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Giovedì, 05 Maggio 2022 12:46

La Classe di Garella non è morta

BOLOGNA – La differenza salta agli occhi, diceva un De Gregori che discettava tra il bisonte e la ferrovia. Ma il confronto tra “La classe morta” di Kantor e “La Classe” di Nanni Garella sta proprio in quella mancanza, in quell'assenza di quell'aggettivo pesante, ingombrante, assoluto. Sembra poco, un aggettivo, ma qui dà nuovo senso alle stesse parole, alle stesse azioni, dona speranza per una compagnia per metà composta da attori (sei) e per l'altra metà da componenti dell'Associazione Arte e Salute, pazienti del Dipartimento di salute Mentale di Bologna. Sulla scena la dozzina è ben calibrata e se ne perdono i confini in un equilibrio artistico e attoriale che li fa essere sullo stesso piano, senza sbavature, senza discordanze, scarti e difformità che l'arte e la recitazione e lo stare su un palco, dentro le parole La classe ph Stefano Triggiani (8).jpgkantoriane, ha azzerato. “Morta” è stato eliso perché recitare, nel piccolo e intimo e raccolto Teatro delle Moline (dove ERT mette in scena piccole produzioni nostrane di grande apertura e respiro, ruolo fondamentale di un Nazionale), è vita, rinascita, sorpresa, scoperta, nuova linfa.

Testo La classe ph Stefano Triggiani (9).jpgmigliore non poteva esserci per questa compagnia nata a fine millennio scorso. L'impianto è quello dell'originale del '75 del regista polacco (ma senza una figura che ne ricalchi la sua presenza in campo): banchi di scuola funerei che sembrano inginocchiatoi penitenti da chiesa ottusa e claustrofobica, abiti pece stinti e facce bianche cadaveriche per un'installazione umana che si anima dopo un torpore secolare, come un sogno che ricompare catartico, un ritornare alla vita passata, un incedere dentro le pieghe del tempo andato, un ripercorrere anni e traumi, in un loop che sa di rivincita, di riconquista, di contrappasso, di purificazione. Infatti le azioni sono reiterate e prendono vigore proprio dalla loro riproposizione continuativa, come un riflesso che si propaga cambiandone i contorni, rafforzandone il contenuto ad ogni mossa, ad ogni nuovo ciclo. La classe come microcosmo dell'esistenza con i soprusi, i maestri, i kapò, il potere che soverchia il popolo, le angherie, la massa che si fa caos; come una fisarmonica si riempie e si svuota. Adesso l'aula è sovraffollata perché ognuno degli attori ha in mano dei pupazzi, quasi a grandezza naturale, i loro doppi di quando erano ragazzi, giovani, bambini, si portano in giro, si coccolano come marionette e bambole, si accudiscono con dedizione e cura e delicatezza. Ognuno di noi dentro ha sempre il fanciullino che una volta è stato, compresi i traumi che ha vissuto, passato, subito.

E' nella ripetizione meccanica degli avvenimenti che si esalta e sublima il senso di questo limbo purgatoriale, le processioni vorticose attorno ai banchi sembrano una danza, una coreografia di dervisci la-classe-luca-sgamellotti-2_1000x0_79620d41ddda236ca32c486beca1c7f2.jpgche incanta, che trascina in un'altra dimensione, una spirale che spalanca le porte del tempo. Come le filastrocche e le canzoncine, quelle nenie cullanti e inquietanti che trascendono in un mondo parallelo, seppiato e offuscato, scolorito e immaterico. Ognuno con il suo alter ego deve sempre fare i conti, ogni personaggio colpisce violentemente il suo fantoccio, lo uccide, li accatastano in un angolo, in quella crescita che disconosce l'età fanciullesca, quell'adultità che vuole cancellare le origini, rinnegando il prima in cerca di un futuro vergine da conquistare. Senza il passato e la memoria, lo sappiamo, non può esserci un domani limpido.

E qui ilaclasse14.jpg bambolotti sostituiscono i vivi sulle panche, le loro essenze che non si sono mai allontanate da quell'atmosfera restrittiva (il messaggio politico allora era chiaro, nel nostro caso, all'opposto, forse il riferimento è all'infanzia inteso come tempo neutrale prima della consapevolezza e della malattia conclamata e certificata), che non sono mai riuscite definitivamente a staccarsi, sganciarsi da quella cupezza, da quel legno bruno. Questo manipolo di uomini e donne eterei e chapliniani, pittoreschi al limite dell'essere foloniani, fragili e vulnerabili, con i loro movimenti automatici istintivi quasi involontari pinocchieschi, oniricamente incastonati e relegati nel tempo paludato, asfittico e impantanato, esotericamente imprigionati e imbrigliati, fantasmi attanagliati nella maglie della clessidra potrebbero essere un coro greco di anime o parte di quelle manifestazioni di lamentazioni funebri pubbliche, prettamente del folclore del Sud Italia, le prefiche, che si sciolgono e dolgono rumorosamente e plasticamente in sceneggiate lacrimevoli, in pianti rituali strazianti, adombrandosi in lagnanti litanie angosciose e laceranti. Come se il tempo si fosse inceppato in una seduta spiritica, come un disco rotto con la puntina gracchiante arrugginita, a rievocare lo spirito di se stessi quando, forse, erano felici non sapendo di esserlo.

Tommaso Chimenti 05/05/2022

visto al Teatro delle Moline il 03/05/2022

Foto: Stefano Triggiani, Luca Sgamellotti

ROMA – “La scuola non è riempire un secchio, ma accendere un incendio” (William Butler Yeats).
La scuola forma e trasforma, la scuola ci cambia e ci rimane appiccicata addosso, la scuola è la porta verso il mondo adulto, la scuola è trauma o scoperta. A scuola impariamo i ruoli, le regole e il loro rispetto, l'autorità, lo studio e l'imparare ma anche le relazioni con i coetanei, le liti, le fazioni, gli amori, le amicizie che durano una vita. A scuola cresciamo, volenti o nolenti, non passiamo soltanto del tempo, diventiamo persone, ci appassioniamo, diventa il fulcro e il cardine delle giornate, le ansie e il sapere come affrontarle. Per questo la scuola rimane negli incubi e anche nei lucciconi delle foto di classe o nei ricordi delle gite scolastiche: “ditemi, chi non si è mai innamorato di quella del primo banco, la più carina, la più cretina, cretino tu, che rideva sempre”, il primo magico Venditti ben fotografava quella sensazione sia in “Compagno di scuola” che in “Notte prima degli esami”, quello scoramento, quel trambusto tra libri ed ormoni, quel subbuglio esistenziale che la scuola connetteva, rimetteva in circolo, tentava di canalizzare cercando di aprire il pensiero, la mente, imparando a gestire emozioni e parole.La Classe foto gruppo.jpg

E “La classe” è l'iconico pezzo teatrale di Kantor come l'omonimo titolo di Fabiana Iacozzilli ma anche il recente di Nanni Garella. I Pink Floyd in “Another La-Classe-3-ok-Paolotti-Casadio-ph-Federico-Riva.jpgbrick in the wall” ipotizzavano la distruzione delle classi mentre deve aver avuto qualche problemino Caparezza: “Una classe di classici figli di, ho dubbi amletici tipici dei 16, essere o non essere patetici? Eh si, ho gli occhiali spessi, vedessi, amici che spesso mi chiamano Nessy, indefessi mi pressano come uno stencil, Bud Spencer e Terence Hill repressi”. E poi c'era “La scuola” di Daniele Luchetti, prima a teatro e poi sul grande schermo sempre con Silvio Orlando nei panni del professore. Ma anche Pinocchio parlava di scuola, così come “Io speriamo che me la cavo” e certamente non possiamo non citare “L'attimo fuggente” di poesia e brividi.

