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LISBONA - Già nel 2018 Tommaso Chimenti fu insignito del prestigioso “Gran Premio” riconoscimento più alto all’interno del “Premio Internacional de Jornalismo Carlos Porto” al Festival de Almada (promosso dalla Camara Municipal de Almada), quest’anno la giuria gli ha conferito il “Premio Imprensa Especializada” (la stampa di settore, critica teatrale) per l’articolo scritto in occasione del festival dello scorso anno “Neanche il covid ferma il Festival di Almada che coraggioso rilancia” pubblicato il 5 agosto 2020 sulla nostra testata Recensito.net, nel quale aveva riportato le sue impressioni sugli spettacoli “O criado” (di Andrè Murracas), “Rebota, Rebota” (di Agnes Mateus), “Martir” (regia proprio di Rodrigo Francisco), “Turismo” (di Tiago Correia). Questa la motivazione del premio: “Una visione romantica del paese e della città facendo un parallelismo con il Festival de Almada”. Il Festival (quest’anno dal 2 al 25 luglio) è giunto alla 38esima edizione mentre la Companhia de Teatro de Almada, diretta dal regista Rodrigo Francisco, festeggia i 50 anni.

 

Queste le parole di ringraziamento di Chimenti durante la premiazione: “Innanzitutto vorrei ringraziare la Camara Municipal de Almada per l’attenzione che sempre mette nell’analizzare i testi critici riguardanti il Festival de Almada. In seconda battuta un ringraziamento doveroso al direttore Rodrigo Francisco che fin dal primo momento, complice anche la sua perfetta conoscenza dell’italiano, 220088568_10215503613621864_3323367542666283237_n.jpgsi è dimostrato un vero amico. Nel 2018 ho vinto il Gran Premio Carlos Porto in maniera del tutto inaspettata, per me quello era il primo riconoscimento nell’ambito della critica teatrale e dopo ne sono arrivati molti altri; quindi posso dire che il Festival de Almada mi ha portato fortuna. Non credevo assolutamente di poter vincere un altro premio così importante qui a Lisbona e per questo la soddisfazione è doppia. Il Festival de Almada ci permette di avere uno sguardo il più ampio possibile su quello che avviene sulla scena internazionale a livello mondiale. Ogni anno scopriamo nuovi autori e compagnie e approfondiamo il nostro bagaglio culturale e professionale. Sono molto orgoglioso di far parte di questo nucleo di giornalisti internazionali che son riusciti a vincere più volte il Premio Carlos Porto e posso dire che Almada e, di riflesso Lisbona, sono diventati miei luoghi dell’anima. Qui mi sento a casa. Ci vediamo il prossimo anno e per gli anni a venire sperando di essere letto e apprezzato da voi come è successo in queste quattro edizioni (‘17, ‘18, ’20, ’21) alle quali ho partecipato”.

Gli altri riconoscimenti sono andati: a Manuel Xestoso di “Nos Diario” il “Gran Premio” e a Goncalo Frota di “Publico” il Premio Imprensa Generalista”. Il premio, istituito nel 2008, è intitolato alla memoria di Carlos Porto, critico teatrale, poeta e drammaturgo portoghese. In questi anni hanno vinto giornalisti e critici di importanti testate portoghesi, spagnole, sudamericane, anglosassoni e statunitensi: Primer Acto, Publico, Revista Obscena, Latin American Theatre Review, Il Manifesto, Diario de Noticias, Jornal de Letras, Jornal espanhol Gara, Revista ADE, ABC, Teatro Critico Universal, Jornal Raio de Luz, Expresso, L'Humanité, L'Apuntador, Sipario, Jornal I, The Guardian, El Mundo, Nos Diario, Artezblai.

Qui il bando integrale del Premio: https://aviagemdosargonautas.net/2018/06/15/festival-de-almada-35-a-edicao-apresentacao-a-comunicacao-social-premio-internacional-de-jornalismo-carlos-porto/

E qui il link del Sindacato dei Giornalisti Portoghesi: https://jornalistas.eu/premio-carlos-porto-decidido-em-junho/

Questo invece l’articolo con il quale Chimenti ha vinto il “Premio Carlos Porto per la Stampa Specializzata”:

218448030_10215507247792716_2539142000057922278_n.jpgAlmada è sempre un soffio, un respiro, quasi un'isola lontana e vicina a Lisbona, ai suoi azulejos, alle sue strutture che cambiano, alla sua storia. Almada la vedi, è lì a portata di mano, la fotografi in lontananza che sembra irraggiungibile e quel ponte, sempre rosso fiammeggiante, pare un elemento scenografico e cinematografico messo lì per aumentare la magia del posto, delle acque che si incontrano, veloci del Tago e feroci dell'oceano a cozzare proprio davanti ai tanti murales, carichi di espressività e socialità, nati sulle vecchie e scalcinate mura di ex magazzini e vecchie fabbriche, cantieri navali in disuso. Almada pare un'isola, riconoscibile con quel Cristo che a braccia larghe ci abbraccia e non ci lascia mai soli. Gli aerei solcano di continuo il cielo anche in questo periodo post-Covid. La fase finale della Champions League si giocherà qui, a casa di Cristiano Ronaldo marchiato a strisce senza colori. La tramvia taglia Almada e la rende raggiungibile, veloce. Da Almada, con il bel tempo, si possono vedere entrambi i ponti, il XXV Aprile rosso come il Vasco de Gama bianco, oppure a sinistra Belem e a destra in alto il Castello. Negli ultimi decenni si è trasformata; sembra piccola ma è grande, moderna con le sue piazze dove giocano piccole fontane a zampillare verso il cielo, dove gli skate sfrecciano. Ecco, se vogliamo trovare un paragone, Almada sta a Lisbona come la Giudecca sta a Venezia. Città di mare, luoghi dove si respira il salmastro. 218378862_10215507065148150_4259575585637703637_n.jpgDa trentasette anni il Festival di Almada (quest'anno ancora più coraggioso di sempre il suo direttore artistico Rodrigo Francisco) è un faro nel campo teatrale europeo: in questa edizione addirittura si è passati dalle due settimane standard di programmazione (solitamente era dal 4 al 18 luglio) alle oltre tre (dal 3 al 26) rilanciando proprio quando molti hanno desistito. Anche i molti e sparsi teatri dove sono andati in scena gli spettacoli ci hanno mostrato, ancora una volta, il bisogno, la fame e la necessità di teatro di un popolo che ha vissuto il festival e riempito le sale, appuntamento atteso ed aspettato tutto l'anno: il centrale Municipal Joachim Benite che sembra una piscina capovolta con i suoi infiniti piccoli quadratini celesti a rischiarare e illuminare di luce tenue l'intorno, l'Academia Almadense moderno e funzionale, l'Incrivel Almadense cubo nero, il Forum Romeu Correia di grande impatto nel parco dove spicca la scultura delle tre braccia, con mani aperte a toccare le nuvole, l'Estudio Antonio Assuncao bianco e piccolo che pare una facciata di un palazzo messicano. Il bacalao non manca mai, nei pranzi e nelle cene condivise, momento conviviale dove potersi incontrare tra compagnie e operatori provenienti da tutto il mondo, mentre la scelta complicata è se prendere una Sagres o una Super Bock, le birre che vanno per la maggiore in Portogallo. Almada ogni anno ci sembra più attiva e contemporanea, Lisbona più fresca e giovane, il Portogallo più frizzante e aperto. Andrebbe fatto un monumento nazionale ai pasteis de nata, il pasticcino a base di pasta sfoglia e crema.

Sospesa tra cinema e teatro ci è apparsa la piece “O criado” (quest'anno soltanto tre sono stati gli spettacoli stranieri, tutto il resto erano di provenienza portoghese) di Andrè Murracas, non a caso anche regista cinematografico. Partendo da “The servant” adattato da Harold Pinter, il regista, che è anche attore e movimentatore di oggetti per le videoproiezioni ma anche lettore e mixerista al suo tavolino da lavoro centrale, è il deus ex machina che si muove, sposta, fa, articola tra i suoi mille spazi. Il tutto in bianco e nero e il tutto in continuo parallelo e confronto, in controluce, in prospettiva, in sovrapporsi, in dissolvenza, tra la realtà, la pellicola in questione e la riproposizione nel presente della stessa scena in video, quasi un doppio, allo specchio. Ma non solo; il film e le azioni del regista-performer in teatro dal vivo sono intervallate da interviste con vari attori che rispondono, leggono parti del copione o lo provano nel privato delle loro abitazioni. Murracas è molto hitchcookiano. Come se il teatro entrasse in contatto e in dialogo (diavolo?) diretto con il cinema. Ma se l'idea può essere arguta, la sua realizzazione, soprattutto con l'avanzamento, risulta didascalica con lo scorrimento delle immagini e la spiegazione delle stesse come fosse un cineforum o una conferenza o una lectio lasciandoci distanti, un po' in sordina, laterali rispetto all'opera molto nebulosa e criptica, ben orchestrata ma poco viva. E' questa la deriva del teatro o l'evoluzione del teatro? Speriamo sia soltanto la prima opzione. Il regista diventa anche dj, si improvvisa prestigiatore ma ha poca presa ed empatia ottenendo un effetto freddino che sa di un tentativo, un esperimento non andato a buon fine, naufragato senza dolcezza, rimasto a metà strada, con il colpo in canna. E se il cinema fosse soltanto il teatro in remoto?

220743099_10215512276798438_2647864091224905848_n.jpgSe “O criado” in una scala sentimentale era razionale e controllato, possiamo assolutamente affermare il contrario per quel che riguarda “Rebota, Rebota” della spagnola Agnes Mateus, un vero vulcano cosparso di argento vivo e mercurio incandescente. Sul palco è una furia, un ciclone, uno tsunami che tutto spariglia e travolge, una forza possente e titanica, una vera rocker, un fuoco, un turbine. Ha una marcia in più la Mateus nella sua invettiva che parte in tono canzonatorio e brillante e si fa pian piano sempre più atto d'accusa sul tema della violenza sulle donne divenendo, alla fine, vero e proprio stato d'allarme, processo accusatorio, presa di coscienza sul femminicidio, consapevolezza e moto di ribellione ed orgoglio. Sul boccascena, come una punk dai pantaloni dorati scatenata sulla musica techno con la faccia dipinta come Joker, la performer sperimenta la sua parodia machista-latina con tutti gli stereotipi del caso, partendo dalle offese alle donne. Il suo è un canto, un grido, un urlo, s'accapiglia, s'infervora, s'agita, si scalda. Il suo è un alfabeto delle ingiurie e degli insulti che normalmente le donne, ad ogni latitudine e in ogni contesto sociale, devono subire. Il suo è un j'accuse doloroso, a tratti rancoroso, spesso retorico, pieno di furore positivo e d'impeto rovente. Diventa cascata e torrente in piena, è un diesel che si fa turbo. Dopo gli oltraggi è tempo di scartavetrare e ribaltare il vero senso maschilista delle fiabe per bambini dove la donna aspetta sempre che il maschio la salvi, la sposi, la elevi dal suo rango di subalterna. Frasi al veleno, “nel calcio non ci sono omosessuali” o “se una donna non si sposa vuol dire che è lesbica”, fanno da contraltare con fasi più pop e leggere. E' un Leo Bassi in versione femminile, vulcanica, senza peli sulla lingua, è un Puk che non fa sconti, che non cede, che non molla la presa, che ti mette all'angolo con le spalle al muro, davanti alle responsabilità della società, degli uomini e delle stesse donne che accettano, subiscono, non si ribellano. Funambolica, elettrica, sconquassa, percuote, distrugge, è un carrarmato, un caterpillar, uno schiacciasassi che non si incrina, vera pasionaria, amazzone intensa, energia pura, spinosa, mai doma. L'elenco delle donne uccise per mano maschile tra le quattro mura domestiche in Spagna è un pugno nello stomaco ma è quando, da circense, diventa il bersaglio di un lanciatore di coltelli, metafora della condizione femminile, che il discorso si fa ancora più cupo fino a quando la Mateus non mette la testa, per minuti interminabili, dentro una carriola piena di terra ricordando lo struzzo ma anche pratiche di tortura: “Le donne dimenticano per sopravvivere, le donne perdonano”. Dall'alto cadono centinaia di palline (il rimando agli organi sessuali maschili è evidente e voluto): it's raining men!

