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ROMA – Il vento non sembra violento, il vento pare innocuo, dolce brezza che ristora, tra tutti gli agenti atmosferici sembra il più docile e controllabile. Eppure ci sono i tifoni e le trombe d'aria, la bora, eppure le scogliere sono erose da centinaia di anni di rivoli di vento che le hanno scalfite, scolpite, segnate come profonde righe sugli zigomi. Il vento, come costante, come goccia cinese, può far male, può ferire in profondità dove è difficile, se non impossibile, rimarginare il dolore. Ha aspetti psicoanalitici questo “Le ferite del vento” (1h 20', dell'autore madrileno Juan Carlos Rubio; prod. Società per Attori, Teatro Civico La Spezia; visto alla Sala Umberto di Roma) portato in Italia dalla regia fervida e intelligente di Alessio Pizzech: due uomini che si affrontano e scontrano e confrontano (fino a confortarsi) con un terzo che aleggia misterioso e indecifrabile, un fantasma dai contorni labili e inconsistenti, un ectoplasma del quale rimane soltanto il ricordo anch'esso fugace, immateriale, incorporeo. Una morte li divide, una morte li unisce.Ferite-del-vento.jpg

Dopo la scomparsa del padre anaffettivo, frugando tra le carte del padre, Raffaele, per sistemare gli aspetti burocratici dell'eredità, il figlio, Davide (Matteo Taranto riesce bene a destreggiarsi dentro l'inquietudine, la forza che si fa debolezza per poi ritrovarsi nudo davanti al bisogno d'aiuto, possente e fragile) scopre delle lettere, lettere d'amore, lettere spedite da un altro uomo proprio al genitore. L'idea granitica e solida del padre tutto d'un pezzo, che non amava nemmeno sua moglie, si sgretola in un attimo, va in frantumi come uno specchio colpito con violenza. E' questo padre mancante e assente (lo fotografa benissimo e in maniera lapidaria la canzone di MinaBugiardo e incosciente”), come lo è stato peraltro anche in vita, l'anello di congiunzione tra i due uomini, un uomo incapace d'amare, di provare sentimenti o quantomeno di riuscire ad esternarli, dimostrare gesti d'affetto, una carezza, una parola, un abbraccio, un bacio, una tenerezza, soltanto freddezza e gelo. Le lettere le ha spedite appunto un altro uomo, Giovanni, un Cochi Ponzoni duttile e versatile, lucidissimo interprete, riesce a coniugare l'amore in svariate riflessioni, un piacere vederlo così in forma. Questo padre (se Davide è il figlio, lui è sicuramente un Golia o un colosso dai piedi d'argilla) ha condannato entrambi in vita a ricercare la sua approvazione e stima senza essere minimamente ricambiati, ed entrambi Cochi ponzoni 1.jpegsono rimasti ancorati all'idea che quest'uomo potesse cambiare, potesse un giorno voler bene loro, aprirsi, farli sentire ben accetti, benvoluti, amati nel senso più ampio del termine.

L'atmosfera trasognante (in questa versione nostrana importantissime le musiche di Paolo Coletta e le luci di Michele Lavagna) ha un riverbero nascosto che ci porta ad un mix sensoriale tra “Tutto su mia madre” quando la telecamera si alza dal campo di prostitute e inquadra Barcellona (“Tajabone”), e “Un tè nel deserto” (Ryuichi Sakamoto) quando John Malkovich corre tra le dune per raggiungere l'oasi. Fuggire da qualcuno e andare disperatamente alla sua ricerca forsennata come nodo da sciogliere, come percorso da camminare, come assioma da spiegare. La scena (orchestrata e architettata da Alessandro Chiti) prevede due grandi parallelepipedi, uno verticale l'altro orizzontale (entrambi rigidi, fermi nelle proprie posizioni e convinzioni) che si iLe-ferite-del-vento.jpgntersecano creando un incavo, un insieme, un rettangolo frutto dell'unione dei due, dell'osmosi e dell'incastonarsi, con i due interni borghesi delle abitazioni, del padre e del presunto amante, comunicanti e drappeggiati da teli leggeri di plastica quasi a sottolineare l'aria da obitorio e autopsia delle emozioni e delle passioni. Un uomo misterioso, il padre, che non si è fatto conoscere e che, involontariamente, ha unito questi altri due uomini, prima in conflitto e competizione, adesso vicini, ognuno alla ricerca di quello che l'uomo deceduto non aveva mai concesso loro.

Dentro il baratro della scomparsa i due si salvano a vicenda (trovando un figlio? trovando un padre?) sublimando un amore, esorcizzandolo; prima si erano visti rovinare la vita dalla sua insensibilità e adesso, con la sua mancanza, stavolta fisica e reale e tangibile e materiale, hanno ritrovato un centro, hanno rimesso in ordine gli appunti sparsi (c'è un coup de theatre fondamentale che tutto ribalta), hanno dato un senso ad esistenze tenute in sospeso, appese ad un filo, ossessivi e tentennanti e adoranti come pulcini tremolanti con il becco aperto in agognante ansia del nutrimento dei genitori. Un padre, immensamente amato e profondamente odiato, che con i suoi silenzi li ha perseguitati in vita, che ha minato le certezze del figlio e dell'amante (inteso come colui che lo amava, non ricambiato), che li ha resi duri e disillusi, dubbiosi, incerti, paurosi e soprattutto soli. Un testo che ci parla di dipendenza, di responsabilità, di identità, di genitorialità, di perdono.