Ma i riferimenti che più crediamo si possano si avvicinare a questo “La Classe”, scritto da Vincenzo Manna, ormai un cult da diverse stagioni su piazza, per la regia di Giuseppe Marini e la coproduzione tra Società per Attori, Accademia Perduta e GoldenArt, possiamo trovarli in “Nemico di classe” di Nigel Williams (un'importante edizione fu quella che lanciò Gabriele Salvatores), e nelle pellicole “La classe” di François Bégaudeau, palma d'oro a Cannes nel 2008 e “L'Onda” di Dennis Gansel e in qualche modo anche il nostrano “Il rosso e il blu” (come i colori degli errori più o meno gravi da sottolineare) di Giuseppe Piccioni. Senza dimenticare due opere a firma di Stefano Massini: a teatro “L'ora di ricevimento”, al cinema “La prima pietra”.La-Classe-Andrea-Paolotti-Federico-Le-Pera-Claudio-Casadio_-ph-Tommaso-Le-Pera-scaled.jpg

Un professore e un manipolo di studenti “difficili” in un quartiere di frontiera oggetto di forte immigrazione e di tensioni razziali. Gli ingredienti per far saltare il banco ci sono tutti. Siamo dentro ad una polveriera con un cerino acceso in mano, siamo di fronte ad una pentola a pressione che singhiozza e sbuffa. La scuola, e questa classe particolare, come cartina di tornasole per quello che accade fuori, le tensioni sociali tra gli ultimi, la guerriglia quotidiana tra i ceti più poveri. In questa classe i ragazzi con delle insufficienze devono seguire dei corsi di recupero per poter essere promossi; ma sono bulli e arroganti, presuntuosi e provocatori, offensivi e altezzosi, non vogliono imparare niente ma solo avere il pezzo di carta finale per poi “fare quello che voglio”. L'evocativa scena, di Alessandro Chiti, dove a lavagna e cattedra e banchi e sedie, l'idea semplice ma geniale di un pavimento costellato da distese di fogli di carta strappati dai libri, la cultura calpestata, ben si sposa e si esalta grazie alle luci, di Javier Delle Monache, cangianti come sentimenti (e le musiche a timbrare i momenti di Paolo Coletta) che intessono il dramma che monta, riflettono gli umori che guerreggiano e cozzano sul campo di battaglia dell'aula.

Un La Classe - Casadio, Monno, Frullini, Marino, Paoletti.jpggiovane professore molto volenteroso, ancora vergine del sistema e ingenuo, (Andrea Paolotti robusto, ha polso e ben si muove tra le pieghe del testo) e un preside più scafato e disilluso (Claudio Casadio sempre presente, capace con quella sua imperturbabilità candida e quell'incedere autorevole anche in mezzo ai marosi) sono la parte civile e istituzionale della scuola con la quale i ragazzi focosi si scaldano e si accapigliano. Gli studenti sono rabbiosi, hanno alle spalle storie familiari devastate, solitudine, povertà, miseria, abbandono. La scuola però è anche un'ancora di salvezza, che i ragazzi non riconoscono fino in fondo però, rispetto allo “Zoo” (a Calais c'era la “Jungle”, a quella fa riferimento la drammaturgia) uno spazio franco dove sono ammassate migliaia di immigrati irregolari. La guerra dialettica che si scatena è tra i figli dei nullatenenti, marocchini, zingari, e i nuovi poveri ancora più agguerriti ed affamati. Il professore tenta con tutte le carte che ha a disposizione ad interessare i ragazzi non tanto allo studio quanto all'ascolto, all'apprendimento, all'impegno, alla passione per il gruppo e per i progetti collettivi. Ognuno dei ragazzi è fragile e solo e azzannano soltanto perché non sanno che gusto possono avere le carezze, e aggrediscono perché non sono mai stati abbracciati e urlano perché nessuno li ha mai ascoltati, non vogliono responsabilità perché non hanno autostima e quindi hanno paura di fallire anche se non lo ammetteranno mai. Il professore riuscirà nel suo intento, immettendo il germe che con l'impegno e unendo le forze si possono raggiungere dei risultati e delle soddisfazioni, riuscendo, forse, a salvarne qualcuno mentre qualcun altro rimarrà irriducibile e sarà la strada che gli darà lezioni ben peggiori di un compito o di una interrogazione. Tra le note leggermente non così accordate, la grande consapevolezza e il lessico dei ragazzi, soprattutto nella seconda trance dello spettacolo, studenti non proprio modello ma che dimostrano proprietà di linguaggio ai limiti del forbito, e la troppa carne al fuoco immessa nell'agorà: la scuola, l'immigrazione, fino all'Olocausto e allo stupro.

“Colui che apre una porta di una scuola, chiude una prigione” (Victor Hugo).

Tommaso Chimenti 28/04/2022

Foto di scena: Federico Riva e Tommaso Le Pera

FIRENZE – Ci hanno sempre stupito con le loro maschere che sembrano parlare, essere partecipi, emozionarsi, che prendono vita e sono in connessione e fusione con l'attore e in continua trasformazione emozionale pur essendo statiche, fisse e immobili. Ci hanno colpito in questi anni (a Firenze sono arrivati prima al Teatro di Rifredi poi al Teatro Verdi e infine al Teatro Puccini) per le loro storie trasognanti, cariche di umanità e poesia, sfavillanti giochi leggeri colmi di fantasie colorate e immaginazioni creative piene di pathos, allegria fanciullesca, corse spensierate, deliri beati e 189981.jpgquello sfavillante buonumore adolescenziale, quella festosità contagiosa, quell'esultanza eterea, quella felicità che si propagava dal palco alla platea. Il collettivo Familie Floz, cosmopoliti ma di base a Berlino, non sono gli unici nel panorama internazionale ad usare le maschere (in Italia ricordiamo Dispensa Barzotti, I Gordi, all'estero i Kulunka Teatro), ma lo fanno con un garbo che riconcilia, una grazia che placa e un'eleganza che rasserena. C'è una gioia dilagante nelle loro storie di vicinanza, narrazioni fumettistiche semplici di piccole sventure quotidiane dei loro personaggi antieroi senza mai dimenticare l'aspetto sociale. La loro cifra stilistica sono certamente le maschere create artigianalmente e la simbioticità tra il corpo dell'attore e il travestimento facciale di gomma. Tra le loro produzioni abbiamo assistito nel tempo a “Ristorante immortale”, “Teatro Delusio”, “Infinita”, “Hotel Paradiso”, “Garage D'Or”, “Haydi!”, “Dr Nest”.

E1624446369_dsc07596_c_simonwachterklein-scaled.jpg l'ultima novità “Feste” non fa eccezione in quanto a leggiadria, commozione, poeticità, armonia. Stavolta la storia di fondo, sul quale intreccio drammaturgico si appoggiano le loro figure immateriali e incorporee, risulta essere molto complessa con passaggi che rimangono sospesi e molti punti oscuri. Ma si dirà: non è quello l'importante, conta il sogno. Anche se rimangono criptici e annebbiati soprattutto gli scarti e i salti temporali. E allora immergiamoci in questa festa di matrimonio ma specialmente, come piace fare alla Floz, mettere l'occhio e il naso nel dietro le quinte, in tutto quel che si muove per far funzionare la macchina, nelle pieghe delle maestranze, di chi lavora alacremente per far sì che la facciata e la forma sia perfetta, chi si impegna per oliare i meccanismi e gli ingranaggi per rendere la complessità semplice e le difficoltà facili. E dietro un matrimonio che deve andare in porto ci sono i wedding planner e i segretari, i cuochi e i camerieri.

E' l'animo dei berlinesi quello di cercare di valorizzare il grande sacrificio di tutti coloro che permettono che le cose accadano e che vadano FESTE_couple©SimonWachter-1568x1046.jpega gonfie vele. Nel cortile (ci è venuto in mente l'omonima piece di Scimone a Sframeli) di una villa c'è grande fibrillazione per lo sposalizio di una giovane ereditiera. Lo chef è impaziente e i camerieri sbadati non fanno altro che far aumentare i sacchi della spazzatura nell'atrio dove si “scontrano” un custode anziano scansafatiche nel suo gabbiotto che detiene il potere di avere le chiavi del cancello d'entrata e la donna delle pulizie volenterosa giunonica amazzone sempre disposta a guerreggiare e rivaleggiare con lui. Accanto ai due il wedding manager professionista incravattato indaffarato e nevrotico e la segretaria pignola e compunta, la sposa dubbiosa, lo sposo ubriaco, gli amici dello sposo maldestri e alticci, il padre della sposa ricco e arrogante (forse un boss della malavita organizzata) che arriva sfrontato in elicottero (e fa arrivare un cocchio con i cavalli per portare la figlia all'altare: qui potrebbe venirci in mente il celebre funerale dei Casamonica), fino ad una giovane homeless incinta che si rifugia tra i bidoni della spazzatura. La musica è troppo sottolineante dei momenti nei quali ci dovrebbe essere empatia e partecipazione. Arrivano anche il postino di Amazon e il trasportatore che ascolta l'heavy metal.