Altro tema cruciale della nostra società è senz'altro la religione, i suoi fanatismi, i suoi deliri, le sue allucinazioni, i suoi isterismi, le sue farneticazioni, le sue esagerazioni. La religione vista come uno scudo, come un parafulmine a tutto ciò che accade, una protezione, un tetto sotto il quale rifugiarci nel mezzo del temporale della vita, un riparo conservatore e consolidato, accondiscendente e consuetudinario e consolatorio. Ma quando a diventare fanatico religioso e osservante alla lettera della Sacre Scritture è un adolescente le cose si fanno problematiche perché mette in crisi una serie di dinamiche e comportamenti assodati, crepano l'ordine costituito delle cose, il normale andamento di regole e divieti, mina l'autorità dei professori, quella dei genitori. “Martir”, testo di Marius von Mayenburg, per la regia di Rodrigo Francisco (in Italia l'hanno realizzato i Filodrammatici di Milano un paio di stagioni fa), ci porta dentro la trasformazione della psiche di un ragazzo, nel suo avvicinamento al Vangelo fino a considerare il mondo moderno come sponda naturale per le parole millenarie degli apostoli, applicando le parabole dei santi come leggi inamovibili che tutto regolano. La messinscena è ampia e aperta, bianca, pulita, un quadrato con tante finestre che adesso si fa scuola, ora casa, infine chiesa. Teche linde alle pareti dove poter scrivere (come sono gli adolescenti, teli bianchi, spugne che raccolgono) versetti e frasi, citazioni bibliche e virgolettati che danno un senso alla vita, che la spiegano, la chiariscono, vetrate come lavagne. La religione come appiglio e piede di porco per dare una definizione all'insondabile esistenza degli umani. Il ragazzo (molto convincente il protagonista) che diviene ogni giorno sempre più devoto e pio, bigotto ed osservante, che rifiuta il contatto con le ragazze, che entra in aperto conflitto con la madre e con la professoressa, nodo e fulcro della vicenda. Chi è il Martire? Chi vuol farsi Martire? Chi è vittima e chi invece si fa passare per vittima? In questo gioco al massacro ci si scambia la pena di una croce da portare per divenire quei “Martiri” che la società può tollerare, sopportare, santificare, con i quali solidarizzare e non, per senso di colpa, emarginare.

Interessantissima la riflessione del giovane regista e drammaturgo Tiago Correia che incentra la sua riflessione sul “Turismo”, quella massa di persone che si spostano, mangiano, 222105912_10215507751045297_3680106568792383037_n.jpgfanno foto, si muovono, prendono mezzi, hanno bisogno di servizi, incrementano l'indotto di un Paese inevitabilmente trasformandolo a suo gusto e misura snaturandolo intimamente. Il Portogallo, negli ultimi anni, ha sponsorizzato dinamiche per far sì che i pensionati europei, prendendo lì la residenza non paghino le tasse per i primi dieci anni. Un bel colpo, un Paese sicuro, tranquillo, con una buona qualità della vita, un clima mite anche d'inverno e nuove strutture per i suoi nuovi cittadini. E' ovvio che il turismo, e di rimbalzo l'economia, per soddisfare chi viene a spendere nel nostro Paese, lo voglia a sua immagine e somiglianza, a cominciare dal cibo, ai costumi, tutto si frantuma, si globalizza, diventa meticciato, le tradizioni si perdono, tutto si annacqua tra souvenir (prodotti comunque in Cina) e mete sempre meno esotiche ma anzi frequentatissime. Non esiste più un luogo che non ha visto turismo e turisti che sì comprano, dormono e cenano ma che trasformano le città in gadget, ninnoli, soprammobili, cartoline. Le città così violentate perdono la loro anima, i residenti che lasciano il centro affittando a prezzi astronomici. Quello che è successo con Venezia, città fino alle sei di pomeriggio invivibile e dopo deserta. Quello che è successo a Forte dei Marmi in Versilia con i russi che sono arrivati in massa a comprare le ville. Si crea una bolla finanziaria e immobiliare per le quali per i residenti che lì ci vivono tutto l'anno, i prezzi diventano insostenibili, i servizi ai quali poter accedere irraggiungibili in quella che era ed è ancora casa loro ma, in pochi decenni, esclusi, emarginati dal mercato. Se ci mettiamo anche che per attirare capitali stranieri (negli ultimi anni cinesi, russi, arabi) devi abbassare il costo del lavoro, va da sé che in molti Paesi del mondo, compreso il Portogallo e l'Italia che vivono di turismo, tra qualche anno, dopo l'ennesima fuga dei cervelli, in patria non rimanga che lavorare nella ristorazione o nella ricettività alberghiera. Un magro panorama.

La messinscena è europea, di grande respiro internazionale con un uso delle luci evocativo e serafico e sensuale, le immagini riprese in presa diretta e riproiettate sulla scena, il rumore costante di aerei che atterrano e partono per il mordi e fuggi low cost. Se tutti possono andare dappertutto allora il prezzo si abbassa compresa la qualità in nome di una quantità che diviene dozzinale, grossolana. Le Nazioni si trasformano in divertimentifici, in succursali estive per stranieri con il portafoglio gonfio. Basti pensare alla Grecia alla quale è rimasto il mare e le isole. I Paesi diventano quello che i turisti sperano di trovare, le persone del luogo vengono sostituite, bisogna imparare le lingue altrui per potergli vendere l'ennesimo ricordo a pochi euro. E' un gioco che in pochi anni può distruggere ecosistemi di usi e costumi centenari inseguendo il Dio denaro e cercando di soddisfare le richieste, la domanda che gestisce e trasla l'offerta. Dimmi cosa vuoi e sarò in grado di dartela in un cortocircuito di competizione internazionale per attrarre più rotte possibili, intercettare più flussi. Vengono scoperte nuove mete, si costruiscono aeroporti, sorgono città che non c'erano, servizi, possibilità, il lavoro c'è per tutti, sottopagato ma c'è, fin quando non viene aperta un nuovo mercato che attragga maggiormente. Perché nel mondo del turismo, dove tutti sono andati dappertutto, è la novità quello che cerchiamo sempre, il nuovo, il mai visto. Appena il turismo di massa si sposta da un luogo ad un altro vengono mese sul lastrico generazioni e popoli, famiglie intere. Il turismo è una droga, è un doping che pompa quelli che all'inizio sembrano soldi facili ma che gonfiano i conti, le spese, l'inflazione. Il turismo è come la prostituzione, vittima delle ondate e delle voglie. Gradualmente gli Stati perdono i loro connotati, la propria identità sbiadisce, diventa movida e alcool, ristorantini, code, musei. I piatti tipici si avvicinano al gusto del forestiero per poterglieli vendere più facilmente, storie millenarie di popoli si inchinano a tripadvisor, si genuflettono a booking e tutto prende il sapore di una Disneyland al retrogusto del “menù turistico”, quelli dove non mangi ma ti riempi e ti rimane quella sensazione di pienezza senza che il palato sia realmente soddisfatto. Le città diventano “a misura di turista” e non “a misura di cittadino”, il turismo che usa ed abusa, consuma e sporca e se ne va lasciando i problemi a chi la abiti 365 giorni l'anno. Turismo e responsabilità spesso sono due rette parallele. Una bellissima intuizione, una regia fresca, una dialettica efficace per smuovere il dibattito”.

Redazione

SANSEPOLCRO – C'è una linea, neanche poi così sottile, che da Piero della Francesca, passando per aziende di fama globale del territorio come Buitoni e Aboca, arriva fino a Kilowatt. Sansepolcro, che tutela le proprie radici, non si è fossilizzata soltanto su quelle. L'aspetto green va di pari passo con il teatro, anzi con l'idea di fruizione dell'arte, slow, intelligente, piccola, leggera, maneggevole. A partire dalla location principale di quest'anno, i Giardini di Piero, dove si svolgevano la maggior parte delle attività e che ben presto sono diventati agorà per ritrovarsi, parlare sotto tendoni, scrutarsi occhi negli occhi dopo i tanti mesi dove guardavamo soltanto i congiunti e le quattro mura attorno a noi. Sansepolcro, anche grazie a questi quasi venti anni del festival ideato da Lucia Franchi e Luca Ricci, sta cambiando, si sta evolvendo e, cosa non da poco viste altre esperienze di segno opposto in Italia, la rassegna è integrata con la cittadina, i suoi abitanti la vivono, la respirano, la aspettano, proprio partendo dalla grande intuizione dei “Visionari”, persone del luogo, non addetti ai lavori, che scelgono una parte del programma (nove spettacoli, non pochi) selezionando i vari spettacoli su video, analizzandone centinaia l'anno. Il concetto di festa, che è la radice di “festival”, è rispettato a pieno, con tanti luoghi della città impegnati e un sentimento positivo condiviso che, nelle dieci giornate di arte, danza, teatro e performance, si stia facendo qualcosa di positivo e propositivo, mai fine a se stesso, che guarda al futuro, che rivitalizza e ringiovanisce, che fortifica e guizza come elettricità. Lo vedi dai volti dei ragazzi felici, frizzanti che si agitano attorno.Eclissi3 phLucaDelPia

A guardarla bene la locandina di questa edizione (grande attenzione da sempre anche alla grafica, in questo li assimilo a “Primavera dei Teatri” di Castrovillari) ad una prima occhiata appare una nota di pessimismo: un aereo distrutto che evidentemente ha fatto un atterraggio di fortuna. Il velivolo è distrutto e inutilizzabile (il nostro oggi, la nostra “normalità” pre-Pandemia) ma da dentro proviene una grande luce abbagliante (il futuro, la speranza) e sopra due ragazzi (i soli sopravvissuti?) si abbracciano in tutto quel deserto intorno. E' iconica, mette i brividi e rasserena contemporaneamente. Ma anche il titolo di questo diciannovesimo anno è un ossimoro che fa riflettere: “Questa fervida pazienza”, con l'aggettivo che sa di brulicante e il sostantivo di acquietarsi, attendere, una continua tensione emotiva verso un qualcosa ma con la catena al collo, il morso frenato, come a raccontare, con tre parole, i nostri mesi appena trascorsi come leoni in gabbia agognando che tutto riaprisse per riprendersi il mondo e il tempo perduto. A Kilowatt (da quest'anno hanno anche una bella foresteria in pietra per ospiti e attori e volontari) si ha sempre la netta sensazione che qualcosa sia in atto, che stia cambiando davanti ai nostri occhi, che qualcosa sotto ai tuoi piedi stia alacremente diventando altro, bruchi e farfalle. Anche scorrendo il cartellone non si ha mai l'impressione che sia soltanto un riempitivo (come accade altrove) di pagine, nomi, titoli alla rinfusa. Scelte coerenti, rigore, attenzione, cura. Il fil rouge che abbiamo individuato nelle piece alle quali abbiamo assistito ci parla di mancanza, di nostalgia, di un passato perduto, rievocato, illusorio. Un sentimento di vuoto da riempire con nuovi contenuti, un punto zero sul quale appoggiarsi per darsi nuovo slancio, una tabula rasa sulla quale scrivere un nuovo domani. Se lo scorso anno il padrino della manifestazione era stato Roberto Latini, in questa edizione (16-24 luglio) sono stati il duo messinese Scimone e Sframeli con un laboratorio e conseguente restituzione (“Bella Festa”) e uno dei loro spettacoli cult più felici, “Cortile”.

Enchiridion2 phLucaDelPiaSu questa falsa riga “Eclissi” (di Alessandro Sesti) ha aperto le danze attraverso una performance sensoriale che è inseguimento prima fino all'identificazione con quello al quale stavamo correndo dietro. Con grandi cuffie ci aggiriamo (praticamente è un uno contro uno, alla fine uno specchio) per le vie della città controllando un uomo strano che ha degli oggetti in mano che vengono evocati in audio. Si parla di memoria scivolata nell'oblio, di perdita dei punti di riferimento, soprattutto temporali, di anni che si fanno liquidi offuscandone i contorni, gli eventi, appiattendo dolori e gioie in un nulla quotidiano che non riesce ad impigliarsi nelle maglie del pensiero. Sentendoti un alieno, con un intorno sempre uguale a se stesso ma sempre sconosciuto, con le facce vicine ogni giorno da riconquistare e con le quali rimanere straniero perché non si riescono più a decodificare gli oggetti e a chiamarli con la loro definizione per comunicare all'esterno le nostre esigenze, vaghiamo tra viuzze di pietra quasi fossimo un parente stretto del malato controllando che non si faccia male, che non si perda irrimediabilmente. Gli oggetti evocati dalla narrazione in cuffia si materializzano nelle tue mani (portati da volontari) e pian piano non guardi più le spalle di sconosciuto vestito in modo strambo ma lentamente, durante il cammino (della vita) ti sei trasformato proprio in quella perdita. Il suo cappello adesso è il tuo cappello, le sue banane ora le hai in mano tu in un transfert lento come goccia cinese. Entrare nel finale in un portone buio di un palazzo sa di morte e di nuova nascita, fine ed essere nuovamente partoriti. “Eclissi” tocca corde che vogliamo tenere nascoste, tutti abbiamo paura e terrore dell'alzheimer perché ti annienta, non ci sono rimedi, ti svuota di senso, e che cos'è un uomo senza la sua storia? Solo carne che cammina in attesa di essere messa orizzontale: toccante, vibrante, senza sconti, giustamente non accogliente, brutale, sentimentale.

