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FIRENZE – Maria Cassi è tornata e lo ha fatto alla grande, nel suo stile inconfondibile, nella sua cifra unica e inimitabile. Ed è in formissima. Dopo un paio di spettacoli di ripresa e di “alleggerimento”, “Diamine” e “La solita zuppa”, con il nuovo “Alè”, sempre insieme al fidatissimo Leonardo Brizzi al pianoforte e nel ruolo della spalla impostata e compunta contraltare della sua energia e follia scenica, si è tornati ad applaudire a piene mani alla sua fiorentinità, al trionfo di una comicità sincera, che non è passata mai di moda. Le sue battute, la sua gestualità da mimo consumato, le facce esplosive, la bocca usata in mille espressioni, il gergo tutto nostrano (che piace in egual modo ai suoi concittadini come ai tanti stranieri che affollano il Teatro del Sale), i modi di dire forzati ed esagerati sempre efficaci. E “Alè” è un inno alla vita dopo il periodo difficile della chiusura del Covid prima e successivamente della scomparsa del compagno Fabio Picchi, ideatore e fondatore del concetto del Sale, un mix inscindibile tra musica, teatro e buon cibo in un luogo magico. Un “Alè” contro le brutture, contro la sfortuna, contro le negatività, un saluto al domani pieno di sorprese, un andare incontro LEOG3412-1-scaled.jpgalla bellezza, senza lasciarsi schiacciare dai momenti no, un sorriso al nuovo, all'ignoto, un lasciarsi andare incontro al futuro pieno di sorprese, un racconto poetico ed emozionale, un abbraccio senza preclusioni né pregiudizi, un saluto al Sole della risata che rischiari sempre il buio dei nostri tempi.

Non possono mancare i suoi classici tormentoni, ai quali il suo pubblico si è fidelizzato e non vorrebbe mai rinunciare: le sue digressioni sul “ragionare” dei fiorentini, il discorrere principalmente sul nulla, lo “scuotere la testa”, segno distintivo di chi abita vicino all'Arno, l'avere il “palletico”, ovvero non stare mai fermo un attimo, le lamentele continue come mantra, quell'“oioi” cantilenato, i “canti” che a queste latitudini sono gli angoli delle strade dantesche. E' una rana dalla bocca larga con una mimica facciale che inevitabilmente fa esplodere il riso, improvvisa un gramelot, giocando con la sensualità intonando un'aria in tedesco (e qui ci ha ricordato Ute Lemper), ora è “fantozziana” piena di tic nervosi e nevrosi, adesso canta a cappella dimostrando alte doti canore.

Con il Maestro di pianoforte Brizzi, il loro rapporto artistico va avanti da trentacinque anni, che fa il serioso e la spalla rigida, opposto della sua imprevedibilità stupefacente, l'alchimia, i ritmi e i tempi ormai sono naturali e spontanei e si muovono come un unico organismo: rappano oppure si cimentano in Stanlio ed Ollio o ancora si lanciano in sfide non-sense cariche di buon umore. Non puoi non sorridere, non puoi non farti venire le brizzi-e-cassi-1024x485-1.jpgrughe d'espressione agli angoli delle labbra. Non ci si stancherebbe mai neanche di seguire un altro dei suoi cavalli di battaglia più longevi, “La morte del cigno” esilarante, che sempre scatena risate contagiose. Il suo duetto con gli ottantotto tasti ci porta ad un medley dove dal “Don Giovanni” si passa a “Un cuore matto” di Little Tony arrivando ad “Azzurro” di Celentano fino ai Blues Brothers e concludendo con Fred Buscaglione. La gag con la lingua fuori è un pezzo di bravura da LEOG3414-5-scaled.jpgsottolineare, così come quella spassosissima del “Voltapagine”, la persona che durante i concerti di musica classica ha il compito di girare le pagine degli spartiti di un solista, che in questo caso però è distratto, cialtrone, sbadato e disattento creando caos clownesco e confusione indicibile sul palco. Maria Cassi si merita il Fiorino d'Oro, le chiavi della città per essere da tanti anni ambasciatrice di Firenze, per il suo amore per la città di Brunelleschi e Michelangelo, per averla portata sui palcoscenici nel mondo e per aver regalato ed elargito così tanto buonumore. La formidabile Cassi è Firenze, l'una compenetrata nell'altra.

Tommaso Chimenti 01/05/2023

PRATO – Sarebbe bello se tutte le vite avessero l'opportunità e l'occasione di poter essere raccontate. Che ognuno di noi avesse la fortuna di poter spiegare le nostre debolezze e cadute, le nostre lacrime e tutti quei momenti intimi che ci sono rimasti dentro negli anni e hanno costruito il nostro personale album delle fotografie. “La mia vita raccontata male” innanzitutto non è affatto raccontata male, anzi; la scrittura di Francesco Piccolo è sempre toccante, ironica, commovente, entra nelle pieghe del personale per diventare universale e arrivare a tutti i cuori, a tutte le nostre memorie, ai ricordi condivisi del primo amore, delle partenze, dei cambiamenti, dei momenti di passaggio. Ricordare: riportare al cuore. Ecco la forza di queste parole, calde, seppiate, nostalgiche ma senza amarezza né rabbia, nemmeno disillusione o disincanto (il fanciullino qui è vivo e vegeto) leggere e profonde, serene, dolci, riappacificanti con il nostro io. Perché bisogna perdonarci i fallimenti Bisio-1078x720.jpge le debacle. “Perché a vent'anni si è stupidi davvero”, stornellava Guccini, ma anche a trenta, a quaranta e oltre. Quando ci guardiamo indietro verrebbe sempre da farci una carezza tenera e amorevole al noi che eravamo qualche anno o decennio prima, sorridendoci, abbracciandoci, dandoci quella pacca sulla spalla o parola di conforto che in quel momento nessuno ci ha donato.

In scena Claudio Bisio ha quella naturalezza del vecchio amico che ti mette a tuo agio e ti dice accomodati, stiamo un po' insieme stasera, senza schemi, senza tempo, raccontami, ti racconterò. Con Bisio viene sempre in mente Daniel Pennac e il suo Signor Malaussene oppure la voce di Sid, il bradipo dell'“Era Glaciale”. E, pensando a Pennac, la costruzione di questo “La mia vita” (prod. Teatro Nazionale di Genova; 1h 30' scorrevolissima; visto al Teatro Politeama Pratese) può far pensare, come impianto diaristico e cronologico, a “Storia di un corpo”, proprio del Gallione_cast_LMRM_9732-phMarinaAlessi-934x720.jpgromanziere francese. La regia di Giorgio Gallione ha quattro elementi di forza: le decise di sedie sparse sulla scena, imponente di finestre e porte e mattoni, dove è stato ricreato un interno casalingo, sedute che il conduttore di Zelig utilizza spostandosi per introdurci nelle sue diverse età, le innumerevoli vecchie televisioni con tubo catodico disseminate per tutto il palco che ci danno il sapore del gracchiante, del bianco e nero, di quell'imperfetto che in fondo ci piaceva, i gruppi di tanti oggetti appesi che a più riprese scendono dall'alto ad innescare e affrescare un nuovo quadro temporale del protagonista, altre sedie o libri o ancora piante. Per ultimo ma non ultima, anzi fondamentale, la musica (i due chitarristi Marco Bianchi e Pietro Guarracino) per sottolineare e drappeggiare i crack di questo romanzo di formazione, arpeggiando note nazional-popolari che pungono le biografie di tutti, da Ivano FossatiE di nuovo cambio casa” e “Dedicato”, fino a “Ufo Robot”, o “Non amarmi” di Aleandro Baldi.

“La mia vita” è un respiro soffice, è una sdrammatizzazione delle nostre esistenze, è il tentativo di relativizzare le sconfitte e i “fallimenti La-mia-vita-raccontata-male-def.jpgche per tua natura normalmente attirerai”. Di impatto anche le luci (di Aldo Mantovani) che spaziano da un blu elettrico ad un rosa shocking a un verde psichedelico ad esaltare attimi, circostanze, azioni. L'antidivo/antieroe Bisio ci porta per mano dentro questa biografia (la sua? quella di Piccolo? un mix delle due? un'ipotetica romanzata e letteraria? non ha importanza) che tutti tange: i primi fidanzamenti alle scuole medie con i primi annessi dolori che sembrano insuperabili, la mamma che ci asciuga i capelli in bagno e ci mette il borotalco e quegli odori e mani ci rimarranno per sempre stampati tra il naso, il cuore e il cervello, le prime scelte politiche anche se nate per pretesti occasionali, gli amori liceali sentendosi sempre fuori fase, in fuorigioco, fuori tempo massimo, e poi il lavoro che ingrana e le prospettive che mutano radicalmente, i figli e la vita che prende pieghe inaspettate e del tutto non programmate.

“La mia vita raccontata male” di Piccolo/Bisio sono dei morsi, è un assaggiare, un toccare, un mettere i polpastrelli dentro un'autopsia del tempo di un uomo medio (mai mediocre) tra sentimenti alti e questioni più basse, perché nessuno di noi è Superman, siamo tutti Clark Kent, nessuno è Batman, al limite possiamo essere Robin, nessuno è Gastone siamo tutti Paperino, sfortunati di lusso, siamo dei buoni gregari che a volte si tolgono delle piccole soddisfazioni cercando di guardare quello che si ha invece che quello che non abbiamo avuto né quello che non avremo mai, puntando più sull'essere che sull'avere, senza invidia né gelosia perché la vita è un soffio.

