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L’opera buffa è una cosa seria, soprattutto nelle mani di Emma Dante. In occasione dei festeggiamenti organizzati dal Teatro di Roma per il duecentesimo anniversario dell’esordio nella capitale del compositore pesarese Gioachino Rossini, che avvenne il 20 febbraio 1816 al Teatro Costanzi con il “Barbiere di Siviglia”, alla regista palermitana è toccata la ‘sfida’ di dirigere l’ultimo dramma giocoso del genio marchigiano prima della svolta verso l’opera seria, “La Cenerentola, ossia il trionfo della bontà” del 1817. Lo spettacolo è disponibile sul sito del Teatro dell’Opera di Roma nell’ambito dell’iniziativa Teatro digitale, dove è possibile anche ascoltare la “Lezione d’opera” sul dramma, podcast a cura del musicologo, compositore e conduttore radiofonico del programma “Lezioni di Musica” su Rai Radio 3 Giovanni Bietti.
Si è usato in precedenza il termine sfida perché la storia di Cenerentola appare come una semplice favola morale a lieto fine che esalta la bontà e la mitezza come doti necessarie per il riscatto sociale, soprattutto per tutte quelle generazioni cresciute con la versione disneyana della fiaba, mentre Dante ha sempre portato in scena storie di donne in lotta con strutture di potere arcaiche ma persistenti in cui l’happy end non è contemplato, in una cornice spesso surreale e sospesa tra realtà e fantasia di certo non consolatoria ma arcana e misteriosa. La rilettura dell’opera rossiniana da parte delle regista punta lo sguardo su quei meccanismi di sopraffazione psicofisica e sulla violenza domestica di cui è vittima la giovane protagonista, apparentemente unica eccezione in una società di arrampicatori sociali che dietro la cipria, la livrea e le gonne a sbuffo nascondono meschina cattiveria e invidia.
Angiolina, detta Cenerentola, è una sguattera maltrattata dalle sorellastre Clorinda e Tisbe e dal patrigno don Magnifico (che sostituisce la matrigna presente della fiaba del francese Charles Perrault). Quest’ultimo, a insaputa della ragazza, ha dilapidato un sostanzioso patrimonio lasciato in eredità ad Angiolina dalla madre scomparsa per soddisfare, ogni capriccio delle altre due. La famiglia, nonostante viva nello sfarzo, è sull’orlo della bancarotta e quando viene a sapere che il principe cerca moglie, il nobile decaduto tenta in ogni modo di convincerlo a prendere in sposa una delle sue due figlie. In un ricamo di sotterfugi, malintesi e colpi di scena il rampollo però convola a nozze con la ragazza sporca di cenere per il tempo trascorso a riscaldarsi al caminetto.
