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BARI – I dati sulla ludopatia in Italia sono sconfortanti, allarmanti. Uno studio ha calcolato che oltre un milione e trecentomila siano i malati patologici affetti da dipendenza dal gioco d'azzardo, ma la cosa più inquietante è che soltanto 12.000 siano in cura, tutti gli altri “a piede libero” pronti a scommettere, giocare, grattare (il fondo del barile). Lo Stato ci guadagna sulla salute dei propri cittadini. Il volume di denaro giocato, legalmente, supera abbondantemente i 100 miliardi di euro. Figuriamoci aggiungendoci il giro, comunque corposo, del sottobosco illegale. Dopo il lockdown poi la percentuale dei giocatori è aumentata, così come sono saliti i numeri del gioco online. Una vera e propria piaga che promette soldi facili e che alla fine ripulisce, depreda e delude tutti tranne il banco. Il Giuocatore_Compagnia del Sole_ph_Giuseppe_Distefano39.JPGEd è per questo che testi, e messinscene, come quella de “Il giuocatore” (prod. Compagnia del Sole, visto in un Teatro Piccinni gremito in ogni replica; se c'è la “u” nel titolo è Goldoni, senza è Dostoevskij) sono sempre contemporanee e hanno sempre una lezione da insegnare e impartire. L'azione, trasportata negli anni '50 nostrani (le scene cangianti e dai colori tenui sono di Pino Pipoli), è tutta giocata all'interno di una bisca dove i vari personaggi, nella leggerezza e nell'allegria, dissipano fortune, scialacquano dolori, toccano il fondo ma sempre con la convinzione di essere più furbi degli altri, di poter ingannare il prossimo, di poter riemergere senza alcuna perdita né perdono né condanna.

Un ricettacolo di malaffare che è un luogo non luogo, uno spazio indefinito e fumoso quasi un posto, intimo e infimo, dell'anima, recondito, nascosto ma sempre presente e pressante e pulsante. Un luogo consolidato dove si ritorna per cercare affermazione e consapevolezza, identità e comfort, appunto si chiamano dipendenze. La regista Marinella Anaclerio sistema, inframezzandoli alle scene, intermezzi musicali sul boccascena, chitarra elettrica e voce, quasi a creare uno spartiacque con le vicende sul palco, un fare un passo fuori dalla storia per guardarla meglio da lontano, vivisezionandola e creando quello spazio necessario ad una maggiore comprensione, un passo dentro la realtà, dentro la concretezza dell'oggi per capire che quello che stiamo vivendo non è soltanto fiction o letteratura ma si muove e cresce ogni giorno dentro le nostre famiglie e società e città. Una sorta di presa di coscienza, uno zoom, un focus. Goldoni è messo in scena con fedeltà del testo e addirittura in veneziano (la Compagnia del Sole è barese e da sempre abbina il teatro popolare ad un senso più alto, civile e sociale del teatro) ma la cosa non stona affatto per la morbidezza degli attori, per la capacità camaleontica, per il saper stare sulla scena, dentro una situazione e vivere quell'atmosfera trasognante a cavallo tra un momento storico lontano e una realtà che nessuno di noi vuole in maniera esatta vedere. Come a dire che conosciamo il fenomeno ma non ci tangerà, esiste la ludopatia Il Giuocatore_Compagnia del Sole_ph_Giuseppe_Distefano82.JPGma noi ne siamo immuni, abbiamo gli anticorpi, riguarda gli altri, ne siamo esenti, abbiamo la corazza, il vaccino.