Tommaso Chimenti 15/03/2023

CATANIA – E' un gioco sottile nel quale perdersi, scivolare come dentro le sabbie mobili, un meccanismo che sempre più, lentamente ti inchioda a passaggi, dettagli che mutano impercettibilmente, in un andamento tanto armonioso quanto feroce, adesso leggero ora scattoso dentro un marchingegno psicologico dove i personaggi (e gli attori), ma anche il pubblico, sono gli ingranaggi di un sistema che cambia le regole, che prende nuovi spiragli e luci, che assume nuove forme perché visto e inquadrato da diverse angolazioni. Potremmo essere dentro il tunnel degli specchi nell'affrontare questo sorprendente “L'Amante” di pinteriana scrittura al quale la regista Veronica Cruciani (prod. Teatro Brancati di Catania) non solo ha dato una veste nuova ma anche una percezione, un percorso misterioso e minimalista, che cangia i contorni, sposta, architetta come una partita a scacchi dove la strategia prende il sopravvento sull'azione. Un testo complesso, mai puramente lineare, pieno di non-detti, di sfaccettature ambigue. Una regia con solide idee.

DSC_8795.JPGIn quest'ambiguità la Cruciani ha voluto mettere, in questa palude dei sentimenti, Graziano Piazza e Viola Graziosi (convincenti, pieni di tinte e colori e tonalità, grande affinità e disponibilità nell'ascolto dell'altro in scena) nelle parti di Richard e Sarah, marito e moglie sulla scena, marito e moglie nella vita. Un altro, l'ennesimo salto mortale di questa messinscena. Come Tom Cruise e Nicole Kidman che però dopo la lavorazione di “Eyes wide shut” di Kubrick si lasciarono. Non è un dettaglio da poco che la vita entri prepotentemente dentro il teatro, dentro questa drammaturgia, che ha sessant'anni, che riserva sempre sorprese, nuovi bagliori, infiniti nodi gordiani e dubbi insoluti. Un puzzle con tessere mancanti, da inventare, elementi tra sogno e realtà, tra immaginazione ed enigmi che, anche a fine replica, non si saranno dipanati. Sta al pubblico fare “fatica”. Se forziamo un po' la mano al ragionamento potremmo avvicinare, o almeno trovare un parallelismo, tra “L'amante” e “Nella solitudine dei campi di cotone” di Koltes; in quest'ultimo un qualcuno voleva vendere qualcosa a qualcun altro che non sapeva di volere questa mercanzia. La merce che viene messa in vendita dentro questo testo di Harold Pinter (potrebbe essere l'anticamera o il prequel di “Tradimenti”, sempre a firma dello stesso autore londinese) non è tanto la fiducia ma quanto siamo disposti a recitare, a trovare nuove strade, a immedesimarci in altre vite per digerire meglio le nostre esistenze, quanto possiamo essere qualcun altro per essere pienamente noi stessi, quanta infelicità ci può regalare la monotonia.

Gli attori (che effettivamente stanno insieme dagli stessi anni della relazione dei personaggi che interpretano) cominciano senza costumi, con il copione in mano, con le luci in platea, presentandosi con i loro veri nomi, leggendo le didascalie del testo e le note di regia, parlano con il pubblico in un continuo scambio di battute e opinioni. Ed è questa la trappola (complice anche le sonorità di John Cascone e le luci di Andrea Chiavaro) che la regista romana tesse alla platea: piano piano le luci cambiano, la scena prende corpo, si mettono i costumi, tutto rigorosamente a vista. E' una materia pulsante, un magma che ribolleDSC_8890.JPG e che evolve da un attimo all'altro creando nuovi mondi, parentesi, bolle di pensiero. Il marito è consapevole dell'amante della moglie ma, si scoprirà, anche l'uomo ha una sua tresca con una prostituta. Coppia aperta quasi spalancata, si penserà. Sono complici ma ogni tanto accenni di violenza e colpi di gelosia scuotono la borghesitudine che li accompagna dolcemente, ora giocando adesso accusandosi e litigando, o ancora confessandosi sinceri senza filtri e perdonandosi. Che il letto sia di legno francescano duro e scomodo non è un dettaglio secondario, un talamo nuziale non confortevole. Gli abiti, il pigiama, la vestaglia, la poltrona, il divano, la tovaglia, tutto è di un verde spinto quasi psichedelico come un sogno acido, una deformazione della realtà mistica e allucinata.

Ripetono delle stesse scene come dovessero seguire, ed eseguire, un copione, come fossero dentro un “Truman Show”, fino a scambiarsi i ruoli, fino a diventare l'altro, fino a prendere le sembianze del coniuge (in una sorta di “Psycho”), fino al completo ribaltamento dei ruoli. E non è un particolare da poco nemmeno il fatto che realmente ci sia una distanza anagrafica tra la Graziosi e Piazza nella vita e quindi questo si riverbera anche sul palco: la scrittura maschile di Pinter ci mostra una donna più giovane, volitiva, aggressiva, testosteronica, consapevole, decisa, sicura di sé che obbliga il compagno più maturo, vittima e succube, più calmo e pacato, ad acconsentire a certe dinamiche imposte per il bene della relazione. E' in questa continua messa in scena che il matrimonio somiglierà sempre più al teatro con i ruoli da ricoprire, una trama da rispettare, un andamento da onorare.

Tommaso Chimenti 10/03/2023

FIRENZE – E' la vita, già. Anche la sua conclusione, anche l'amarezza della perdita, anche lo strazio della scomparsa fanno parte del viaggio, del percorso. “That's Life” canta The Voice in apertura e in chiusura. Ed è proprio così, è il passaggio delle stagioni, è la notte che segue al giorno, è la Natura che non possiamo fermare e di fronte alla quale non possiamo fare niente se non accettare e accogliere, sentirci fortunati per ogni giorno su questo Pianeta, grati per i sorrisi, per le persone vicine, per la felicità che possiamo ritagliarci. E' l'ultimo spettacolo di Maria Cassi nel suo Teatro del Sale che riapre dopo due anni di pandemia e soprattutto dopo la dipartita dello chef e mentore Fabio Picchi che lo aveva concepito, ideato, creato e regalato alla compagna. Palco e cucina un binomio eccezionale che qui ha trovato il suo habitat ed è esploso tra sapori e arte. A prendere il posto del padre, ecco Giulio, che ha seguito le orme in cucina del genitore, solita prestanza fisica e presenza, stesso vocione caldo, colorato, familiare. Tra Giulio e Maria c'è grande sintonia e complicità, empatia, armonia, vicinanza. Infatti si riprende con le vecchie abitudini, con l'applauso a chi ha cucinato Maria-Cassi-e1635164339352.jpgper noi, con un discorso caloroso ed entusiasta, quasi motivazionale, emozionante, per poi lasciare il palcoscenico alla Cassi che, da sola (anche se dialoga spesso con la colonna centrale), spazia sui suoi cavalli di battaglia dei quali non ci annoieremo mai. L'ora e mezza scorre veloce ed è un ringraziamento alla vita, al godimento, al piacere dello stare insieme. E non nomina mai il cuoco Picchi ma nelle sue parole c'è grazia e sentimento, eleganza e leggerezza nel riportarlo tra noi senza lacrime: soltanto sorrisi per celebrare la vita, quella che ci stupisce e sorprende e quella che a volte ci tira dei brutti scherzi. “La vita senza tenerezza e senza amore non è che un macchinario non oliato, pieno di cigolii e di strappi”, sentenziava Victor Hugo. E' questo il lascito di chi non c'è più, è questa la lezione che Maria diffonde dal suo palcoscenico: “La vita deve essere vissuta come un gioco”, argomentava Platone. Picchi era il suo e nostro “Garibaldi”.

La Cassi, con le sue smorfie e gramelot, con le sue facce e boccacce, nella sua mimica istrionica e contagiosa ci porta dentro il suo mondo (un mondo antico di fiorentinità che forse non esiste più) e ci racconta la sua Firenze e le caratteristiche dei fiorentini, ai quali piace “ragionare”, ovvero discorrere e parlare sugli argomenti più disparati senza in effetti dire niente ma soltanto per il gusto appunto di chiacchierare, che scuotono la testa ad ogni piè sospinto in segno di protesta o per evidenziare che qualcosa, se non tutto, non gli vada per il verso giusto, che dicono sempre “Oioi” per lamentarsi di qualsiasi cosa. “Che vita, ah, puoi dirlo, sento sempre image (1) (1).jpgil peso di un ricordo appeso al collo” (Samuele Bersani, “Che vita!”). Ecco il confronto impietoso con l'altra sua città del cuore, Parigi, dove ha casa, città e abitanti pieni di charme e fascino, di classe e incanto contro l'artigianalità della lingua toscana, quell'essere sboccato, ma non volgare, del fiorentino doc.

Fanno capolino anche i suoi vecchi personaggi, i suoi topos, le sue macchiette esilaranti, quelli che l'hanno accompagnata da sempre sul palco e che, anche stavolta, vogliono farsi nuovamente vedere, accennano ad uscire, vogliono anche loro godersi la serata di questo nuovo debutto, di questa riapertura: c'è l'Omino che aspetta l'Autobus e come intercalare usa “Vaia Vaia”, altra locuzione gergale per esprimere dissenso e malcontento, le due Pettegole, la vedova e la zitella, che si becchettano continuamente e dalla finestra giudicano il mondo là sotto la loro strada e se ne stanno a “bracare”, ovvero a spiare e ficcare il naso negli affari altrui, il Tossico che dice sempre “bischero”, la Matta del Quartiere, tragicamente bella che offende con epiteti pesanti le ragazze al loro passaggio, l'Omino con il Cane che si assomigliano. Maria Cassi è un fiume in piena, non scenderebbe più da lì sopra e il pubblico le tributa grande affetto, un amore sconfinato, ovviamente da dividere tra lei e il Picchi, che se n'è andato ma non se n'è andato per davvero.

Vita io ti credo dopo che ho guardato a lungo, adesso io mi siedo, non ci son rivincite, né dubbi né incertezze ora il fondo è limpido, ora ascolto immobile le tue carezze” (Dalla, Morandi “Vita”).