Nell’opera frizzante e dinamica di Rossini messa in scena da Dante non ci sono però cenere, fumo e caminetti. La regista opta per una cifra scenografica insieme essenziale e appariscente. La vicenda infatti si svolge tutta in un interno, con una parete bianco confetto in cui si aprono finestre, in una monocromia lattiginosa dolciastra e luccicante rotta da poche variazioni, come le giacche simil Beatles color carta da zucchero e i guanti e le scarpe rosse indossate dal principe e dal suo seguito. L’ispirazione per l’allestimento scenico e i costumi è figlia della corrente artistica Pop Surrealism, nata negli anni Settanta negli Stati Uniti, e dai quadri di uno dei suoi massimi esponenti, Ray Caesar. La poetica del movimento, che nasce tra le subculture giovanili, è quella di una rappresentazione fumettistica carica di umorismo e sarcasmo, in netta opposizione con l’arte elitaria delle classi colte, e riproduce elementi della pop culture con uno sguardo psichedelico e allucinato. Dante quindi sceglie di connotare la società aristocratica come un ambiente frivolo e grossier, affogato in un edonismo capriccioso e infantile, insincero e viziato disposto a ricorrere alla violenza quando si sente minacciato. Durante la festa a palazzo reale, l’affannata e famelica ricerca di essere scelte dal principe porta le dame accorse al ballo a sfoderare armi da fuoco di varie fogge quando compare sulla scena un’ospite misteriosa vestita di nero, prima macchia di un (non) colore diverso che come una scheggia si conficca nell’epidermide pallida dell’aristocrazia. E’ Cenerentola, lì in incognito grazie all’astuzia di Alidoro, il precettore del principe, che ha assistito all’incontro del figlio del re sotto mentite spoglie con la servetta a casa di quest’ultima.
Prima di calarsi nell’abito da sera nero e di celare il volto dietro una veletta, la sguattera di don Magnifico e di Tisbe e Clorinda, Angiolina la cova-cenere aveva i connotati tipici delle figure femminili dipinte da Caesar, ragazze dalla fattezze di bamboline agghindate con delle mise provocanti in una miscela equivoca e inquietante di innocenza ed erotismo. Fiocchetti rossi in testa, capelli grigio argento come il vestito e la gonna, un grosso cinturone in vita che segna la mezzanotte, uno dei pochi rimandi alla Cenerentola più nota al grande pubblico, a cui viene attaccata una grossa catena che simboleggia la sua condizione esistenziale di persona sottomessa. “Cenerentola vien qua”gorgheggiano bizzose e incontentabili le sorellastre mezze svestite, un po’ ammiccanti un po’ arruffate, e lei va ora dall’una ora dall’altra potendo contare solo sull’aiuto di altre Cenerentole caricate a molla che la aiutano nelle pulizie. Lei in quella casa è utile solo in quanto elettrodomestico in carne ed ossa, non esiste in quanto persona. Per i suoi tentativi di lanciar al mondo un segnale della sua esistenza, è punita dal patrigno e dalle due sorellastre. La raffica di calci e pugni che le riservano dopo il ballo rompe quella subdola atmosfera di zucchero filato, è un lampo di verità illuminante. Senza essere uno spettacolo apertamente schierato, che avrebbe rischiato di diventare didascalico, questa rappresentazione ci ricorda quante invisibili Cenerentole abitano nelle nostre case, ridotte alle sole mansioni domestiche e succubi di vessazioni fisiche e psicologiche che non si trasformano, poi, in un lieto fine.