Il mondo feste-2.jpegdei benestanti si scontra con quello dei lavoratori e già sappiamo da che parte stanno i Floz rendendoci, i primi, rammolliti e viziati e presuntuosi e i secondi capaci di cavarsela in qualsiasi situazione, senza lamentarsi, furbetti e distratti, forse negligenti, irresponsabili ma mai disonesti. Pensare che tutti i personaggi che abbiamo qui sopra elencato sono interpretati da soltanto tre attori, mimi e performer straordinari. Ci siamo poi lanciati in un gioco di somiglianze: il cameriere stempiato potrebbe ricordare Pippo Franco, mentre la segretaria puntigliosa e perfezionista è sosia di Linda Hunt, attrice hollywoodiana Premio Oscar, il portinaio potrebbe essere Antonello Fassari, il manager Pippo Baudo, la sposa Miriam Leone, il maestro di danze il Ministro Brunetta, lo sposo poteva essere Rupert Grint l'interprete di Ron Weasley, l'amico di Harry Potter, un amico dello sposo un mix tra Mentana e Gheddafi, il cuoco Gad Lerner e la donna della pulizie la Vanoni. Detto tutto questo, sembrerebbe però che il tocco dei Floz sia leggermente appannato e spesso la ricerca della risata o della commozione oscuri la trama.

Tommaso Chimenti 11/04/2022

MILANO – “Tu vuoi l'America, che sta al di là del mare, tu vuoi l'America, che io non ti posso dare” (Edoardo Bennato). L'idea del regista Francesco Leschiera e del suo Teatro del Simposio è ambiziosa: indagare tre mostri sacri della letteratura americana attraverso drammaturgie originali scaturite da un mix tra le biografie dei personaggi e i loro capolavori. Se tre anni fa esatti debuttavano con il primo step della Trilogia su Carver (qui la recensione di “Ray. Con tutta quell'acqua a due passi da casa”: https://www.recensito.net/teatro/american-dream-ray-carver-francesco-leschiera.html), il secondo capitolo è stato incentrato su Tennessee Williams mentre il terzo sarà su Truman Capote. Sullo sfondo gli anni '60 con alcune particolarità da sottolineare che fanno da comune denominatore delle tre messinscene: la scenografia sarà la stessa (un tavolo e poche sedie e una madia) come a dire che l'humus culturale, storico, economico sia lo stesso, tre saranno sempre i personaggi in scena, e sempre saranno presenti alcool e fumo. Con queste linee di demarcazione, con questo recinto strutturale e concettuale, sia per quanto riguarda il trattamento su Carver sia questo su Tennessee Williams, “Whisky Circus”, scritto da Zeno Piovesan (visto al Teatro Linguaggi Creativi vicino ai navigli milanesi), possiamo affermare che centrale sia questa grande sofferenza e disillusione, una tristezza che si trascina, un baratro che si spalanca sempre più sotto i piedi, nessuna via di fuga, 

6461.jpgnessuna alternativa né strada parallela da percorrere o intraprendere e l'abisso che si avvicina a grandi falcate senza che nessuno dei protagonisti abbia la forza e l'energia, l'entusiasmo, il desiderio di scansare il precipizio ma anzi, vittimisticamente, ricercano la sconfitta, la caduta senza possibilità di potersi rialzare.

Qui, in un disegno di dramma domestico quasi da cabaret o da varietà con le lucine accese sul boccascena, siamo all'interno di un Luna Park stralunato, di un Circo tragico e ambiguo composto da un solo numero in una piccola stanza di un appartamento. Uno zio (Ettore Distasio sul palco è enigmatico e sobillatore), che ha i tratti dell'incestuoso e del padre padrone, che potrebbe essere simbolicamente lo Zio Sam, l'America stessa con cappello e divisa a stelle e strisce, un'America che illude ed esalta, che stritola e corrompe, che svuota, che possiede, che usa e sfrutta, che spolpa con le sue false abbaglianti bagliori e fulgori che camuffano e trasformano la realtà, uno Zio Sam che ti liscia con le sue bugie fino a farti capitolare, che ti convince come un serpente a sonagli fino a portarti nella sua tela e rete, che ti manipola anaffettivamente fin quando non ti ha depredato di tutti i tuoi averi e valori, fin quando non ti ha derubricato a cosa, ad oggetto da muovere a proprio piacimento. In questa sorta di boudoir di quart'ordine, sciatto e squallido, sporco e unto, viscido e maleodorante dove è il disagio ad essere il vero prim'attore, una ragazza, una contorsionista ormai però annebbiata dall'alcool e depressa e senza più volontà, incontra, con il placet dell'esattore zio che le procaccia i clienti come ruffiano e pappone, clienti che pagano per restare soli con lei, per assistere ad un numero che non esiste più.

La Sogno-americano--678x381.jpeggiovane (Greta Asia Di Vara ha innocenza e oscurità) è l'unica superstite dei freaks di questo mirabolante e fantomatico circo viaggiante, quest'epoca dorata (che forse non è mai esistita) della quale si vanaglorifica lo zio intrallazzone e affarista senza scrupoli. Sono personaggi fragili e indifesi, ognuno dipendente dall'altro. La ragazzina ha addosso lo strazio e il tormento dei volti femminili di Vermeer, ha tatuato nell'anima il fallimento, ha abbracciato la perdita, ha sposato il progetto dello smacco perenne e imperituro, si è votata al tracollo. Vive rannicchiata in un cubo di vetro (anche questa immagine potente di alto simbolismo) rassegnata come un rettile in una teca aspettando che la tirino fuori per l'esibizione desolata e misera della sera, una campana di cristallo che finge di proteggerla dai mali dell'esterno ma che anzi, al contrario, la fa essere carne da macello in mostra, in vetrina al miglior offerente, esposta alla mercé come oggetto in prestito, affittabile, cosa, prodotto da poter utilizzare. E' sempre impaurita e titubante, spesso ubriaca in preda alle sue ansie e frustrazioni come alle sue convinzioni che, in perfetta linea con la Sindrome di Stoccolma, la fanno parteggiare per lo zio sfruttatore, irradia attorno a sé la sua aria mesta, la sua cappa lenta di disfatta, lei che è “il contrario di un angelo”, che è “un pugile all'angolo”, che “vive dentro una prigione”, che “per un ti amo mischierebbe droghe e lacrime” ma che non sa più che cosa sono i “brividi” immersa nell'abbandono e nella desolazione quotidiana in questo mare di schifo che fa male solo a pensarlo, che ferisce al solo annusarlo.

Nell'incastro patologico tra lo Zio e la nipote entra ad interrompere il rapporto, fatto di violenze e sopraffazioni come di 6461_5.pngminacce e intimidazioni psicologiche, il Cliente (Mauro Negri haberiano) che paga e che, come nelle migliori tradizioni, la vuole “salvare” e portare via da tutto quell'ammasso di ribrezzo, sporcizia, indecenza e disgusto che ti si attacca alla pelle come grasso indelebile. I due uomini contrattano sulla pelle della ragazza, come fosse una merce da poter comprare o vendere a seconda del punto di vista. Manca l'amore e il rispetto. Quasi si percepisce l'odore di quella povertà che prima di essere economica è interiore. L'atmosfera sa di polvere e disfacimento e sembra uscire direttamente dalle pagine dello “Zoo di vetro” come da i “Blues”. Sono strazianti e devastanti questi spettri marciti nel senso di colpa, contaminati dal non avere un futuro da sognare, impantanati e infangati in questo “Sogno Americano”, il titolo della trilogia di Leschiera e compagni, che si fa sempre più incubo urlante, affannoso e opprimente, in questa discesa agli inferi, in questa schianto e tonfo sordo nel tunnel nero della perdita dell'autostima, nella vergogna, nello sfruttamento. Sono tre facce di una stessa medaglia, derelitti, affranti con aspirazioni azzerate, con ambizioni svilite, conigli sacrificali sull'altare dei soldi.

“E in faccia ai maligni e ai superbi il mio nome scintillerà, e dalle porte della notte il giorno si bloccherà. Un applauso del pubblico pagante lo sottolineerà e dalla bocca del cannone una canzone suonerà” (Francesco De Gregori).