Tommaso Chimenti 19/10/2022

TORINO – La ferita che ha lasciato il Covid nell'animo e nelle vite delle persone è ancora profonda, troppo aperta e sanguinante per poterla affrontare come un qualsiasi altro argomento. Troppo fresca per parlarne, per esorcizzarla attraverso l'arte, soprattutto attraverso il teatro, l'arte per eccellenza che sublima e innesca, che fa metafora della realtà, che astrae, estrae, sintetizza, rielabora. Questo non significa che dobbiamo applicare censure o rimozioni collettive però crediamo che la nostra società, soprattutto quella occidentale che è stata travolta e stravolta da questi due anni prima di privazione della libertà poi dilaniata dal conflitto 03_L'estinzione della razza umana_ph Luigi De Palma_RR60995.jpgvax/novax e infine colpita da inflazione e recessione, ancora non voglia confrontarsi con il tema del virus e abbia bisogno di altro tempo per allontanarsi dalla minaccia, relativizzare il passato, fare un passo indietro e guardare a quest'ammasso di emozioni contrastanti con un occhio meno partecipe e meno coinvolto. Tutto è talmente troppo vicino (le mascherine in teatro, aereo e treno si continuano a portare, e i morti collegabili alla malattia ci sono quotidianamente) che non possiamo ritenerci immuni, che non possiamo parlarne come un dato del nostro recente passato perché ne siamo ancora invischiati e la coda lunga, soprattutto nell'economia, si farà sentire per svariati anni. Se siamo ancora dentro al vortice è difficile e complicato poter argomentare con lucidità, prendere posizione con un coerente distacco, con la giusta distanza.

La gente vuole sentire parlare di Covid o in questo preciso momento storico cerca, non tanto il disimpegno, quanto altri porti e sbocchi, altre questioni non così pesanti e pressanti che non ci possano far ripiombare nei momenti appena trascorsi? Se sei appena uscito da un incubo, se hai appena subito un importante trauma che ha completamente ribaltato la società dei consumi e sterilizzato il nostro modo di vivere, l'ultima cosa che vorresti è sprofondare nuovamente nelle stesse trite e tristi dinamiche, continuare a parlarne, a sviscerare situazioni e sviluppi, andare a fondo, 04_L'estinzione della razza umana_ph Luigi De Palma_RR61233.jpganalizzare. Ancora, secondo noi, i tempi non sono maturi per un'esposizione collettiva, quale è il teatro, per una condivisione comune della faccenda. Infatti non molti testi contemporanei parlano di Covid. Si respira un blocco emotivo a riguardo.

E, secondo Emanuele Aldrovandi, il suo debutto “L'estinzione della razza umana” (visto al Teatro Gobetti torinese; prod. Teatro Stabile Torino, Associazione Autori Vivi, Corte Ospitale) non parla del virus partito dalla Cina. Però c'è una malattia respiratoria, a metà tra la famigerata Sars19 e l'aviaria, però c'è un lockdown con tutte le relative causali e conseguenze concatenate. La pandemia mondiale, all'interno della dialettica che l'autore reggiano ha dipanato tra cinque personaggi (Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi), va a caduta sul cambiamento climatico e su quanto la sovrappopolazione del globo abbia influito e influisca sulla salute del Pianeta. Molta carne al fuoco, molte tematiche spesse e piene e corpose. Si ride e si riflette. La scrittura di Aldrovandi (per noi è prima di tutto un autore, uno scrittore e poi un drammaturgo e infine un regista) la mettiamo nel paniere assieme a quelle illuminate di Fausto Paravidino e Bruno Fornasari, esempi di concretezza, profondità, tenacia, lenti d'ingrandimento sull'oggi senza tralasciare l'ironia sulla nostra specie, riflessioni senza le pesantezze della tragedia, senza finte commozioni. In un condominio (la scena di Francesco Fassone) che diventa habitat e gabbia di zoo si confrontano due coppie (l'autore aveva in mente un qualcosa che ricordasse “Il dio della carneficina” di Yasmina Reza) che diventano fazioni che si trasformano in guerriglia. Prima il maschio dominante contro l'altro maschio alfa, il nodo del contendere era che uno dei due voleva uscire e andare a correre mentre l'altro glielo impedisce perché siamo il decreto del lockdown lo vieta, poi le donne sono solidali, adesso si aggregano gli uomini, dopo si scontrano le famiglie, infine anche le donne, soprattutto sul tema maternità visto06_L'estinzione della razza umana_ph Luigi De Palma_RR60935.jpg che una delle due è diventata madre da poco mentre l'altra ha scelto di non averne perché non ha fiducia nel genere umano e perché la vita umana uccide il pianeta, si accapigliano in un tutti contro tutti infelice.

Interessante è questo colore, tra il celestino e il grigio, che ricorda vagamente una cromatura ospedaliera di lenzuola o di camici da infermiere o addirittura la mascherina chirurgica, un non-colore scialbo delle mura, delle finestre che si spande e si scioglie nelle loro tute-divise anch'esse grigie, quasi da carcerati, che li appiattiscono alle mura, che li fanno scivolare nell'anonimato. Colore che ogni tanto si incendia di rosso gracchiante e d'allarme pulsante. Divertente è la deriva apocalittica e distopica delle conseguenze dell'aver contratto il virus: le persone si trasformano in grossi tacchini (come Pinocchio e gli altri studenti discoli in ciuchini da macello) con tanto di piume sulla schiena e bargigli e cresta e becco. La scelta grottesca però non viene spinta ma soltanto accennata, invece poteva essere il gancio giusto per staccarsi dal contingente e fare di questo racconto una favola noir dove l'oggi si tramutava in incubo visionario. E ancora, avvincente e curioso è il fatto che più i quattro personaggi principali (il quinto è il rider che porta i pacchi di Amazon o il dottore che torna dai turni massacranti in ospedale) esprimono le loro idee e prese di posizione sul mondo, sulla vita e sulle loro libertà e scelte esistenziali e politiche, e più ogni volta ci sentiamo d'accordo con tutti, dando sempre ragione all'ultima riflessione lanciata sul piatto.

La scrittura di Aldrovandi ci mette alle corde, ci sprona, ci punge, ci sbalza dalle nostre convinzioni proprio perché la ragione non sta acriticamente da una parte soltanto. In queste figure, nelle loro salde certezze e sinceri convincimenti, però quello che risalta è la loro fragilità (la nostra), il nostro spaesamento, il nostro naufragare alla ricerca di notizie, di verità, nuotando a scansare fake news, ad evitare manipolazioni e pubblicità che ci vogliono sempre più usare come pedine e consumatori invece che come cittadini pensanti. Nel mare 08_L'estinzione della razza umana_ph Luigi De Palma_RR60770.jpgmagnum dell'informazione ci siamo assuefatti alle bugie del mercato, dei politici, della tv, degli esperti, tanto che non riusciamo più a capire chi mente e chi ci vuole mettere in guardia, confondendo sempre più il Gatto e la Volpe con il Grillo Parlante. Tutto e il contrario di tutto, tutto è il contrario di tutto, e siamo spaesati e disillusi e annaspiamo in perenne balia. Ecco perché ci sono stati i seguaci di Trump poi i novax, adesso i putiniani e gli orsiniani: “Quanti perfetti e inutili buffoni, questo Paese devastato dal dolore” urlava disperato inascoltato Franco Battiato. Le persone si sentono sole e abbandonate, hanno paura e si rifugiano in regole nette e schemi semplici per cercare conforto, per non sentirsi stupidi, anzi per credere di essere intelligenti, in perenne lotta contro l'establishment, in conflitto con i “poteri forti” che spesso non esistono come i mulini a vento di Don Chisciotte.

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“L'estinzione della razza umana” ben fotografa questo momento storico che stiamo affrontando nel quale molti ignoranti si affidano alle ricette di qualche guru da web che impasta, maneggia e adultera dati e informazioni, documenti e notizie per certificare e consolidare le proprie tesi, spesso politiche, faziose, parziali, settarie, facinorose per loro tornaconti. A molti è mancata la scuola e l'istruzione, ad altri, quelli che si credono furbi e geniali per il solo fatto di non stare nella maggioranza, manca l'umiltà di capire talmente sono indottrinati dall'arroganza, dal potere, imbevuti di odio edi presupponenza verso i propri simili che, evidentemente, considerano inferiori, quelli che chiamano “il gregge”. Il condominio di Aldrovandi è un affresco plausibile di quello che ogni giorno è la dialettica sui social network, le battaglie a colpi di nuovi link, non tanto per convincere l'altro ma quanto per sentirsi più intelligenti, meno fregabili, meno fallibili, meno allocchi. Magra consolazione se le foreste vanno in fiamme, se gli oceani sono pieni di plastica, se le temperature diverranno inaccessibili e inaccettabili: “Intanto la primavera tarda ad arrivare”. “Viviamo strani giorni”.

Tommaso Chimenti, visto al Teatro Gobetti di Torino il 17/05/22

Foto: Luigi De Palma e Bruno Cattani

PRATO – Il rischio c'era ed è stato calcolato. Sembra però, subito fin dalle prime battute e dalle prime psichedeliche e coloratissime e curatissime scene, che il patchwork sia stato ardito, il mosaico altrettanto forzato, l'incastro pericoloso. La pellicola del '66 di Age e Scarpelli portata sul grande schermo da Monicelli e questa regia di Roberto Latini (prod. Metastasio + ERT) fin dall'apertura del sipario appaiono mondi infinitamente lontani per poter 246496859_6202674249803989_4735693691343407252_n.jpgessere messi sullo stesso piatto a dialogare. Certo agganci possibili, tra quel Medioevo che attendeva con ansia e tormento la fine del mondo dell'anno 1000 e questi tempi nostri burrascosi, la peste di allora e il Covid compagno di questi ultimi anni, se ne possono trovare, echi, rimandi, ritorni, ma sono più che altro evocazioni lanciate e lasciate lì a macerare in quest'agorà che rimane molto formale e cromatica e dove, soprattutto il linguaggio, arcaico, maccheronico, vetusto, si scontra inevitabilmente e frigge e confligge con la visione della retina che ci riporta un universo, pulito, lineare, di un futuro interstellare e 247700856_6202675399803874_7850429304292064746_n.jpgintergalattico che le maglie con il triangolino sul petto da Star Trek ci raccontano. Insomma non vi aspettate di ritrovare alcuna atmosfera de “L'Armata Brancaleone” così come l'abbiamo conosciuta e amata che qui diventa scomposta, decomposta, frantumata, digerita, rifatta, riassemblata, certamente geneticamente modificata. Come accadde con il “Natale in Casa Cupiello” di Latella che irritò il pubblico.