Lorenzo Cipolla

Seguire un’opera lirica dallo schermo del proprio computer, con le cuffie sulle orecchie, non è certo la stessa cosa che godere dell’acuto di un soprano o dell’impatto di un’esecuzione orchestrale seduti in poltrona, a teatro. Si perde, oltre a questo, anche la magia di lasciarsi trasportare nei luoghi ricostruiti dalla scenografia con abili suggestioni. Manca, quindi, l’immersione fisica e mentale nell’esperienza nel suo complesso. Una perdita che si fa più dolorosa se l’opera in questione è una delle più visionarie e innovative della produzione di un artista, affidata alle mani di una regista la cui cifra stilistica è giocare sempre, con dolce crudeltà, sulla commistione tra il reale e il fantasmatico. Stiamo parlando di “L’angelo di fuoco” di Sergej Prokof’ev, nell’allestimento con la regia di Emma Dante andato in scena al teatro Costanzi di Roma dal 23 maggio al primo giugno 2019, cinquantatre anni dopo la sua unica apparizione romana in quella stessa sala.

Lo spettacolo è di nuovo disponibile sul sito del teatro dell’Opera di Roma, nell’ambito dell’iniziativa Teatro Digitale, che comprende le Lezioni di Opera a cura del maestro e musicologo Giovanni Betti (conduttore di Lezioni di Musica su RaiRadio3) – una guida nel mondo dell’opera, dove si spiegano in modo comprensibile i temi e i linguaggi di quest’arte. Opera dalla lunga gestazione che il suo autore non vide mai eseguita per intero (il debutto avvenne al teatro La Fenice di Venezia nel 1955 con la regia di Giorgio Strehler due anni dopo la morte del compositore russo), Prokof’ev la scrisse negli anni Venti, periodo in cui si interessò ai temi mistici, ispirandosi all’omonimo romanzo a puntate del poeta e scrittore simbolista russo Valery Bryusov. La storia d’un triangolo amoroso, pervasa da un’atmosfera morbosa e incantata in sintonia con i cupi stati d’animo del compositore in quegli anni, lo portò a creare un’opera innovativa costruita però sugli stilemi della tradizione del secolo precedente. Scelta rivoluzionaria, col ricorso a inserti sinfonici, alla musica russa e ai temi conduttori (leitmotiv) che evocano il carattere dei personaggi, per dare vita a un’opera anti-lirica (tra i vari temi ce n’è solo uno, quello dell’angelo, che può essere cantato mentre gli altri hanno un carattere strumentale) e contraddistinta da un’ambiguità di fondo e dall’impossibilità di comprendere appieno la psicologia dei protagonisti.

Non poteva esserci personaggio più fantasmatico della protagonista femminile de “L’angelo di fuoco”, Renata, interpretata in quest’edizione dal soprano Ewa Vesin, a fare da ponte spirituale tra il mondo reale e quello dell’immaginazione dando spazio e voce ai moti interiori in tutta la loro cangiante e incomprensibile potenza. La donna sostiene di aver ricevuto la visita di un angelo luminoso di nome Madiel – qui impersonificato dal breakdancer Alis Bianca – quando aveva otto anni e di essersene innamorata, dapprima con l’innocenza e la fiducia di una bambina, tanto da cominciare a condurre, su suggerimento e col supporto dell’angelo, una vita fatta di sofferenza morale e fisica per diventare santa. Con l’arrivo dell’adolescenza, la giovane ha iniziato a provare nei suoi confronti un’attrazione meno spirituale e più corporea. Sconvolto e adirato, l’angelo a quel punto scompare in una gran fiammata lasciandola in preda di un desiderio sessuale che l’accompagnerà sempre. Non si tratta di un insaziabile appetito ma dell’ingresso nel mondo degli adulti. Nella Germania del Seicento – anche se la regista siciliana trasporta i fatti due secoli dopo – tra roghi di libri e pratiche magiche, la condizione della donna è tale da non consentirle di vivere il desiderio sessuale, le sue pulsioni, in modo naturale e non segno del demonio e della corruzione della carne. Lei andrà in cerca di Madiel, del suo angelo puro e irraggiungibile che lei sola può vedere, in altri uomini e questo la porterà a incontrare Ruprecht, cavaliere appena tornato dall’America che mosso sia da cortesia cavalleresca sia dal suo fascino l’accompagnerà, fino alla condanna a morte da parte dell’inquisizione dopo aver scelto di farsi monaca ed essere entrata in convento.