Tommaso Chimenti 09/04/2022

FIRENZE - “Ogni corpo immerso in un fluido subisce una forza diretta dal basso verso l'alto di intensità equiparabile alla forza-peso del fluido spostato”. Semplicisticamente, una sorta di azione e reazione. Siamo, inevitabilmente, in una piscina, anzi negli spogliatoi tra armadietti e la scena, didascalica ma efficace, di Federico Biancalani (il pubblico è posto sul palco del Teatro di Rifredi), che ci ricorda proprio le corsie di una vasca olimpionica con i galleggianti a dividere il percorso dei nuotatori. E subito la mente vola al videoclip anni '80 “Smalltown boy” dei Bronski Beat: acqua, spogliatoi, violenza, nudi, prurigine, voyeur. Già perché nel testo acuto e brutalmente psicologico del catalano Josep Maria Mirò si parla di acqua come liquido amniotico, ovvero come affetto e dolcezza e salvezza e protezione degli adulti verso i più piccoli, si parla di acqua come galleggiamento di fronte alle accuse infamanti, si parla di acqua in termini di annegamento dentro la shit storm, si parla di acqua come boccheggiamento tra le insidie di chi vuol vedere il male ad ogni costo, si parla di acqua come paura dell'ignoto, del cadere, del non riuscire a riemergere, soffocare in mezzo ad imputazioni dalle quali è difficile difendersi.ade998328c27804c8008624736894cb9_L.jpg

Ci sono due istruttori giovani (i gagliardi e muscolari Giulio Maria Corso e Samuele Picchi, fisico da gladiatori guerreggianti ben affiatati, affilati e allineati, credibili in tutto l'excursus drammaturgico, tranne che nello scontro fisico risultato ben poco realistico e alquanto posticcio) che sono caratterialmente agli antipodi: uno, il nostro antieroe Corso (sguardo pungente da Lucignolo provocatore e bella tenuta su quella linea sottile tesa tra l'abisso e l'arroganza), spigliato, contro le regole, scavezzacollo, l'altro (Picchi ha fatto un salto di qualità rispetto a “Tebas Land”) è più saggio, posato, con la testa sulle spalle. C'è la responsabile della struttura, Monica Bauco storica attrice con molta esperienza, qui spinge troppo sul melò, che diventa ago della bilancia tra il mondo interno che si sviluppa tra bambini e acquaticità, e quello esterno che vede, controlla, giudica gesti dal cemento delle tribune e affibbia significati a movimenti e tenerezze travisando in malafede la realtà.

C'è ne “Il principio di Archimede” (regia e traduzione di Angelo Savelli; la prima italiana nel 2018) la grande paura del nostro tempo, ovvero quella di perdere la reputazione e, grazie e per colpa dei social network e degli smartphone sempre a portata di mano e di clic e di video, che ci vogliono trasformare in giustizieri della notte, in citizen journalist, in persone in grado, senza conoscenza delle leggi e ignare delle conseguenze, di mettere online contenuti estrapolati, momenti che diventano assoluti strappati a contesti dove sarebbero stati relativizzati. Questa mania, che si fa smania, di diventare giudici della vita degli altri, di essere tutti moralizzatori delle vite degli altri, questo poter monitorare, con la spada di Damocle appunto del telefonino (ma bastano anche le voci di corridoio e le chiacchiere che in un attimo attraverso le chat di whatsapp diventano “virali”, come piace tanto dire), questo aver sempre tutto sotto controllo, questa censura preventiva, questo sorveglianza sociale reciproca, il gusto per il fake che diventa trash e gossip, questo decontestualizzare, e quindi questo rendere freddo ogni rapporto, dinamica e relazione inevitabilmente ha distrutto la spontaneità, l'allegria dell'improvvisazione facendoci sempre chiedere, prima di muoverci, se un gesto o un atteggiamento potrà essere compreso nella sua sincera e reale forma o se potrebbe essere scambiato e frainteso e giudicato “inopportuno” (altra parola che va molto di moda). Abbiamo paura e nella paura legiferiamo e vogliamo che tutto sia spiegato e chiaro, ma il mondo Il-Principio-di-Archimede.jpgci sfugge continuamente di mano e invece vogliamo ingabbiarlo, metterlo in categorie ferree uscito dalle quali sei in fallo, senza possibilità di redenzione, passibile di gogna mediatica.

Un bambino piccolo, avendo paura dell'acqua, era stato abbracciato e baciato (l'insegnante dice su una guancia, una bambina che ha visto la scena dice sulle labbra) dall'istruttore. Comincia un processo illecito alle intenzioni fatto di accuse (essere un pervertito, un molestatore) dalle quali non è possibile difendersi, i genitori montano rabbia e schiumano vendetta (Riccardo Naldini, altra colonna attoriale di Rifredi, non è così incisivo nel lasciarci nella sospensione, nel dubbio su da che parte stia la ragione), l'istruttore infangato e additato, prima di essere principio-di-archimede-fotopinolepera-2.jpgomosessuale poi pedofilo (anche se differente per età e vicende può far nascere un parallelismo con “Il caso Braibanti” di Massimiliano Palmese), non sa a cosa appigliarsi per tentare una difesa (tutto sembra assurdo e grottesco) e più cerca di spiegare più si infila in un ginepraio di spine alimentando il sospetto, aumentando la sfiducia attorno a sé. Un gesto che poteva essere di sostegno e supporto ad un piccolo nuotatore tremolante (l'interpretazione e la regia però ci fugano ogni possibile punto interrogativo ed equivocità annullando le ambiguità sulle quali il testo si fonda e donandoci la verità dell'assoluzione e dell'innocenza dell'incriminato che non viene mai messa realmente in dubbio) diventa la ghigliottina, il casus belli, il nodo del contendere, il crack che fa scivolare la vicenda nella tragedia, che fa ribollire gli animi mettendo da parte la logica razionale e pensando soltanto a farsi giustizia da soli.

Molto interessante la scelta del riavvolgimento del nastro, con il classico rumore del rewind delle cassette musicali, per ritornare alla scena precedente, tornare ad un prestabilito momento e da lì ripartire argomentandola, aumentandola, perfezionandola. Escamotage, usato più volte all'interno della pièce, ma che risulta sempre funzionale, fruttuoso, puntuale, una scansione che fa rielaborare gli eventi, riassestare i fatti, riallineare le prospettive. Il politicamente corretto ci distruggerà perché disumanizza e imbriglia, raffredda i rapporti, toglie la vita, il calore. Un testo attualissimo, necessario, indispensabile.

Tommaso Chimenti 04/04/2022

Foto: Pino Le Pera

MILANO – Quello che abbiamo visto assistendo alla novità “Bed Boy Jack” (prod. Filodrammatici, Stabile Veneto, Next '20) scritto e diretto da Bruno Fornasari si potrebbe racchiudere nell'epitaffio di Schopenauer “Il mondo come volontà o rappresentazione” ovvero il reale là fuori è la mia rappresentazione e tutte le rappresentazioni sono oggetti del soggetto e tutti gli oggetti sono rappresentazioni quindi il mondo è copia e non realtà vera. Perché è di questo che si discute e discerne sullo sfondo della vicenda, di cronaca vera, di Jack Unterweger serial killer di prostitute austriaco,Jack Laila Pozzo-6.jpg che uccideva le proprie vittime formando un cappio attorno al collo con il loro reggiseno. Figura particolare, tra gli anni '70 e '90, putto mefistofelico che riassume tratti positivi e malesseri psicologici profondi, bollato come assassino poi in carcere elevato a santo ed eroe, capro espiatorio della società, reietto che, attraverso la cultura, aveva saputo redimersi, ripulirsi, farsi perdonare e restaurare una reputazione che sembrava compromessa e reinventarsi una verginità davanti al mondo, preso ad esempio anzi, innalzato come uomo di spicco capace di cambiare strada e direzione, di migliorarsi grazie ai libri, alle letture e alla scrittura e per questo messo sul piedistallo come fulgida e positiva dimostrazione filosofica, etica ed esistenziale che il sistema carcerario poteva, se non repressivo ma accogliente e tollerante, essere una molla per riformare la comunità.