All'orecchio arrivano le sillabe che furono di Vittorio Gassman e Gianmaria Volontè e Enrico Maria Salerno (i paragoni sarebbero irrispettosi), maccheroniche, volgari, materiali, viscerali, mentre l'occhio vede le Guerre Stellari; il risultato risulta non credibile, complicato da seguire, faticoso, come cercare di infilare un pezzo del puzzle a forza dove evidentemente non può trovare il suo spazio naturale di apertura. Un giusto esperimento ma irrisolto. A questo poi aggiungiamoci le “trovate” alle quali ci ha sempre abituato Latini (che è e rimane un artista della scena, questo è bene sottolinearlo): i sette attori che scendono dalla graticcia su una trave-altalena come i costruttori (spesso italo-americani) dei grattacieli immortalati nelle foto in bianco e nero con sotto una New York in divenire (celebre e iconica l'immagine “Men at lunch” scattata da Charles Ebbets del '32 sopra il Rockefeller Center), oppure l'innesto finale (cifra latiniana alla quale non rinuncia mai) con il regista che si cala nei panni di Petrolini in versione illusionista alla David Copperfield. Il Teatro Metastasio ha aperto la nuova248149911_6202676923137055_5377698096701667023_n.jpg stagione con questa produzione mantenendo ancora in platea i tavolini da Cafè Chantant. Tra gli attori (Elena Bucci, lo stesso Latini, Claudia Marsicano, Ciro Masella, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Marco Sgrosso, Marco Vergani), che non sembrano mai pienamente a loro agio dovendosi districare tra un testo che punta altrove e una scena che mira lontano, ma tutti coesi in questa avventura tentennante, sottolineiamo la prova di Pennacchia (con la maglia gialla del capitano Kirk) unico ruolo, forse, che ancora possiede e mantiene un certo gusto agrodolce, quella fervida sensazione di dramma e comico propria della commedia all'italiana. Del film cult non è rimasta che la scorza e il lessico che, come evidenziato, stonava e contrastava con la visione. 

Dove è 248161368_6202672139804200_7137691771528974600_n.jpgandata la farsa dissacrante? E dove la goliardia espressa dall'intramontabile must monicelliano? Dove è andata la beffa e lo sberleffo, dove il caustico, la redenzione, il paradosso, dove quella carnalità vitale e disperata, in celluloide espressa e manifesta e qui sul palco solo mimata? E' rimasto il barocchismo dialettico che però mal si sposa con l'ambientazione spaziale. L'Armata Brancaleone senza i costumi originali già perde moltissimo del suo immaginario e della sua potenza e poetica evocativa. Tra le cose da tenere e salvare la scena accattivante di Luca Baldini e le luci calde di Max Mugnai. Star Trek (ab)batte Monicelli, come l'invasione aliena di “Indipendent Day”, come il videogioco “Space Invaders” dove tutto è bombardato, destrutturato, imploso. L'iperuranio ha spazzato via, mangiandoselo a morsi, con razzi missile e circuiti di mille valvole, con la cibernetica e l'aria cosmica, con i raggi laser e gli scudi termici, il Medioevo. Rimangono intatte riserve e dubbi e perplessità e ci sfugge il senso ultimo dell'intera operazione. Straniante.

Tommaso Chimenti 23/10/2021

Foto: Guido Mencari

CATANIA – “Date alle donne occasioni adeguate e saranno capaci di tutto” (Oscar Wilde).

La donna sembra essere diventata, nel nostro contemporaneo lessico, un oggetto da rivendicare o un cliché da sdoganare, molto spesso un ragionamento da strumentalizzare, un pretesto per dire altro. Si parla talmente tanto di donne che, paradossalmente, sublimandole a “materia”, qualcuno ha voluto renderle astratte per farne, non più carne, ma soltanto ragionamenti per allontanarle Bassa donne in guerra 1, da sx Egle                 Doria, Leda Kreider, Carmen Panarello, Federica Carruba     Toscano,         Barbara     Giordano, Isabella Giacobbe (1).jpgdalla realtà. Le donne invece, per chi non se ne fosse accorto e ne parla come animali in via d'estinzione, stanno nel reale, vivono, lavorano, soffrono, gioiscono, sono parte integrante di quel nostro meccanismo chiamato mondo. Anche la galanteria e la cavalleria hanno in sé il germe del protezionismo che controlla e vuole assoggettare. Mi duole dar ragione a Michela Murgia ma anche il discorso di Benigni, in favore della moglie, trasuda di quel maschilismo indorato di estrema gratitudine e fine gentilezza con la donna relegata a Musa, che ispira ma che non agisce, che sta dietro le quinte, bonaria, paziente, devota. Tutto il contrario di quello che tracima dal potente “Donne in guerra”, nuova produzione del Teatro Stabile di Catania.
A parlare delle “donne” si commette il peccato di accomunarle tutte a stereotipi, spesso forgiati dagli uomini. Ecco “Donne in guerra” ci parla di questo, ci fa prendere coscienza della donna nel suo tempo, non solo vittima e burattino da spostare, peso da portare, elemento che non fa notizia, numeri che non fanno la storia, ma protagoniste, capaci di prendere decisioni coraggiose, persone che, seppur nelle difficoltà, hanno preso in mano le loro vite, senza la retorica della salvezza né di Marte né del sangue né della Patria da salvare, e hanno vissuto non aspettando passivamente l'aiuto di padri, mariti, fratelli, ma scegliendo bivi pericolosi in maniera consapevole. Chi dice donna non dice danno. “Una donna dev'essere una piccola cosa carina, carezzevole, ingenua, tenera, dolce e stupida” (Adolf Hitler).

“Donne in guerra” ad una prima lettura ci racconta storie belliche, di vita e morte durante la Seconda Guerra Mondiale, ma se scaviamo più a fondo ci apre le porte della determinazione, della energia, della vitalità, della forza, del coraggio di non abbattersi, del non sottostare ai ruoli impostiBassa donne in guerra, Barbara                 Giordano (Anida).jpg per loro da altri, di ribellione alle classificazioni, di prendere in mano la propria esistenza senza attendere assistenzialismi né vittimismi. Queste donne, per fortuna, non sono “l'altra metà del cielo” né tanto meno il “sesso debole”, non si vestono di rosa né d'altro canto scimmiottano l'uomo e i suoi comportamenti legati al potere e al sopruso. Nel testo (che non si può definire “femminista”, sarebbe riduttivo) di Laura Sicignano, che firma anche la regia, e Alessandra Vannucci, sei diverse donne, sei modi differenti di interpretare e attraversare la guerra, quella guerra che combattono gli uomini al fronte imbracciando un fucile nella loro personale “Guerra di Piero” ma che qui, nella normalità delle città abbandonate, si fa sporca guerriglia con le mille regole non scritte della rappresaglia come della sopraffazione, dell'abuso.

Messo in scena nel 2015 a Genova al Teatro Cargo (che la Sicignano dirigeva a Voltri, nel Ponente ligure, prima di approdare allo Stabile di Catania; a proposito nel '22 scadrà il suo mandato e sarebbe una vera perdita se la sua esperienza terminasse appena dopo il primo triennio visto che ha risollevato il teatro dalla crisi e dai debiti nei quali era sprofondato), in questa nuova produzione etnea (le repliche andranno avanti per un mese, dal 28 settembre al 29 ottobre, scelta d'impatto questa per riaprire il teatro alla città, 80 spettatori a sera) la scena si presenta su un doppio livello, prima sul palcoscenico con il pubblico in piedi e la “presentazione” sopra bauli rossi delle figure che ci accompagneranno (1h 30' la durata) per poi scendere giù nella platea aperta dove sono state tolte le poltroncine ed è stato installato un binario e le casse adesso sono grigie e non preannunciano felicità. Ecco le sei attrici, caratteri diversi di un caleidoscopio infinito, tutte intense, pugnaci, determinate: Federica Carruba Toscano, Egle Doria, Isabella Giacobbe, Barbara Giordano, Leda Kreider e Carmen Panarello.Bassa donne in guerra, Isabella                 Giacobbe (Irene).jpg

Siamo nel '44 nostrano ma potremmo essere oggi in Cecenia o in Iraq, in Afghanistan, a Kobane in Siria. La guerra rimane tale anche cambiando latitudini e momenti storici. E queste donne non si sono fatte soverchiare dalle contingenze ma hanno preso in mano i loro destini: c'è la pasionaria Anita la partigiana, la borghese e pia Signora De Negri, Milena la bionda fascista, la levatrice, la matta, e Maria che per l'8 settembre ha fatto la pastasciutta per tutti. Le sei hanno un rapporto diretto con la platea, vanno vicino al pubblico, ci parlano, interloquiscono, lo interrogano, scambiano battute e oggetti. Noi siamo dentro la storia. Adesso siamo dentro questo treno ideale “che è mezzo vuoto e mezzo pieno e va veloce verso il ritorno, tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore”. Ci sono ricordi di fabbrica, perché adesso, con gli uomini assenti, le donne possono lavorare per portare lo stipendio a casa, vogliono votare, sono impegnate in politica. Sono Bassa donne in guerra, Leda Kreider                 (Milena).jpgdonne che fanno e hanno fatto la guerra pur non essendo andate in guerra. Sembra una contraddizione. Nei loro racconti di morte, di tragedia e sofferenza, di fame e di abusi, vengono al pettine i disastri che si sono accaniti su queste macerie umane. E' una narrazione brutale e crudele, dura, cruda, feroce, che non fa sconti, che non lascia niente al non detto, dalle fucilazioni agli stupri. Il pubblico non può non essere coinvolto e partecipe. Ma queste donne, ferite e vessate (non c'è happy end per nessuna, ognuna paga le proprie scelte), sono portatrici di messaggi positivi, c'è un barlume di futuro, un velo di domani: lavorano e protestano, si ribellano, si rivoltano e urlano, con le loro azioni, “Guerra alla guerra” senza chinare la testa. E' il loro camminare-incedere sbilenche sui sassi squadrati, che stanno tra i binari, a identificare il loro passo incerto ma anche la loro tenacia nel non cadere, il loro tenersi su senza lasciarsi sconfiggere dalle intemperie, dalle avversità, “dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai”.
Senza queste donne, senza le donne rimaste a casa a fronteggiare la deriva morale dei conflitti armati non avremmo la nostra forma di democrazia cresciuta sulle lacrime e sul sangue non soltanto dei soldati in divisa, nelle trincee o dei militi ignoti. Queste donne escono dalla solita narrazione di vittime indifese, anzi sono diventate protagoniste emancipate dei cambiamenti del loro e del nostro tempo.