Il barista è Brighella, il servitore è Arlecchino, maschere di una Commedia dell'Arte che si ripercuote anche sul nostro tempo. L'amata è Rosaura (sprint Antonella Carone ci ha rammentato come tipo di recitazione Chiara Francini) che crede che il suo sposo non giochi più perché glielo ha promesso mille volte, Colombina è la saggia governante, Pantalone (l'esperto Flavio Albanese sempre in parte) è il padre della sposa, mentre Florindo è il nostro “Giuocatore” (ci è venuto alla mente un personaggio dedito alle carte del romanzo “Colibrì” di Sandro Veronesi, ma anche “Regalo di Natale” di Pupi Avati) incallito che sperpera, si riduce sul lastrico e nel frattempo continua a sperare che la fortuna giri a suo favore, che le stelle e gli astri gli diano una mano, tra scaramanzie e amuleti. L'abisso ogni volta, ad ogni puntata, ad ogni sconfitta, si fa sempre più grande e profondo e dalla platea si sente la voragine di sofferenza che scende palpabile; Florindo (ficcante Tony Marzolla, ci ha ricordato Simon Le Bon) fa stare male nel suo incedere verso la dissoluzione, sua e di tutti quelli che gli gravitano attorno, non si rende conto della disfatta imminente, incipiente, consigliato di volta in volta da vari Gatto e la Volpe e Lucignoli che lo sfruttano e gli fanno credere all'Albero degli Zecchini. La caduta è incessante, inarrestabile, irrefrenabile. Chiunque metta un po' di saggezza sul piatto della discussione per far rinsavire il nostro antieroe cade nella trappola melliflua, nella rete appiccicosa dell'essere tacciato da Grillo Parlante e come tale verrà allontanato. Il drogato non cerca la soddisfazione ma, credendo di essere incompreso, insegue la fine. I tradimenti (l'amante Beatrice con gli occhiali sembra Jackie Onassis) si sommano alle bugie che si aggiungono alle menzogne. Arrivano gli usurai; la discesa non ha conclusione, sIl Giuocatore_Compagnia del Sole_ph_Giuseppe_Distefano102.JPGi può sempre scavare sotto la coltre del perbenismo, è un tunnel al quale hanno spento la luce in fondo. Rimane solo il buio che, ad ogni passo, diventa sempre più pece. Goldoni è ancora fortemente contemporaneo sviscerando debolezze, limiti e vizi dell'uomo che nel frattempo sarà andato anche sulla Luna ma è rimasto un animale debole, pigro, sognatore, bambino. Florindo ormai non mangia più né dorme, ha soltanto ansia da vendere e debiti da contrarre. E continua a perdere, soldi e reputazione, ducati e affetti. In ogni città italiana accanto ad un centro scommesse sono apparsi magicamente i Compraoro, due usci, una bottega sola per poter continuare a giocare impiegando anche le dentiere o le catenine della prima comunione dei figli

Attorno Il Giuocatore_Compagnia del Sole_ph_Giuseppe_Distefano127.JPGperò al fulcro principale della dipendenza dal gioco, Goldoni e la Anaclerio accendono i fari su altre piccole storie secondarie che definiremo laterali che invece prendono risalto e forma; altre dipendenze e storture fanno capolino: c'è la dipendenza dal sentirsi sempre giovani anche quando non lo siamo più e non ci rendiamo conto che il tempo ha solcato le nostre rughe ma non lo vogliamo ammettere a noi stessi davanti allo specchio, come fa la Zia Gandolfa che già molto anziana si crede una ragazzina e vuole sposare (i ritocchini e il botulino di oggi), dietro compenso, il giovane Florindo, e c'è l'abuso di queste pillole, citate più volte, pastiglie che danno forza e ringiovaniscono, pasticche alle quali oggi potremmo dare il nome di viagra o antidepressivi o cocaina, la classica nocciolina che trasforma Pippo in SuperPippo, gli spinaci di Braccio di Ferro. Questo “Il giuocatore” è la prima parte della trilogia G.A.P., al quale seguirà il progetto delle “Tre sorelle”: Gioco d'Azzardo Patologico ma anche “gap” che in inglese significa distanza, divario. La Compagnia del Sole porta luce in una zona d'ombra che spesso non vogliamo vedere, una fetta di società che ci passa accanto e che facciamo finta che non esista fin quando un giorno, qualcuno, vicino o lontano alla nostra sfera affettiva, oppure proprio noi stessi, non ne restiamo impantanati in questo gorgo, in questa vertigine, in questo dirupo a picco, un domino che tutto travolge, boccheggiando nella melma senza paracadute.

Foto: Giuseppe Distefano

Tommaso Chimenti 09/12/2022

 

FIRENZE – “Accendi un sogno e lascialo bruciare in te” (William Shakespeare).

Cenere siamo e alla cenere torneremo. Ma anche sotto la cenere cova il fuoco. Viene dalla fredda e gelata Norvegia (dove c'è il ghiaccio sta anche la fiamma per potersi riscaldare) questa pièce, “Ceneri”, questo incastro tra burattini, prima in miniatura e poi a grandezza naturale, e la sfera attoriale, questo incrocio tra la marionetta che prende vita e sembra umana e l'uomo che con essa si confronta, parla, interagisce, perdendo entrambi le proprie sembianze originali. Molto interessante il plot (i direttori del Teatro di Rifredi, Mordini e Savelli, li hanno visti ed apprezzati ad Avignone) con due famiglie, due storie parallele, due narrazioni di padre e figlio che si rincorrono, si aggrovigliano fino a tendere l'una nell'altra, fino a guardarsi allo specchio. Due i punti di vista: il pupazzo, mosso nell'ombra da mani veloci e buie tanto da scomparire allo sguardo, e lo scrittore che descrive la scena. Come essere catapultati in una sorta di “Sei personaggi”, al sapore di Ibsen o al gusto di Munch, dove l'autore vivifica e materializza le sue parole e crea le figure che ha appena descritto con l'inchiostro nelle sue pagine.Ceneri©Kristin_Aafløy_Opdan_02_rifredi.jpg