Tommaso Chimenti 19/03/2023

SPOLETO - “Com’è difficile restare padre quando i figli crescono e le mamme imbiancano” (Franco Battiato, “Bandiera bianca”).
Cibo e teatro, incontro millenario, convivio che macera da sempre sotto la cenere. Panem et circenses dicevano al Colosseo. Una vicinanza mai scordata (anche se i pop corn del cinema o le caramelle scartate in un teatro all'italiana disturbano) che la rassegna Eat (Enogastronomia a Teatro organizzato da Andrea Castellani e Anna Setteposte) ha riportato in vita con una serie di performance legate al cibo e all'alta scuola culinaria. In quest'ottica (cenare a teatro è sempre un lusso) non potevano mancare le Ariette, il duo emiliano che da anni propongono una narrazione basata sulla loro vita di campagna e dove si mangiano soltanto prodotti della loro terra e personalmente seminati, coltivati e raccolti. E in questo cartellone si è inserito benissimo anche Alessandro Sesti, direttore insieme a Marco Andreoli del festival di teatro contemporaneo “Strabismi” (all'interno del quale assegnano anche il prestigioso “Premio SceMario”), con il suo “Nato cinghiale”. In questi anni Sesti, che è anche direttore del Museo di Cannara, ha realizzato varie pièce, da “Ionica”, storia di un testimone di giustizia, a “L'origine dell'eroe”, da “Luca 4,24” incrocio tra parola e danza, a “House we left” sul tema dei transessuali in carcere, fino a “Eclissi” lavoro sull'alzheimer. “Il padre contemporaneo, che non è più colui che sa cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma è colui che accompagna il figlio anche nell’esperienza del fallimento”, proclama Massimo Recalcati.08b282bed88832c9197a25b1ea22b623_XL.jpg
Mentre la pentola sobbolle, e le spezie si spandono tra i palchetti e gli stucchi del teatro Caio Melisso, inizia a fluire il suo autobiografico excursus familiare, i contrasti con il padre, i dissidi della crescita verso il genitore, i piccoli faticosi gradini utili per diventare grandi. Ci si immerge in questo fiume di parole, in questa parabola catartica di avvicinamento e allontanamento, di attrazione e repulsione, un racconto acre e intimo e caldo che ci riporta all'infanzia malinconica e a quel confine labile tra l'essere figlio e il diventare adulto, cercando disperatamente chi siamo e un nostro piccolo posto nel mondo abbattendo i simboli e i feticci iconici familiari. Impossibile rimanerne impassibili perché l'andamento è altamente commovente e universale, è un riconoscersi in certe dinamiche che hanno segnato i passaggi delle età, le frontiere tra ciò che nostalgicamente eravamo rispetto a quello che gravosamente, con le mille piccole battaglie quotidiane che abbiamo affrontato, siamo riusciti a diventare. Il cinghiale è il tramite tra un padre cacciatore, orgoglioso di quel folclore e di quel rito condiviso, di quella passione che è vicinanza e amicizia ma anche segno distintivo di una cultura, di una regione, di un certo modo di stare al mondo (lontano dalla violenza barbara), e un figlio che cresce in un mondo contemporaneo che certe cose se le è sempre trovate in tavola ma che 154440082-daa92a31-11f7-424a-bc2f-3023872e6235.jpgipocritamente aborra metodi sanguinari e dall'altra rifiuta a prescindere le tradizioni casalinghe, che ritiene provinciali, perché proiettato verso la tecnologia, verso mete lontane. Bisogna sempre ricordarsi da dove veniamo e avere ben chiaro il percorso, la trama, le strade tortuose della nostra esistenza senza reprimere, senza affossare, senza disconoscere pezzi del nostro dna profondo. In sottofondo, dentro, ci risuona “Father and son” di Cat Stevens. “Ho solo due cose da lasciarti in eredità, figlio mio, e si tratta di radici e ali” elargiva William Hodding Carter.
“Non è uno spettacolo, è una confessione”, attacca Sesti nel suo incedere tra il compassato e l'appassionato, la voce profonda accompagnato dalla musica di Debora Contini (ukulele e clarinetto). E' un affresco sull'Umbria, la loro regione d'origine, ma se vogliamo sull'Italia, su quel piccolo mondo antico che i giovani disprezzano per poi riaccoglierlo in età più matura. E' il circolo della vita il considerare vecchio e sorpassato tutto quello che ti circonda per demonizzarlo e cassarlo per poi scoprire, con il tempo, che non tutto era da buttare. Il cinghiale (dalla pandemia in avanti le immagini dei cinghiali che scorrazzano in città o dormono sugli zerbini sono quotidiane e ormai diventate un classico) è la terra, è il bosco, è la natura, è quasi un Dio che si fa carne per gli uomini, un Dio che sfugge al controllo e si nasconde tra rovi e arbusti, un Dio pericoloso e potente, compatto con il pelo irto che grugnisce e carica, che non ha paura di morire per difendere la propria vita e quella del suo clan. Andare a caccia del cinghiale è una sorta di corrida, un uomo solo, con soltanto un fucile, in un habitat che non gli appartiene, cercando di abbattere la bestia che sta dentro di lui come in uno specchio. I rimbombi esplodono in teatro e il respiro dell'animale braccato sembra di sentirlo ad un passo da noi, ansimante e impaurito. Successivamente cucinare e preparare quella carne che si è personalmente cacciata chiude il cerchio della vita, con il giusto rispetto che si deve per ogni essere vivente.
Ma questo è un confronto, anche aspro, tra padre e figlio, un padre con il fucile in mano (senza essere guerrafondaio) e un figlio che per distinguersi (“Ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano occupati” diceva Brecht), per creare un solco caustico e nato-cinghiale_2022_08_22T12_08_18_440848_detail_box.jpguna barriera invalicabile con il proprio genitore sceglie di diventare vegetariano. In questo caso non è solo una scelta di vita consapevole ma un gesto forte contro qualcun altro, un atteggiamento in antitesi, non propositivo ma un'ascia di guerra dissepolta, un chiaro messaggio luminoso per dire a gran voce e ribadire con puntiglio: “Io non sono come te!”. Si scontrano due mondi, uno ruspante e terreno, l'altro fatto di discoteche e surgelati, un mondo di fango e bossoli e un altro di musica alta e luci sparate. Sesti, grande affabulatore che tiene le redini della platea mentre le assi del teatro scrocchiano e i calici tintinnano, ci porta dentro la sua famiglia, aprendosi senza pudori di forma o maniera, senza i filtri del romanzato mettendo uno davanti all'altro due popoli della notte che si muovono “con il favore delle tenebre”, da una parte i cacciatori, dall'altra chi rientra dalla discoteca o dai locali della movida con il gomito alzato. “I cattivi padri sono quelli che hanno dimenticato gli errori della loro giovinezza” (Denis Diderot).
Il pubblico è la preda di Sesti, il pubblico poi diventa la squadra di caccia del padre (Patrizio) dello stesso autore quando ci si immerge nella fitta boscaglia dantesca per stanare la belva furiosa. La guerra dei mondi. Due universi che non possono coesistere: infatti tra il padre e il figlio dalle litigate si passa presto all'indifferenza fino a diventare due perfetti sconosciuti. Poi si cresce e al posto delle battaglie abbiamo bisogno di condivisione e vicinanza, di sentirci parte di un tutto e allora Alessandro si scopre non così diverso da Patrizio e tutte le dissonanze sottolineate in precedenza forse erano state acuite e aumentate ed esagerate dall'impazienza e dall'insoddisfazione di non sapere ancora chi si è; il padre che è “generoso e schivo e burbero” proprio come dice la didascalia del segno zodiacale cinese del cinghiale, il padre che è un “padellatore” ovvero uno che sbaglia il bersaglio e manca (volontariamente?) le prede. E allora il figlio riequilibra la propria rabbia, scende a patti con il ciclo della vita, perdona e chiede perdono, cerca un abbraccio, cercano di capirsi questi due mondi che sembrano così lontani (“So far, so close”), l'attore che adesso cucina il cinghiale, ma che non caccerà mai, e l'operaio cacciatore. “Nato cinghiale” è un guardarsi dentro, è un affacciarsi sull'abisso, è un avere paura delle radici per infine apprezzarle e respirarle, capire chi siamo, capire che veniamo dalla terra rispettando quegli esseri viventi che diventano cibo per la nostra tavola. “Un uomo sa quando sta diventando vecchio perché comincia ad assomigliare a suo padre”, sussurrava Gabriel García Márquez.

Tommaso Chimenti 27/11/2022

MILANO – Proprio nei giorni nei quali scompare la grande attrice Monica Vitti. Sembra un ossimoro questo corpo a corpo dell'attrice Francesca Vitale sulla scena con il padre scomparso, qui presenza-fantasma-evocazione, cortocircuito perché riannoda i fili di una vita, la ricorda, la riporta al cuore e alla mente e alle labbra, per riesumare proprio quei ricordi che si sono affievoliti, annebbiati, perduti nella foschia di neuroni che hanno smesso di funzionare. Mentre lei ricorda a poco a poco i momenti di una vita piena e vissuta dal padre, nella mente del genitore questi svaniscono, si fanno nuvola e questo “Parole mute 2.0” (all'interno della rassegna Palco Off al Pacta dei Teatri milanese) sembra essere da una parte un'esorcizzazione dell'accaduto (che in definitiva non si supera mai ma si convive con il dolore) e dall'altra come un ricordare per entrambi, come fossero, padre e figlia (si rimane sempre figli a qualsiasi età) ancora insieme.

Una confessione che è una lettera d'amore, uno spaccato a cuore aperto, un dilaniarsi per riportare in vita sia il genitore sia il suo essere stata figlia, devota, complice, che ammirava in maniera incondizionata quest'uomo, suo idolo. La chiave di lettura scelta dalla convincente Francesca Vitale (in questo recital canta divinamente) è stata quella di presentare il padre (la piece è totalmente autobiografica e sentita e partecipata e ancora emotivamente faticosa) come l'invincibile, l'inscalfibile, l'avvocato sicuro di sé e della sua dialettica, del suo talento come del potere acquisito attraverso il lavoro, quello che non badava a spese, quello che faceva i giri del mondo in Concorde, quello che, per sfizio e passione, aveva aperto un night a Catania a cavallo tra gli anni '60 e '70 dove passarono tutti i più grandi artisti del tempo, da Fred Bongusto a Domenico Modugno, Le Gemelle Kessler e Patty Pravo, Milva e la Vanoni. Una vita spumeggiante, gloriosa, eccentrica, charmant, piena di bollicine, sopra le righe, sicuramente sopra la normalità, di altissima qualità, tutta di picchi e up e successi, applausi. E' proprio in quest'aura miracolosa dipinta attorno alla figura del padre, mitologica e mitizzata, che le crepe, le mancanze, i cedimenti, le zoppie claudicanti, i piccoli fallimenti quotidiani di questa malattia tremenda, l'Alzheimer che tutto sporca e profana e appiattisce, che fa perdere i connotati dell'intorno e del sé, fanno ancora più rumore andando a ledere l'imperturbabilità, la fierezza, il portamento e la possanza, il vigore, l'autorità di questo padre deus ex machina vulcanico, pieno di interessi e attività che, come un interruttore, si spegne improvvisamente e inesorabilmente, senza salvezza.Francesca-Vitale-media2-min.jpg

E il fil rouge di fondo sono anche le canzoni che con i loro testi fanno da drammaturgia e legano le scene, proprio quelle hit evergreen che, in bianco e nero e con le sigarette tra le dita e i sorrisi di gioventù e l'appagamento mondano, suonavano e cantavano in questo locale notturno iconico fulcro, perno e simbolo di quegli anni ruggenti e per tutti quelli che volevano mordere la vita e assaporarla fino in fondo. La Vitale, nella messinscena strindberghiana di Manuel Renga, è come se entrasse in punta di piedi dentro una casa abbandonata, forse la mente del padre, un castello fiabesco, adesso lasciato ammuffire, ora disabitato e disadorno, come la sua infanzia e adolescenza dominate positivamente da questo uomo ingombrante e accentratore di attenzioni e carismatico, stanze dove la mobilia è stata silenziata e “messa a dormire” sotto teli coprenti di plastica, cumuli polverosi perché nessuno più ha vissuto, da molto tempo, quelle mura. E ad ogni svelamento, ad ogni coperta alzata, appaiono e fioriscono e sbocciano ricordi, oggetti che spalancano cassetti della memoria, materiali come voragini di senso, parentesi su mondi ormai sfocati e lontani che nella figlia risuonano e fanno eco e nel padre erano cancellati.

La Vitale maxresdefault (3).jpgdialoga con il padre-fantasma come sprofondato sulla sua poltrona-trono e questo suo ultimo disperato tentativo teatrale è un cercare di riallacciare i discorsi sospesi, le frasi smozzicate e non finite cadute nei vuoti di memoria, negli inciampi, nei silenzi, nelle amnesie. Ma è anche un percorso, certo faticoso ma anche catartico, un passaggio di consegne verso l'età adulta: mentre il padre è divorato dall'interno, Francesca Vitale prende le redini, non si fa schiacciare né sconfiggere dal trauma, come se divenisse genitore di suo padre accompagnandolo, parlando una lingua tutta loro fatta non più di parole ma di piccoli tocchi, di occhi, di quelle tenerezze mai affrontate durante la vita sana e forte e piena di impegni. In fondo “Parole mute 2.0” (che porta in giro dal 2009) è anche una riflessione sulla malattia, su questa malattia che porta via quello che intimamente siamo ovvero le nostre esperienze e le nostre parole, la nostra capacità di esprimerci e di comunicare, sul mistero dell'esistenza, sulle domande inevase dell'uomo così fragile pulviscolo minuscolo di fronte alla morte, nel tentativo di dare una spiegazione al dolore, brancolando nel buio, spaventati, impauriti davanti all'oblio, sul precipizio dell'abisso che ci inghiotte.