Attorno a Jack ruotavano personaggi particolari e molto influenti come Gunter Grass e Elfriede Jelinek (non a caso due futuri Premi Nobel per la Letteratura) per avvalorare le tesi di una certa sinistra progressista. Il tagliente dramma messo in piedi da Fornasari (autore troppo trascurato in Italia; stavolta nessuna nota di ironia caustica a differenza dei suoi testi precedenti dove miscelava argomentazioni profonde e un grande sarcasmo provocante) scivola nell'abisso di un equilibrio precario tra i ricordi della realtà, viziata, offuscata, collusa, camuffata, distorta, e la sua, appunto, rappresentazione come se, e il set sul palco sta lì ad indicarcelo, fossimo proprio davanti, dentro una location da fiction (compreso un tappeto di foglie secche; le scene iconiche di Erika Carretta), da serie tv con i piani a sovrapporsi in dissolvenza: i quattro fari laterali come il nastroJack© Laila Pozzo-3.jpg giallo della polizia che indica una zona interdetta perché in quel perimetro si è consumato un delitto. Si è dentro i fatti ma si assiste alla vicenda anche in una sorta di ulteriore allontanamento, un passo indietro, come se i personaggi, ovviamente già ruoli attoriali, impersonassero se stessi nel momento di rimettere in scena dettagli e attimi accaduti in una sequenza che adesso devono essere riallocati, ridisegnati, riaggiustati per meglio comprendere tutto il processo, il progressivo svolgersi del tempo, il riannodare le bobine e il dispiegarle sul tappeto di una logica che rimane sospesa, alla fine comunque senza una soluzione certa, nel limbo creato ad hoc dalla regia (che scandaglia e fiuta le paludi del non detto, dell'interruzione dell'evidenza, di quel Purgatorio dove l'innocenza come la colpevolezza sono entrambi estremi eccessivi) che mischia i piani sequenza temporali, mixa tempistiche, mostra apparizioni e fantasmi, connette il mondo dei vivi con quello dei defunti, fa parlare gli animali.

Personaggio contorto e complicato, e per questo affascinante, che Tommaso Amadio ha incarnato in una bellezza ora disarmata adesso velenosa, in comportamenti melliflui e accondiscendenti a cercare conferme e carezze come in iraconde fuoriuscite di lava, ora oratore capace di dialettica ed eloquenza adesso bruto feroce delinquente manipolatore, con i capelli impomatati ricordandoci Hitler, anche lui (e forse non è un caso) austriaco. Come in “American History X” ha il corpo tatuato, come il Fuhrer ha un cane e proprio un pastore tedesco e proprio una femmina, uscito dal carcere si mise a scrivere libri come il brigatista Cesare Battisti libero e trionfante in Francia protetto dalla dottrina Mitterand, dopo aver ucciso e scontato la sua pena una volta in libertà ha commesso lo stesso reato come Angelo Izzo Jack© Laila Pozzo-5.jpgdel massacro del Circeo. Il Male in tutte le sue forme ripercorre strade già viste e segnate, solca la via del non ritorno, si perde nelle nebbie, cade si rialza e inganna. Attorno a Jack-Amadio (istrionico e fascinoso come Di Caprio in “The wolf of Wall street” e psichedelico e allucinato come Christian Bale in “American Psycho”) ruotano in questo variopinto Luna Park tra mass media e sangue, un ispettore, lo stesso Grass, un pappone (Emanuele Arrigazzi sul bordo di un perenne baratro oscuro con i chiaroscuri guasti e corrotti dei suoi personaggi tanto amorevoli quanto limite), una prostituta, la moglie di Grass, la Jelinek (Sara Bertelà che colora di nuance tenere e tenaci le sue battute, calibrata), la giovane fidanzata minorenne e il cane, che ci ha ricordato quello di “The Summer of Sam” di Spike Lee (Chiara Serangeli leggera, assorta, effervescente come spuma).

Perché il punto focale (meglio, in questo caso, nodale visto che le vittime furono uccise con un nodo scorsoio) è tutto giocato tra la realtà dei fatti, che in definitiva non si è mai appurata oltre ogni ragionevole dubbio ma solo supportata da un processo indiziario, e quello che Jack ha fatto credere agli amici intellettuali, ai giornali, alle tv che lo intervistavano incessantemente, ai tabloid che pubblicavano i suoi articoli, alle donne che lo amavano per il fascino perverso del malvagio, alle prostitute che, pur riconoscendolo, stavano al gioco credendolo cambiato, redento, tornato puro. Un inganno continuo per cercare di apparire in una forma celestiale (il suo completo intonso e candido) per celare il nero interiore e la voglia di morte e vendetta che covava dentro. Fuori un uomo nuovo da portare sul piedistallo e dentro l'uomo antico narcisista patologico che aveva bisogno di nuovo sangue, forse, ogni volta, per tentare di uccidere metaforicamente quella madre prostituta che lo aveva abbandonato, che non sapeva fermarsi davanti alle sue malate perversioni e pulsioni omicide e sadiche. Due i refrain musicali che si intervallano e ritornano come cantilena che ricongiunge e riannoda i fili, creando una ragnatela che tutto cuce e cesella: “Der Kommissar” di Falco, non a caso anche lui austriaco, e “Sono come tu mi vuoi” di Mina ad indicare la sua propensione camaleontica a modellarsi sui bisogni e desideri dell'astante per coglierne fiducia e disvelare i suoi punti deboli.

E' fragileJack© Laila Pozzo-8.jpg, piange, fa la vittima, si professa non colpevole a gran voce, la piazza e la pancia del Paese si divide tra giustizialisti e innocentisti, non ha alibi ma non ci sono prove marmoree, è simpatico, lusinga i suoi interlocutori, è un Grande Burattinaio che tira i fili delle sue marionette. Un Angelo demoniaco o un diavolo paradisiaco che è riuscito a toccare le pieghe e le piaghe del nostro mondo contemporaneo Jack© Laila Pozzo-14.jpgche si fa volentieri abbagliare dalla forma, sceglie consapevolmente di farsi ingannare perché è più charmant, è più divertente, perché siamo pigri e spesso è molto più semplice prendere per buona la confezione ammaliante che analizzare, con la fatica del dubbio e dell'intelletto, il suo contenuto. Il binomio Amadio/Fornasari, ancora una volta, riesce a far riflettere, riesce a non far finire lo spettacolo con la fine della piece, ci fa portare “i compiti a casa”, ci scuote, ci mette in imbarazzo, ci costringe nell'esercizio di osservare il male fuori per scorgerlo dentro di noi, non ci lascia dormire sonni tranquilli: il loro non è certamente un teatro borghese consolatorio né inutilmente e pretestuosamente provocatorio. Nei testi di Bruno Fornasari c'è carne per andare a fondo, c'è materia e magma, c'è fuoco vivo e mercurio guizzante, c'è intelligenza, da sempre vaccino contro le soluzioni facili e a buon mercato.

Tommaso Chimenti 31/03/2022

Foto: Laila Pozzo

PARMA – Stiamo aspettando che la meteora ci arrivi sulla testa. E staremo lì a filmarla per poi postarla. Siamo quegli uomini e donne della pellicola “Don't look up” che guardano al cielo, avendo avuto in precedenza tutto il tempo per prendere delle decisioni sensate e che invece si sono interrogati, divisi, lacerati, litigando furiosamente in fazioni ideologiche per, infine, non arrivare a nessuna soluzione, disuniti (e anche qui potremmo proporre una citdownload (1).jpgazione sorrentiniana dell'ultimo “E' stata la mano di Dio”), disarticolati, scaramantici, primitivi, riducendosi a pregare quando ormai non c'è più niente da fare invece che fare qualcosa quando ancora il tempo glielo consentiva. E' riduttivo definire “Saluti dalla Terra” (a cura del Teatro dell'Orsa di Reggio Emilia, visto a Europa Teatri a Parma) un testo ambientalista o ecologista: è uno spettacolo d'amore, per noi stessi, per il pianeta dove viviamo, che ci accoglie, che ci sfama, amore per il prossimo che verrà che troverà macerie e distruzione, un clima impazzito di tornado e caldo atroce, specie animali estinte e fotografie sbiadite di un mondo che è stato e che, come miraggio, non sarà più. Si saluta quando si arriva e lo si fa quando ce ne stiamo andando, nel caso tra l'uomo e la Terra siamo, purtroppo, nella seconda ipotesi. Venticinque quadri come fossero una lunga lettera dispiaciuta, un chiedere perdono per i danni che abbiamo arrecato, per la morte che abbiamo portato, per l'arroganza, la presunzione e l'ignoranza delle quali siamo stati capaci avendo avuto il desiderio di manipolare tutti gli esseri viventi ai nostri voleri, vendendo la nostra salute (stessa radice di “saluti”) per il soldo, l'economia, questa tanto celeberrima e chiacchierata crescita.