“Per tutte le violenze consumate su di lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le sue ali che avete tarpato, per tutto questo: in piedi, signori, davanti ad una Donna!” (William Shakespeare).

Tommaso Chimenti 29/09/2021

Foto: Antonio Parrinello

LISBONA - Già nel 2018 Tommaso Chimenti fu insignito del prestigioso “Gran Premio” riconoscimento più alto all’interno del “Premio Internacional de Jornalismo Carlos Porto” al Festival de Almada (promosso dalla Camara Municipal de Almada), quest’anno la giuria gli ha conferito il “Premio Imprensa Especializada” (la stampa di settore, critica teatrale) per l’articolo scritto in occasione del festival dello scorso anno “Neanche il covid ferma il Festival di Almada che coraggioso rilancia” pubblicato il 5 agosto 2020 sulla nostra testata Recensito.net, nel quale aveva riportato le sue impressioni sugli spettacoli “O criado” (di Andrè Murracas), “Rebota, Rebota” (di Agnes Mateus), “Martir” (regia proprio di Rodrigo Francisco), “Turismo” (di Tiago Correia). Questa la motivazione del premio: “Una visione romantica del paese e della città facendo un parallelismo con il Festival de Almada”. Il Festival (quest’anno dal 2 al 25 luglio) è giunto alla 38esima edizione mentre la Companhia de Teatro de Almada, diretta dal regista Rodrigo Francisco, festeggia i 50 anni.

 

Queste le parole di ringraziamento di Chimenti durante la premiazione: “Innanzitutto vorrei ringraziare la Camara Municipal de Almada per l’attenzione che sempre mette nell’analizzare i testi critici riguardanti il Festival de Almada. In seconda battuta un ringraziamento doveroso al direttore Rodrigo Francisco che fin dal primo momento, complice anche la sua perfetta conoscenza dell’italiano, 220088568_10215503613621864_3323367542666283237_n.jpgsi è dimostrato un vero amico. Nel 2018 ho vinto il Gran Premio Carlos Porto in maniera del tutto inaspettata, per me quello era il primo riconoscimento nell’ambito della critica teatrale e dopo ne sono arrivati molti altri; quindi posso dire che il Festival de Almada mi ha portato fortuna. Non credevo assolutamente di poter vincere un altro premio così importante qui a Lisbona e per questo la soddisfazione è doppia. Il Festival de Almada ci permette di avere uno sguardo il più ampio possibile su quello che avviene sulla scena internazionale a livello mondiale. Ogni anno scopriamo nuovi autori e compagnie e approfondiamo il nostro bagaglio culturale e professionale. Sono molto orgoglioso di far parte di questo nucleo di giornalisti internazionali che son riusciti a vincere più volte il Premio Carlos Porto e posso dire che Almada e, di riflesso Lisbona, sono diventati miei luoghi dell’anima. Qui mi sento a casa. Ci vediamo il prossimo anno e per gli anni a venire sperando di essere letto e apprezzato da voi come è successo in queste quattro edizioni (‘17, ‘18, ’20, ’21) alle quali ho partecipato”.

Gli altri riconoscimenti sono andati: a Manuel Xestoso di “Nos Diario” il “Gran Premio” e a Goncalo Frota di “Publico” il Premio Imprensa Generalista”. Il premio, istituito nel 2008, è intitolato alla memoria di Carlos Porto, critico teatrale, poeta e drammaturgo portoghese. In questi anni hanno vinto giornalisti e critici di importanti testate portoghesi, spagnole, sudamericane, anglosassoni e statunitensi: Primer Acto, Publico, Revista Obscena, Latin American Theatre Review, Il Manifesto, Diario de Noticias, Jornal de Letras, Jornal espanhol Gara, Revista ADE, ABC, Teatro Critico Universal, Jornal Raio de Luz, Expresso, L'Humanité, L'Apuntador, Sipario, Jornal I, The Guardian, El Mundo, Nos Diario, Artezblai.

Qui il bando integrale del Premio: https://aviagemdosargonautas.net/2018/06/15/festival-de-almada-35-a-edicao-apresentacao-a-comunicacao-social-premio-internacional-de-jornalismo-carlos-porto/

E qui il link del Sindacato dei Giornalisti Portoghesi: https://jornalistas.eu/premio-carlos-porto-decidido-em-junho/

Questo invece l’articolo con il quale Chimenti ha vinto il “Premio Carlos Porto per la Stampa Specializzata”:

218448030_10215507247792716_2539142000057922278_n.jpgAlmada è sempre un soffio, un respiro, quasi un'isola lontana e vicina a Lisbona, ai suoi azulejos, alle sue strutture che cambiano, alla sua storia. Almada la vedi, è lì a portata di mano, la fotografi in lontananza che sembra irraggiungibile e quel ponte, sempre rosso fiammeggiante, pare un elemento scenografico e cinematografico messo lì per aumentare la magia del posto, delle acque che si incontrano, veloci del Tago e feroci dell'oceano a cozzare proprio davanti ai tanti murales, carichi di espressività e socialità, nati sulle vecchie e scalcinate mura di ex magazzini e vecchie fabbriche, cantieri navali in disuso. Almada pare un'isola, riconoscibile con quel Cristo che a braccia larghe ci abbraccia e non ci lascia mai soli. Gli aerei solcano di continuo il cielo anche in questo periodo post-Covid. La fase finale della Champions League si giocherà qui, a casa di Cristiano Ronaldo marchiato a strisce senza colori. La tramvia taglia Almada e la rende raggiungibile, veloce. Da Almada, con il bel tempo, si possono vedere entrambi i ponti, il XXV Aprile rosso come il Vasco de Gama bianco, oppure a sinistra Belem e a destra in alto il Castello. Negli ultimi decenni si è trasformata; sembra piccola ma è grande, moderna con le sue piazze dove giocano piccole fontane a zampillare verso il cielo, dove gli skate sfrecciano. Ecco, se vogliamo trovare un paragone, Almada sta a Lisbona come la Giudecca sta a Venezia. Città di mare, luoghi dove si respira il salmastro. 218378862_10215507065148150_4259575585637703637_n.jpgDa trentasette anni il Festival di Almada (quest'anno ancora più coraggioso di sempre il suo direttore artistico Rodrigo Francisco) è un faro nel campo teatrale europeo: in questa edizione addirittura si è passati dalle due settimane standard di programmazione (solitamente era dal 4 al 18 luglio) alle oltre tre (dal 3 al 26) rilanciando proprio quando molti hanno desistito. Anche i molti e sparsi teatri dove sono andati in scena gli spettacoli ci hanno mostrato, ancora una volta, il bisogno, la fame e la necessità di teatro di un popolo che ha vissuto il festival e riempito le sale, appuntamento atteso ed aspettato tutto l'anno: il centrale Municipal Joachim Benite che sembra una piscina capovolta con i suoi infiniti piccoli quadratini celesti a rischiarare e illuminare di luce tenue l'intorno, l'Academia Almadense moderno e funzionale, l'Incrivel Almadense cubo nero, il Forum Romeu Correia di grande impatto nel parco dove spicca la scultura delle tre braccia, con mani aperte a toccare le nuvole, l'Estudio Antonio Assuncao bianco e piccolo che pare una facciata di un palazzo messicano. Il bacalao non manca mai, nei pranzi e nelle cene condivise, momento conviviale dove potersi incontrare tra compagnie e operatori provenienti da tutto il mondo, mentre la scelta complicata è se prendere una Sagres o una Super Bock, le birre che vanno per la maggiore in Portogallo. Almada ogni anno ci sembra più attiva e contemporanea, Lisbona più fresca e giovane, il Portogallo più frizzante e aperto. Andrebbe fatto un monumento nazionale ai pasteis de nata, il pasticcino a base di pasta sfoglia e crema.

Sospesa tra cinema e teatro ci è apparsa la piece “O criado” (quest'anno soltanto tre sono stati gli spettacoli stranieri, tutto il resto erano di provenienza portoghese) di Andrè Murracas, non a caso anche regista cinematografico. Partendo da “The servant” adattato da Harold Pinter, il regista, che è anche attore e movimentatore di oggetti per le videoproiezioni ma anche lettore e mixerista al suo tavolino da lavoro centrale, è il deus ex machina che si muove, sposta, fa, articola tra i suoi mille spazi. Il tutto in bianco e nero e il tutto in continuo parallelo e confronto, in controluce, in prospettiva, in sovrapporsi, in dissolvenza, tra la realtà, la pellicola in questione e la riproposizione nel presente della stessa scena in video, quasi un doppio, allo specchio. Ma non solo; il film e le azioni del regista-performer in teatro dal vivo sono intervallate da interviste con vari attori che rispondono, leggono parti del copione o lo provano nel privato delle loro abitazioni. Murracas è molto hitchcookiano. Come se il teatro entrasse in contatto e in dialogo (diavolo?) diretto con il cinema. Ma se l'idea può essere arguta, la sua realizzazione, soprattutto con l'avanzamento, risulta didascalica con lo scorrimento delle immagini e la spiegazione delle stesse come fosse un cineforum o una conferenza o una lectio lasciandoci distanti, un po' in sordina, laterali rispetto all'opera molto nebulosa e criptica, ben orchestrata ma poco viva. E' questa la deriva del teatro o l'evoluzione del teatro? Speriamo sia soltanto la prima opzione. Il regista diventa anche dj, si improvvisa prestigiatore ma ha poca presa ed empatia ottenendo un effetto freddino che sa di un tentativo, un esperimento non andato a buon fine, naufragato senza dolcezza, rimasto a metà strada, con il colpo in canna. E se il cinema fosse soltanto il teatro in remoto?