Tommaso Chimenti 04/02/2022

Giovedì, 03 Giugno 2021 10:40

Festen: la verità tragica e la rimozione

TORINO – Nessuno in Italia lo aveva ancora messo in scena mentre in Francia, Germania, Londra, e soprattutto Scandinavia, è diventato un cult, un classico, sebbene la pellicola sia del 1998, quindi relativamente vicina nel tempo. “Festen” (vincitore a Cannes) incute timore solo al pensarlo, timore nella trasposizione dalla celluloide al palco, timore nel riproporlo troppo simile al film, timore nel cercare il naturalismo che la macchina da presa può produrre e Festen_photo_Giuseppe_Distefano0172.JPGche il teatro, necessariamente, deve cercare di declinare nel metaforico, nel simbolismo, nel non-detto. Se vogliamo tutta la violenza psicologica espressa dal testo è una miniera d'oro per chi, come il regista di questa versione (targata Tpe, Elsinor, TS Friuli Venezia Giulia, Solares) Marco Lorenzi (sempre più raffinato, consapevole e maturo), sa maneggiare la macchina teatrale e si pone in quelle ferite-crepe di senso che solo la parola e lo spettacolo dal vivo, se si riescono a toccare le giuste corde interiori, sanno creare e far sbocciare, fiorire ed eruttare. Il regista del film iconico, Thomas Vinterberg, che ha appena vinto l'Oscar come miglior film straniero con “Un altro giro” (durante la lavorazione della pellicola sua figlia è deceduta in un incidente stradale), è uno dei fondatori del movimento-manifesto-decalogo Dogma 95 (del quale fa parte anche Lars von Trier): niente luci artificiali, nessuna scenografia, assenza di colonna sonora, camera a mano, anche i costumi devono essere di proprietà degli attori e mai abiti di scena. Un ritorno al passato, la negazione degli effetti speciali. Quindi, sia per il tema proposto (una festa per il sessantesimo compleanno del padre-padrone di questa famiglia aristocratica che violentava la coppia di figli gemelli), sia per il bagaglio di aura che aleggia(va) attorno a questo “peso massimo” del cinema contemporaneo, la responsabilità era alta, la pressione in ebollizione.

Festen ©AndreaMacchia.jpgNon tutti gli spettacoli sono uguali, questo aveva una carica diversa, una patina, un forte richiamo. Come rappresentarlo? Il regista Marco Lorenzi ha avuto, durante la stesura della drammaturgia, un fitto scambio epistolare direttamente con Vinterberg che leggeva, faceva appunti e approvava le varie scene; un lungo lavoro di smussare, togliere, medicare. Possiamo dire che l'intuizione di Lorenzi, e del suo Il Mulino di Amleto, ha fatto centro: non riuscendo, non volendo, riproporre freddamente la pellicola (la cosa più semplice sarebbe stata quella di mettere tavolo e sedie al centro della scena), si è deciso per un escamotage da un lato tecnologico (quindi contravvenendo alle regole ferree del Dogma), dall'altro ricercando, proprio attraverso l'uso di strumentazioni, quell'artigianalità, quella semplicità, quel concreto che solo il teatro può regalare. Il telo, non un velatino, davanti al boccascena, sipario da proiezione, ci tagliava la visuale da quello che succedeva alle sue spalle. Due mondi divisi, come quello che è accaduto e quello che abbiamo visto, la verità dietro, con le sue storture e sporcature, e quello che ci fanno vedere, possiamo vedere, vogliamo credere, davanti a noi. Dietro questo telone-velo di Maya che scinde il Vero dal Falso, le scene erano costruite in presa diretta da una telecamera come fossimo su un set cinematografico e assistessimo alla realizzazione, Festen_photo_Giuseppe_Distefano31.JPGancora gretta e impura, di alcune scene poi da montare. E' un film nel film, è un teatro filmico, è quella giusta misura, la terza via tra palco e camera. Tra palco e realtà, cantava Ligabue. Nell'aria si annusa molto Ibsen, soprattutto “Spettri”. Una telecamera che riprendeva momenti e volti e sguardi e primi piani e li riproiettava sul grande schermo creando questa doppia e duplice visione possibile: dietro, illuminata dalla luce del cameraman, la scena per come veniva architettata, con i cavi, le imperfezioni, gli oggetti di scena, le falsità del cinema, davanti la ripulitura del tutto, la scelta dei dettagli da evidenziare ed esaltare, lo zoom intenso, il particolare da suggellare, il passaggio da sottolineare. Eppure era la stessa realtà ma presa da angolazioni differenti, piccola e naturale dietro, gigantesca e artificiale davanti. A quale credere? A quale donare la nostra fiducia?

Una casa in miniatura davanti alla scena ci porta in un mondo infantile, di giochi, di costruzioni, così come la favola noir di Hansel e Gretel ci introduce in questo mondo che di fiabesco ha soltanto i contorni inquietanti. Al centro del palco, aperto e svuotato del Teatro Astra torinese, due cerchi concentrici, un mirino per colpire meglio, per stoccare il colpo fatale, o anche il labirinto di Cnosso dove il nostro Padre-Minotauro (un Danilo Nigrelli grande anche in questo ruolo odioso e irritante, placido e calmo mentre tutt'attorno la rabbia sale) fa scempio di vergini innocenti, il nostro Padre-Barbablù che toglie e succhia la vita dai suoi stessi figli, un Padre-Ciclope che, a valanga, a cascata, ha distrutto le vite dei quattro figli e della consorte, costringendoli ad una vita di facciata. Centrale è anche la figura di Christian, il figlio accusatore del padre pedofilo, che con i suoi brindisi (alzandosi e battendo una posata Festen_photo_Giuseppe_Distefano0063 (1).JPGsul bicchiere attirando l'attenzione dei numerosi invitati) denuncia quello che il genitore faceva a lui e alla sorella Linda che si è suicidata da poco perché, anche a distanza di decine di anni, non riusciva a superare l'accaduto. Elio D'Alessandro, sofferente e tormentato, dilaniato, è appunto Christian e riesce a dare al personaggio vita dolente e disperata forza, tratteggiata anche nella veste musicale grattugiata, affranta e angosciata in sonorità straziate che ci hanno fatto pensare a Manuel Agnelli degli Afterhours o a Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP o ancora, per rimanere alla scena torinese, a Mauro Ermanno Giovanardi dei La Crus. Da sottolineare tutto il cast, unito e partecipe: Roberta Calia (la compagna incinta del figlio più problematico), Yuri D'Agostino (il cerimoniere dai mille coriandoli), Barbara Mazzi (la sorella psicologa che sta insieme ad una donna ma non FESTEN 1_phAndreaMacchia.jpgha il coraggio di dirlo alla famiglia), Angelo Tronca (il nonno con il trucco volutamente “storto” proprio per mostrare in maniera lampante l'imperfezione, l'errore, la non ricerca della precisione), Raffaele Musella (energico e vitale nel ruolo del figlio scapestrato), Roberta Lanave (la cameriera).

Da evidenziare anche la figura della Madre (Irene Ivaldi eccezionale, straniante nei panni freddi, glaciali, algidi, indifferenti) che tutto sapeva e conosceva e niente ha fatto per interrompere la mattanza né per salvare i propri figli-cuccioli dagli artigli del Drago tra le quattro mura domestiche. La Madre racchiude in sé il Male, quel male che non se ne andrà nemmeno quando il Mostro sarà allontanato; diceva Martin Luther King “non ho paura dei malvagi ma del silenzio degli onesti”. E' un compleanno che si miscela con un funerale, la chiusura del cerchio, la chiusura del baratro su questa famiglia vissuta nell'ipocrisia dei buoni sentimenti, nella falsità di sorrisi fasulli e contraffatti. Il sottotitolo è “Il gioco della verità” che ci porta diretti alle atmosfere e suggestioni pirandelliane del cosa è vero e che cosa è falso, e se la verità altro non sia che la realtà accettata e non quella accertata, la credenza collettiva che, a forza di dirla, supera e fa slittare i fatti, creando psicologicamente una rimozione da un lato e una sostituzione dall'altro, spostando eventi, una rimozione che è anche una esorcizzazione del Male, una salvezza, un rifiuto di responsabilità di fronte a momenti ingestibili o drammaticamente troppo esposti. Il pubblico è chiamato non solo ad assistere ma ad intervenire (con il suo silenzio-assenso) fin dall'inizio quando gli viene chiesto che busta vorrà aprire, la gialla o la verde, per alzata di mano. Era l'espediente che usava il padre per far scegliere, e quindi negare una propria responsabilità in ciò che sarebbe da lì a poco accaduto, il supplizio ai suoi bambini. La platea quindi (come il popolo tedesco di fronte ai campi di concentramento nazisti) diviene complice e sente il fiato sul collo di tutto quello che si dipana davanti ai suoi occhi e non può più dire di essere vergine ma ha, e si sente, le mani metaforicamente “insanguinate”. Il pubblico sono gli invitati alla Festa che non prendono posizione, che ascoltano e non supportano il ragazzo che denuncia ma, rispettando la forma e la buona creanza della società altolocata, le paillette e i lustrini, il galateo e la parvenza e i buoni costumi, annuisce e silenziosamente sostiene la tesi del padre che scredita il figlio con una violenza che ferisce e lacrima, una violenza sottile e soffice, una violenza dalla quale è difficile difendersi perché ha il sapore di una carezza calda e solo dopo averla accolta ti accorgi dell'emorragia interna.