Se in “Eclissi” era la memoria che ci abbandonava, in “Shakespeare showdown”, a cura del collettivo Enchiridion, sotto tutt'altra veste, abbiamo provato una sensazione simile, nei panni di Romeo o Giulietta e addentrandoci dentro gironi danteschi alla ricerca sia dell'amato che delle sue parole, del suo ricordo, del suo amore. Particolarità dell'operazione il tutto si svolge dentro un videogioco, un videogame anni '80 (contenitore in stile Pac-Man o Mario Bros per intenderci) con la cloche per correre e il tasto per saltare. Scovando nuovi mondi, tra le stelle, tra le fiamme o sotto il mare e confrontandoci con oracoli e apparizioni, i nostri due amanti alla fine si ritroveranno. Curiosa l'idea per nostalgici degli anni del disimpegno con i pixel sgranati dei primi tentativi di game virtuali però, ci siamo chiesti, perché per ricreare personaggi da videogioco sono stati necessari attori in carne ed ossa e successivamente pixelarli? Sembra una contraddizione (insieme alla poca interattività: le vite sono infinite e tutti arrivano allo schema conclusivo): sullo schermo, appositamente “truccati” e opacizzati, si materializzano Alice Giroldini, Tindaro Granata, Iaia Forte, Manuela Mandracchia, Marco Maccieri, Mauro Parrinello, Antonella Questa, Celeste Gugliandolo, Matteo Sintucci, mentre i nostri Romeo e Giulietta sono omini dalla grafica incerta creando uno squilibrio visivo che rievoca soltanto le atmosfere di Commodore 64 e similari. Un buon tentativo da migliorare per essere ancora più accattivante con scelte multiple di percorso, altrimenti rischia di appiattirsi.

Ancora memoria caduta nell'oblio, con il teatro che catarticamente serve proprio a riesumare, appigliandosi ai ricordi, vita trascorsa insieme e sottratta al futuro. “Arturo” prende le mosse dall'Isola omonima diIlCortile phLucaDelPia Elsa Morante. Figli, ma soprattutto padri. E i due attori in scena, ancora con limiti e acerbi, Laura Nardinocci e Niccolò Matcovich, portano, come in una seduta spiritica, i loro due padri (deceduti) a confrontarsi con loro stessi, tra di loro e con il pubblico. Alcuni passaggi di queste autobiografie messe a nudo sono strazianti ma l'interattività, oltre che essere limitata perché guidata (finta improvvisazione) risulta anche essere inutile (come il quiz) visto il contesto personale e l'ambito familiare (quindi non fiction) nel quale la platea si trova ad imbattersi. Interessante la grande lavagna sul fondo che raccoglie i vari pezzi sparsi e si compone ma tutto è talmente vero e realistico e naturalistico che ancora non si coglie il giusto distacco per rendere questo lavoro davvero “teatrale” diventando un pezzo non sulla mancanza ma sulla loro specifica mancanza dei propri padri risultando troppo personale e chiuso invece che aperto e universale. Praticamente le cose che non ti ho mai detto. Le voci degli amici registrate poi toccano in profondità e scuotono ma sembra davvero una questione privata e non si riesce fino in fondo ad entrare in questa vicenda così intima e riservata tanto da chiedersi se sia stato giusto portare i fatti all'ascolto di un pubblico estraneo (che provava pudore e imbarazzo per essere lì voyeuristico; ci ha ricordato “Sala Party” di Giustina Testa che rievocava il dolore atroce e lo scempio dell'aborto subito), “spettacolarizzando” gli accadimenti tragici.

Non abbiate paura - Grand Hotel Albania _ ph@Luca Del Pia.jpgMemoria collettiva di una Nazione ma ancor di più di una città: Brindisi. Luigi D'Elia e Francesco Niccolini tornano a lavorare sui rapporti tra Puglia e Albania dopo la loro piece “Kater i rades”, l'affondamento di una bagnarola con ottantuno albanesi morti nella collisione con una motovedetta nostrana, adesso si concentrano sullo sbarco dei 20.000 nel marzo 1991. Si chiama “Non abbiate paura” come la frase che il sindaco di Brindisi disse all'epoca nell'appello ai suoi concittadini. Un monologo serrato e concitato, una vera e propria arringa da parte di un brindisino doc contro lo Stato Italiano, una denuncia contro la burocrazia del Palazzo romano, contro i ministeri e il cinismo dei suoi politici. Ne esce un quadro contraddittorio: da una parte si parla dell'integrazione e dell'assoluta pacificità di questi “invasori” in massa, dopotutto l'Albania non era nella comunità europea, che, con il ricatto di mettere a ferro e fuoco la città per fame e mancanza di un tetto, hanno tenuto in scacco una città, e dall'altra con l'invocazione di uno Stato forte che mandasse i militari per respingere questi disperati. Quindi accoglienza o respingimenti? Il testo oscilla pericolosamente tra queste due voglie contrapposte, tra questi due aspetti, tra la carezza e la forza, e l'indignazione verso Roma è facile così come è facile l'esaltazione della città di Brindisi che ha dato il suo enorme e pratico contributo agli albanesi pare, dalle parole di D'Elia (narratore di razza), più mossa dalla paura che dalla tenerezza.

Tommaso Chimenti 20/07/2021

ph: Elisa Nocentini, Luca Del Pia

SIRACUSA – Due ore e quaranta il primo, due ore e mezza il secondo. Cinque ore in due giorni a sedere sulle pietre sacre. E se il teatro per alcuni è ancora considerato sofferenza (non lo dovrebbe essere mai), il dramma antico ha preso alla lettera tale regola e insegnamento. Si noleggiano i cuscini per stare minimamente più comodi sui sassi millenari. Certamente la durata e la magnificenza e la prosopopea e la grandeur e la maraviglia fanno parte del gioco che il pubblico si aspetta da Siracusa e che i registi chiamati in qualche modo sentono di dover rappresentare. Il gioco delle parti, certo. Il format e lo spazio dell'INDA si offre a grandi kolossal (oltre 5.000 i posti, portati a quasi 3.000 in questi tempi di distanziamento), anche oltre il Mito, un'arena da Colosseo che sfugge alla nuova fruibilità delle platee contemporanee. L'ars retorica la fa da padrona, la dilatazione delle scene è un sottofondo costante. Per togliere la polvere da questa storia maiuscola millenaria forse non bastano registi innovativi (spesso formalmente), i tempi sembrano essere maturi per una piccola rivoluzione che non sia soltanto tecnologica di fumi e raggi laser.coefore21_GLC8780.jpg

Due lavori, quelli proposti dal Dramma Antico diretto da Antonio Calbi (a proposito, è uscito il suo volume “Pietre d'Incanto” per VerbaVolant edizioni, assolutamente da leggere), “Coefore-Eumenidi” da Eschilo per la regia di Davide Livermore e “Baccanti” da Euripide a cura di Carlus Pedrissa fondatore de La Fura dels Baus, intimamente diversi tra loro per intenzione prima di tutto, per sfoggio in seconda battuta; se il primo è stato più ridondante nei suoi sottotesti e riferimenti, segni anche contrastanti, il secondo si prestava più facilmente a riempire di senso i movimenti, la corsa, lo slancio, la bagarre per un risultato più pieno e avvolgente quasi da concertone rock brutale e dirompente, d'intrattenimento puro. Livermore ha un'anima lirica mentre Pedrissa quella del punk catapultatore e distruttore di schemi preconfezionati. Nel confronto, che forse non ha senso fare ma l'alternanza delle due tragedie spinge anche in questa direzione, le “Baccanti” rianima, elettrizzano certe scene da grande Luna Park (gioioso e fanciullesco), ha un'ossatura circense che ci fa ten(d)ere il naso all'insù e goderci le gigantesche macchinerie tra Cirque du Soleil e Momix.

Per quanto riguarda “Coefore-Eumenidi” qualche dubbio è subito sorto dall'ambientazione anni '30-'40 con guardie “naziste” e un'auto che sembrava uscita da una pellicola gangster. La storia è nota: Oreste dopo dieci anni torna a casa e la madre Clitennestra (Laura Marinoni sempre una coefore21IMG_4690.jpgsicurezza; ci ha ricordato Pamela Villoresi), dopo aver ucciso il padre Agamennone, si è risposata con Egisto. Importante anche la figura di Elettra, sorella di Oreste, una Anna Della Rosa che sempre colora e dà vita a personaggi sussultanti. Praticamente un Amleto ante litteram con sprazzi di Ulisse. A caratterizzare in maniera imponente, quasi invadente e aggressiva per le retine, due forti elementi: una sorta di ponte distrutto sullo sfondo, nel quale molti hanno visto un riferimento al crollo del Ponte Morandi di Genova (Livermore dopotutto è direttore del Teatro Nazionale di Genova), e questa grande sfera, conturbante e accattivante ed eccentrica certo, che per tutta la durata ci inonda di immagini a 360 gradi, colori che accentrano la vista in quell'unico grande buco facendo passare in secondo piano la vicenda. Un occhio-bocca che sembra aprirsi su mondi alieni o è la Terra vista dallo spazio nella sua coefore21IMG_5063.jpgtriste misera piccolezza, una sfera (vero e proprio personaggio-protagonista) che sembra sentire il climax e cambiare tonalità, avvertire la scena e mutare, cangiare camaleonticamente come essenza respirante, come essere vivente. Palla caduta anche come metafora di meteora catastrofica scesa a spezzare le fondamenta della nostra civiltà, a spazzarci via. E' per questo che non troviamo parallelismi con il magma più profondo della recita: qui un Oreste cowboy (un Giuseppe Sartori sempre tonico e fiero, belva sensibile da palcoscenico) viene a portare giustizia attraverso la vendetta, a ripristinare l'ordine lordato col sangue con lo spargimento di altro sangue, mentre la sfera-boccia da pesci (suggestioni sospese tra “Ghostbusters” e “Stranger Things”) appare un agente alieno che arriva a distruggerci mostrandoci la nostra incapacità di autoregolarci. Questo globo appare come la Storia dell'Umanità contratta e riassunta, milioni di anni in immagini in time lapse, che continua e prosegue il proprio viaggio e la propria corsa infischiandosene dell'odio e della morte che l'uomo, questo suo piccolo abitante, immette senza sosta. E poi ecco le Erinni in stile Priscilla Regina del deserto o un Apollo-007, cori morriconiani, un Egisto moribondo che ricorda Gheddafi o Mussolini o ancora meglio Ceausescu dopo l'esecuzione, Atena alla balaustra che pare in Piazza Venezia. Sul finale abbiamo delle riserve perché baccanti21_GLC6375.jpgsulle note di “Heroes” di David Bowie (ci sta sempre bene ma ultimamente in teatro è un po' abusata) scorrono immagini “facili” dal G8 genovese alla Costa Concordia, da Capaci ad Ustica, dai campi di concentramento a Peppino Impastato e non riusciamo a capire se l'intento è spronarci ad essere Oreste (“we can be Heroes just for one day”) vendicando i mali del mondo con la stessa violenza. Drammi nazional-popolari miscelati ad hoc non possono che far scattare il brivido.

Certamente l'impianto monstre delle “Baccanti” non può non colpire, non lasciano indifferenti queste grandi macchinerie (cifra e marchio di fabbrica de La Fura catalana) posizionate nello spazio immenso e profondo dell'agorà recitativa siracusana: un grande uomo movimentato da una gru come un Pinocchio dal suo burattinaio, una testa gigantesca di gabbie, un demonio cornuto a grandezza siderale, il pavimento segnato dall'albero genealogico, da Zeus a Dioniso, come legenda per non confonderci durante la narrazione: utile e didascalico. baccanti21_GLC6512.jpgNon mancheranno le corse, le urla e i fumi come il dionisiaco panorama narrativo prevede in una dinamicità che sfrutta anche le gradinate e soprattutto le altezze con architetture di corpi trattenuti in aria, impalcature di braccia e gambe appese in acrobatiche posizioni. La struttura ci ha portato dentro atmosfere luciferine con i barili tambureggianti e guerreschi in stile Stomp. I costumi sono tra il futurista e “Primo Re” e Dioniso è una Lucia Lavia, qui giustamente posseduta e forsennata, nata per la scena e che si esalta in un ruolo congeniale dove può tirar fuori sia doti recitative che la consueta forza espressiva, il carisma da pasionaria che tiene e trattiene migliaia di persone avvinghiate e rapite. Parte “La stagione dell'amore” che innesca l'applauso-tributo a Franco Battiato, artista siciliano e globale al contempo. Si distinguono Antonello Fassari in Tiresia, attore di razza, Linda Gennari in Agave, sempre combattente e potente nelle sue performance, Stefano Santospago in Cadmo, voce profonda e presenza di peso. Ci sono anche inserti hip hop (Domenico Lamparelli sugli scudi) a svecchiare ulteriormente il formato classicheggiante. Qui lo scontro è tra Dionisa, che porta costumi libertini (e libera le donne dal giogo maschile emancipandole, attuale) e Penteo censore destrorso voyeur che vorrebbe vietare pubblicamente quello che desidererebbe fare di nascosto per una doppia morale ipocrita (il “si fa ma non si dice”). “Baccanti” risulta più fluido ed energico, complessivamente una festa pulsante.