220743099_10215512276798438_2647864091224905848_n.jpgSe “O criado” in una scala sentimentale era razionale e controllato, possiamo assolutamente affermare il contrario per quel che riguarda “Rebota, Rebota” della spagnola Agnes Mateus, un vero vulcano cosparso di argento vivo e mercurio incandescente. Sul palco è una furia, un ciclone, uno tsunami che tutto spariglia e travolge, una forza possente e titanica, una vera rocker, un fuoco, un turbine. Ha una marcia in più la Mateus nella sua invettiva che parte in tono canzonatorio e brillante e si fa pian piano sempre più atto d'accusa sul tema della violenza sulle donne divenendo, alla fine, vero e proprio stato d'allarme, processo accusatorio, presa di coscienza sul femminicidio, consapevolezza e moto di ribellione ed orgoglio. Sul boccascena, come una punk dai pantaloni dorati scatenata sulla musica techno con la faccia dipinta come Joker, la performer sperimenta la sua parodia machista-latina con tutti gli stereotipi del caso, partendo dalle offese alle donne. Il suo è un canto, un grido, un urlo, s'accapiglia, s'infervora, s'agita, si scalda. Il suo è un alfabeto delle ingiurie e degli insulti che normalmente le donne, ad ogni latitudine e in ogni contesto sociale, devono subire. Il suo è un j'accuse doloroso, a tratti rancoroso, spesso retorico, pieno di furore positivo e d'impeto rovente. Diventa cascata e torrente in piena, è un diesel che si fa turbo. Dopo gli oltraggi è tempo di scartavetrare e ribaltare il vero senso maschilista delle fiabe per bambini dove la donna aspetta sempre che il maschio la salvi, la sposi, la elevi dal suo rango di subalterna. Frasi al veleno, “nel calcio non ci sono omosessuali” o “se una donna non si sposa vuol dire che è lesbica”, fanno da contraltare con fasi più pop e leggere. E' un Leo Bassi in versione femminile, vulcanica, senza peli sulla lingua, è un Puk che non fa sconti, che non cede, che non molla la presa, che ti mette all'angolo con le spalle al muro, davanti alle responsabilità della società, degli uomini e delle stesse donne che accettano, subiscono, non si ribellano. Funambolica, elettrica, sconquassa, percuote, distrugge, è un carrarmato, un caterpillar, uno schiacciasassi che non si incrina, vera pasionaria, amazzone intensa, energia pura, spinosa, mai doma. L'elenco delle donne uccise per mano maschile tra le quattro mura domestiche in Spagna è un pugno nello stomaco ma è quando, da circense, diventa il bersaglio di un lanciatore di coltelli, metafora della condizione femminile, che il discorso si fa ancora più cupo fino a quando la Mateus non mette la testa, per minuti interminabili, dentro una carriola piena di terra ricordando lo struzzo ma anche pratiche di tortura: “Le donne dimenticano per sopravvivere, le donne perdonano”. Dall'alto cadono centinaia di palline (il rimando agli organi sessuali maschili è evidente e voluto): it's raining men!

Altro tema cruciale della nostra società è senz'altro la religione, i suoi fanatismi, i suoi deliri, le sue allucinazioni, i suoi isterismi, le sue farneticazioni, le sue esagerazioni. La religione vista come uno scudo, come un parafulmine a tutto ciò che accade, una protezione, un tetto sotto il quale rifugiarci nel mezzo del temporale della vita, un riparo conservatore e consolidato, accondiscendente e consuetudinario e consolatorio. Ma quando a diventare fanatico religioso e osservante alla lettera della Sacre Scritture è un adolescente le cose si fanno problematiche perché mette in crisi una serie di dinamiche e comportamenti assodati, crepano l'ordine costituito delle cose, il normale andamento di regole e divieti, mina l'autorità dei professori, quella dei genitori. “Martir”, testo di Marius von Mayenburg, per la regia di Rodrigo Francisco (in Italia l'hanno realizzato i Filodrammatici di Milano un paio di stagioni fa), ci porta dentro la trasformazione della psiche di un ragazzo, nel suo avvicinamento al Vangelo fino a considerare il mondo moderno come sponda naturale per le parole millenarie degli apostoli, applicando le parabole dei santi come leggi inamovibili che tutto regolano. La messinscena è ampia e aperta, bianca, pulita, un quadrato con tante finestre che adesso si fa scuola, ora casa, infine chiesa. Teche linde alle pareti dove poter scrivere (come sono gli adolescenti, teli bianchi, spugne che raccolgono) versetti e frasi, citazioni bibliche e virgolettati che danno un senso alla vita, che la spiegano, la chiariscono, vetrate come lavagne. La religione come appiglio e piede di porco per dare una definizione all'insondabile esistenza degli umani. Il ragazzo (molto convincente il protagonista) che diviene ogni giorno sempre più devoto e pio, bigotto ed osservante, che rifiuta il contatto con le ragazze, che entra in aperto conflitto con la madre e con la professoressa, nodo e fulcro della vicenda. Chi è il Martire? Chi vuol farsi Martire? Chi è vittima e chi invece si fa passare per vittima? In questo gioco al massacro ci si scambia la pena di una croce da portare per divenire quei “Martiri” che la società può tollerare, sopportare, santificare, con i quali solidarizzare e non, per senso di colpa, emarginare.

Interessantissima la riflessione del giovane regista e drammaturgo Tiago Correia che incentra la sua riflessione sul “Turismo”, quella massa di persone che si spostano, mangiano, 222105912_10215507751045297_3680106568792383037_n.jpgfanno foto, si muovono, prendono mezzi, hanno bisogno di servizi, incrementano l'indotto di un Paese inevitabilmente trasformandolo a suo gusto e misura snaturandolo intimamente. Il Portogallo, negli ultimi anni, ha sponsorizzato dinamiche per far sì che i pensionati europei, prendendo lì la residenza non paghino le tasse per i primi dieci anni. Un bel colpo, un Paese sicuro, tranquillo, con una buona qualità della vita, un clima mite anche d'inverno e nuove strutture per i suoi nuovi cittadini. E' ovvio che il turismo, e di rimbalzo l'economia, per soddisfare chi viene a spendere nel nostro Paese, lo voglia a sua immagine e somiglianza, a cominciare dal cibo, ai costumi, tutto si frantuma, si globalizza, diventa meticciato, le tradizioni si perdono, tutto si annacqua tra souvenir (prodotti comunque in Cina) e mete sempre meno esotiche ma anzi frequentatissime. Non esiste più un luogo che non ha visto turismo e turisti che sì comprano, dormono e cenano ma che trasformano le città in gadget, ninnoli, soprammobili, cartoline. Le città così violentate perdono la loro anima, i residenti che lasciano il centro affittando a prezzi astronomici. Quello che è successo con Venezia, città fino alle sei di pomeriggio invivibile e dopo deserta. Quello che è successo a Forte dei Marmi in Versilia con i russi che sono arrivati in massa a comprare le ville. Si crea una bolla finanziaria e immobiliare per le quali per i residenti che lì ci vivono tutto l'anno, i prezzi diventano insostenibili, i servizi ai quali poter accedere irraggiungibili in quella che era ed è ancora casa loro ma, in pochi decenni, esclusi, emarginati dal mercato. Se ci mettiamo anche che per attirare capitali stranieri (negli ultimi anni cinesi, russi, arabi) devi abbassare il costo del lavoro, va da sé che in molti Paesi del mondo, compreso il Portogallo e l'Italia che vivono di turismo, tra qualche anno, dopo l'ennesima fuga dei cervelli, in patria non rimanga che lavorare nella ristorazione o nella ricettività alberghiera. Un magro panorama.

La messinscena è europea, di grande respiro internazionale con un uso delle luci evocativo e serafico e sensuale, le immagini riprese in presa diretta e riproiettate sulla scena, il rumore costante di aerei che atterrano e partono per il mordi e fuggi low cost. Se tutti possono andare dappertutto allora il prezzo si abbassa compresa la qualità in nome di una quantità che diviene dozzinale, grossolana. Le Nazioni si trasformano in divertimentifici, in succursali estive per stranieri con il portafoglio gonfio. Basti pensare alla Grecia alla quale è rimasto il mare e le isole. I Paesi diventano quello che i turisti sperano di trovare, le persone del luogo vengono sostituite, bisogna imparare le lingue altrui per potergli vendere l'ennesimo ricordo a pochi euro. E' un gioco che in pochi anni può distruggere ecosistemi di usi e costumi centenari inseguendo il Dio denaro e cercando di soddisfare le richieste, la domanda che gestisce e trasla l'offerta. Dimmi cosa vuoi e sarò in grado di dartela in un cortocircuito di competizione internazionale per attrarre più rotte possibili, intercettare più flussi. Vengono scoperte nuove mete, si costruiscono aeroporti, sorgono città che non c'erano, servizi, possibilità, il lavoro c'è per tutti, sottopagato ma c'è, fin quando non viene aperta un nuovo mercato che attragga maggiormente. Perché nel mondo del turismo, dove tutti sono andati dappertutto, è la novità quello che cerchiamo sempre, il nuovo, il mai visto. Appena il turismo di massa si sposta da un luogo ad un altro vengono mese sul lastrico generazioni e popoli, famiglie intere. Il turismo è una droga, è un doping che pompa quelli che all'inizio sembrano soldi facili ma che gonfiano i conti, le spese, l'inflazione. Il turismo è come la prostituzione, vittima delle ondate e delle voglie. Gradualmente gli Stati perdono i loro connotati, la propria identità sbiadisce, diventa movida e alcool, ristorantini, code, musei. I piatti tipici si avvicinano al gusto del forestiero per poterglieli vendere più facilmente, storie millenarie di popoli si inchinano a tripadvisor, si genuflettono a booking e tutto prende il sapore di una Disneyland al retrogusto del “menù turistico”, quelli dove non mangi ma ti riempi e ti rimane quella sensazione di pienezza senza che il palato sia realmente soddisfatto. Le città diventano “a misura di turista” e non “a misura di cittadino”, il turismo che usa ed abusa, consuma e sporca e se ne va lasciando i problemi a chi la abiti 365 giorni l'anno. Turismo e responsabilità spesso sono due rette parallele. Una bellissima intuizione, una regia fresca, una dialettica efficace per smuovere il dibattito”.