Padre: “E' colpa mia se mi sono capitati figli così incapaci?”

Christian: “Perché lo hai fatto?"

Padre: “Eravate buoni solo a quello”.

Repliche giugno: fino al 6 Teatro Astra, Torino; 8-13 Teatro Rossetti, Trieste; 15-16 Teatro al Parco, Parma; dal 18 al 27 Teatro Fontana, Milano.

Tommaso Chimenti 03/06/2021

Foto: Giuseppe Distefano, Andrea Macchia

CASTIGLIONCELLO – Il Castello Pasquini rimane sempre baluardo, sta imperioso sulla collina con i merli a creare ombre, a prendere il vento, con il dragone di rame sull'angolo a scandagliare il mare. La sera una grande proiezione illumina con scritte e logo il lato b della struttura finto medievale e dalla pineta la visione è estiva, festivaliera, frizzante e nostalgica insieme. Rimane nell'aria quella polvere di stelle di non-detto, ai margini di un bosco da favola dove perdersi tra rami e siepi, dove pungersi, dove diventare grandi. Il clima è sereno, e non parlo di quello meteorologico, l'atmosfera pacata: una delle più belle edizioni degli ultimi anni di “Inequilibrio” (ancora per la direzione della ditta Fumarola-Masi), più matura, con artisti consolidati, scelte curate, grande attenzione, molte proposte quotidiane, parole di senso. Le ore passano placide a Castiglioncello tra un tuffo dal cemento e una passeggiata lungo mare, tra le bancarelle di libri scontati, qualche pittore che tratteggia la sua tela, un gelato rischiaratore, le panchine che gettano l'occhio agli scogli, qualche vela che solca i riflessi al largo. C'è un'aria d'antan che non stona affatto, basta coglierla, accoglierla, respirarla nei passi attenuati, in questo andamento lento che ci spinge, assolati, qui dove tutto scorre uguale a se stesso, dove la sua ricchezza sta proprio in questo immobilismo che rassicura, che ristora, che conforta.Sarteanesi-Bosi-foto-di-Antonio-Ficai-8.jpg

Lentezza e stallo, cappa e indolenza che abbiamo riscontrato nel toccante “Bella Bestia” (prod. Officine della Cultura, sostegno di Armunia e Kilowatt) dove, fin dal titolo, si gioca ossimoricamente tra due caratteri che tentano di affossarsi a vicenda, già sprofondati nelle loro grame vicende personali senza trovare un appiglio per salvarsi, una mano alla quale aggrapparsi per tornare a boccheggiare in superficie. Due attrici (cariche, dense, riescono a toccare gli organi interni in un'altalena di up & down) che si incastrano alla perfezione, Francesca Sarteanesi, che fa della freddezza diretta uno stile che taglia a fette la scena, e Luisa Bosi, cinicamente tenace, pugnace che va dritta al punto. Donne con la d maiuscola. Dentro questo interno cupo, pare un inverno del nostro scontento, e ovattato in un cotone doloroso e dolorante, grondante miserie e recriminazioni, escluse, emarginate o autorecluse, l'ansia e il malessere la fanno da padrone autoalimentando le paure dell'una e la sfrontata verità schiaffata in faccia dell'altra.

Hanno talmente tanti timori che lì dentro, almeno lì dentro, loro sconfitta e unico recinto dove poter essere libere, possono sfogarsi per rimanere ancorate, senza possibilità di redenzione o vendetta o rilancio o reazione, alle se stesse che conoscono, nella sofferenza accertata, nel disagio conclamato, assediate da statue di dobermann (ad ogni buio aumentano, quasi fosse la sequenza di Fibonacci) che, impassibili, le guardano, non sapendo se sono lì per proteggerle oppure per non farle uscire dal loro guscio che magistralmente si sono costruite a forza di fango e silenzi, di attese e treni perduti. Da un lato un male depressivo a confronto, in contrasto con un male inequivocabile dettato da cartelle cliniche e radiografie: Sarteanesi-Bosi-foto-di-Antonio-Ficai-17-1200x800.jpgqual è il più forte, il più vero, il più compassionevole? Quale quello che realmente ha più diritto di cittadinanza e di espressione? I giochi dell'immedesimazione dell'una per esorcizzare scene e personaggi della vita dell'altra sono al tempo stesso spassosi e lancinanti. Due interpreti beckettiane (hanno abiti a fiori ma appassiti; ci ha ricordato i testi di Armando Pirozzi) con inserti reali di chat vocali esilaranti e ridicole che ci portano sul terreno di che cosa cerchiamo nelle nostre solitudini fatte di tastiere e di sesso come antidoto all'infelicità. Il comico del tragico, il dramma del sorriso inopportuno: “Io ho un tumore”, “Io invece ho una cena” si lanciano. Siamo tutti troppo tesi ad ascoltarci che non sentiamo più gli altri: “Non è una questione di tempo. E' una questione di tempo perso”. L'indifferenza disperata le ha frastornate, irrigidite, trasformate, colpite, inginocchiate; la triste e cruda verità sbattuta come uno schiaffo può essere antidoto o annientamento: la bestia, fintamente bella solo quando ti assuefai al suo morso, è sempre lì in agguato: teatro che scuote.

Se l'insoddisfazione prende alla gola come ossigeno che manca forse non è il caso di cambiare situazione o città o Stato ma proprio pianeta, anche se, nella maggior parte dei casi i guai continuano a (in)seguirci perché ce li portiamo dentro come ferite o cicatrici. ph-Francesco-Tassara-2436.jpgLa soluzione, fallace ed errata, potrebbe essere “Vieni su Marte” (prod. VQM, Gli Scarti, sostegno Officina Teatro, Kilowatt, Asini Bardasci, 20Chiavi, Mibact, Siae), un invito per cercare quel cambiamento che non è stato possibile affrontare nella nostra esistenza terrena e dove abbiamo finora fallito sul globo terracqueo forse sarà possibile centrare l'obbiettivo della conquista della felicità sopra un altro corpo celeste. L'idea, magistralmente teatralmente messa in scena dai Vico Quarto Mazzini (lontani dal non fortunato “Little Europa”), parte dal progetto reale di costruire una colonia permanente su Marte. Chi voleva poteva spedire un video di presentazione ed elencare le sue qualità, propensioni e ambizioni per essere scelti per andare a vivere e procreare sul pianeta rosso. Arrivarono oltre 200 mila candidature che intermezzano la narrazione dei VQM fatta di quadri tanto angoscianti quanto grotteschi, tanto divertenti quanto iperbolici, quadri dove Michele Altamura e Gabriele Paolocà, straordinari interpreti con grinta da vendere, dietro un velatino angosciante, si trasformano in psichiatra Vieni-su-marte-ph-Francesco-Tassara-2668-1160x773.jpgnapoletano e concreto e marziano dolcissimo, aulico e poetico “dipingendo stelle”, in due bifolchi razzisti, in un professore precario mandato ad insegnare ai figli dei muratori che stanno costruendo come forsennati case ed edifici per la colonizzazione di Marte. La voglia di fuga declinata in più sfaccettate versioni, uno spettacolo necessario per capirci meglio, per frugare la nostra paura della morte, per scovare il nostro germe che ci fa pensare al passato per migliorare il nostro futuro non riuscendo a vivere serenamente il presente con la costante spada di Damocle sul collo della fine, più o meno imminente: teatro di qualità.

E dopo la disperazione e l'insoddisfazione ecco l'incomprensione eclatante e abbagliante nel confronto genitori-figli che esplode in tutta la sua violenza nel “Padre nostro” (prod. Babilonia, Corte Ospitale, Operaestate Veneto) dei Babilonia Teatri andato in scena in mezzo agli scogli alle prime luci del giorno tra pozzanghere di lacrime create dal mare dove poter annegare, rocce appuntite Babilonia-Teatri-Inequilibrio-22-foto-di-Antonio-Ficai-15.jpgcome dialoghi incandescenti, scene tattili di corpi che si cercano, si tengono, si spingono, si scontrano senza incontro, si hanno, si mangiano, si mordono, si muovono come astronauti in punta di piedi su questo paesaggio lunare tagliente come fossero massi frastagliati lavici. Due adolescenti e un padre (anche Mario Perrotta si è soffermato sulla figura nel suo ultimo “In nome del padre”) duro, reazionario, urlante indicazioni e ordini e doveri e obblighi senza empatia, autoritario, dittatoriale, soldatesco, militaresco, manesco, contro (la madre grande assente, neanche nominata). Una visione del genitore maschio un po' datata, vecchio stampo quando oggi i padri sono dimessi, attenti al politicamente corretto, impantanati se dover dare un'educazione fatta anche di rifiuti e no decisi o dire sempre di sì. Cos'è rimasto del padre in tempi di inseminazione artificiale, di adozione da parte delle coppie dello stesso sesso, di uteri in affitto e di genitore 1 e genitore 2?

Stavolta i Babilonia, Enrico Castellani e Valeria Raimondi, non sono in scena: hanno scelto invece un padre con i suoi due figli, Maurizio, Olga e Zeno Babilonia-Teatri-Inequilibrio-22-foto-di-Antonio-Ficai-16.jpgBercini in un saliscendi di emozioni, una liturgia laica di carezze e mano pesante, di battesimo quasi ad annegare fino alla spoliazione da parte dei figli del padre che rimane come un verme sulla riva ormai depotenziato e fragile, annientato come uno straccio mentre Tom Waits gracchia e raschia. Un padre di quelli che non ce ne sono più, con sigaro, birra e fucile, una fotografia di qualche decennio e generazione fa dedito alle percosse e alle botte, condito con zero dialogo. I figli che uccidono, metaforicamente, il padre puntandogli addosso carabine giocattolo, vomitandogli addosso disprezzo e astio, vendetta e punizioni in una vera e propria esecuzione da Safari. E' un j'accuse arrabbiato, un processo, “Caro padre ti scrivo, così mi distraggo un po'”, una lettera d'addio, un funerale quando, ormai indebolito nel corpo e nella mente, gli mettono il pigiama d'ordinanza da ospizio e, forse perdonandolo nel passaggio di consegne, lo invitano a fare il grande balzo, un tuffo nel blu dipinto di blu, perché il dolore della perdita azzera il passato: teatro di forte impatto.