Il conflitto generazionale è il perno sul quale ruota questa doppia vicenda: da una parte la storia di un ragazzo piromane che incendiava case e fattorie, cascine e fienili nel 1978 nel Paese scandinavo (è stato anche pubblicato il romanzo “Prima del fuoco” di Gaute Heivoll, su quegli accadimenti realmente avvenuti, e dal quale è stato tratto il lungometraggio “Pyromaniac”) figlio di un pompiere (la mente vola subito al draghetto Grisù che invece che incendiare voleva fare il vigile del fuoco o a “Fahrenheit 451” da Bradbury passando per Truffaut), dall'altra lo scrittore, con il suo pc sul boccascena, che cozza con il padre rude e ruvido cacciatore di alci. Lo scrittore è nato proprio nei mesi nei quali si svolgevano i fatti e questo (ci pare un po' poco il nesso e il legame non regge molto) sembra unire in qualche modo la sua esistenza indissolubilmente al piromane.

Al Teatro di Rifredi (scopritori di teatro internazionale d'alta qualità) abbiamo avuto modo negli anni di assistere a meravigliosi spettacoli senza parole che esplodeva di senso in perfetto equilibrio tra una grande maestria teatrale e artigianale immersi in contenuti profondi; pensiamo alla Familie Floz o ai Kulunka. Certo in quel caso erano le maschere le protagoniste a differenza dei burattini di questo “Ceneri”. Manca qualcosa, la storia è debole, forse un fuoco di fondo, quel quid che poteva legare esponenzialmente le due famiglie, le due infelicità dei figli e la loro protesta nei confronti del padre, il primo che incendia e distrugge contro il genitore che bagna e seda la scintilla, il secondo tentando di elevarsi e cercare soddisfazione in un lavoro di concetto e intellettuale sconfessando il machismo patriarcale. Ma il parallelismo non tiene, dopo un po' si scioglie e si sfalda, l'amalgama non regge, il collante mostra le crepe. E' molto forzato, o non è spiegato a sufficienza, o mancano degli anelli di congiunzione. “I roghi non illuminano le tenebre” (Stanislaw Jerzy Lec).

La ffanchon_bilbille_.jpg__454x266_q95_crop_upscale.jpgigura del piromane (a grandezza naturale ricorda molto l'autoritratto di Van Gogh) si amplifica e diventa ora la coscienza, ora il Grillo Parlante adesso un Lucignolo nei confronti dello scrittore in un dialogo continuo tra se stesso e le sue paure, timori, angosce, dubbi, incubi (il lupo gigantesco che s'issa alle sue spalle). Semmai possiamo trovare un punto di congiunzione tra i due figli tentando di elaborare la psicologia di fondo che li muove: la vendetta, il senso di ribellione, l'opposizione che nel primo caso diventa distruttrice e nella seconda invece si fa positiva e promotrice. Ma entrambi vogliono affermazione e richiedono attenzione, vogliono battere i genitori, il primo sfidandolo sul suo terreno, pungendolo nell'orgoglio, il secondo provando a riuscire in un mestiere agli antipodi del padre. “Non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, quindi non si può combattere il male con il male” (Lev Tolstoj).

C'è una guerriglia sotterranea, il primo la affronta direttamente, il secondo cercando una strada diversa. Tutti e due cercano consenso: lo scrittore attraverso l'egoticità e l'autorefenzialità del proprio nome sul volume stampato, il piromane attraverso le fiamme che lo ergono a deus ex machina, a fautore di luce, a creatore di distruzione e morte, quasi il Dio del Vecchio Testamento. La marionetta diventa l'alter ego del letterato, la sua parte più buia e più cattiva, in un trasfert junghiano che ha il sapore di Psycho. Qui i pupazzi si fanno a grandezza naturale come le loro fattezze incredibilmente vicine, e scambiabili, con quelle umane. Ma non basta a far scattare la fiammella. Si sente che l'ingranaggio non è stato reso così comprensibile.

“Dentro di noi abbiamo un lupo buono e un lupo cattivo. Tra i due vincerà quello che nutrirai di più” (Motto Cherokee).

Tommaso Chimenti 10/02/2019

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