Redazione

NAPOLI – Nelle città fragili, che si dibattono storicamente su un equilibrio precario (ricordiamo la leggenda di Napoli sospesa su un uovo, metafora perfetta) gli effetti di tragedie sociali come la pandemia hanno fatto ancora più danni che altrove, hanno trovato terreno fertile smontando quella socialità, quella parvenza di normalità fatta di lavori alla giornata, di “fatica” da inventarsi e conquistarsi a morsi un pezzo alla volta, giorno per giorno. E si incontrano sempre più ragazzi che ti vogliono vendere, all'ingresso di Via Chiaia o in Piazza del Plebiscito o salendo su per Toledo, calzini o penne per scrivere e le brande sotto i portici e davanti alla chiese non si contano più, sono decuplicate dal pre-Covid. La povertà la puoi conteggiare con gli occhi, ferisce. Ma Napoli si sta riprendendo.Ruggero Cappuccio.jpg Lentamente. Il turismo sta tornando. Ma si sente che è una città ferita, che ancora sanguina dolore e privazioni, dal sorriso tirato, dalle costole in fuori, che ha trattenuto il fiato per troppo tempo e questa apnea forzata, questa attesa sfibrante l'ha consumata da dentro, come un brutto male che non ha diagnosi ma batte cassa. Se l'arrangiarsi qui era considerato un valore, un sistema di vita collaudato, la costrizione del lockdown ha interrotto il percorso di generazioni, di manovalanza che sfangava la giornata. E nei bassi e nei quartieri fare distanziamento sociale era praticamente impossibile.

Il cielo questo metà luglio non è né blu né azzurro. Di nuvole non se ne vedono ma sopra il Vesuvio una caligine biancastra di foschia s'affolla e quasi lo nasconde. Vorrebbe piovere (forse vuole piangere questo cielo) ma non ce la fa. Si impegna ma riesce soltanto ad aumentare l'umidità, arrivata a livelli di foresta amazzonica. Le uniche gocce che cadono dall'alto, in questa estate da bollino hot, sono quelle che spillano e sprizzano dai condizionatori posti sulle terrazze e che fanno chiazze a terra che si asciugano velocemente. In questi giorni Napoli esplode di bellezza, nello stesso momento c'erano la mostra fotografica su Massimo Troisi, e quella su Frida Kahlo, e Klimt e Monet. Il caldo tutto tende a scolorire, è per questo che qui i toni sono più vivaci, i contrasti più aspri.

La sera però ci accoglie il fresco della Reggia di Capodimonte, nel verde torniamo a respirare. Dall'alto Napoli è bianca. Tutti gli spettacoli (la grande maggioranza campani se non proprio partenopei) concentrati su più palchi (grosso sforzo produttivo) all'interno del polmone verde della città sul golfo. E peccato che si possa vedere soltanto uno spettacolo per sera. E peccato ancora che, come in passato quando era possibile vedere e scoprire tutta Napoli attraverso i suoi palcoscenici naturali, prima il festival era dislocato in ogni angolo, dal Vomero al Real Albergo dei Poveri, dalla Galleria Toledo alla Darsena, dal Maschio Angioino al San Carlo, dal Mercadante al Sannazzaro, dal Teatro Nuovo alla Sala Assoli. Il teatro come pretesto e il contesto per esaltare la città attraverso la scena in un gioco di specchi. Stavolta il festival ha cambiato la denominazione, passando da “Napoli” a “Campania Teatro Festival” (direzione artistica di Ruggero Cappuccio, vicedirezione Nadia Baldi) per poche puntate fuori: a Benevento, ad Avellino, a Salerno, a Caserta, a Pompei (quest'ultima location gestita dal Teatro Nazionale di Napoli). Ma perché fare solo una o al massimo due repliche per spettacolo?

Mario Gelardi.jpg

Siamo riusciti a vederne tre: “La rosa del mio giardino” per la regia di Mario Gelardi ci ha lasciato dubbiosi, “Museo del popolo estinto” di Enzo Moscato ci ha sorpreso, per fortuna che alla fine è arrivato il Nest con la prima nazionale “Bufale e Liune” a firma del catalano Pau Mirò, che ci ha risollevato lo spirito. Intanto, mentre gli spettacoli a Capodimonte andavano in scena, dai vari quartieri della città scoppiavano ogni sera fuochi d'artificio e la leggenda metropolitana vuole che, se non siamo in giorni di patrono, significa che è arrivato un carico di qualcosa di illegale, come gli antichi segnali di fumo per attirare la clientela. Partiamo da “La rosa del mio giardino”; nel libretto del festival la dicitura indica “Debutto”, invece scopriamo che lo spettacolo è andato in scena a gennaio 2020. E' la presunta storia d'amore tra Salvador Dalì e Garcia Lorca. Basandosi sulle quaranta lettere che i due si scambiarono, ma la parola scritta è molto diversa da quella orale e infatti il tutto diventa difficilmente ascoltabile, non fluisce, non scorre, crea troppa distanza la poesia su carta, risulta letterario e ci appare lontano. Purtroppo assistiamo ad un'ora di scenate di gelosia, ad avvicinamenti e conseguenti allontanamenti. Sembrano due adolescenti sull'orlo di una crisi di nervi, e le due figure vengono se non proprio banalizzate quanto meno semplificate, riducendo il tutto a insignificanti screzi tra innamorati isterici e infantili, litigi da bassifondi, scambi acidi, recriminazioni, sgarbi, rimorsi, sberleffi, unghie stizzite, veleno ispido sputatosi addosso in un ballo dell'impossibilità tra battibecchi insipidi. In alcuni momenti sembra ricordare “Nella solitudine dei campi di cotone” di Koltes, dove un personaggio vuole vendere qualcosa all'altro senza che questo sappia di volerlo avere. Purtroppo qui non ci sono nemmeno Genet né Fassbinder né Testori per raccontare questo amore interrotto. La dimensione onirica e questa prolungata dinamica di attrazione e repulsione è una battaglia faticosa per lo spettatore (durata di un'ora). I due attori sono troppo sottolineanti, molto “teatrali”, in perenne posa, un'interpretazione forzata e sovraesposta.

Dall'incontro mancato tra Dalì-Lorca a Enzo Moscato la situazione non cambia. Anzi. “Museo del popolo estinto” è quasi un testamento artistico però Moscato (legge e non recita) che è in scena ma in disparte, senza entusiasmo né verve, distaccato mentre alle sue spalle una tavola da post Ultima Cena accoglie il resto della compagnia, figure tratteggiate con toni grotteschi. Sono apparizioni, fantasmi che si affollano; ognuno entra sulla scena, fa il suo “numero” e se ne va, oppure mettono in atto piccole scomposte coreografie o canzoncine per rimpolpare la drammaturgia già non-sense. E più che va avanti più che se ne perde la coerenza, si sfilaccia in una sequenza infinita (1h40') di monologhi con una recitazione affettata e artefatta, aulica e antica di un'epoca andata. Siamo in una sorta di parodia di un teatro da teca con frasi lanciate nell'agorà del palco tanto per vedere l'effetto che fa. Passano i minuti e altre chiose si affollano, non si trova il bandolo della matassa, tutto è nebuloso mentre le interpretazioni diventano, se possibile, ancora più esagerate, esagitate, caricaturali, eccessive, iperboliche. Un testo compiaciuto, ricco di battute e di citazioni, un assemblaggio di parole e perifrasi che risultano uno zibaldone composito. Un'operazione senza troppo coinvolgimento del pubblico.