Infine non possiamo non citare un attore che ci ha mosso, spostato e sollecitato, Eugenio Mastrandrea, visto nelle vesti della nobildonna nella “Contessa tra i sessi” tratto da Palazzeschi in un ruolo pieno di charme e tensione in versione Conchita Wurst pasoliniana, che ci ha ricordato la lucidità e la consapevolezza di Luca Marinelli: una grande presenza scenica. Castiglioncello vale sempre, ancora, una messa.

Tommaso Chimenti 10/07/2019

Foto "Bella Bestia" e "Padre nostro": Antonio Ficai;
Foto "Vieni su Marte": Francesco Tassara

FIRENZE – “Accendi un sogno e lascialo bruciare in te” (William Shakespeare).

Cenere siamo e alla cenere torneremo. Ma anche sotto la cenere cova il fuoco. Viene dalla fredda e gelata Norvegia (dove c'è il ghiaccio sta anche la fiamma per potersi riscaldare) questa pièce, “Ceneri”, questo incastro tra burattini, prima in miniatura e poi a grandezza naturale, e la sfera attoriale, questo incrocio tra la marionetta che prende vita e sembra umana e l'uomo che con essa si confronta, parla, interagisce, perdendo entrambi le proprie sembianze originali. Molto interessante il plot (i direttori del Teatro di Rifredi, Mordini e Savelli, li hanno visti ed apprezzati ad Avignone) con due famiglie, due storie parallele, due narrazioni di padre e figlio che si rincorrono, si aggrovigliano fino a tendere l'una nell'altra, fino a guardarsi allo specchio. Due i punti di vista: il pupazzo, mosso nell'ombra da mani veloci e buie tanto da scomparire allo sguardo, e lo scrittore che descrive la scena. Come essere catapultati in una sorta di “Sei personaggi”, al sapore di Ibsen o al gusto di Munch, dove l'autore vivifica e materializza le sue parole e crea le figure che ha appena descritto con l'inchiostro nelle sue pagine.Ceneri©Kristin_Aafløy_Opdan_02_rifredi.jpg

Il conflitto generazionale è il perno sul quale ruota questa doppia vicenda: da una parte la storia di un ragazzo piromane che incendiava case e fattorie, cascine e fienili nel 1978 nel Paese scandinavo (è stato anche pubblicato il romanzo “Prima del fuoco” di Gaute Heivoll, su quegli accadimenti realmente avvenuti, e dal quale è stato tratto il lungometraggio “Pyromaniac”) figlio di un pompiere (la mente vola subito al draghetto Grisù che invece che incendiare voleva fare il vigile del fuoco o a “Fahrenheit 451” da Bradbury passando per Truffaut), dall'altra lo scrittore, con il suo pc sul boccascena, che cozza con il padre rude e ruvido cacciatore di alci. Lo scrittore è nato proprio nei mesi nei quali si svolgevano i fatti e questo (ci pare un po' poco il nesso e il legame non regge molto) sembra unire in qualche modo la sua esistenza indissolubilmente al piromane.

Al Teatro di Rifredi (scopritori di teatro internazionale d'alta qualità) abbiamo avuto modo negli anni di assistere a meravigliosi spettacoli senza parole che esplodeva di senso in perfetto equilibrio tra una grande maestria teatrale e artigianale immersi in contenuti profondi; pensiamo alla Familie Floz o ai Kulunka. Certo in quel caso erano le maschere le protagoniste a differenza dei burattini di questo “Ceneri”. Manca qualcosa, la storia è debole, forse un fuoco di fondo, quel quid che poteva legare esponenzialmente le due famiglie, le due infelicità dei figli e la loro protesta nei confronti del padre, il primo che incendia e distrugge contro il genitore che bagna e seda la scintilla, il secondo tentando di elevarsi e cercare soddisfazione in un lavoro di concetto e intellettuale sconfessando il machismo patriarcale. Ma il parallelismo non tiene, dopo un po' si scioglie e si sfalda, l'amalgama non regge, il collante mostra le crepe. E' molto forzato, o non è spiegato a sufficienza, o mancano degli anelli di congiunzione. “I roghi non illuminano le tenebre” (Stanislaw Jerzy Lec).

La ffanchon_bilbille_.jpg__454x266_q95_crop_upscale.jpgigura del piromane (a grandezza naturale ricorda molto l'autoritratto di Van Gogh) si amplifica e diventa ora la coscienza, ora il Grillo Parlante adesso un Lucignolo nei confronti dello scrittore in un dialogo continuo tra se stesso e le sue paure, timori, angosce, dubbi, incubi (il lupo gigantesco che s'issa alle sue spalle). Semmai possiamo trovare un punto di congiunzione tra i due figli tentando di elaborare la psicologia di fondo che li muove: la vendetta, il senso di ribellione, l'opposizione che nel primo caso diventa distruttrice e nella seconda invece si fa positiva e promotrice. Ma entrambi vogliono affermazione e richiedono attenzione, vogliono battere i genitori, il primo sfidandolo sul suo terreno, pungendolo nell'orgoglio, il secondo provando a riuscire in un mestiere agli antipodi del padre. “Non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, quindi non si può combattere il male con il male” (Lev Tolstoj).

C'è una guerriglia sotterranea, il primo la affronta direttamente, il secondo cercando una strada diversa. Tutti e due cercano consenso: lo scrittore attraverso l'egoticità e l'autorefenzialità del proprio nome sul volume stampato, il piromane attraverso le fiamme che lo ergono a deus ex machina, a fautore di luce, a creatore di distruzione e morte, quasi il Dio del Vecchio Testamento. La marionetta diventa l'alter ego del letterato, la sua parte più buia e più cattiva, in un trasfert junghiano che ha il sapore di Psycho. Qui i pupazzi si fanno a grandezza naturale come le loro fattezze incredibilmente vicine, e scambiabili, con quelle umane. Ma non basta a far scattare la fiammella. Si sente che l'ingranaggio non è stato reso così comprensibile.

“Dentro di noi abbiamo un lupo buono e un lupo cattivo. Tra i due vincerà quello che nutrirai di più” (Motto Cherokee).

Tommaso Chimenti 10/02/2019

MILANO – “Il padre di oggi non sa dire qual è il senso ultimo della vita ma è capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso”. (Massimo Recalcati)

La famiglia è allo sfascio, le derive del femminismo hanno creato danni irreparabili ad un'istituzione già agonizzante ma della quale adesso se ne sente la mancanza, battuta fin dalle fondamenta e adesso colata a picco come un colosso dai piedi d'argilla. Ad essere messo in discussione è tutto l'impianto sul quale si basa la nostra società occidentale. Se mater certa est, non si può dire per il padre, l'uomo. Anzi adesso per venire al mondo, o per creare un nucleo familiare, la figura maschile non serve neanche. Prendiamo la maternità surrogata. Il padre diventa così, sempre più, mero strumento00xy sorpassato però dalla tecnologia e dagli studi scientifici. Il padre è stato retrocesso a spermatozoo prima, a fornitore di alimenti poi. Il padre si sente così, dopo la nascita del figlio, di troppo, di peso a questa nuova coppia formatasi, madre-figlio, in un triangolo pericoloso dove lui raffigura il lato debole, l'angolo minoritario. Si va a perdere la carica e la spinta paternalista, quella cioè del rifiuto, dei no (da contravvenire), dell'autorità con la quale confrontarsi e scontrarsi. Il padre diventa così un soprammobile, da sostituire, con poca voce in capitolo, estromissibile, emarginabile, fa arredamento finché può. Se però il padre non dà regole ai figli per non contraddirli (i genitori danno ragione ai figli anche nei casi di scontro con altri tipi di autorità, vedi i professori) quando sono in famiglia, e successivamente, se la coppia si sfascia, vengono rimpiazzati da un altro uomo che non potrà dare regole ferme e salde a figli non suoi.

Il tema è complesso perché negli ultimi anni si è sempre e solo guardato l'argomento dal punto di vista delle madri-mogli con il padre che, visto che “non partorisce con dolore”, ha meno appigli sui quali dibattere, meno punti a suo favore. Sembra che essere uomo e padre sia più una condanna, una condizione di serie b, rispetto alla madre che ti ha messo al mondo, nel sangue, che ti ha passato il cibo attraverso il cordone ombelicale, che ti ha fatto sentire, e per nove mesi, il respiro, la sua voce e il battito del cuore. L'uomo resterà sempre indietro di quei nove 000xymesi e la forbice si allargherà con il tempo, dall'allattamento in avanti, soprattutto nell'età infantile. Però non gli si può fare una colpa a questo pover'uomo, dimesso e dimenticato, di non poter procreare con il proprio utero mancante. Dopo Dio, è morto anche il Padre.