Renata è un personaggio denso, tortuoso ma determinato, mobile – non volubile, nel senso verdiano – come lo sono i pensieri e le emozioni che mutano di continuo. In costante e scarso equilibrio tra realtà e allucinazione, tormentata da apparizioni di diavoletti. Una tensione per quel sentire che è costretta a reprimere, riassunta nel suo tema dal sapore thriller basato sul tritono, un dissonante intervallo tra le note conosciuto anche come il diabolus in musica. E l’angelo cosa rappresenta? Sarebbe facile ridurlo a una figura demoniaca che inganna con la sua lucentezza. Madiel è l’elaborazione inconscia del desiderio di Renata, che lei non riesce a raggiungere perché la fantasia femminile è giudicato oscena e immorale, frutto della tentazione diabolica che allontana dall’elevazione divina. Così rimane puro e irraggiungibile, trascendente come è arioso e luminoso il solenne tema musicale dell’angelo. E Ruprecht, interprato dal baritono Leigh Melrose? Personaggio più coerente ma non statico, è il contraltare ‘secolare’ della donna di cui non comprende i moti interiori e di cui è in qualche modo vittima, ma le resta accanto con sincera umanità. In un’opera colma di soprannaturale non potevano mancare elementi comici e grotteschi, in linea con la fosca ironia di Prokof’ev, che Emma Dante coglie ed esalta. Tanto infatti dramma è alleggerito da lampi di luce buffonesca e satirica, come i personaggi di Mefistofele e Faust, due omoni calvi e corpulenti che calzano l’uno stivaletti con gli strass e l’altro stivali di cuoio rosso col tacco a spillo. Ancora, in uno dei siparietti recitati durante i cambi di scena tra un atto e l’altro – ulteriore elemento di novità – due infermi appoggiati a una stampella si ostruiscono la strada a vicenda così, per decidere chi deve passare per primo, dapprima uno cerca goffamente di far cadere l’altro e poi duellano mulinando le grucce come fossero spade, in un comico rovesciamento del duello del terzo atto tra Ruprecht e Heinrich, un vecchio amante di Renata. La regista palermitana non stravolge l’opera né si lancia in particolari sperimentazioni, ma la arricchisce grazie alla sua poetica e a scelte non convenzionali, tra cui una folta compagnia di attori-performer che di atto in atto indossano i panni degli ospiti della locanda, degli spiriti che tormentano la donna, delle monache invasate del monastero.

L’affinità tra Renata e il teatro di Emma Dante era troppo forte perché le due non finissero per incontrarsi: una donna in cerca di un angelo del desiderio, sospesa tra la realtà e la fantasia, e la regista dal repertorio ricco di personaggi femminili che oscillano tra il mondo dei vivi e quello dei morti. La compresenza di reale e irreale, materia e spirito, Aldiqua e Aldilà fa scattare un cortocircuito della nostra volontà, rende possibile qualcosa al di fuori del nostro controllo dove tutto si confonde, si rovescia, svela e inganna. Un incontro nel soprannaturale, che porta la vicenda a svolgersi sotto il livello del suolo, dalle strade di Colonia alle catacombe dei cappuccini di Palermo, sotto la chiesa di Santa Maria della Pace, per ricordarci come il confine tra terreno e ultraterreno sia sottile o forse non esista affatto. Nell’ultimo atto lo scheletro di un donna messo in croce è un raccapricciante presagio della fine della protagonista. La decisione scenografica sepolcrale viene anche incontro a quel gusto un po’ macabro dell’opera, decorato inoltre da Dante con il taglio cimiteriale dei teschi e delle ossa con cui la compagnia di attori gioca mentre un’indovina predice il futuro di Renata. Di radicale novità la decisione di fare Madiel un angelo rovesciato che, invece di librarsi in volo sbattendo le ali, ‘cammina’ sul cielo a testa in giù. Ma c’è una scena in cui di angeli ne appaiono addirittura due, uno luminoso e uno scuro, a dare corpo (invisibile) all’immaginazione di Renata. L’unione che la donna tanto agogna e l’angelo rifugge, probabilmente si compie nella morte. Condannata al rogo con l’accusa di aver portato il maligno all’interno del monastero, dove le sorelle possedute si scatenano in un climax orgiastico in cui si uniscono con l’angelo, Renata andrà in conto alla sua fine – in tripudio quasi carnevalesco di sicilianità – agghindata da Madonna dei sette dolori di Palermo, con un lungo velo nero dalla testa ai piedi, sul capo una corona a raggiera e sul petto un enorme cuore d’oro dove sono infilzati sei pugnali. Madiel se li avvicina e le porge l’ultimo, con cui lei assesta il colpo fatale. Entrambi si accasciano, senza vita. E’ nell’Aldilà, nella dimensione dove le regole della razionalità e le certezze della materia non valgono più, che il desiderio diventa realtà.

Lorenzo Cipolla

 

Mito: dal greco “mythos”, ossia “favola, racconto”. Il mito è una storia volta a ordinare, dare un senso alla realtà, rafforzare una morale e fornire a un popolo una causa in cui credere, attraverso le parole e il coinvolgimento emotivo. Cosa succede se il mito viene smontato, svuotato del suo fine originario e infine ricostruito da un punto di vista inusuale? Accade che ci si trova davanti ad un’opera postmodernizzata, la quale tramite un sottile straniamento vuole indurre lo spettatore a riflettere sulla sua stessa condizione di individuo posto in una società.