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Passando dal Teatro Sanità alla Casa del Contemporaneo finalmente arriviamo al Nest e torniamo ad essere ottimisti sul teatro di domani. Respiriamo perché c'è un signor testo, una grande scenografia, attori all'altezza, una regia limpida, un'aderenza all'oggi (chiamalo contemporaneo se vuoi) che è quello che cerchiamo dal teatro al di là delle belle statuine e di un passato che spesso non è proprio da riesumare. Non soltanto a risultare centrale è la traduzione (di Enrico Ianniello) ma anche l'adattamento e la trasposizione. “Bufale e liune” infatti sono due delle tre piece che compongono una trilogia di Pau Mirò che Giuseppe Miale Di Mauro, Adriano Pantaleo e Francesco Di Leva hanno, e con loro il Nest, portato nella realtà che meglio conoscono, Nest.jpgil quartiere, il rione, il sottobosco periferico napoletano. Non solo quindi le parole trasformate ma anche l'ambientazione, il luogo, l'atmosfera (anche se in questo Barcellona molto somiglia a Napoli). La storia è misteriosa e pinteriana, a tratti carveriana in questo spaccato di umanità in chiaroscuro dove ognuno è doppio così come la morale che può essere ribaltata a proprio tornaconto. Lo spazio claustrofobico che vediamo è una lavanderia con gli abiti a raggiera (si entra e se ne esce come tanti sipari), a semicerchio tanto che sembra un anfiteatro greco. Al centro un totem, un pilastro, quasi un fusto di un albero millenario piantato nel mezzo e tanti neon ad intermittenza come in una discoteca in disuso da archeologia post-industriale, da umanità sconfitta. In questa lavanderia vive (sopravvive?) chiusa (al riparo dal fuori?) una famiglia: la figlia in sedia a rotelle, la madre che la vuole sistemare, il padre carrozziere mentre aleggia il ricordo di un altro figlio, scomparso, sparito da piccolo non si sa se rapito o ucciso. L'armonia, se così si può chiamare, è rotta dall'arrivo di un ragazzo con la camicia insanguinata che vuole farla lavare anche se siamo fuori l'orario di lavoro. La madre vede in lui un futuro possibile per la figlia e non vuole farlo andare via (come in “Misery non deve morire”), il padre vuole aiutarlo, stringendo un accordo, perché pensano che abbia commesso un omicidio che il ragazzo comunque nega. Ma la verità non è mai certa. L'aria è quella di “Dogman” di rapporti incancreniti, di vite al limite, zone di frontiera, fisiche ed esistenziali. Le menzogne si accavallano e gli enigmi, l'oscurità e i segreti, aumentano e si alimentano. Sembra di stare dentro al “Calapranzi” e il cupo ammanta ogni azione e lentamente la notte scivola in un incubo kafkiano. Nella vita devi sapere se sei bufalo o se sei leone anche se, come dice il proverbio africano, comunque dovrai correre appena sorge il sole. Da ricordare Giuseppe Gaudino, il commissario, Alessandra Borgia, la madre (ci ha ricordato Beatrice Schiros di Carrozzeria Orfeo), Angela Fontana (vista nella miracolosa pellicola “Indivisibili”), la ragazza in carrozzina (canta divinamente). Menomale che il Nest c'è. A Napoli, purtroppo o per fortuna, si perdona sempre tutto.

Tommaso Chimenti 06/07/2021

MILANO – In teatro, di solito, ci trovi degli attori, a volte dei danzatori, altre dei performer. Insomma qualcuno di vivo (si chiama infatti “spettacolo dal vivo”) che si muove, si agita, sta perlomeno, a tratti parla. Ma come fa una cosa ad essere viva (cosa e viva nella stessa frase solitamente stonano, qui no) se non è agita da nessun essere umano? Se sul palco proprio, come un Aspettando Godot, aspettiamo che si palesi qualcuno ma alla fine senti che non è stato importante, che le emozioni sono passate anche attraverso un mezzo “freddo”, che la scossa è stata provocata senza alcuno sguardo, nessuna pausa teatrale, nessun nostro simile nel quale immedesimarsi. Come è possibile che uno schermo, che per sua stessa natura non può dire e quindi scrive, possa farci sentire piccoli e vicini, solidali e uniti, possa farci commuovere, a specchio, parlando alle nostre paure, raccontando la sospensione, nostra e sua dopo un anno e mezzo nel quale il teatro non è stato vissuto, non è stato usato, non è stato calpestato né respirato?foto (C) Laila Pozzo Bruno Fornasari-Tommaso Amadio.jpg

E' il teatro che ci parla, quello fisico, le mura, le poltrone, le americane, il palcoscenico, le funi, i microfoni, ma è anche il Teatro che ci parla, l'istituzione e la cultura, e tutto quello che qui dentro (e dentro tutti i luoghi dove si possa fare e vedere e ascoltare teatro; Peter Brook diceva che “metti un uomo al centro e altri intorno a guardarlo e quello è già teatro”) c'era e vuole tornare ad essere, si muoveva e che è rimasto incrostato per troppo tempo,Bruno Fornasari.jpg sospeso, impaurito, tentennante, come noi là fuori, anzi fuori dal teatro ma chiusi nei nostri loculi ad aspettare un'alba che veniva sempre rimandata. Si chiama “Nel frattempo” questa installazione particolare messa in piedi ed ideata da Tommaso Amadio e Bruno Fornasari che hanno architettato questa macchina che, in quarantacinque minuti, ci ha schiaffeggiato riportandoci alla mente quello che abbiamo passato, trascorso, (non) vissuto, eliminando la dinamica della rimozione dalle nostre memorie e scuotendoci ci ha detto: pensate, riflettete, non buttatevi alle spalle i traumi, soppesateli, teneteli, sciogliete i nodi.

Su quel palco vuoto non c'era nessuno e in definitiva c'eravamo tutti (ah, cosa importante: entrata gratuita, da sottolineare) con le nostre storie di sottrazione rispetto alle nostre vite precedenti. Chi eravamo? Chi siamo diventati? Dobbiamo farci i conti e non nascondere né la testa sotto la sabbia per non vedere né la polvere sotto il tappeto sperando così che tutto sia pulito e lindo.

E' il teatro che ci parla attraverso un deus ex machina, o la sua coscienza, che batte i tasti, è il teatro (in questo caso dei Filodrammatici milanese) che ci interroga cercando uno scambio, una interconnessione, un dialogo con gli umani a sedere sulle poltroncine rosse. E' il teatro che ripensa alla tv, che avrebbe voluto trasformarsi in pizzeria, oppure in night club, tutte scelte fallimentari proprio per la natura intrinseca e la volontà interiore di tutto questo pulviscolo che si sbatte e muove, questo insieme di battiti e di minuzie, questo agglomerato di cose impalpabili ed effimere come gli applausi o le lacrime, i brividi o i colpi al cuore, i pensieri o i sogni. Jouvet diceva: “Niente di più futile, di più falso, di più vano, niente di più necessario del teatro”.

Qui il teatro è uno di noi, è un organismo che ha sofferto, è un'anima che temeva di potersi perdere, il teatro è una forza consapevole e senziente che si apre a noi e si racconta nel suo momento più brutto, la chiusura, la clausura, l'abbandono, il deserto. I tasti battono su una tastiera immaginaria e si concretizzano e materializzano su questo schermo gigante che ci tiene incollati nel seguire i suoi meccanismi cerebrali, le sue intelligenti (a tratti ciniche) digressioni, le sue considerazioni mai banali di intelligenza artificiale con un cuore che pulsa anche senza sangue da pompare. Il teatro pompa emozioni da sempre. Sembra di avere davanti Kit, la macchina del telefilm adolescenziale Supercar, oppure il computer che decodificava il pensiero di Stephen Hawkings. Il teatro è una macchina che però ha pancia e testa, occhi e memoria, scheletro e tutti i sensi aperti per dare e ricevere in un continuo scambio osmotico che svuota e riempie come le onde della marea sulla battigia.NEL FRATTEMPO foto (C) Umberto Terruso.JPG

E' sarcastico quando questo Dio meccanico e terreno (ci conosce molto bene) ci dice che gli sono mancate anche le nostre piccole stoltezze e difetti e debolezze: le caramelle scartate, l'immancabile tosse o un cellulare che suona (e difatti, e non era una gag, dopo poco realmente ad uno spettatore è suonato il telefonino). Lui/Lei ci perdona, è come se ci desse un buffetto, ci spettinasse i capelli dall'alto come fa un padre, uno zio, un fratello maggiore salvandoci, comprendendoci indulgente, assolvendo le nostre piccolezze, stranezze, scempiaggini sceme. Siamo deboli e fragili e a volte anche stupidi ma il Teatro ci vuole bene lo stesso e non perché facciamo volume, non perché riempiamo il suo spazio ma perché sa chi siamo, sa che cosa nel (frat)tempo, in tutto il tempo di frequentazione assidua o scarsa che sia stata, ci siamo detti, ci siamo passati, contagiandoci a vicenda, contaminandoci con la malattia della curiosità, della cultura, del sapere, della conoscenza, del luccichio della volontà di spostare continuamente la nostra asticella personale. Il teatro, come noi, è stato solo, senza alcun contatto. Ci è mancato il teatro ma anche noi siamo mancati a Lui/Lei. Noi siamo indispensabili al teatro ma anche il teatro è indispensabile a noi, anche a quelli che non ci sono mai stati. Il teatro è un luogo di possibilità, di apertura, di dialogo, se rimane chiuso perdiamo tutti una grossa fetta di noi stessi, perdiamo il sogno, perdiamo il domani. Questo “Nel frattempo” è una dedica d'amore di Amadio/Fornasari al teatro, al futuro (forse anche al figlio di Bruno, Mattia nato da un mese), è una dedica agliunnamed (5).jpg spettatori, alle persone che hanno sofferto, è una dedica soffice che si è sciolta in un pianto collettivo e commosso alla fine perché su quel palco vuoto c'eravamo tutti. Forse i balconi erano i nostri personali teatri dove affacciarsi per sentire e prendere parole e visioni, erano la nostra finestra su un fuori immobile che ci stava tagliando le gambe e mangiando i nostri sonni.

La voce di Giuseppe Conte (sembrava una cosa lontanissima nel tempo e invece stiamo parlando soltanto di pochi mesi fa) è stata davvero un pugno allo stomaco, la sua voce e dietro l'imponente Piazza Duomo di Milano deserta, brulla, disabitata, spopolata, apocalittica, post atomica. In quel momento l'entità del Teatro che ci stava parlando/scrivendo ci ha detto non è stato un brutto sogno, ci ha preso per le spalle e ci ha abbracciato, ci ha detto piangi pure se vuoi, non cancellare questo tempo, non buttarlo alle spalle, non nasconderlo, altrimenti tornerà in maniera ancora più devastante, affronta il dolore senza negarlo, fatti attraversare dalle ferite che si rimargineranno più velocemente se le accoglierai come parte di te. Il teatro raccoglie storie e le mette in condivisione con un'autenticità che la vita di noi esseri umani spesso non ha. Senza teatro siamo tutti più poveri. Bentornato teatro, che le tue porte non si chiudano più.

“Il mondo è già abbastanza pieno di brutte frasi.
È pieno di frasi scritte da gente pigra per essere lette da gente che va di corsa.
Io non corro, sono qui e vi aspetto”.

Tommaso Chimenti 11/06/2021

Foto: Laila Pozzo, Umberto Terruso

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