Aveva ragione Teatro dell'Orsa, Saluti dalla Terra - foto di Gaetano Nenna (1).jpgToro seduto quando diceva “Quando avranno inquinato l'ultimo fiume, abbattuto l'ultimo albero, preso l'ultimo bisonte, pescato l'ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro”. Il nostro è un momento storico che dovrebbe essere fatto di consapevolezza e di scelte epocali invece stiamo solo attendendo, perché pigri, la fine che inesorabilmente sta arrivando, si sta avvicinando a passi da gigante. Ma, ignavi e fintamente ignari, facciamo finta di niente, andiamo avanti fin quando l'aria sarà irrespirabile, il mare totalmente di plastica, la pioggia chimica, la terra piena di scorie nucleari, solo allora, forse, ci metteremo le mani nei capelli incolpando, ovviamente, le generazioni e i governi precedenti, bestemmiando Dio o pregandolo a seconda dei casi, attaccando la sfortuna, accusando il karma, invocando il destino. Stiamo aspettando un intervento esterno (“Extraterrestre portami via” cantava Eugenio Finardi), ma nessuno verrà a salvarci: “Se hai bisogno di una mano, guarda in fondo al tuo braccio”, diceva Confucio. Dobbiamo prenderci le responsabilità quotidiane delle nostre azioni, del nostro vivere, del nostro stare su questa terra che “non abbiamo ereditato dai nostri padri ma lo abbiamo preso in prestito dai nostri figli”. Siamo molto più bravi a lamentarci e ad indignarci con un post sui social o un pollice contro verso qualche istanza o raccolta firme per poi, nella vita reale, continuare con il nostro stile di vita che, evidentemente, crea disuguaglianze sociali e deforestamento, squilibri, povertà, miseria, guerre. Nessuno vuole rinunciare ai Teatro dell'Orsa, Saluti dalla Terra (2).jpgsuoi diritti acquisiti, al suo piccolo lusso ferocemente conquistato, nessuno vuole fare un passo indietro e siamo disposti a crepare tutti insieme invece di cercare di cedere qualcosa all'altro: “Less is more”.

Ancora non abbiamo capito che siamo tutti, tutti i popoli, tutte le nazioni, una cosa sola e, come diceva Jim Morrison “da qui nessuno uscirà vivo”. L'egoismo è la miglior qualità e pregio dell'uomo. Non ci sarà la classica “fine del mondo” ma il globo sta già lentamente morendo e perdendo i suoi pezzi, la sua biodiversità, le foreste che scompaiono, gli animali che si estinguono, i cambiamenti climatici estremi ma non siamo disposti ad intervenire sulle nostre piccole esistenze, aspettiamo leggi e decreti per poi lamentarci che lo Stato è “fascista” e limita le nostre libertà di inquinamento. Quando ci sarà la fine del mondo preferiremo guardarla su uno schermo, in streaming, in diretta con la cena portata da un deliveroo perché non ci vorremo certo perdere lo show. Perché ormai tutto è diventato uno spettacolo da mostrare e se non c'è un “video virale” allora non esiste e se ci preoccupiamo sarà soltanto in mezzo ad un like per un gattino, un apprezzamento per il panda, un cane abbandonato, un bambino con la faccia buffa, qualche guerra sparsa qua e là. Tutto sullo stesso piano.

Il Teatro Teatro dell'Orsa, Saluti dalla Terra (7).jpgdell'Orsa (in scena i compatti e affiatati Monica Morini, Bernardino Bonzani, Lucia Donadio, Elia Bonzani) fa un teatro civile comprensibile e aperto a tutte le generazioni (questa la loro forza: essere intimi e vicini), il loro modo di stare in scena è un abbraccio, è un prenderti per mano senza darti soluzioni o indicarti con il dito come peccatore. Non giudicano ma ci dicono “Siamo insieme, siamo sulla stessa barca”. Ecco infatti la metafora, che ci accoglie e ci saluta alla fine (amaramente), dell'Arca di Noè, perché l'idea più semplice che l'uomo vorrebbe applicare sarebbe quella di, dopo aver lordato tutto un pianeta, abbandonarlo a se stesso, invece che tentare di ripulirlo proprio perché lo deve abitare. Il musicista (Gaetano Nenna, musiche originali composte insieme ad Antonella Talamonti) ha il casco da apicoltore e sulla scena si alternano ruoli tristemente ironici (si ride molto ma subito dopo averlo fatto ci sentiamo in colpa di aver sorriso delle nostre quotidiane stupidità). Il refrain di fondo è che dobbiamo salvarci da noi stessi, dalla nostra ingordigia, dalla nostra fame di conquista, dalla nostra volontà di sottomettere le altre specie, gli altri esseri umani. Il dolore causato ad altri esseri viventi non porta mai gioia e ormai dovremmo averlo capito che la politica e l'economia globale sono fortemente connesse con l'ambiente. Il miglior dissenso però che le nostre menti illuminate e progressiste possono mettere in atto è allargare le braccia sconsolate e dire “E' molto difficile cambiare sistema di vita”, oppure perdersi dentro “Ormai” consunti e “purtroppo” sbiaditi.

Impossibile non parlare di Greta e della biosfera, e arrivano i due affaristi “brechtiani” imprenditori con la maschera con il nasone aquilino (che ricorda Zanni della Commedia dell'Arte) quelli che godono e soprattutto guadagnano con le catastrofi, e tanti animali in miniatura, e viene citato Chico Mendes, il sindacalista della Foresta Amazzonica ucciso dai latifondisti. Preferiamo parlarne e discuterne più che mettere in atto politiche, sociali, personali, quotidiane, per la salvaguardia del nostro pianeta anche perché, come dice uno slogal semplice ed efficace: “No Planet B”. Siamo come “la gatta sul tetto che scotta”, come quegli animali che, anche mentre la casa sta andando a fuoco, decidono di rimanere, preferendo morirci che scegliere altre soluzioni alternative, certamente più faticose e destabilizzanti, da attuare. Stiamo scegliendo di lasciarci morire perché non siamo minimamente disposti a rinunciare alle nostre comodità acquisite. Stiamo scegliendo di non scegliere e alla fine ci sarà presentato il conto della nostra stupidità.

Quelli dell'Orsa hanno carisma e padronanza della scena e dei linguaggi teatrali (dopotutto gli adulti sono soltanto bambini cresciuti) per far passare alti concetti e renderli malleabili, fruibili, Teatro-dellOrsa-Saluti-dalla-Terra-foto-di-Gaetano-Nenna-1280x720.jpgedibili, digeribili da una parte con dati scientifici a supporto, dall'altra con scene che folgorano come fulmini, affreschi che impattano, ci scuotono dal nostro torpore, ci smuovono, ci danno la scossa, ci schiaffeggiano, ci risvegliano. E quando ci raccontano che le montagne più alte, quelle dalle nevi che erano considerate perenni, si stanno sciogliendo, e le foreste bruciano e l'Artico sparisce e gli iceberg collassano e il livello del mare sta salendo allora non può far altro che prenderci la paura. Ma la consapevolezza non basta più. Un mappamondo illuminato ci fa vedere la bellezza della nostra Terra ma anche che l'abbiamo sempre trattata come un giocattolo. Il pianeta Terra senza l'uomo vivrebbe meglio, se noi sparissimo rifiorirebbe. Però preferiamo fare gli struzzi e dire “Andrà tutto bene, il problema non esiste” proseguendo per una strada che si fa sempre più piccola e spinosa e tortuosa e in salita, continuando a spingere sull'acceleratore sperando in un miracolo che, sappiamo già, non accadrà. La frase iconica che ci lascia storditi di “Saluti dalla Terra” è: “Se fai l'ambientalista senza fare la lotta al capitalismo fai solo giardinaggio”.

È la fine del mondo sopra la rovina sono una regina. Questa terra sparirà nel silenzio della crisi generale ti saluto con amore. Con le mani, con i piedi, e con la testa, con il petto, con il cuore, e con le gambe, con il culo, coi miei occhi. Questa è l'ora della fine, romperemo tutte le vetrine, tocca a noi, non lo senti, come un'onda arriverà, me lo sento esploderà, esploderà. La fine del mondo è una giostra perfetta, mi scoppia nel cuore la voglia di festa. La fine del mondo, che dolce disdetta mi vien da star male, mi scoppia la testa” (La Rappresentante di Lista, “Ciao, Ciao”).