Tommaso Chimenti 19/07/2021

CATANIA – Franco Scaldati è a tutt'oggi ancora un mistero. Un mistero umano, esistenziale, letterario, teatrale. Una grotta, una cava, una miniera, più si va in profondità e più si trova, si scava ed escono aspetti impensabili, documenti, testi, memorie. In quello che era il suo studio, praticamente uno sgabuzzino claustrofobico e minuto, alla sua morte, avvenuta a soli 70 anni, ormai otto anni fa, sono stati rinvenuti 63 testi. E dire che in vita, in scena, ne erano andati soltanto tredici. Quindi pagine e pagine, centinaia, alle quali dare un ordine, con correzioni e cancellature continue, una scrittura poetica anche graficamente con una cadenza tutta propria interna delle linee, delle sospensioni, della punteggiatura indecifrabile, i silenzi, le attese spasmodicheScaldati.jpg, infinite, gli a capo, i puntini. Una grande produzione sconosciuta che, grazie soprattutto alla visione e passione e dedizione di studiose come Valentina Valentini e Viviana Raciti che hanno messo ordine, è stata rinvenuta come pepite. La sua, raccontano, era una pratica di scrittura quotidiana, curvo sulla sua Olivetti, nel suo antro diviso con il nipote pittore. La sua è una scrittura definita “muscolare” ma anche evocativa, schietta, bruciante, una lingua poetica inventata che si rifaceva al dialetto del quartiere Alberghiera a Palermo. Adesso, fortunatamente, tutto questo materiale non è andato perduto ed è conservato negli Archivi della Fondazione Cini a Venezia in attesa di pubblicazione: saranno otto volumi maestosi e corposi che dovrebbero vedere la luce in tre anni con Marsilio.
“Scoperto” a livello nazionale da Franco Quadri che ne riconobbe prima di altri la grandezza, Scaldati (che era anche attore con la sua voce “sferragliante” e cavernosa) procede per frammenti, per flash, brandelli, schegge, francobolli, coriandoli, frammenti che indicano leggerezza e precisione in un concorso “antimaterialistico, alogico, anticonsolatorio” come afferma il professor Guido Valdini. Le sue drammaturgie procedono per fratture, segnate da rotture e ricomposizioni, raccontando una marginalità che non può essere armonica né armoniosa, sicuramente disarticolata. Si ha la netta sensazione che, riga dopo riga, siano pronti ad esplodere, queste perifrasi di carne, queste fabule dove spesso una storia lineare non esiste ma trapela una condizione, di violenza, dolorosa, truce, dura ma anche compassionevole dove spuntano apparizioni e deliri. Scaldati (autore autodidatta) è diventato un “classico” diviso tra l'abisso e il cielo, il cupo e il sensuale.
E “Plivia.jpginocchio” (messo in scena per la prima volta al Teatro Stabile di Catania, che lo ha prodotto, grazie alla lungimiranza dell'illuminata direttrice Laura Sicignano che ha scelto la regista Livia Gionfrida) è un unicum nella produzione scaldatiana perché, nella grande maggioranza dei casi, l'autore si concentrava su testi originali mentre qui ha “tradotto” il testo collodiano nel suo palermitano. L'importanza di questa messinscena è da una parte appunto la visione per la prima volta delle parole di Scaldati attorno e dentro le quali la giovane regista Livia Gionfrida (siracusana di nascita ma di stanza in Toscana da diversi anni, a capo del collettivo Teatro Metropopolare, Premio della Critica A.N.C.T. '18) ha unito, attaccato, inserito pezzi e sprazzi, collante su una sua personale interpretazione non soltanto delle opere ma anche della vita dell'autore di “Totò e Vicè”. Un doppio salto dunque, sanguigno, pieno, dove le parole esplodono. Ne esce fuori un lavoro per forza di cose non scaldatiano ma che parte da quelle origini, imbevuto da quelle atmosfere, realizzato, travisato, tradito (è il compito della regia) dallo sguardo della Gionfrida che ha colorato, espanso, esaltato in scene dirompenti, per movimenti e detonazione, deflagrazione sfaccettata.Foto-Barone-2-1024x683.jpg
Ci sono canti che sembrano ululati e le ambientazioni di Scaldati, periferiche e degradate. C'è anche il gioco del teatro ovvero la dissoluzione delle trappole e degli infingimenti teatrali qui svelati; non sono personaggi di una drammaturgia ad azionarsi ma attori che interpretano quelle stesse figure, un passo indietro, una scissione, un giusto sdoppiamento per rendere, ancora una volta in più, omaggio all'autore e alla sua complessità e alla sua assenza, fugando anche, per i puristi, la facile e scontata battuta “Scaldati non lo avrebbe messo in scena così”. Infatti, Scaldati, purtroppo, non ha avuto tempo e produzioni adeguate per portarlo sul palco, lo ha fatto questa regista coraggiosa che ci ha messo, doverosamente e con coerenza, del suo. Potrebbe essere un “Pinocchio alla prova”. Un Pinocchio-Candide, una fatina che parla in alto proprio con Franco, teatro nel teatro, quasi a chiedere una benedizione per quello che stanno facendo, per quello a cui stanno tentando di dare vita: “Questo non è tempo di poeti. Hai fatto bene ad andartene”. E aggiunge: “Questa sera è un cimitero di parole”, quantità industriale e odore inevitabilmente di morte, comunque il profumo dei sogni. I quadri sono delle apparizioni ben amalgamate, dai colori sparati che attirano e affascinano libertini e lascivi.
Mangiafoco Pinocchio2-bas-1024x683.jpgè in mutande con le scarpe alte con la zeppa, Geppetto, interpretato da un'attrice, è colpito e malmenato, vessato e bullizzato con ferocia inaudita in stile Arancia Meccanica. In alcune scene la frontalità degli attori (una gran bella compagnia scelta, tutti protagonisti, nessuno rimane negli occhi al pubblico più degli altri, non si sovrappongono né vogliono rubarsi la scena, paritari, democratici, qualitativamente alti) sembra omaggiare Emma Dante (molti degli attori provengono da sue produzioni), soprattutto il suo “Mplaermu”. I tratti di queste figure sono animaleschi mentre il nostro antieroe sembra arrivato, come Gesù, da un'altra dimensione, da un altro mondo a rivoluzionare lo status quo. La Sicilia, con il suo carico di sensualità ed erotismo, entra a pieni polmoni: ecco il carretto siciliano, come le “pane e panelle”. In questo Circo Pinocchio è punk e mistico insieme. Pinocchio1 bas.jpgQuando Mangiafoco strangola da dietro il nostro pezzo di legno sembra di avere davanti la scena dell'uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, soffocato e sciolto successivamente nell'acido, ricordo reso nelle dichiarazione del processo a suo carico dal boss Giovanni Brusca: e fa male. Molto. Su questa linea gli assassini non possono che essere mafiosi con tanto di coppola. Non ha una sua linearità, procede per strappi, a tentoni nel buio, illuminandolo, ogni quadro è una sorpresa che esce da una scatola di compleanno, in un'organicità eterogenea questi materiali prendono vita e si animano come personaggi che, dopo aver perso il loro autore prima di potersi esprimere, ne hanno trovato un altro per poter finalmente vivere. Giocano a calcio (dopotutto siamo in clima di Europei del pallone), Pinocchio-ciuchino balla la sua ultima danza sulle note del Lago dei cigni, fino alla sua non conversione in bambino: un lavoro intimo questo della Gionfrida che però non disdegna il pop. Un inciso sulla compagnia d'alto profilo, in stato di grazia e dall'eccellenza tangibile: la splendida Aurora Quattrocchi, la potente Alessandra Fazzino, la carismatica Manuela Ventura, Cosimo Coltraro il Mangiafoco impetuoso, l'esperta Serena Barone, il grintoso Domenico Ciaramitano il Pinocchio muscoloso e leggero, tutti in uguale misura, primi attori lucidi ed ottimi comprimari, protagonisti e spalle funzionali, un gruppo davvero coeso e agguerrito.

Un teatro di donne, quello catanese, passando dalla Sicignano alla Gionfrida fino alle sedici artiste che hanno preso parte al grande murales che fiammeggia sul Teatro Verga dal titolo “oMaggio” in ricordo dell'attrice Mariella Lo Giudice, scomparsa dieci anni fa. Sedici pittrici, le MaleTinte, coordinate da Lydia Giordano, la figlia di Mariella: Virginia Caldarella, Irene Catania, Valeria Cariglia SinMetro, Claudia Corona, AnnaChiara Di Pietro, Francesca Franco, la stessa Giordano, Martina Grasso, Iolanda Mariella, Ljubiza Mezzatesta, Roberta Normanno, Marinella Riccobene, Monica Saso, Uta Dag, Alice Valenti, Agata Vitale, che hanno intrecciato le loro arti e disegni, sogni e tratti, figure e visioni. Più che un lavoro d'ensemble, un lavoro insieme.

Tommaso Chimenti 18/07/2021

NAPOLI – Nelle città fragili, che si dibattono storicamente su un equilibrio precario (ricordiamo la leggenda di Napoli sospesa su un uovo, metafora perfetta) gli effetti di tragedie sociali come la pandemia hanno fatto ancora più danni che altrove, hanno trovato terreno fertile smontando quella socialità, quella parvenza di normalità fatta di lavori alla giornata, di “fatica” da inventarsi e conquistarsi a morsi un pezzo alla volta, giorno per giorno. E si incontrano sempre più ragazzi che ti vogliono vendere, all'ingresso di Via Chiaia o in Piazza del Plebiscito o salendo su per Toledo, calzini o penne per scrivere e le brande sotto i portici e davanti alla chiese non si contano più, sono decuplicate dal pre-Covid. La povertà la puoi conteggiare con gli occhi, ferisce. Ma Napoli si sta riprendendo.Ruggero Cappuccio.jpg Lentamente. Il turismo sta tornando. Ma si sente che è una città ferita, che ancora sanguina dolore e privazioni, dal sorriso tirato, dalle costole in fuori, che ha trattenuto il fiato per troppo tempo e questa apnea forzata, questa attesa sfibrante l'ha consumata da dentro, come un brutto male che non ha diagnosi ma batte cassa. Se l'arrangiarsi qui era considerato un valore, un sistema di vita collaudato, la costrizione del lockdown ha interrotto il percorso di generazioni, di manovalanza che sfangava la giornata. E nei bassi e nei quartieri fare distanziamento sociale era praticamente impossibile.

Il cielo questo metà luglio non è né blu né azzurro. Di nuvole non se ne vedono ma sopra il Vesuvio una caligine biancastra di foschia s'affolla e quasi lo nasconde. Vorrebbe piovere (forse vuole piangere questo cielo) ma non ce la fa. Si impegna ma riesce soltanto ad aumentare l'umidità, arrivata a livelli di foresta amazzonica. Le uniche gocce che cadono dall'alto, in questa estate da bollino hot, sono quelle che spillano e sprizzano dai condizionatori posti sulle terrazze e che fanno chiazze a terra che si asciugano velocemente. In questi giorni Napoli esplode di bellezza, nello stesso momento c'erano la mostra fotografica su Massimo Troisi, e quella su Frida Kahlo, e Klimt e Monet. Il caldo tutto tende a scolorire, è per questo che qui i toni sono più vivaci, i contrasti più aspri.

La sera però ci accoglie il fresco della Reggia di Capodimonte, nel verde torniamo a respirare. Dall'alto Napoli è bianca. Tutti gli spettacoli (la grande maggioranza campani se non proprio partenopei) concentrati su più palchi (grosso sforzo produttivo) all'interno del polmone verde della città sul golfo. E peccato che si possa vedere soltanto uno spettacolo per sera. E peccato ancora che, come in passato quando era possibile vedere e scoprire tutta Napoli attraverso i suoi palcoscenici naturali, prima il festival era dislocato in ogni angolo, dal Vomero al Real Albergo dei Poveri, dalla Galleria Toledo alla Darsena, dal Maschio Angioino al San Carlo, dal Mercadante al Sannazzaro, dal Teatro Nuovo alla Sala Assoli. Il teatro come pretesto e il contesto per esaltare la città attraverso la scena in un gioco di specchi. Stavolta il festival ha cambiato la denominazione, passando da “Napoli” a “Campania Teatro Festival” (direzione artistica di Ruggero Cappuccio, vicedirezione Nadia Baldi) per poche puntate fuori: a Benevento, ad Avellino, a Salerno, a Caserta, a Pompei (quest'ultima location gestita dal Teatro Nazionale di Napoli). Ma perché fare solo una o al massimo due repliche per spettacolo?