Ecco, quindi, che un essere mostruoso, simbolo di brutalità e impulsività, metà uomo e metà toro, si rivela più innocente e sensibile degli umani stessi. Mentre quest’ultimi usano la ragione e l’inganno per compiere atti di pura crudeltà. È all'incirca la trama della ballata “Il Minotauro” del drammaturgo e pittore svizzero Friedrich Dürrenmatt, da cui lo scrittore francese René De Ceccatty e il regista Giorgio Ferrara, direttore del Festival di Spoleto dal 2007, hanno tratto il libretto per l’opera lirica omonima ed inedita che ha aperto l’edizione 2018 del Festival dei Due Mondi, andata in scena il 29 giugno e il 01 luglio al Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti.553688828062018202624

Teseo non è più l’eroe che vince coraggiosamente sulla feroce bestia, aiutato dall’astuta Arianna, bensì colui che imbroglia e tradisce, con la sua complice, un animale umanoide rinchiuso, per colpe non sue, in un mondo fatto di illusioni ed inganni. Eppure è il Minotauro ad essere temuto e osteggiato dalle vittime ateniesi che gli vengono, a sua insaputa, sacrificate. Lui, che per tutta la sua vita non ha conosciuto altro che il suo riflesso nel labirinto di specchi costruito da Dedalo, scambiando quelle infinite creature per sue identiche compagne, scopre la menzogna che si cela dietro una mano tesa mentre l’altra nascosta stringe un’arma pronta a ferirlo: la consapevolezza di non essere amato perché diverso da quegli altri esseri viventi che lo respingono con odio e paura porta il Minotauro a prendere amaramente atto di essere da solo e intrappolato. La comprensione della sua condizione lo porta a soffrire, rivelandone l’aspetto più umano e vulnerabile. A tal punto da non riconoscere la spietata falsità di Teseo e di Arianna che lo condurrà alla morte.
Da carnefice a martire, il Minotauro diventa il mostro che ognuno ha dentro, quella parte istintuale e passionale con cui l’uomo moderno non ha mai fatto davvero pace, l’unica che potrebbe portarlo a capire davvero la sua essenza e quanto lo circonda.

Un’opera affascinante, resa ancor più coinvolgente dalla precisa ed appassionata messa in musica di Silvia Colasanti, Ufficiale della Repubblica dal 2017 e nome affermato del panorama musicale contemporaneo internazionale, definita da Giorgio Ferrara «il Mozart italiano». La non facile esecuzione della partitura è stata affidata all’Orchestra Giovanile Italiana, guidata dal Maestro Jonathan Webb, mentre tre giovani e valenti cantanti, tecnicamente ineccepibili, hanno interpretato i tre protagonisti: il baritono Gianluca Margheri (Minotauro), il soprano Benedetta Torre (Arianna) e il tenore Matteo Falcier (Teseo).
553688828062018202652Nota di merito per i ragazzi diplomati dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico, i quali hanno impersonato le vittime ateniesi, rivelando doti mimiche efficientissime. Non da meno anche i membri dell’International Opera Choir, coro composto da giovani cantanti di tutte le nazioni, fondato nel 2014 da Gea Garatti, Altro Maestro del Coro presso la Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, ai quali è affidato il ruolo del Coro degli Uccelli, sorta di modernizzazione del coro greco che sottolinea e commenta le azioni in scena, sistemato con l’Orchestra in buca. La scena sobria, semplice, il cui perimetro è delimitato dagli specchi, forieri di illusioni confezionate dagli uomini, è stata ideata da Ferrara. Vincent Darrè ha firmato, invece, i fantasiosi, surreali costumi.

Chiara Ragosta, 02/07/2017

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