terra collegato a Lisbona dal grande ponte in ferro rosso. Il Ponte e la statua del Cristo Redentore, i simboli di questa parte che s'affaccia sulla foce del Tejo e guarda l'oceano, grande e misterioso, lì ad un passo. Portogallo è il bacalau, è il pasteis de nata, è, inevitabilmente, Cristiano Ronaldo. Ma anche le maioliche azul che rivestono, dentro e fuori, le chiese, è la Chiesa del convento do Charmo che ha perso il tetto nel terremoto di36866233_10209226287372631_6506777403631599616_n.jpg metà '700 (ricorda San Galgano, l'abbazia vicino alla spada nella roccia), è indiscutibilmente il fado, i tram che s'inerpicano sulle vie in salita. Fascino e tradizione. Lisbona è Belem con la sua fortezza sull'acqua, con il monumento ai Padri delle Scoperte che si protende nel mare alla ricerca di nuove terre. E Almada sembra tuffarsi nel cuore di Lisbona. Non chiamatela periferia. Qui la Companhia de Teatro de Almada, diretta dal regista Rodrigo Francisco, mette in piedi, ogni anno dal 4 al 18 luglio, una rassegna internazionale con i grandi nomi del teatro; quest'anno, solo per citarne alcuni, Pippo Delbono, la Needcompany di Jan Lauwers, la Familie Floz, Spregelburd e Paolo Magelli. Gruppi provenienti dal Belgio come dalla Francia, dalla Croazia e dal Messico, Italia e Spagna, Slovenia e Germania, un'atmosfera multiculturale piena, vivace, frizzante.

28mar13-459.jpgHa una patina da Fratelli Coen l'“Arizona” dei messicani Teatro de Babel, testo smaccatamente anti-Trump, polemico con l'arma dell'ironia (facile), pungolo alle politiche migratori e anti-immigrazione che stanno sconvolgendo l'attualità, dal muro ai confini con il Messico ai barconi verso l'Italia, ai respingimenti in Ungheria. Ormai la politica interna degli Stati più sviluppati è la politica estera. Qui tutto è ipercolorato, acceso come un fumetto, volutamente, forzatamente spinto verso la tesi che gli statunitensi sia tutti dei bifolchi gringo con la camicia a scacchi e il fucile pronto a sparare mentre i messicani (o chi proviene dal Sud del mondo) sia buono, bravo, pacifico e non solo voglia venire in un altro Paese ma, arrogantemente, non chiede permesso ma pretende il libero passaggio, forse anche una casa e un'occupazione. La critica sociale verso le politiche di frontiera del governo Trump (il muro non lo ha fatto, quello che già c'è è dell'epoca di Clinton) avrebbe avuto senso e sostanza se fosse stata fatta dall'interno, ovvero dal una compagnia statunitense non certo da una messicana. Ma torniamo al teatro. Gli Stati Uniti sono un posto xenofobo, abitato da trogloditi che a male pena connettono concetti e parole. Semplificazioni. Tutto è parodia, sullo sfondo un confine che è metà fisico e altrettanto metaforico. In video le centinaia di persone che ogni notte scavalcano le recinzioni e in audio l'inno a stelle e strisce: la platea si scalda, tutti contro gli “invasori” americani, tutti con i jeans e cenando al MacDonald's. Altra facile speculazione l'uomo (ricorda il personaggio di Crozza Napalm51) è un bovaro ignorante mentre la moglie (le donne, si sa, sono sempre un passo avanti agli energumeni maschili), pur nei suoi dubbi e nelle sue incertezze, è più sensibile e aperta, progressista e possibilista. Il pic nic sulla frontiera è assurdo. Si sentono i profumi del “Grande Lebowsky” come gli afrori da “Breaking Bad”. I messicani del Teatro de Babel ci dicono che gli americani guardano con il binocolo un nemico che non esiste (infatti i due coniugi non scovano nemmeno un erede dei Maya intendo a passare il confine clandestinamente) ma è dentro di loro, alberga nelle loro coscienze sporche. C'è un sibilo che ci porta all'“Aspettando Godot”, ad un qualcosa che deve accadere ma che proprio nel momento giusto ritarda, tentenna, si stoppa, un coitus interruptus. Marito e moglie scrutano la platea, siamo noi i nemici, i messicani in un mix da musical campagnolo tracoloniapenal_04.png “La casa nella prateria” e il nostro Mulino Bianco, l'immancabile Bibbia e nel naso quel senso da Far West. Nel finale, pulp e splatter, la ridicolizzazione degli U.S.A. raggiunge il suo acme. Peccato che esistano ancora i confini, gli Stati, i passaporti, le leggi, i governi.

Da una frontiera da eludere ad una reale impossibile da oltrepassare una volta varcato il cancello: la prigione. I portoghesi del Teatro do Bairro hanno ricreato quel velo di angoscia claustrofobica del quale è impregnata “Colonia penal” di Genet riuscendo a rendere e restituire tutto il peso chiuso, tutto quello strato di impossibilità e rapporti deviati che scaturiscono dietro le sbarre, tutti i poteri e le subalternità da subire, le scale gerarchiche alle quali essere sottomesso. Ricorda le performance dei Living Theatre. Gli aguzzini hanno cappelli da Pinocchi, la ghigliottina sta in primo piano a ricordare la fine, la conclusione mentre le pareti semoventi si aprono o si richiudono, diventano un angolo ottuso o acuto come ventagli, come un incubo sotto il quale essere schiacciato senza via d'uscita in questa penombra, reale e dell'anima, che tutto ammanta come una lingua di catrame, in questo lager dalle sintonie fragili, in questo campo di concentramento allucinato senza scampo.

zapiranje_ljubezni-01-v.jpgInfine il “Final do amor” di Pascal Rambert a cura degli sloveni Mini Teater, un Lui e una Lei che si fronteggiano in monologhi lunghissimi, scagliandosi, scannandosi, insultandosi, tentando di amarsi odiandosi. In una scena vuota, svuotata e arida come il loro rapporto giunto al capolinea, si urlano in faccia come gatti randagi, vorrebbero andarsene ma ritornano perché hanno bisogno del nemico di una vita. Tanto sono immobili, fissi, statici, verticali nella loro postura, tanto i loro gargarismi vocali e il loro profluvio di parole azzanna l'altra, lo travolge, lo inonda, lo spazza come cascata, come valanga, come alluvione di rancore e di tutto quel non detto che adesso esonda, travalica, non riesce a rimanere negli argini. Sembrano Marina Abramovich e l'ex marito Ulay nella celebre performance “The Artist is Present”. Vanno a folate, attacchi e rinculi, reprimende e scuse, singhiozzi tremanti e accuse solide, una guerra, meglio una guerriglia dove avvicinarsi e ritirarsi a fisarmonica in un flusso di parole da apnea, una sfida, una mitragliatrice che spara critiche e denunce, mancanze e insoddisfazioni da “C'eravamo tanto amati”, una danza di morte, un ballo per rinascere.

Tommaso Chimenti 16/07/2018

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