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Siamo riusciti a vederne tre: “La rosa del mio giardino” per la regia di Mario Gelardi ci ha lasciato dubbiosi, “Museo del popolo estinto” di Enzo Moscato ci ha sorpreso, per fortuna che alla fine è arrivato il Nest con la prima nazionale “Bufale e Liune” a firma del catalano Pau Mirò, che ci ha risollevato lo spirito. Intanto, mentre gli spettacoli a Capodimonte andavano in scena, dai vari quartieri della città scoppiavano ogni sera fuochi d'artificio e la leggenda metropolitana vuole che, se non siamo in giorni di patrono, significa che è arrivato un carico di qualcosa di illegale, come gli antichi segnali di fumo per attirare la clientela. Partiamo da “La rosa del mio giardino”; nel libretto del festival la dicitura indica “Debutto”, invece scopriamo che lo spettacolo è andato in scena a gennaio 2020. E' la presunta storia d'amore tra Salvador Dalì e Garcia Lorca. Basandosi sulle quaranta lettere che i due si scambiarono, ma la parola scritta è molto diversa da quella orale e infatti il tutto diventa difficilmente ascoltabile, non fluisce, non scorre, crea troppa distanza la poesia su carta, risulta letterario e ci appare lontano. Purtroppo assistiamo ad un'ora di scenate di gelosia, ad avvicinamenti e conseguenti allontanamenti. Sembrano due adolescenti sull'orlo di una crisi di nervi, e le due figure vengono se non proprio banalizzate quanto meno semplificate, riducendo il tutto a insignificanti screzi tra innamorati isterici e infantili, litigi da bassifondi, scambi acidi, recriminazioni, sgarbi, rimorsi, sberleffi, unghie stizzite, veleno ispido sputatosi addosso in un ballo dell'impossibilità tra battibecchi insipidi. In alcuni momenti sembra ricordare “Nella solitudine dei campi di cotone” di Koltes, dove un personaggio vuole vendere qualcosa all'altro senza che questo sappia di volerlo avere. Purtroppo qui non ci sono nemmeno Genet né Fassbinder né Testori per raccontare questo amore interrotto. La dimensione onirica e questa prolungata dinamica di attrazione e repulsione è una battaglia faticosa per lo spettatore (durata di un'ora). I due attori sono troppo sottolineanti, molto “teatrali”, in perenne posa, un'interpretazione forzata e sovraesposta.

Dall'incontro mancato tra Dalì-Lorca a Enzo Moscato la situazione non cambia. Anzi. “Museo del popolo estinto” è quasi un testamento artistico però Moscato (legge e non recita) che è in scena ma in disparte, senza entusiasmo né verve, distaccato mentre alle sue spalle una tavola da post Ultima Cena accoglie il resto della compagnia, figure tratteggiate con toni grotteschi. Sono apparizioni, fantasmi che si affollano; ognuno entra sulla scena, fa il suo “numero” e se ne va, oppure mettono in atto piccole scomposte coreografie o canzoncine per rimpolpare la drammaturgia già non-sense. E più che va avanti più che se ne perde la coerenza, si sfilaccia in una sequenza infinita (1h40') di monologhi con una recitazione affettata e artefatta, aulica e antica di un'epoca andata. Siamo in una sorta di parodia di un teatro da teca con frasi lanciate nell'agorà del palco tanto per vedere l'effetto che fa. Passano i minuti e altre chiose si affollano, non si trova il bandolo della matassa, tutto è nebuloso mentre le interpretazioni diventano, se possibile, ancora più esagerate, esagitate, caricaturali, eccessive, iperboliche. Un testo compiaciuto, ricco di battute e di citazioni, un assemblaggio di parole e perifrasi che risultano uno zibaldone composito. Un'operazione senza troppo coinvolgimento del pubblico.

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Passando dal Teatro Sanità alla Casa del Contemporaneo finalmente arriviamo al Nest e torniamo ad essere ottimisti sul teatro di domani. Respiriamo perché c'è un signor testo, una grande scenografia, attori all'altezza, una regia limpida, un'aderenza all'oggi (chiamalo contemporaneo se vuoi) che è quello che cerchiamo dal teatro al di là delle belle statuine e di un passato che spesso non è proprio da riesumare. Non soltanto a risultare centrale è la traduzione (di Enrico Ianniello) ma anche l'adattamento e la trasposizione. “Bufale e liune” infatti sono due delle tre piece che compongono una trilogia di Pau Mirò che Giuseppe Miale Di Mauro, Adriano Pantaleo e Francesco Di Leva hanno, e con loro il Nest, portato nella realtà che meglio conoscono, Nest.jpgil quartiere, il rione, il sottobosco periferico napoletano. Non solo quindi le parole trasformate ma anche l'ambientazione, il luogo, l'atmosfera (anche se in questo Barcellona molto somiglia a Napoli). La storia è misteriosa e pinteriana, a tratti carveriana in questo spaccato di umanità in chiaroscuro dove ognuno è doppio così come la morale che può essere ribaltata a proprio tornaconto. Lo spazio claustrofobico che vediamo è una lavanderia con gli abiti a raggiera (si entra e se ne esce come tanti sipari), a semicerchio tanto che sembra un anfiteatro greco. Al centro un totem, un pilastro, quasi un fusto di un albero millenario piantato nel mezzo e tanti neon ad intermittenza come in una discoteca in disuso da archeologia post-industriale, da umanità sconfitta. In questa lavanderia vive (sopravvive?) chiusa (al riparo dal fuori?) una famiglia: la figlia in sedia a rotelle, la madre che la vuole sistemare, il padre carrozziere mentre aleggia il ricordo di un altro figlio, scomparso, sparito da piccolo non si sa se rapito o ucciso. L'armonia, se così si può chiamare, è rotta dall'arrivo di un ragazzo con la camicia insanguinata che vuole farla lavare anche se siamo fuori l'orario di lavoro. La madre vede in lui un futuro possibile per la figlia e non vuole farlo andare via (come in “Misery non deve morire”), il padre vuole aiutarlo, stringendo un accordo, perché pensano che abbia commesso un omicidio che il ragazzo comunque nega. Ma la verità non è mai certa. L'aria è quella di “Dogman” di rapporti incancreniti, di vite al limite, zone di frontiera, fisiche ed esistenziali. Le menzogne si accavallano e gli enigmi, l'oscurità e i segreti, aumentano e si alimentano. Sembra di stare dentro al “Calapranzi” e il cupo ammanta ogni azione e lentamente la notte scivola in un incubo kafkiano. Nella vita devi sapere se sei bufalo o se sei leone anche se, come dice il proverbio africano, comunque dovrai correre appena sorge il sole. Da ricordare Giuseppe Gaudino, il commissario, Alessandra Borgia, la madre (ci ha ricordato Beatrice Schiros di Carrozzeria Orfeo), Angela Fontana (vista nella miracolosa pellicola “Indivisibili”), la ragazza in carrozzina (canta divinamente). Menomale che il Nest c'è. A Napoli, purtroppo o per fortuna, si perdona sempre tutto.

Tommaso Chimenti 06/07/2021

CAMPSIRAGO – “Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà” (San Bernardo di Chiaravalle).

Il bosco è il palcoscenico all'aperto di Campsirago, un nome che a cercarlo sulle cartine nessuno c'è. E' l'isola che non c'è, l'inizio dei sentieri per inerpicarsi e incunearsi su per la montagna lombarda torva a fradicia, un nome che rievoca passaggi di civiltà lontane e ancestrali che hanno segnato questi luoghi selvatici più che selvaggi. E c'è la sua bella differenza. Celti e longobardi hanno attraversato queste terre segnandole e i loro rimasugli sono rimasti nell'aria, sospesi in quest'atmosfera tra la magia, il mistero e l'imperscrutabile. A Campsirago abitano durante l'anno trentasei persone ma molte più anime vagano e aleggiano. Si sentono, si vedono, si percepiscono. Qui dagli inizi del Duemila è nato “Il Giardino delle Esperidi”, festival diretto da Michele Losi, manager culturale, visionario imprenditore di idee che non molla fin quando i desideri che anni prima venivano considerati impossibili e irrealizzabili, non si fanno di carne ed ossa. Così alla struttura in pietra dalle mura solide e alla foresteria si aggiungeranno, nei prossimi dieci anni, un teatro nel bosco in stile Mondaino, un teatro dentro una chiesa senza tetto come San Galgano, e verrà ristrutturata anche una grande dependance (grazie ai contributi di Fondazione Cariplo, del comune di Colle Brianza, 100.000, e del G.A.L. Gruppi Azione Locale che hanno accesso a fondi europei 250.000 euro) di circa DSC_7932_WEB.jpg400 metri quadri che conterrà una sala prove, una sala teatrale da una sessantina di posti per creare una stagione vera e propria che si articolerà con repliche tra produzioni e ospitalità nel fine settimana, una falegnameria, una cucina professionale e una sala dove poter pranzare per quaranta persone in stile Corte Ospitale. Ma cosa più suggestiva sarà la creazione di una sauna (Michele Losi spesso in questi anni ha realizzato produzioni nei paesi scandinavi) per rilassarsi ma anche per fare riunioni e anche per proporre spettacoli all'interno della vasca: originale e unica, bagnati e nudi attori e pubblico insieme nello stesso brodo primordiale. Le compagnie residenti passeranno dalle tre attuali, Le Scarlattine, Riserva Canini, le Pleiadi, alle quali si aggiungerà il manovratore di puppet cileno David Zuazola. Insomma il futuro sta a queste latitudini, i sogni qui, con il lavoro e la caparbietà, diventano possibili. Si sente il magma che produce, si muove, si sente il rumore del domani che ha voglia e desiderio di nascere, che spinge, che non sta più nella pelle.

Due le pièce nel bosco, interattive, mai statiche, da pubblico attivo, partecipe (dopotutto questa è una comunità), scarpe da ginnastica, piedi buoni, tanta curiosità e polpacci a scarpinare, la possibilità del sudore che amplifica la piccola fatica, che rende il tempo della piece esperienza da portarsi a casa, da far decantare, cementificare dentro ognuno di noi imprimendola in profondità. Spettacoli come tatuaggi che ti entrano sottopelle e non se ne vanno più. Continuano ad accompagnarti negli anni. E il bosco è il panorama e il fondale perfetto, lo scenario e il set ideale per l'attraversamento, base di queste avventure. L'andare fuori di noi che, parallelamente, sposta piccole cose, riequilibrandole, dentro di noi in un continuo gioco di specchi, di rimandi, di rimbalzi. Camminare, vedere, scorgere, scoprire pezzi del mondo, scovare parti intime di noi immerse in quei luoghi, ora lampanti e palesi. Un respiro profondo ad aprire sterno e polmoni, reali e metaforici. Il bosco fa paura perché è un buco nero e potrai scoprire cosa c'è dall'altra parte soltanto se ti lascerai trascinare, se quella paura non ti bloccherà ma diverrà trampolino per saltare, andare a tastare, a constatare. Ecco, in quest'ottica, “Amleto, una questione personale”, che dopo una prima parte frontale sul palco (che guarda la vallata e Milano che da qui è quieta e silenziosa) si divide in tre sezioni con tre percorsi dissimili che ogni tanto si tangono nelle radure: i “verdi” gli innocenti, i “rossi” i ricchi e potenti, gli “azzurri” i depressi. Silenzio, fila indiana, cuffie: siamo in un rito.

E' appunto, DSC_9845_WEB.jpgda titolo, una questione privata, un corpo a corpo personale del singolo spettatore con il testo, con le dinamiche ancestrali, con il luogo. Camminiamo e nelle orecchie arrivano frasi che nella loro semplicità scombussolano e rimescolano: “Chi sei quando nessuno ti guarda?”, “Di cosa dubiti?”, “Qual è la tua questione?”. Il bosco non risponderà per noi ma aiuta a fare silenzio attorno, a ripulire l'aria dal vuoto, dall'inutile, dal chiacchiericcio ingolfante. Il bosco è un tunnel verso la Madre Terra, è un essere vomitati tra le frasche, è un cercare la via d'uscita, è un tentativo di salvezza, è un tiro ai dadi scommettendo su se stessi. Sul cammino troviamo sparse giacche incastonate su rami come spaventapasseri. E li sentiamo vivi e attuali Ofelia e Amleto, Polonio o Claudio, vicini e comprensibili, giustificabili, terreni, umani, sbagliati, come noi. Nessun giudizio quando fai fatica. Passiamo staccionate che altro non sono che un esperimento di dare un ordine al selvaggio, e capanne (e ci sentiamo Hansel e Gretel) e rifugi e ovili e rovi. E acacie e ortica a pungere e attenzione ai rami se si guarda troppo la terra e attenti alle radici se si ha la testa tra le nuvole. E' muschio ed edera. Spettacoli che fanno crescere, che rimangono invischiati nei nostri capelli, appesi ai nostri sogni, nei nostri giorni.