Tommaso Chimenti 28/03/2022

Foto: Gaetano Nenna, Alessandro Scillitani

CERVIA – E' buio e fosco in questa sorta di scantinato che pian piano perde la sua connotazione reale finendo per diventare metafora del groviglio esistenziale e nero che alberga ed è cresciuto come tumore dentro le menti, i ricordi, i traumi, gli incubi dei tre personaggi sulla scena. Un classico triangolo dove ai due lati più lineari e banali, gli uomini, tradizionalisti e maschilisti manovali che si punzecchiano e sfottono e attaccano infantilmente, poco soddisfatti delle loro vite sempre uguali, si aggiunge improvvisamente il terzo, la donna (Margareth), che cambia i connotati, che toglie la polvere, che fa saltare tutti i piani, che rimescola il destino, elettrizza l'ambiente. L'elemento di rottura femminile fa da ago della bilancia in questo noir dove, fin dall'inizio, si sente che qualcosa si sta per incrinare, che la crepa sta per cedere, che le fondamenta di quel castello di carte faticosamente costruito, o meglio che ognuno a suo modo aveva tentato di rimuovere e nascondere tn_il-bacio-della-vedova-2_1000x0_1b8227d57b5388c88ea829ef451f701e.jpgper vergogna negli anfratti della psiche, sta per crollare miseramente come un colosso dai piedi di argilla. In una cittadina di provincia (nel testo di Israel Horovitz, l'America più rurale e ignorante e analfabeta e senza prospettive) due giovani uomini, si presuppone tentenni o giù di lì, si raccontano in modo goffo e sguaiato conquiste amorose colorite da dettagli e particolari camerateschi giocando adolescenzialmente con tabù sessuali, timidezze confuse con spacconerie, arroganze e impacci, prepotenze e imbarazzi.

Sono Archie e George, due superstiti, due che sono restati, due che non ce l'hanno fatta, che sono rimasti impigliati e invischiati e impantanati nelle morse calde di pseudo comfort zone del paesello che li ha risucchiati in un vortice dalle giornate tutte uguali. C'è una provincia che se non la lasci a poco a poco ti inghiotte come sabbie mobili, senza che tu te ne accorga, c'è una provincia che serve per farti nascere e dalla quale devi avere la forza per andartene, per salvarti, per essere felice, non senza fatica, in un altrove distante da lì. Ma come si dice “puoi togliere il ragazzo dal ghetto ma mai il ghetto dal ragazzo”, e le dinamiche con le quali sei cresciuto, le regole imparate per strada, quell'imprinting feroce e brutale di alcune 617c197af0cdf942870115.jpgperiferie, ecco quelle non te le puoi sradicare e scardinare di dosso, sono tatuaggi dolorosi non rimovibili. “Il bacio della vedova” (visto al Teatro Walter Chiari di Cervia, messo in scena con pulizia e ardore dalla regista Teresa Ludovico, produzione Teatro Kismet di Bari) ha in sé componenti psicologiche e investigative, esistenziali e sociologiche, antropologiche.

Si percepisce che quel cupo esterno rifletta le ombre spesse e solide che i tre nascondono dentro, nel loro animo più profondo. E' una resa dei conti da Far West, si sente il clima da ultima spiaggia, un incontro che sarà finale e fatale, una vicenda che cambierà i destini dei tre in campo, un momento topico che i tre sapevano che prima o poi sarebbe arrivato per tentare di riequilibrare il passato, per cercare di mettere una pezza ad errori grossolani e giganteschi come macigni che li hanno travolti, distrutti, azzerati. E c'è una metafora strisciante che li “abbassa” a bestie da zoo: Archie era soprannominato La Capra, George era invece Il Rospo, mentre Margy era La Coniglietta. In questa “fattoria degli Animali” orwelliana è una guerriglia di accuse, è una sfida continua di allusioni e pudori, confronti e violenze, un Guernica di attacchi e fuoco incrociato il tutto ammantato da un'inquietudine incancrenita dal tempo che, in questi casi, mai è galantuomo, anzi ingigantisce e cerca solo vendette. Sono schermaglie ammiccanti e gelosie diffuse: si scontrano due mondi, lei se n'è andata, ha studiato, si è sposata, ha fatto due figli, mentre gli altri due sono rimasti ragazzotti non cresciuti “che pensano male, parlano male e quindi vivono male”, per dirla con le parole di Nanni Moretti in “Palombella Rossa”.

Avevano sempre rifuggito questo Processo, questo faccia a faccia perché intimamente sapevano che sarebbe stato doloroso quanto necessario, che dopo non stn_il-bacio-della-vedova-3_1000x0_c7364403fca9969af894767c236f2007.jpgarebbe più stata la stessa cosa, che indelebilmente niente sarebbe stato come prima, che il mondo sarebbe cambiato ai loro occhi e che il mondo là fuori, quello che hanno fatto scorrere senza pensare più a quell'evento così catastrofico ma che allo stesso tempo li ha consumati e mangiati dall'interno, li avrebbe finalmente visti e condannati o forse perdonati come vittime e carnefici, come boia e agnelli sacrificali, come bestie da macellare. Un tavolo solo a dividerli come ad avvicinarli, un tavolo a separare le dinamiche da Risiko dove la giovane donna si sposta come pendolo facendo pendere la forza e la condanna verso il terzo di turno inchiodandolo in un gioco al massacro brutale e calibrato, perché molto più intelligente dei due più robusti balordi grezzi e dai ragionamenti meno fini, per far emergere finalmente i fatti, le confessioni, i pentimenti, le lacrime.

Dilettatn_il-bacio-della-vedova-6_1000x0_4670d711200ee76ff67d60c40d4db2c2.jpg Acquaviva (potrebbe fare tranquillamente la controfigura a Luisa Ranieri) tiene le redini del play con disinvoltura e caparbietà (è cresciuta molto con i lavori di Michele Sinisi), una capacità innata di fermezza e piglio, una presenza fisica che si fa notare e dirige in scena gli altri due attori che, come satelliti, sono illuminati dai suoi movimenti, dalle sue didascalie invisibili, dalle direzioni impercettibili di sguardi e accenti. Mario Cangiano e Michele Schiano Di Cola hanno phisique du role per interpretare la violenza strisciante barbara machista, si inseguono braccati dai propri errori del passato senza potervi mettere un freno né cancellarli e, non sapendo come affrontarli, diventano rabbiosi e arroganti e iracondi facendo emergere la vera natura dei loro personaggi duri, bassi e peterpaneschi. “Il bacio della vedova” ci chiede da che parte stiamo, ci induce a interrogarci quale sia il nostro concetto di giustizia, ci chiede responsabilmente di soppesare le attenuanti, di controllare i dettagli e misurare gli eventi, ci chiede di schierarci, di difendere gli offesi, di colpire gli aggressori, anche se alla fine non ci sarà nessun vincitore ma saranno tutti sconfitti dal Male che hanno fatto o che hanno subito: vite distrutte dalla provincia che anche se lasci ti segue come un'ombra per martellarti e non lasciarti in pace.

Tommaso Chimenti 26/03/2022

BOLOGNA – In Italia scorrono circa 1200 fiumi che principalmente nascono dagli Appennini o dalle Alpi. Il più lungo è il Po che attraversa la Pianura Padana per oltre 650 km. Proviamo adesso a calcolare le migliaia di chilometri di argini che ci sono, che ci sarebbero dovuti essere, che mancano perché la manutenzione nel Bel Paese è roba da emergenza, da stato di calamità, fatta di malaffare e corruzione e cattiva politica. E allora ecco il Polesine nel '51 con 100 morti e 200mila sfollati, gli straripamenti del '54 a Salerno con oltre 300 morti, il Vajont nel '63 con 2000 morti, l'alluvione di Firenze nel '66, nel '68 a Biella e Asti con 78 morti, Una-Riga-nera-ph-Mario-Zanaria.jpgnel '94 ancora in Piemonte con 68 deceduti, il fiume di fango nel '98 a Sarno con 160 morti. Negli ultimi anni ricordiamo Livorno e Genova ed anche la tempesta Vaia (raccontata mirabilmente in teatro da Andrea Pennacchi), ma di eventi distruttivi naturali, che potevano essere controllati dall'uomo, avvengono ogni anno sul nostro territorio ed è facile dopo, a cose avvenute, scandalizzarsi, mettersi le mani nel capelli, piangere, indignarsi, fare una raccolta fondi per la ricostruzione.

Una riga nera al piano di sopra” (il titolo evocativo e bellissimo che sembra uscito da una poesia di Mariangela Gualtieri) rende bene, in un attimo, la fotografia della disperazione umana davanti alla furia dell'acqua, una riga nera che sembra rimmel sbafato sugli occhi piangenti di una donna di campagna, una riga tracciata tra ciò che era prima e quello che non sarà mai più, tra quel che c'era e quello che sarà trasformato perdendone la memoria e la tradizione, una riga come limite purtroppo valicato, una riga come confine deturpato e frontiera sfondata, una riga come spartiacque tra il fiume che era e il fango e detriti carichi di morte e povertà che adesso tracima e corre e travolge e sporca e lorda ogni cosa vivente e inanimata. Matilde Vigna (ha un volto “antico”; già due Premi Ubu nel suo palmares) è originaria del basso Veneto, terra di polenta e pane biscottato, una campagna dura rispetto ai merletti di Verona, i lussi di Padova, agli sfarzi di Venezia, ai palazzi di Vicenza. Un altro Veneto, più vero, più terreno, più tattile, fatto di mani e calli e lavoro. La Vigna (farà grande il teatro italiano nei prossimi 50 anni; ha un che della Vanoni; davanti a sé un futuro radioso da nuova “Maria Paiato”) è al suo primo testo che ha portato al Teatro delle Moline bolognesi nel bel progetto di produzione Ert sempre attenta alla nuova drammaturgia.