Detto questo, formulate le nostre ipotesi e ragionamenti ci viene in soccorso una bella e intensa operazione, meglio progetto, coordinato dal regista e attore monologante in scena Emiliano Brioschi, che ha ideato questo “XY” commissionando a tre talenti della nostra scrittura drammaturgica tre brevi testi, componendoli sul palco con potenza, sulla figura del padre e sulla paternità. XY sono appunto i cromosomi del maschio, mentre XX quelli della madre. I tre nomi sono Renata Ciaravino (milanese, della Bovisa ci tiene a specificare, abbiamo assistito qualche anno fa al suo edificante “Potevo essere io” con Arianna Scommegna), Giuseppe Massa (palermitano, corroboranti “Sutta scupa”, “Chi ha paura delle badanti?”) e Cristian Ceresoli (autore del noto “La Merda” che spopola da anni). Tre scritture differenti, tre pigli, tre affondi, tre angolature, tre visioni per un mosaico disperato e poco speranzoso, drammatico e ironico a tratti, dove si tocca con mano il terreno scivoloso e lo sconsolato tentativo di questi uomini di un riconoscimento sociale, di un ruolo, schiacciati all'ombra delle madri, in un angolo, quasi in castigo, come se dovessero scontare secoli o millenni di patriarcato. Brioschi dà voce e corpo alle tre istanze, è trasformista e densamente rock, un vero e proprio leader, front man viscerale e profondo, un uomo sdrucito messo alle strette, spalle al muro senza tanto orizzonte davanti da poter osservare. Tre testi autonomi ma cuciti osmoticamente tra ombrelli da set fotografico e manichini (e con uno straordinario uso delle luci a cementare, di Claudine Castay) con abilità ed empatia in un affresco che dipinge l'uomo, il maschio alfa, il padre come naufrago in un sistema che cambia troppo velocemente e con il quale, contro il quale non sa prendere le giuste contromisure lasciandosi travolgere. Ulisse non esiste più ma in giro ci sono tanti Telemaco alla ricerca disperata di questa figura che si è voluto, scientificamente e politicamente, abbattere, eliminare, mettere in cantina e data per superata, obsoleta.002

In “Buddy Love” della Ciaravino, il figlio è visto come la zavorra ai sogni di quest'uomo, stanco, disilluso, sfibrato, insoddisfatto, il figlio come scudo e alibi da una parte, come problema, incaglio alla felicità dall'altro, limite invalicabile, muro che non permette di raggiungere i propri desideri, la propria affermazione. Buddy è un tastierista e il bambino (in tutti e tre il bimbo-figlio non ha voce, è silente ma è come se ogni suo respiro s'amplificasse assordante, despota nelle scelte di questi due adulti che “tiene in ostaggio” nella sua dittatura naturale che tutto vuole e tutto prosciuga) dorme dietro in macchina che, come in un road movie, nella grande avventura della vita, accompagna il padre, evidentemente contro la sua volontà, come bagaglio pesante che rallenta e fa inciampare. Non è colpa del figlio, non è colpa del padre. Si sentono, quasi si potrebbe mordere da quanto è spessa questa coltre, devastazione e abbattimento, depressione e sconforto, dell'essere triturati in un sistema senza più vie di fuga, senza più scappatoie o uscite: cane alla catena. Una volta che si è padri lo si è per sempre. E molti non sono pronti, e non è un fatto di essere responsabili o essere adolescenziali o essere afflitti dalla Sindrome di Peter Pan, e non lo saranno mai. Forse anche poco aiutati dalle donne al loro fianco o dalle avversità sociali, in primis la carenza di lavoro e il precariato, che certamente non aiutano la serenità. La Ciaravino ha il grande dono di un'ironia secca che ti culla fino al cambio di registro che ti coglie sempre impreparato e intontito, perché ridi e dopo averlo fatto ti trovi a vergognarti dell'aver sorriso in una sorta di continuo senso di colpa. Questo padre è, come tutti noi, un uomo medio, un gregario, uno sparring partner, certamente non un supereroe e come tale si muove tra mille difficoltà, sentendosi sempre in difetto, sempre in deficit e per questo si lacera dentro e muore sempre un po' di più perdendo autostima e quella del figlio che in lui non riesce a vedere un esempio da seguire ma solo un uomo che non ha avuto il coraggio di prendere la vita per le corna, un rammollito pieno di rimpianti che ha messo i sogni in una discarica, morendo ogni giorno di più tra la periferia frustrata dell'anima e il provincialismo del cuore.

003Nell'avvolgente “Valentina” di Massa è il gran snocciolamento di nomi (per il futuro nascituro) a farci cadere nella cantilena, in quella patina di allegria e spensieratezza pre-parto che coglie tutte le coppie in attesa. Man mano che si scivola nel testo ci si rende conto che c'è un'unica voce a dichiarare, a sentenziare nella sua finta felicità, a spiegare e articolare. E' la voce della madre; il padre, trattato alla stregua di un inseminatore, è un qualcosa che deve solo asserire e acconsentire, il suo silenzio è preso per assenso e non per perplessità o dubbio. A lui viene chiesto di fare la sua parte primordiale, quella primitiva e di essere, anche, contento e felice. Ma nessuno chiede mai ai padri se sia arrivato il loro momento biologico, se sia scattato il loro tic tac interiore. Quando questo padre mangia, divora letteralmente avidamente quasi fagocitandola animalescamente, un'arancia, con il succo che esplode e si spande, sembra di vedere una bocca di bestia che dilania una pancia di mamma, estinguendola. Ci sono donne che arrivano alla gravidanza per riempire dei vuoti esistenziali mentre l'uomo pare implodere come schiacciato da questa nuova vita che lo annienta, lo soffoca.

Altamente angosciante è il terzo (ma non ci sono stacchi violenti, è un continuum che scivola senza fratture), “La pratica del dolore” di Ceresoli, che vira (troppo) allo splatter e al crime, con un medico che ha perso il figlio e che, per rivalsa e vendetta, pratica e induce aborti non richiesti a pazienti in visita di controllo provocando lo stesso dolore da lui provato. “Se un figlio senza padre si chiama orfano, come si chiama un padre che non ha più il figlio”?004

Una donna non potrà mai assorbire in sé la figura femminile e quella maschile, la femmina e il maschio, la madre e il padre. La biologia e millenni di evoluzione stanno lì a certificarlo. Il padre è utile e fondamentale prima nel concepimento e durante tutta la crescita del nuovo individuo. Brioschi è un fuoco adrenalinico in un corpo a corpo con il pubblico, è completo, convinto e convincente nel tratteggiare quest'umanità colma di debolezze, incerta, indecisa, frammentata, senza aiuti, nel disegnare questi padri abbandonati a se stessi, alle loro miserie quotidiane. Una bella intenzione originale, tre penne attente, un attore solido per un tema tutto da scartavetrare. Senza paure, senza buonismi.

“La funzione simbolica del padre è appunto nell’unire il desiderio alla Legge attraverso un processo di conciliazione. Questa unione avviene non solamente attraverso la coercizione autoritaria, ma soprattutto offrendo una sponda al desiderio debordante. Il compito del padre è trasmettere il desiderio da una generazione all'altra, è permettere l'eredità”. (Massimo Recalcati)

CASTROVILLARI – Ci sono festival che chiudono e festival che raggiungono la maggiore età. Primavera dei Teatri compie diciotto anni. E li festeggia riaprendo una sala, il Teatro Vittoria, chiuso per un incendio da trenta anni, e adesso riconsegnato alla città. Castrovillari è sempre la stessa, il centro saldo delle operazioni è ancora la sua Fortezza, mentre il monte Pollino dietro gonfia il petto e all’ora del tramonto fa ombra, s’incupisce sereno e placido. Quest’anno la squadra di calcio della città è retrocessa. Nessuna paura, qui si tifa Juventus. Il vento scende sul corso che taglia e in discesa arriva fino all’Osteria della Torre Infame. Infame perché lì stavano i condannati a morte in attesa dell’esecuzione. In-fame perché, se ne hai, te la puoi togliere gettandoti in pasto agli “Spaghetti al Fuoco di Bacco”, piccanti e cotti nel vino, i “Maccaruni a firrittu del pastore”, con la ricotta, i “cancariddi arrustuti” (peperoni secchi fritti), le “patane mblacchiate” castro1(patate e peperoni). O puoi provare “cucurriddi e mirlingiane” (zucchine e melanzane), lasciarti tentare dalla “saburizza” (salsiccia piccante, e che te lo dico a fare). Nduja patrimonio dell’Umanità. Il palato schiocca, la lingua s’attorciglia in questo scioglilingua.