Se “Amleto” è comunque una prova d'attore (Sebastiano Sicurezza su tutti, forza, istinto, talento, intuizione, intenzione), nella seconda piece “Vivarium” ci saranno i passi reali e le figure stilizzate virtuali a popolare i sentieri del bosco. Ci sarà un perché tutte le fiabe hanno luogo nei boschi. Seguiamo i percorsi del culto delle acque fino ad arrivare alla fonte miracolosa della Madonna del Sasso. Apparentemente sembra che la tecnologia sia agli antipodi della Natura. In “Vivarium” Losi e soci ci dimostrano che non è così, che forse con uno smartphone in mano si riesce meglio, combinando le due visioni, ad apprezzare l'intorno, a vedere tutto quel che si nasconde tra cielo e terra. Ed eccoci immersi nel “cercare la matematica della Natura” (Fibonacci) che in definitiva possiamo laicamente chiamare Dio. Il telefono diventa mappa interattiva, diventa bacchetta magica che trasforma il circostante. Infatti la realtà si mischia con il virtuale che ci fa DSC_6184_WEB.jpgapparire poiane ancestrali, salamandre della tradizione alchemica come scatole che fluttuano o ombrelli elicoidali che sembrano meduse e infine stormi di pesci volanti. Il vero si miscela con l'app per un mix che sposta i punti di riferimento, alimenta la fantasia, accresce l'immaginazione. Le epifanie si manifestano quando, come in una caccia al tesoro in questo trekking poetico-teatrale, in questo pellegrinaggio artistico, entriamo in contatto con dei nodi che abbracciano tronchi. Sono corde di riso giapponesi, le cosiddette shimenawa shintoiste (ad ottobre il direttore Losi andrà per un mese in un monastero nipponico) numi tutelari che ricordano le passate delle ragazze, candidi abbracci a tenere, a non far scappare né cadere. La via è contrassegnata da strisce color oro sui sassi (e non può non venire alla mente la tecnica del kintsugi, letteralmente “riparare con l'oro”, pratica che consiste nell'utilizzo dell'oro per il restauro di oggetti in ceramica). La nostra è una processione lenta, sacra e laica insieme. Andiamo alla ricerca del grande ippocastano, l'albero sacro. E andando alla ricerca di qualcosa fuori dai nostri corpi, troviamo pezzi di noi stessi che rimangono incantati verso la vallata di Renzo e Lucia, guardando l'Adda affiorare e il Resegone fare capolino. La ricerca non si esaurisce mai. “La preghiera è stare in silenzio in bosco”. (Mario Rigoni Stern)

Fuori dal bosco, in un contesto più classico di teatro frontale, ci hanno comunque colpito due proposte lontanissime l'una dall'altra seguendo quel filo sDSC_8976_WEB.jpgottile tra il divertimento leggero ma mai superficiale e l'impegno il tutto giocato su quell'equilibrio che rendono certe serate frizzanti e degne di essere vissute, tenute nella memoria, raccontate. E' così che abbiamo scoperto (i festival servono anche per portare all'attenzione compagnie o personaggi, è questa una delle funzioni dei direttori artistici, quelli coraggiosi, che non si fermano al già consolidato) la milanese Nina Madù, all'anagrafe Camilla Barbarito, con il suo gruppo “Le reliquie commestibili”. Il suo personaggio è una signora aristocratica, stilosa e rarefatta, elegantissima e snob che potremmo mettere nella stessa sezione di Drusilla Foer. E' altera, charmant, scandisce le parole nelle sue esternazioni lente, serafiche, cattivissime, taglienti, pungenti. Non ha peli sulla lingua. E' in sospensione nel suo rock demenziale a cavallo tra Alice ed Elio e le Storie Tese, tra Giuni Russo e gli Skiantos. E' indifferente ai destini del mondo. Parla più che cantare, un po' come il frontman degli Offlaga Disco Pax, ma quando apre l'ugola stempera la platea ricordandoci il grido di “The great gig in the sky” dei Pink Floyd. Pare mummificata ma quando parla tra una ballata caustica e l'altra è intelligente nella sua parodia di una madame enigmatica, saccente al punto giusto, supponentemente noir, zelante come Morticia Addams. Canta le sue hit: “Bitumificio” e “Uomo col riporto”, “Pediluvio” e “Chef crudista”, “Coppia etero” e ancora “Colluttazione con l'hostess” proprio quando gli animi si scaldano e alcuni anziani del borgo alzano la voce, tra minacce e bestemmie, perché non riescono a dormire. I suoi gesti sono controllati e misurati, da consumata star, imbalsamata come Lady Gaga, immersa in mosse da etoile classica. Lei è la Regina e noi siamo i suoi schiavi; salutandoci ci dice: “Buonanotte, Good night, Gute Nacht, Ammammete, Assorete”. Noi ridiamo, lei resta salda sul trono, dopotutto è l'Imperatrice.

Di tutt'altro tono (ma la complessità delle direzioni artistiche è proprio quella di spaziare tra i generi tenendo dritta la barra della qualità) èDSC_0022_WEB.jpg l'esperienza di David Zuazola con il suo “Robot” un impianto di macchinerie e meccaniche sferraglianti per una storia tenera e dura che ci racconta del nostro passato e come si possa ripresentare se non mettiamo in campo validi anticorpi. Una storia d'amore e differenza, un racconto di handicap e di solidarietà umana, di sentimenti che vanno oltre la superficie, che sanno guardare al di là della copertina. In un mondo prossimo al nostro una dittatura (sembra di stare dentro “Fahrenheit 451” o “1984”) cerca, scova e rinchiude in campi di concentramento, prima di farne rifiuti e spazzatura, i robot ritenendoli il male assoluto. Non passano dal camino ma diventano pezzi di ferraglia. I piccoli filo spinato davanti a noi danno un brivido, così come le sirene, gli allarmi, le luci della polizia, i droni a caccia, i soldati che marciano a passo d'oca. Zuazola (ci ha ricordato le piece di David Espinosa) sta tra due tavoli lunghi e manovra davanti e manipola e sposta, da dietro prende oggetti, incastra in un gioco DSC_0056_WEB.jpgtanto infantile quanto eterno. Il filo spinato elettrificato ci parla di morte e di un tempo non troppo lontano da quello attuale. La sua narrazione è un'armonia tra l'odio e la ferocia delle milizie verso le macchine mentre dall'altro lato del suo personale palco allungato, in questo presepe di figure alle quali lui presta il movimento con le sue mani, si apre una scena borghese di musica tranquilla, di casa e veranda, di fiori da annaffiare. La donna è in sedia a rotelle e un carillon di sottofondo ci racconta della sua solitudine malinconica ma in qualche modo, come i tedeschi con i nazisti, ci dice anche che (come ne “Il bambino dal pigiama a righe”) il popolo che vive accanto a certe brutture e storture non poteva non accorgersi di tali barbarie e quindi non può considerarsi innocente e con la coscienza pulita. E' l'incontro tra questi due esseri soli ed emarginati, ognuno nella propria diversità esposta, che fa nascere la voglia di parlarsi a gesti, di comunicare, di sfiorarsi. Sono entrambi prigionieri del proprio corpo, dal quale non possono scappare. Ma l'amore, si sa, è una farfalla che non vola nello stomaco come nei Baci Perugina ma riesce a passare steccati e barriere, sopravvivendo al male, al tempo: “Mi hanno sepolto ma quello che non sapevano è che io sono un seme”, pare perfetta per l'occasione la parabola di Wangari Maathai. Intanto il cielo è stellato sopra di noi. Non poteva che essere altrimenti.

“Niente è complicato se ci cammini dentro. Il bosco visto dall’alto è una macchia impenetrabile ma tu puoi conoscerlo albero per albero. La testa di un uomo è incomprensibile, finché non ti fermi ad ascoltarlo” (Stefano Benni).

Tommaso Chimenti 28/06/2021

Foto: Alvise Crovato

MILANO – La gestazione è stata lunga, più volte cominciate le prove, poi interrotte, nuovamente sul palco ed ancora stoppate. Infine, dopo due anni, la scena, l'agognato debutto. Era il 2019 quando venivano gettate le basi per questo “Decameron, una storia vera” dell'accoppiata solida Filippo Renda, drammaturgia, e Stefano Cordella, regia, supportati dalla produzione dell'MTM e TrentoSpettacoli. Partendo dall'idea boccaccesca, dieci giovani che per rifuggire la peste, scappano in un luogo isolato e iniziano a raccontarsi novelle, i nostri sei sul palco attuale (nella finzione teatrale) si recludono per fuggire alla pandemia, ognuno portando le proprie storie (le suggestioni arrivano direttamente dalle loro autobiografie) sul piatto, connesse a paure, ansie, traumi. Renda è oniricoDecameron_1_foto Alessandro Saletta.jpg e visionario, ha una forte carica e ascendente e, anche quando è sulla scena in veste di attore, ha il polso della situazione per dirigere, spostare, divenendo punto di riferimento carismatico, ago della bilancia, fulcro.

Una drammaturgia stratificata a quadri, dieci, ognuno segnalato ed evidenziato con dei colori, dai più acidi ai più tenui, un timer a scorrimento veloce per indicare il tempo che sta finendo, per una escalation molto cerebrale che quasi sfocia nel criptico con molti segni e innumerevoli riferimenti che è complicato cogliere nella loro totalità. Quasi una caccia al tesoro che, se fosse stata più chiara, avrebbe reso più fluida e fruibile la comprensione armonica, il senso compiuto generale. Perché questi quadri sono sì espressioni singole ed individuali ma, viste in un'ottica di corpo complessivo, hanno molto da dire se prese nel loro insieme acquistando respiro ed ampliando la riflessione. Troppe stesure del testo, rimaneggiato più volte causa stop and go continui, hanno creato sovrapposizioni come una sorta di scorza indurita dove l'autore (e gli autori-attori e le loro improvvisazioni sul tema) ha dato molte informazioni per scontato creando quel mistero (giusto, l'arte non deve essere tutta lampante) che a volte (alcuni quadri sono venuti meglio di altri) è scivolato nel nebuloso. Ci sono tantissime sfumature che si perdono, infiniti particolari che vengono miscelati (ed è un peccato), dettagli dissipati o soltanto non valorizzati come avrebbero potuto.

Ma Decameron_2_foto Alessandro Saletta.jpgandiamo per ordine: lo spettacolo inizia con alcune scritte che appaiono sul fondale; qui si racconta (vicenda vera) che a New York è stato posizionato, il 19 settembre 2020, un orologio con un conto alla rovescia che, secondo svariati calcoli di scienziati ambientalisti, terminerà tra 7 anni, ovvero il momento del disastro ambientale, il punto di non ritorno, la catastrofe. Un'informazione fuorviante che ci porta dentro l'ecologismo e la fine del mondo, dentro le dinamiche e le meccaniche che l'uomo ha perpetrato ai danni della Natura e quindi di se stesso. Poi arrivano le dieci scene (e non sette come gli anni dal 2020 al tracollo) del Decameron contemporaneo che invece ci portano dentro la pandemia e dentro la ricerca della salvezza (nel 1300 era dalla peste, oggi dal Covid) che l'Uomo ha messo in atto per difendersi dal virus. Quindi se da una parte parliamo di un processo ormai inevitabile che ci condurrà alla morte e all'estinzione, dall'altra, in maniera diametralmente opposta, si racconta dell'uomo che sta facendo di tutto, mettendo in campo anche l'autoisolamento, per salvarsi. Delle due l'una: o ci concentriamo sulla distruzione in atto (stiamo andando su un treno impazzito a velocità folle e senza guidatore) oppure sulla possibilità di frenare, fermarci, ripensare al mondo, al nostro stile di vita. A meno che non si colleghi il virus alla deforestazione, alla cementificazione e all'innalzamento della temperatura globale, ma qui si entra in un altro terreno ancora molto complesso. Il pubblico è giusto che “lavori”, che non stia in poltrona aspettando l'imbeccata didascalica ma in questo modo, ripeto molto concettuale (la pasta c'è) spesso il ragionamento diventa macchinoso e faticoso. L'orologio iniziale poi non verrà più nominato e allora ci siamo chiesti perché tirarlo in ballo.

I personaggi hanno i nomi di battesimo degli attori stessi, come a sottolineare una veridicità e un parallelismo con la realtà. Ogni quadro in fase di produzione è stata una scelta personale di Decameron_3_foto Alessandro Saletta.jpgogni singolo attore che ha trattato e declinato la materia, portando sue suggestioni e idee al pensiero. Ne esce un affresco frammentario, a sprazzi e flash, con alcuni momenti più toccanti o godibili da portarsi a casa o tenere in memoria.  I titoli dei vari capitoli avrebbero dovuto essere più espliciti: di solito un titolo spiega qual è l'argomento che la narrazione, sviluppandosi, tratterà. Qui invece siamo di fronte a continui spostamenti di senso e slittamenti semantici. La regia di Cordella (periodo fitto di impegni questo per lui con il debutto tra pochi giorni di “Oblomov” al festival “Inequilibrio” a Castiglioncello con gli Oyes e “La rivolta dei brutti” il 22 luglio sempre al Litta) gioca sui cambi di luce, su questo andamento armonico cercando di far passare l'idea di un progressivo allontanamento delle proprie quattro mura da parte dell'uomo, idea interessantissima che però non si riesce a cogliere fino in fondo.