Un testo una-riga-nera-8-ph-Mario-Zanaria.jpgsolido, compatto, denso con l'attrice che ci aspetta in sala e una panca grigia che divide l'orizzonte dello sfondo nero alle sue spalle (fondamentale il disegno luci di Alice Colla). Ha in mano una pianta, un bonsai, quella natura che si ribella, quella natura che ha bisogno di noi, quella natura da cui inevitabilmente dipendiamo che però vogliamo distruggere e non rispettare per amore dell'asfalto e del cemento, di un illusorio progresso. La faccia è nascosta, celata, nella penombra, nell'oscurità. Ci apre alla memoria della sua terra con passione, tenerezza, senza fronzoli. Polesine 1951. Una performance carica di pathos e forza espressiva (teatro civile quasi paoliniano) nelle parti ombrose e in chiaroscuro dove è l'alluvione e lo stravolgimento delle terre soverchiate come delle vite trascinate nella melma a tornare in superficie, un racconto pieno, commovente, toccante, incisivo, corrosivo che ci arriva fino in fondo alle ossa e farci sentire il gelo dell'acqua fredda, quella miseria che la puoi toccare con mano. Parallelamente il percorso drammaturgico devia in un nuovo binariouna-riga-nera-al-piano-di-sopra-ph-mario-zanaria-4_1000x0_1ee8dbe6c85c42d219d01dab2263cb86.jpg che fa da contraltare a quello del ricordo, una parte più autobiografica, che intervalla quella drammatica, in piena luce anche sul pubblico, nella quale l'attrice si lancia in un filone generazionale di case, affitti, amori andati a male, ritorni a casa, valige da fare e smontare, rifare e lasciare.

Certo la metafora della valigia è centrale e subito la mente va agli sfollati di tutto il mondo, ai migranti di ogni epoca, oggi inesorabilmente al popolo ucraino. Ma lo scarto, in un equilibrio fragile e precario (certamente voluto), tra le due componenti è abissale: da una parte la scena spettrale di fumo e nebbia della furia del fiume in piena (il progetto sonoro di Alessio Foglia ben coadiuva le parole che diventano armoniose quasi poesia futurista onomatopeica, parole che si inseguono e corrono come una valanga, una cadenza, una scansione tambureggiante da ruscello di montagna, una musicalità che sembra una percussione industriale) dall'altra la “leggerezza” dell'oggi tra sogni infranti (Bridget Jones?) e le incertezze dei trentenni sul futuro (già visto, già sentito) che spezza l'armonia, blocca il trasporto, ferma l'emozione e il sentimento. La Vigna è un grande patrimonio del nostro teatro, “Una riga nera” è un bel punto di partenza come drammaturga.

Tommaso Chimenti 24/03/2022

Foto: Mario Zanaria

ROMA – Dei corpi bianchi sembrano grattare il cielo nero. Saltano come rospi, volano come libellule, zigzagano nell'aria come mosche. E' un lavoro di luce e di buio questo “Inferno” della compagnia No Gravity, di candido che si staglia nella pece, che riesce ad esaltarsi grazie a questo fosco ammantato luttuoso fondale. E' un incontro e un incrocio, una battaglia siderale nell'infinito, un ying e yang che si rincorrono e spariscono l'uno nell'altro. E bisogna perdersi dentro le pieghe di questo candore che sfarfalla sfidando le leggi della fisica, ora demoni, adesso fiammelle d'anime in pena, in fuga, attaccate a questa carta moschicida che li inchioda al soffitto, ad una sorta di volta celeste che comunque li inghiotte e ingloba, li tiene bloccati in una ideale bolla, come la neve dentro le palle di vetro da miscelare, come paguri dentro conchiglie. Fluttuano e nuotano nell'aria, si muovono tra suoni gutturali e archetipici, tra sinuosità di onde, flessuosi si librano come pulviscolo salgono e scendono impalpabili, senza peso.58c1de8627b2b2b2963d5025d8d72e6e_XL.jpg

Quella dei sei protagonisti in scena dei No Gravity, diretti dal regista Emiliano Pellisari, è una armoniosa e perfetta danza acrobatica (prima danzatrice Mariana P) che li avvicina a fenomeni mondiali come i Momix o il Cirque du Soleil. Ma c'è di più: non soltanto di forma vive la retina dell'occhio umano. Qui, nelle loro creazioni, c'è un particolare molto forte, fondamentale che tutto cambia e ribalta la visione, un semplice particolare che esalta e fa esplodere di senso le coreografie, i movimenti, i gesti dei sei, moltiplicandoli, anzi duplicandoli. Un escamotage elementare che diventa cardine esponenziale: un gigantesco specchio inclinato che guarda il palco e con il quale ha una continua relazione, un dialogo costante. I danzatori fanno le loro evoluzioni a terra che rimbalzano in questo specchio portandoci dentro un altro universo dove questi corpi mirabili saltano fluidi, zompano leggeri come il primo uomo sulla Luna. Sono angeli perdenti dai corpi caravaggeschi che hanno sconfitto le regole arton21377.jpgdi noi comuni mortali in questi quadri che, grazie ai cambi musicali che denotano e scandiscono i vari affreschi e le diverse scene che si susseguono, ci portano dentro un Inferno dantesco sensoriale, immaginifico, suggestivo, post-industriale, bellissimo e feroce al tempo stesso. Sono piccoli satanassi che con la loro luccicanza-shining di fuoco amplificano i respiri d'amplessi, sospesi come astronauti dentro navicelle, si sbattono come maree in cerca di un approdo, camminano nel vuoto alla ricerca non solo di un'estetica ma anche di una via di fuga da questo mondo-Sistema che li ingabbia, li chiude, li cinge, li imprigiona.

Tornando alla doppia visione divina-commedia-no-gravità.pngdi ciò che succede sul palcoscenico, l'occhio dello spettatore si può dividere, asimmetrico, su quello che agisce a terra oppure sulle forme ed evoluzioni create (ingannando la percezione di altezze e, appunto, di gravità) in questo spazio che vive dentro il sogno dello specchio in un parallelismo fatto di riverberi e riflessi che rimandano un doppio della realtà e al tempo stesso ne ribaltano il senso proprio perché scombussola le nostre certezze di uomini finiti. E poi c'è incanto e sorpresa, muscolarità ed eleganza, forza in una sinfonia contagiosa empatica: adesso sembrano lottatori e discoboli greci, ora le figure disegnate sui vasi etruschi, adesso sono scimmieschi o pinocchieschi o ancora spingendo a terra i gomiti come marines, ora sembrano aztechi durante un sacrificio sanguinario, adesso sono affreschi egizi di profilo ora trapezisti circensi che hanno vinto l'idrogeno così come hanno surclassato la caduta gracchiante, eclissandola, sublimandola.

Il loro Inferno-di-Emiliano-Pellisari-5.jpgstato naturale non è più materico ma è divenuto gassoso, evanescente, etereo destreggiandosi in un rito sciamanico propiziatorio sensuale e prodigioso e inquietante dove c'è dolore e sofferenza e impossibilità per queste anime, pesci che boccheggiano dentro la loro boccia, che brulicano il vuoto in questo aggrapparsi perenne per non scivolare nell'oblio, arrampicandosi, toccandosi, aggrovigliandosi, roteando, ruzzolando impantanati in questa dimensione di Terra di Mezzo, rannicchiandosi in agglomerati di carne tremula concentrata in cerca di un calore gracile e flebile. Bisogna lasciarsi andare, farselo scorrere addosso, lasciarsi trasportare e abbandonare, respirare e digerire, quest'“Inferno” che scalda, che “è un palazzo che brucia in città, che è una lama sottile, una scena al rallentatore, una bomba all'hotel, una finta sul ring, che è una fiamma che esplode nel cielo, che è un gelato al veleno”.

Tommaso Chimenti 19/03/2022

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