Lingua che è incipit e soglia, sosta e prolungamento, scivolamento e consonanza, caduta e risalita nel lavoro di Giuseppe Cutino, regia, e Sabrina Petyx, drammaturgia. “Lingua di cane” ci porta al “Cuore di cane” di Bulgakov. Pezzi, muscoli, organi. Son quelli che ci vogliono per sopravvivere, per tentare almeno di farlo. È anche un cercare di parlare di un fenomeno, quello dei migranti, sul quale in questi ultimi anni, anche e soprattutto in teatro, si è detto tutto ma sempre, o nella quasi totalità dei casi, in maniera diretta, dritto per dritto, raccontando l’orrore. Però, lo sappiamo, il teatro ha bisogno della metafora, del simbolico, del detto tra le righe, senza riproporre la cronaca, senza rincorrere la realtà che è molto più potente di qualsiasi racconto. A meno che non si scelga un’altra strada. Quella di una poesia cruda (certo la retorica è a tratti inevitabile) che coinvolge, spinge, sposta, dilania, riprende, recupera, porta in superficie sensazioni e situazioni, perfino corpi. E sono questi corpi (i siciliani della Compagnia dell’Arpa; in sei frontalmente emmadantescamente) ammessi a questa messa di ammassi di stracci, abiti galleggianti come fiori di loto in uno stagno, che non salvano ma affossano, pesanti d’acqua imbrigliano, s’attorcigliano agli arti impedendoti il nuoto e la risalita.
castrocaneBoccheggiano, i respiri si fanno profondi e intensi e sempre più la lingua vira verso un ennese stretto, i loro movimenti sono onde che sbattono sulla battigia, riflussi in un andare e tornare di fiordi e gorgoglii che forma curve della schiena e di polmoni, una danza macabra come un elastico che prende la rincorsa, si schianta e ritorna al suo posto. Un teatro fisico la cui portata s’ingigantisce, monta come panna, suda in questi frammenti che tolgono il fiato, affannano l’esofago in questa lotta feroce per la sopravvivenza. È un vortice quello che fluttua di vestiti e cenci che sanno di cimitero, Diluvio Universale e Olocausto, che sa di gioco crudele e fisarmoniche, come uscire da un bozzolo e nuovamente proteggersi come fa il riccio o l’armadillo, si annidano e si rannicchiano in un cantato-nenia-urla-preghiera soul e porosa. Vengono alla mente la “Venere degli stracci” di Pistoletto ma anche “L’Isola dei morti” di Bocklin e per finire il continente di rifiuti e plastica che staziona e s’amplia nell’Oceano Indiano. Le domande escono senza trovare riparo né soddisfazione, la barca è alla deriva (la loro reale? Noi, l’Europa metaforica?). La morte peggiore non è il decesso ma la sparizione. Se sei disperso, e non classificato come morto, non puoi attingere al senso di colpa, alla pietas, alla consacrazione, alle lacrime, alla perdita, alle cerimonie, ai fazzoletti, all’indignazione. Lo sapevano bene i generali argentini.

C’è un amore per la P, la lettera, nei titoli del gruppo veronese, Leone d’argento ’16 alla Biennale di Venezia, Babilonia Teatri. Sicastrobab parte da “Popstar”, passando per “Pinocchio”, “Purgatorio” e arrivando a quest’ultimo nato “Pedigree”. Che la P è anche l’iniziale di Padre che è centrale nel loro discorso scenico dove è proprio l’assenza del genitore maschio a farsi presenza ingombrante fino ad essere ossessione, tarlo, domanda strisciante che riempie le giornate e i pensieri di una vita. Un ragazzo ormai uomo (ritorna la forza espressiva di Enrico Castellani, vigoroso senza essere tragico) va a ritroso, indietro a scoprire i perché di quel buco nero che lo cinge e stringe. Cresciuto, e molto amato, da due madri, ha sempre sentito un vuoto incolmabile. Il padre biologico ha donato il suo sperma in una banca del seme per l’egoismo delle due donne che l’hanno sì ben cresciuto ma anche privato della sfera maschile utile, necessaria, fondamentale. L’indagine, scandita dalle musiche sdolcinate e ammiccanti, sensuali e pelviche (il gesto della penetrazione che manca a due donne), di Elvis, fa capolino sulla famiglia e sulla discriminazione paesana, sui giudizi provinciali sulle coppie di fatto.
Ma non è qui, comunque la si pensi, che i Babilonia si soffermano. Il salto è andare indietro, a quella mancanza paterna di questo genitore-milite ignoto, fumoso e allo stesso tempo onnipresente. Perché, indubbiamente, anche se il genitore mancante non ha potuto influire sull’educazione e sull’atteggiamento, sul DNA e sui tratti fisici quello sì. Quella del ragazzo è una “vendetta” lontana e distante: ogni anno per Natale organizza una cena, irreale, che riempie d’attesa tutti gli altri giorni dell’anno, con gli altri “figli” biologici dello stesso padre sparsi per il globo. Ed è questo senso della famiglia che forse lo lega maggiormente rispetto al rapporto con le due donne. Il sangue, seppur inspiegabile, pulsa più dell’affetto, per quanto grande sia. E sempre per vendetta diventa a sua volta donatore, mettendosi nella stessa condizione del padre. Il padre (ma anche la madre in caso di due uomini che allevano figli), come figura simbolica, è necessaria, non solo a livello biologico; non si può estrapolare e censurare, cancellare e nascondere la sua presenza terrena, materiale, costante. Padre e madre non possono chiamarsi semplicemente “genitore 1” e “genitore 2”. Con buona pace dei vendoliani.

Tommaso Chimenti 05/06/2017

FIRENZE – Potremmo cominciare con un “Bella Ciao” ma sarebbe troppo comunista come attacco. Allora avremo a disposizione nel cassetto un “Ciao, amore ciao” ma il festival dei fiori ci mette allergia. E allora rispolveriamo un “Bye bye baby” sensuale e vorticoso. Ma non è certo questo il caso nel quale sfoderarla. Lucio Dalla ci avrebbe risposto con un “Ciao, è la colpa di non so di chi”, criptico ed enigmatico come piaceva a noi, mentre Tiziano Ferro si dichiarava finalmente con straziante languitudine: “per dirti ciao, ciao! mio piccolo ricordo in cui nascosi anni di felicità, ciao e guarda con orgoglio chi sostiene anche le guerre che non può”. Di questo “Ciao” veltroniano a teatro avevamo redatto qua un articolo introduttivo, tra il serio e il faceto, sull'autore: https://www.recensito.net/teatro/ciao-walter-veltroni-firenze.html Ciao2
La scena di questo “Ciao” (produzione Fondazione Teatro della Toscana; Teatro della Pergola mezza platea vuota e palchetti deserti in una delle ultime repliche), tratto dal libro omonimo di Walter Veltroni, ci ricorda quella, più profonda e intensa, del “Moby Dick” di Antonio Latella dove spiccava Giorgio Albertazzi-Capitano Achab furioso: tanti libri a impregnare la visuale, a chiudere nella cultura un ampio spazio di manovra. Un pianoforte dai mille piccoli tocchi sulla tastiera è la snervante coloritura e fioritura sottolineante che aleggia, serpeggia e arpeggia in sottofondo, a tratti disturbante, a volte per portare forzatamente alla commozione facile, a colmare i vuoti ingombranti, i silenzi spessi che la drammaturgia debole lascia aperti come fessure, come crepe che stridono.
Ciao3Il testo, appunto; la riduzione elaborata dallo stesso ex segretario Pd. Sta qui il difetto cruciale che, a valanga cala e cola a discapito della fruizione. Lo si capisce andando avanti che c'è qualcosa, un paradosso che non si lima ma che si acuisce con l'andare avanti della narrazione. Questo “Ciao” (con Massimo Ghini, signore della scena, e un Francesco Bonomo che ne esce vincitore, smart, fresco, con piglio lampante e pieno di luce, si prende a poco a poco il palco e la platea mangiandosela senza timori verso il divo che ha di fronte) rimane impantanato in una impasse imbarazzante tra l'essere una biografia, lecita e corretta, sul padre (morto quando il nostro Walter aveva solamente un anno) e il diventare quello che avrebbe dovuto essere nell'intento iniziale dell'autore, il confronto, immaginario e virtuale, sognante e fantastico, tra un figlio ormai sessantenne, e il padre, trentasettenne deceduto negli anni '50. Con i piani ribaltati, il figlio che potrebbe fare, non per anagrafe ma per età raggiunta, il padre a suo padre.
Ma come vivreste, se vi fosse concessa un'ora di tempo da passare con vostro padre che non avete mai conosciuto a sessant'anni dalla sua scomparsa? Forse parlando di Ciao5cose intime, minime, piccole, personali, leggere, commosse. Qui invece, viene fuori tutta la voglia di personalismo, aneddotica, citazionismo, personaggismo, situazionismo, autoreferenzialismo, del nostro uomo. Incontri il padre per la prima volta e ne viene fuori un dialogo freddo (il problema di fondo è proprio la scrittura piatta) come tra un biografo e un personaggio famoso, molto formale, ma fintamente caldo e amorevole, molto impostato, un dialogo tra un ufficio stampa e l'artista, con l'uno che ricordava all'altro le sue imprese (il padre era giornalista Rai e radiofonico agli albori della tv) e l'altro che le conferma, aggiunge particolari al raccolto, con l'altro ancora che annuisce. Praticamente si raccontano cose che il padre ha vissuto, e quindi sa e conosce, e che il figlio sa e conosce a menadito perché le ha lette, viste nei video d'epoca, le ha sentire raccontare mille volte dagli amici del genitore.
L'escamotage del padre (pare quello di Amleto) che torna evocando la propria presenza, sembra appunto un appiglio per continuare a parlare di sé, o meglio di trattare la figura del padre attraverso l'incontro con se stesso. Sarebbe stato più rispettoso farne una biografia invece che mettere due personaggi (che poi sono uno solo; piacerebbe a tutti essere interpretati sulla scena dal bel Ghini) allo specchio che si rimpallano le stesse vecchie, trite notizie che tutti noi possiamo recuperare da internet. Sciorinarsi a vicenda le proprie gesta eroiche (il tutto basato più che altro sul lato professionale, non familiare; la madre, ad esempio, citata solo di striscio) il proprio curriculum (con buona pace del centrocampista-ministro Poletti). Come essere invitati a cena a casa di quegli amici che immancabilmente poi, a fine serata, tirano fuori il proiettore e ti ammorbano con le diapositive, con relative didascalie e spiegazioni con battute che capiscono solo loro, delle loro recenti fighissime, ma per noi poco interessanti, vacanze.
Insopportabile poi le parti dove Ghini-Veltroni legge stralci del libro di Veltroni, riadattato per il teatro da Veltroni (Freud con questi sdoppiamenti ci sarebbe andato a nozze) e Ciao4banale il continuo ricorso (la regia di Piero Maccarinelli è “telefonata” e prevedibile come un tiro da fuori area in alleggerimento; ah, in sala c'era Marco Tardelli, l'urlo Mundial '82) e l'utilizzo dei video d'epoca con immagini in bianco e nero e la voce fuori campo impostata a ricordare momenti storici della nuova e giovane Repubblica italiana, non con l'intento di riportare alla memoria il Polesine, Superga, Coppi, Bartali o Togliatti, ma solo, in qualche modo, per farci vedere e sentire quanto il giovane Walter tuttologo (e i suoi dolori goethiani e foscoliani) fosse preparato sull'argomento. Come un'interrogazione scolastica. Un modo come un altro per emergere, per continuare a far parlare di sé.
E inoltre: il padre, come detto scomparso negli anni '50, scende sulla terra (molti troppi sorrisi ammiccanti a chiudere e chiosare ogni frase piaciona, crediamo suCiao6 indicazioni della regia molto charmant e troppo pennellata) e si mette davanti ad un Mac (la mela luminosa fa bella presenza di sé) e non chiede che cosa sia quell'oggetto misterioso. L'uso dei microfoni poi allontana, distoglie, renda la voce fredda, la appiattisce, le toglie quel calore essenziale a trasmettere, attraverso la parola, quell'umanità, quella pasta di cui abbiamo bisogno recandoci a teatro dove non serve la perfezione ma conta quel che hai da regalare al pubblico. Ne viene fuori un bignametto, e calibrato e costruito neanche così bene, dove alla fine ci ricordiamo di Sordi e Totò, di Gene Kelly e Mike Bongiorno, vip che sovrastano e schiacciano un incontro che avrebbe potuto aprire crepe di bellezza (sarebbe bello un racconto in teatro di Veltroni monologhista, allora sì, forse, uscirebbe qualcosa di meno patinato). Parte il sermone ecumenico, il corteo di parole, l'arringa dal pulpito. Questo è l'incontro tra Walter Veltroni e Walter Veltroni travestito, male, dal padre. E poi, quattro finali sono davvero eccessivi: l'abbraccio, il funerale, l'uscita di scena del padre ed infine, finalmente, Veltroni che legge la fine del suo libro. Amen.
“Ciao” perde la grande occasione, trasversale, di un bell'incrocio narrativo di un figlio che riabbraccia il padre, cosa che vorrebbero fare chi lo ha perso come chi non ha mai avuto un rapporto con il genitore, facendolo diventare una lezioncina di ciò che Walter ha imparato di Vittorio, chiudendo l'orizzonte a imbuto su una piccola vicenda invece che allargarla universalmente. Una piece che non sposta niente e nessuno, che non ci apre alcuna visuale. “Ciao” non parla a tutti noi (cosa che dovrebbe fare il teatro) ma ci dice quanto Veltroni senior sia stato bravo e quanto Veltroni junior sia stato bravissimo. Leggermente autoreferenziale. Leggermente.