Si Decameron_foto Alessandro Saletta.jpgparte dai “Dati”, che è l'inserto numero uno, l'orologio fuorviante, e una festa dove non c'è niente da festeggiare, proseguendo con “Intrattenimento”, un conduttore aggressivo di un talk show surreale, arriva “Contatto” dialogo dadaista tra una ragazza e un rider, appunto senza alcun contatto, ormai impauriti dall'altro, il quarto è “Rivoluzione”, un uomo in cerca di spiegazioni e soluzioni e un cartomante, “Controllo” (uno dei più riusciti) dialogo tra un'intelligenza artificiale che governa un bagno pubblico e una ragazza (Silvia Valsesia convincente) che era chiusa lì dentro in cerca di un po' di sollievo e pace, “Confini” (altro quadro up) che è un pezzo ritmato (il sound design è di Gianluca Agostini) che pare un hip hop potente che ci porta nelle periferie (Daniele Turconi in grande forma e sugli scudi), il settimo “Estinzione” con una coppia ingaggiata da un regista invadente per mettere in piedi un film hard-core per far eccitare e conseguentemente riprodurre i panda (divertente, con Woody Neri e Silvia Valsesia di fronte a Nicolò Valandro e Alice Redini, tutti in palla e ben affiatati). Se all'inizio veniva fornita l'indicazione dei sette anni da qui all'estinzione e chiamandosi proprio così il settimo capitolo pensavamo che la piece volgesse al termine, arrivando appunto alla sua naturale conclusione. Invece si susseguono altre tre sezioni: “Preghiera”, “Domani” e “Nostalgia”, ma dopo l'estinzione chi è che pregherà, aspetterà il domani e ne avrà nostalgia?

Le luci catartiche (di Fulvio Melli) svolgono un'importante funzione in un crescendo psichedelico, passando dal viola all'arancione, dal grigio al rosso acceso, dal verde al rosa tenue fino a sciogliersi in un bianco pallido. La sensazione è quella di un'Ultima Cena mixata con Lost, una reclusione volontaria che, dopo dieci giorni di segregazione, non ci ha resi migliori in un cortocircuito in loop gattopardesco. “Andrà tutto bene” era soltanto uno slogan da balcone. Sulle terrazze è meglio metterci i gerani.

Tommaso Chimenti 24/06/2021

Foto: Alessandro Saletta

MILANO – “Riferiscono le cronache che quando è giunta in tribunale la notizia dell'assassinio di Walter Tobagi, il brigatista Corrado Alunni l'ha accolta con una sghignazzata di tripudio. Abbiamo sempre combattuto la pena di morte sul presupposto che l'uomo non ha il diritto di uccidere l'uomo. Il presupposto lo confermiamo. Ciò di cui cominciamo a dubitare è che gli Alunni e quelli come lui siano uomini. Sui cadaveri sghignazzano le iene” (Indro Montanelli).LIFE 17.jpg

Sono passati cinquant'anni dai cosiddetti “anni di piombo”, dalle stagioni del terrorismo che hanno infangato e impaurito l'Italia, ma è ancora difficile parlarne, complicato non giudicare, non schierarsi, impossibile rimanere, per chi li ha vissuti, impassibile e neutrale. Li abbiamo voluti rimuovere con l'euforia degli anni '80, la musica dance, gli elettrodomestici presi a rate del boom economico, i Campionati del Mondo di Pertini. Non ci siamo riusciti. I '70 stanno ancora lì imperterriti, impettiti, ognuno con le sue ragioni mentre il mondo intorno è cambiato, rivoltato, mutato, sventrato e quelle teorie e dogmi ci sembrano oggi così assurdi, così lontani, così distanti da poter essere capiti fino in fondo. Che cosa spingeva un giovane universitario a seguire l'influsso dei Cattivi Maestri, cosa portava un operaio ad abbracciare la lotta armata? Prendere una pistola e fare occhio per occhio, dente per dente?

E' per questo che l'operazione di Emiliano Brioschi (suoi testo e regia) risulta complessa e sfaccettata, dinamica e senza soluzioni: “Life”, un titolo di speranza, positivo, vita, una parola che sembra rifulgere, splendere, un termine che si getta a capofitto nel futuro. Invece, simbolicamente e ossimoricamente e paradossalmente, la sua scrittura parla costantemente di morte mettendo di fronte (anzi di lato senza mai guardarsi o sfiorarsi né toccarsi, storie parallele che non si incontreranno nemmeno all'infinito), a confronto il carcere di Ulrike Meinhof (interpretata da Cinzia Spanò, sempre dentro le parole), terrorista tedesca, con la prigionia di Roberto Peci, giustiziato dalle Brigate Rosse dopo 54 giorni (come Aldo Moro, raLIFE 2.jpgccontato così bene da Daniele Timpano in “Aldo Morto”) di processo proletario illegittimo. Il campo è e resta scivoloso.

Un lavoro raffinato e diretto, schietto, che non cade mai nel banale, che non cede al sentimentalismo, duro in molti passaggi, violento, essenziale. Un lavoro nato dentro i giorni del lockdown: è proprio questo il tema che fa da sfondo a quegli anni, a quelle tensioni. La segregazione, la costrizione fisica, la prima (morta suicida nel '79) per mano dello Stato tedesco dopo aver perpetrato omicidi e altri reati gravi, il secondo, innocente, ucciso (nell'81 dalle BR) solo perché fratello del brigatista pentito Patrizio. Già nel mettere in parallelo queste due storie Brioschi ha dimostrato coraggio artistico, riabilitando la figura di Peci che per molti decenni è stato considerato un terrorista senza avere invece alcuna colpa, e dall'altro umanizzando (troppo) la figura della Meinhof che tribunali e leggi tedesche stavano facendo marcire in galera. Ecco è in questa parte, la più corposa mentre Peci-Brioschi rimane incappucciato e silente (parla per lui un video rimontato uguale alle riprese che le BR effettuarono processandolo), che abbiamo sentito uno stridore quasi di apologia non tanto delle gesta criminose quanto degli ideali professati e una critica forte, decisa, netta, energica allo Stato “fascista” che chiude, segrega, umilia, schiavizza, priva i cittadini anche se colpevoli. “Il riciclaggio presuppone che il danaro provenga dal delitto. E' sporco per la sua provenienza. Nel terrorismo è sporco per la sua finalità” (Pierluigi Vigna, magistrato).

Frasi come “Il suicido è l'ultimo atto di ribellione”, “Appropriatevi di ciò che vi è negato”, “Bisogna incendiare tutto”, “Intaccare la società dei consumi, distruggere i centri commerciali” non creano nessuna empatia per il personaggio e certamente non ce l'ha umanizzata. “Poliziotti e agenti in divisa sono bestie” e ancora “Il male è il prezzo della libertà” fanno sobbalzare sulla poltroncina dell'Elfo milanese, fanno alzare le difese, fanno sobbollire di rabbia. Questi invasati e fanatici, questi folli razionali, deviati, imbevuti e radicalizzati hanno sparso odio e morte e se decidi coscientemente e consapevolmente di fare del male lo Stato, ovvero le regole condivise di un popolo e di una Nazione, ha il potere di toglierti i diritti personali. Se Peci è tratteggiato come un innocente schiacciato negli ingranaggi di un gioco molto più grande del singolo, per quanto riguarda la Meinhof si sente un minimo, non di giustificazione, ma almeno di comprensione, di vicinanza se non di ammirazione per la fierezza e la forza, l'abnegazione e la barra sempre dritta senza piegarsi, senza pentirsi. Sono l'uno la faccia doppia di quegli anni quando qualcuno si arrogava il diritto di essere giudice super partes o di perseguire la violenza sociale e la guerriglia civile per il bene del Popolo senza che quest'ultimo fosse stato messo al corrente, senza che avesse avuto modo di esprimere le proprie idee, personaggi che si erano autoproclamati, autoesaltati, autoinneggiati.LIFE 18.jpgIl terrorismo prosperò grazie a chi diceva: compagni che sbagliano” (Gianni Oliva, storico).

Un testo (e una tesi di fondo) e una messinscena dolorosi e rigorosi quelli di Brioschi, intellettuale prestato al teatro, che crea discussione e divisioni, che fa nascere il dibattito, che ci riporta dentro quei fatti sui quali abbiamo operato rimozioni psicologiche salvifiche. Soffriamo, anche fisicamente, per il cappuccio nero asfissiante, e respiriamo a fatica con lui sperando nel perdono che sappiamo con certezza che non arriverà. Spanò e Brioschi sono credibili e le storie che riportano in superficie sono importanti da strappare all'oblio. Il terrorismo è stata una pagina fosca e buia di persone che giocavano a fare la guerra sulle spalle delle vite della gente comune, perpetrando una lotta destinata inevitabilmente alla sconfitta. Forse LIFE 25.jpgerano soltanto ambiziosi di potere, riempiendosi la bocca di slogan come “Potere al popolo” quando del popolo non avevano una grande opinione (patriarcalmente lo volevano istruire e instradare), volevano soltanto arbitrariamente, e non come avviene in un processo democratico, sostituirsi al potere costituito: “Volevamo che il popolo ci seguisse, poi ci siamo voltati e non c'era nessuno dietro di noi”. “Uccisi perché? Per il sogno di un gruppo di esaltati che giocavano a fare la rivoluzione, si illudevano d'essere spiriti eletti, anime belle votate a una nobile utopia senza rendersi conto che i veri “figli del popolo”, come li chiamava Pasolini, stavano dall'altra parte, erano i bersagli della loro stupida follia” (Mario Calabresi).

Se parliamo dell'estrema sinistra, sui 4.000 inquisiti (1.300 solo nelle BR) per reati collegati a gruppi terroristi italiani, sono in carcere soltanto ventuno reduci degli anni di piombo, undici irriducibili con l'ergastolo ma che non hanno mai chiesto la possibilità d'uscire, che dopo ventisei anni consecutivi di detenzione sarebbe stata concessa. La maggior parte è stata scarcerata e adesso sono liberi, molti sono diventati scrittori o opinionisti politici chiamati da giornali o tv compiacenti. Ma davvero ne valeva la pena? Da far vedere agli studenti delle scuole. “Chiedere perdono richiede più coraggio che sparare, che azionare una bomba. Quelle sono cose che possono fare tutti. Basta essere giovane, ingenuo e avere il sangue caldo” (Fernando Aramburu, scrittore basco).

Tommaso Chimenti  22/06/2021

CAGLIARI – Ci sono muri che raccontano a distanza di anni, pareti che a sfiorarle, polpastrelli a raschiare l'intonaco narrano di voci, di volti, di sguardi, di corpi persi nel tempo, di rughe e fatica, di mani e sudore. “Se queste mura potessero parlare” non è soltanto un modo di dire, una frase fatta che qui acquista verità. Se gli oggetti, le cose le trattiamo come qualcosa di inanimato sono e resteranno materia senz'anima, bidimensionali, se invece ci mettiamo in ascolto, petto e testa aperti, allora li sentiremo sussurrare, li sentiremo respirare, prenderanno forma e vita, avranno la terza dimensione, la profondità, avranno carattere e forza, restituiranno tutto quello che hanno contenuto, l'atmosfera, la luce, anche il dolore.Adriana Monteverde, intrepreta la sigaraia.jpeg

E' una grande operazione culturale quella messa in piedi dal regista Karim Galici e dalla sua compagnia Impatto Teatro con questo “Cosa rimane?”, mossa di restituzione di un luogo chiuso e vietato per troppo tempo alla cittadinanza e che adesso torna ad essere aperto, per conoscere la storia di questa città nella città. “Sa Manifattura”, la manifattura tabacchi del Monopolio di Stato, era una delle ventuno sparse in Italia dove si producevano sigarette e sigari di ogni tipo. Adesso ne rimangono attive soltanto tre e in mano a privati (Chiaravalle, Lucca, Cava dei Tirreni) ma il mercato si è spostato e il Monopolio importa i tabacchi dall'estero.

Le manifatture in Italia davano lavoro complessivamente a 4.000 dipendenti, ed erano a Lucca, Firenze, Rovereto, Bologna, Modena, Milano, Torino, Verona, Lecce, Bari, Catania, Cagliari, Chiaravalle, Venezia, Roma, Santa Maria Capua Vetere, Palermo, Napoli, Cava de' Tirreni, Scafati, Città Sant'Angelo, Perugia, Casalina di Deruta, Sestri Ponente. Quella di Cagliari era una fabbrica, con 300 tra operai e impiegati, aperta agli inizi del Novecento e chiusa definitivamente nel 2001. Un'azienda che ha dentro di sé, come una matrioska, una metafora, tante storie, più o meno piccole, sociologiche, storiche, antropologiche, lavorative, sindacali, esistenziali. Dove ti volti li senti quei volti antichi in bianco e nero che si accalcano per guardarti, per descriverti, per riuscire a passarti un po' di quel refolo di fiato che è stato, di quell'ansimo, di quel (g)orgoglio che qui si è alimentato, è cresciuto, è vissuto.