Tommaso Chimenti 01/04/2017

Martedì, 21 Marzo 2017 15:55

Quando diremo “Ciao” a Veltroni?

FIRENZE – Doveva andare in Africa a fare volontariato una volta lasciata la politica. Del Walter Veltroni sindaco di Roma si ricordano più le sue continue e infinite foto con Totti, che ha pure sposato, che i provvedimenti presi per la città. No, invece l'approvazione del nuovo piano regolatore che ha permesso ai costruttori edili di edificare settanta milioni di metri cubo di cemento ce la ricordiamo. Alemanno sostenne che Walter aveva lasciato il debito1Veltroni pubblico della Capitale ad 8 miliardi di euro. Ma anche la Notte bianca e la Festa del Cinema. Luccichini quando i problemi veri di Roma sono ben altri. Poi questo Paese ripulisce, santifica, certifica, consacra, perdona, soprattutto scorda, dimentica. Tu chiamale, se vuoi, rimozioni. Che se riporti alla memoria allora sei un fazioso, un acido, un arcigno detrattore. “È un cattivo travestito da buono. Persegue con ferocia i suoi obiettivi”, ne ha scritto Claudio Velardi.
Ricordiamo la sua passione juventina e il pamphlet sulla tragedia dell'Heysel (trentanove morti schiacciati tra le fila della tifoseria che parteggiava per il casato Agnelli, con la squadra di Platini che vince, e festeggia pure a braccia alzate sotto la curva, nonostante sapesse dei morti, con un rigore fuori area di due metri) che poi diede frutto anche ad una piece teatrale (in scena Francesco Murgo). Il titolo sembra il succo amaro, la sinossi acida, il riassunto stropicciato dalla storia d'Italia: “Quando cade l'acrobata, entrano i clown” che ha del 6Veltroniridicolo, del tragico, del triste, del colorato, dell'estro e della malinconia eterna italica. Ci hanno fregato, e per sempre saecola saeculorum, i panem et circenses. “A me m'ha rovinato la guera”, lanciava le sue molotov dialettiche Petrolini. “Veltroni è un elencatore di luoghi comuni. Parla di cose che non sa. Cita libri che non legge. È un anglista che non conosce l’inglese. Un buonista senza bontà. Un americano senza America. Un professionista senza professione”, ha annotato Giampaolo Pansa.
Vediamo un po' chi è Veltroni, spirito che aleggia sullo Stivale, da diversi decenni. Tra qualche anno ai bambini per farli dormire diranno: “Guarda che sennò arriva Veltroni, eh!”. Figlio di un dirigente Rai e della figlia dell'ambasciatore jugoslavo in Vaticano. Si comincia bene: comunisti e cattolici. Bocciato al Liceo Tasso di Roma. Deputato a poco più di trent'anni (sei legislature), nominato direttore dell'Unità (in allegato c'erano gli album Panini o il Vangelo) soltanto con in tasca la tessera di giornalista pubblicista, è stato segretario Ds poi Pd. Mai gli è riuscita la mossa per diventare premier. Cineasta con i documentari “Quando c'era Berlinguer” con interviste da Napolitano a Jovanotti, e di “I bambini sanno” con un vago tentato sentore pasoliniano. E' sia Cavaliere al Merito come Ufficiale della Legion4veltroni d'Onore francese. Ha doppiato Rino Tacchino nella versione italiana di “Chicken Little” della Disney. Un uomo per tutte le stagioni che si rifà, come stampo e come idea, un po' ad Obama un po' ad Al Gore, Hollywood e Kennedy, spruzzate di Don Milani. Pasolini e Mike Bongiorno e il citazionismo spinto all'ennesima potenza. “Uno strano miscuglio di discorsi rivoluzionari e pratiche perbeniste, slanci e sciatterie, avventure ideali e telefonate alla mamma”, ha appuntato Massimo Gramellini. Di Veltroni ricordiamo Guzzanti che fa Veltroni.
Beppe Grillo lo ha definito: “Il miglior alleato di Berlusconi”. Forattini lo disegnava come un bruco verde. I salotti, la paciosità, la pazienza, quel buonismo diffuso, quel buonvolontarismo che molto spesso finisce in una bolla di sapone al sapor di tanto fumo senz'arrosto, quel rimpastare, facendosi vedere dalla parte giusta, senza andare mai 3Veltroniveramente fino in fondo, quell'essere scomodo ma solo nelle dichiarazioni d'intenti. W il compromesso ecumenico, affermare un concetto e poi includere subito dopo, aprire una possibilità, anche al suo opposto. Uno svolazzare leggero da colibrì che raramente ha affondato la stilettata. Non ha fatto il servizio militare in anni in cui, i settanta, o andavi a fare il Car a urlare “Lo giuro” o obiettavi con il rischio di visitare Gaeta. Privilegi. Mai laureato. Accomodante, benevolo, mansueto. Lo avevano proposto alla presidenza della Lega Calcio. Panta rei. Tutto scorre, ma tutto torna anche. “Il veltronismo, con i suoi romanzi, i suoi musei, le sue foto accattivanti, i suoi cd e dvd alla moda solidale, i suoi “villaggi della pace” e i suoi “parchi della memoria”, e poi con gli artisti e gli sportivi disabili, gli ex deportati, gli eroi senegalesi, gli ultrà pentiti, le donne minacciate di lapidazione, i vecchietti2Veltroni rallegrati da Totti, i dipendenti comunali in permesso per volontariato, i barboni massacrati e poi premiati per il loro coraggio civico”, ha vergato Filippo Ceccarelli.
Ciao” è lo spettacolo teatrale tratto dall'omonimo libro. Un padre e un figlio. Massimo Ghini ha già nella sua carriera interpretato dei politici: in “Compagni di scuola” di Verdone era un onorevole feroce, in “Zitti e mosca” stava sullo sfondo al passaggio dalle Feste de l'Unità al divertimentificio attuale. Che Ciao è internazionale, dalla Russia al Perù, dall'Australia alla Finlandia, come pizza, spaghetti e mafia. La capiscono tutti. “Ciao” deriva dal termine “schiavo” in veneziano: sono schiavo vostro che con le varie elisioni ha portato a questa forma contratta. Che poi ciao sta nell'incontro come nel commiato, nell'arrivo come nell'arrivederci. Schiavi di Veltroni e del veltronismo. Ciao ci dice Walter sempre sorridente, affabile e placido, nei suoi nei (meno di Vespa e Renzi) nel suo doppiomento per alcuni rassicurante, quasi a benedirci con un buffetto e una parola quieta per tutti. E noi che ancora non lo abbiamo detto a lui. Moriremo cattocomunistidemocristiani, dicendo amen a voce alta e il pugno chiuso nascosto dentro l'eskimo, il segno della croce nei momenti di paura e la bestemmia sottovoce in canna.

Tommaso Chimenti 21/03/2017

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