E adesso Cosa Rimane.jpg“Cosa rimane?” (prod. Impatto Teatro con Sardegna Ricerche e contributo di Fondazione di Sardegna) si è chiesto Galici che ha fondato tutta la sua carriera sulla scelta poetica e politica di creare teatro in spazi non convenzionali (dai centri storici agli orti botanici, castelli o villaggi nuragici) ma non soltanto per rifuggire al “teatro” e alle sue regole ma proprio per costruire una narrazione territoriale che prendesse spunto dal contesto e su quello fondasse la sua drammaturgia. Per Galici il testo è, deve essere, assolutamente interconnesso al luogo, che non è solo fondale ma che anzi è un vero e proprio corpo e personaggio, ruolo centrale e fondamentale. La dicitura site specific non è soltanto proporre teatro in un luogo ma le parole devono necessariamente essere intrecciate a quel particolare spazio fisico. E' per questo che i suoi spettacoli (chiamarle esperienze è meglio) non sono per così dire trasportabili né in altri luoghi né limitabili ad un palcoscenico. L'essere itinerante, come un viaggio dentro gli argomenti e i temi per meglio comprenderli (interattivamente, didatticamente attraverso la parola raccolta, le interviste, l'accumulo di materiali, le ricerche negli archivi), il pubblico numericamente limitato per ogni replica, il camminare tentando così un avvicinamento alla verità fanno del teatro di Impatto (formazione fondata agli inizi del 2000 a Roma e poi trasferitasi a Cagliari) una scoperta continua, un'epifania, scavando in un passato recente dal quale, fisicamente, si è voluta lasciare la città e i suoi abitanti ignari. Ben vengano queste prese di posizione artistiche che aprono i cancelli, che forzano i lucchetti, che spalancano le porte, che la memoria deve circolare, che i racconti devono fluire, per non perdere nell'oblio del tempo, che tutto appiccica come marmellata e schiaccia come pressa, questi nomi antichi, queste vite, questi soffi di esistenze comuni, che non hanno fatto la Storia (intesa come eventi eccezionali) ma hanno dentro infinite storie di lavoro, di sfruttamento, di diritti tutti da conquistare, di rispetto, di cambiamenti Le sigaraie.jpegepocali, di lotta, di rivolte, di emancipazione femminile.

Due anni il tempo per mettere insieme tutto il materiale occorso per questa full immersion dentro le stanze della Manifattura che diventano set e quadri e dove gli attori sono mischiati con i non-attori, o meglio i veri protagonisti delle vicende narrate, ex lavoratori che hanno toccato con le loro mani, che hanno visto con i loro occhi. Altro aspetto essenziale e primario delle ispirazioni di Galici è senz'altro anche il teatro sensoriale che lo avvicina a gruppi come il Teatro de los sentidos di Enrique Vargas: l'odore del tabacco come quello del caffè, o il bendare i partecipanti esaltano, amplificano, rendono lo spettatore attivo e in prima linea, creano un filo trasognante che sottolinea e scorre sotto pelle, che si tatua nella mente degli intervenuti. Si crea alchimia ed empatia. Accompagnati dal nostro Caronte-Virgilio (Adriana Monteverde “la Sigaraia”, chi faceva i sigari erano soltanto le donne per via della delicatezza delle mani: “Questa è e resta casa mia!”) entriamo in punta di piedi in questo mondo sconosciuto, dentro la pancia di questo mostro gigantesco, una vera cittadella che nei secoli era stata convento francescano e fortezza. Il buio, rischiarato da fiaccole a terra, gioca un ruolo fondamentale di ombre che ingigantiscono aumentando attesa e suspense. Come carbonari avanziamo e in ogni cortile o stanzone ci accoglie un pezzo vivente, un performer che rievoca, ci riporta in quegli anni, spiriti riesumati, anime che traboccano di voglia di comunicare cos'era quel luogo, chi lo abitava e viveva e come si svolgeva l'attività, i rapporti di lavoro e di forza, le regole fasciste, le relazioni, le malattie per il continuo respirare la polvere e il truciolato, gli infortuni sul lavoro, l'asilo dei neonati, il lavoro a cottimo e le balie-nutrici.

Passiamo Monica Zuncheddu nei panni di Cuccu la sindacalista.jpegdalla “Sindacalista” (Monica Zuncheddu, grande forza: “La manifattura è nostra”) dove tutti insieme brindiamo, dopo la sua arringa incendiata, con un vino corposo prodotto dallo stesso regista, un nettare liquoroso che scalda. Ma ci sono anche inserti non attoriali, persone che hanno lavorato realmente all'interno della manifattura e che hanno deciso di raccontarla direttamente con le loro parole, mettendoci la faccia; come Giuseppe Martini, “l'infermiere” che ha perso la vista (e che bendandoci tutti ci ha permesso di sentire quello che sentito lui lì dentro orientandosi soltanto con i rumori delle varie stanze per capire che percorso fare all'interno della fabbrica) o Emidio Porru “l'operaio”. Onirico invece l'intervento di Andres Gutierrez che, spuntato da sotto un cumulo di foglie, ha impersonato lo spirito guida del tabacco tra candele e riti che diventa pifferaio magico. Le loro memorie sono toccanti e ci parlano di soprusi, di mancanza di equità, di battagliare. Non solo narrazione però, perché ci sono coreografie e balli e canti ma anche proiezioni che ci riportano alla vita all'interno della fabbrica che diveniva totalizzante: qui c'era la chiesa e le feste, qui c'era il cinema-teatro, la socialità, qui ci si sposava e si trovava marito o moglie: si entrava giovani e se ne usciva vecchi. La fabbrica non era soltanto un lavoro: “Non siamo bulloni come vogliono farci credere”.

Quella di Karim Galici non è un'operazione nostalgia ma è un restituire uno spaccato che altrimenti (questo è il potere dell'arte e del teatro) si sarebbe perduto con la morte anagrafica dei suoi protagonisti. Sarebbero importanti altre esperienze del genere perché, frase abusata ma vera, senza passato non può esserci futuro, per una comunità, per una nazione, per un Paese. Per questo, oltre allo spettacolo teatrale, sarà realizzato un film documentario per poter raggiungere tutte quelle persone che non hanno potuto, soprattutto le scuole, seguire il progetto in presenza (tutte le repliche sono andate sold out, tanta era l'attesa in città). “Cosa rimane?” Adesso potremo rispondere che resterà questa esperienza-spettacolo per contrastare il silenzio, la dimenticanza, l'omertà, la trascuratezza, la negligenza. La Manifattura adesso è di tutta Cagliari.

Tommaso Chimenti 21/06/2021

BOLOGNA – Sembra uno spettacolo progettato ad hoc per il post pandemia questo nuovo “Il Labirinto” a cura del Teatro dell'Argine. Il distanziamento è assoluto e radicale, siamo soli in una grande stanza, anzi un'aula di una scuola bolognese (Istituto Aldini Valeriani; in un'altra ala si stanno svolgendo gli esami di maturità), la visione è singolare, autonoma e solitaria. Invece questa discesa agli Inferi (potremmo trovare anche un parallelismo con quest'annata dedicata a Dante, scendendo tra i gironi dell'Umanità) era stata concepita nel 2019 e poi saltata e rimandata causa Covid. g0azBd8A.jpegE' un reale viaggio dentro una vera e propria Via Crucis con le sue quattordici stazioni, quattordici come i giovani, sette ragazze e sette ragazzi, che venivano annualmente dati in pasto al Minotauro, lo stesso numero di storie, reali, estrapolate da interviste per portare a galla situazioni di penombra, degrado, margine, discrimine, disagio, violenza, periferia, miseria, abbandono. Un viaggio (trip in inglese rende meglio l'idea con la sua accezione psichedelica) dentro antri e budelli, angoli nascosti e curve cieche dell'anima, buchi neri, anfratti maleodoranti.

Con i visori sugli occhi ci si manifesta un mondo altro fatto di corridoi e cunicoli, di mattoni rossi e cancelli e storie tutte da seguire con il fiato sospeso, il groppo in gola, l'ansia crescente per un'ora di pura concentrazione, ai dettagli, alle parole, alle storie drammatiche e pesanti che non possono lasciare indifferenti. Un viaggio che dà anche la nausea, il mal di mare, la labirintite appunto perché sposta l'asse di riferimento, fa barcollare il baricentro, scuote i sensi. Camminiamo dentro questi gangli cercando la via d'uscita come la salvezza ma non arriverà né la prima né tanto meno la seconda. Saremo sconfitti e senza armi, senza possibilità di riscatto e impotenti davanti a queste storie di ordinaria follia perpetrata dagli adulti ai danni dei più piccoli indifesi, dalla società verso le nuove generazioni, narrazioni di sfruttamento, di vessazione, di accanimento, di frustrazione. E noi, con i nostri occhialoni, vaghiamo da una stanza virtuale all'altra, con un peso sempre maggiore da portarci dentro e addosso, una soma, un carico difficile da digerire e gestire. Perché l'impianto è da videogioco ma le tematiche fanno rabbrividire. Storie vere (scritte da Giacomo Armaroli, Nicola Bonazzi, Mattia De Luca, Giulia Franzaresi, Silvia Lamboglia) e dirette sapientemente da Andrea Paolucci che ha composto un lungometraggio dentro il quale siamo pedine naufraghe dentro gli incubi di ragazzi che hanno perso forzatamente l'innocenza, senza più sogni, che sono diventati cinici, che si sono creati per difesa una scorza per proteggersi dalle intemperie dell'esistenza.

Il 202436422_10215347171950920_3127507690544113872_n.jpgMinotauro, che esso siano gli adulti o la società del consumo, ha sempre bisogno di infornate di carne fresca, e perdersi è facilissimo tra mondi paralleli e realtà offuscate, il dio denaro e questa voglia di crescere che tira da una parte e dall'altra la paura e il terrore del diventare grandi. Appena entriamo ci appare, tra stupore meraviglia e ansia, una bambina in una visione che ci porta dritti a “Shining”; la seguiamo, ci scorta, ci conduce, ci fa strada dietro angoli, ci fa salire in questa ascensore per l'Inferno (“Angel Heart” di Alan Parker) dove, sempre virtualmente, veniamo molestati da un altro ospite, grande e grosso. E' il benvenuto, il welcome per farci capire dove siamo finiti e quale sarà il climax. L'agitazione sale. Ci muoviamo in questa aula (reale stavolta) seguiti e aiutati da una “maschera” ma per un'ora il nostro intorno è soltanto questo dedalo (per tornare al Mito di Creta) di viuzze e stradine tortuose che ci aprono epifanie che non vorremmo vedere né sentire. Questi ragazzi che appaiono ci fanno entrare nella loro quotidianità fatta di prostituzione minorile, di hikikomori che si chiudono nella propria stanza senza uscirne più, di autolesionismo, di baby gang che commettono reati che riusciranno a comprendere dopo molti anni, di madri che “vendono” le figlie, di bullismo prima subito e poi rimesso in atto in un cortocircuito che non ammette stop, di bambini migranti non accompagnati che si perdono tra burocrazie e numeri fino a scomparire dai radar, di serate alcoliche solo per sentirsi grandi o per annullarsi o soltanto per postare queste bravate sui social, di storie di depressione.

e3L'Argine dimostra ancora una volta la sua vocazione per il teatro civile e impegnato da una parte e dall'altra di grande apertura e DZdkFRA.jpegvicinanza verso le nuove generazioni non tanto, come dice qualcuno, perché saranno il prossimo pubblico teatrale ma perché saranno i cittadini di domani, anche se non andranno mai all'ITC di San Lazzaro a sedersi in platea. Un'ora di immersione non in un mondo così lontano e distante, non negli Inferi, non in una realtà sotterranea; e in questo la scena finale è emblematica, palese e crudele, lampante e brutale: spesso siamo ciechi e sordi, indifferenti che guardano ma non vedono, per mancanza di empatia o proprio per difesa del nostro piccolo orto, davanti al disagio che ci circonda e facciamo finta di niente, e tiriamo avanti. Se consideriamo gli altri come numero o come folla indistinta non aspettiamoci amore, solidarietà, aiuto: siamo anche noi, ai loro occhi, una moltitudine indefinita che cammina, ci occlude la vista e che come arriva se ne andrà, senza lasciare traccia, senza nome, corpi da attraversare. Il Labirinto è dentro di noi e in esso ci perdiamo ogni volta che non tendiamo una mano a quel bambino che potevamo essere noi.

MFfCtEHA.jpegUna vera e propria esperienza invasiva che ci tocca (anche se non possiamo toccare niente essendo tutti gli oggetti che incontriamo fittizi e irreali), che ci tange dentro, ci scardina, ci sposta, che non ci fa stare né tranquilli né nella nostra comfort zone al riparo dal brutto, dal tragico, dal marcio. Qui ti devi mettere in gioco anche se è un gioco al massacro, un gioco dark, un gioco noir dove non riusciremo a “riveder le stelle” se questi ragazzi (come tanti altri là fuori) in loop continueranno ad essere usati e abusati, violentati e derisi, certamente tarpati, annullati, cancellati. Il Minotauro siamo noi, ognuno di noi che permette e avalla questi comportamenti e atteggiamenti, che si gira dall'altra parte, immersi nel menefreghismo, nel pressappochismo, nel mors tua vita mea. Al massimo ci scandalizziamo o ci possiamo indignare. Tutt'al più possiamo mettere un like, un pollice su o un cuore sotto ad un post che racconta barbarie e malvagità. E' il massimo che il Minotauro, per non farsi scoprire (nemmeno a se stesso) può fare. Intanto il gioco delle vergini deve andare avanti: ci vuole sempre nuovo carbone per pompare e alimentare la fornace del consumismo.

Tommaso Chimenti 18/06/2021

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