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ROMA – Il vento non sembra violento, il vento pare innocuo, dolce brezza che ristora, tra tutti gli agenti atmosferici sembra il più docile e controllabile. Eppure ci sono i tifoni e le trombe d'aria, la bora, eppure le scogliere sono erose da centinaia di anni di rivoli di vento che le hanno scalfite, scolpite, segnate come profonde righe sugli zigomi. Il vento, come costante, come goccia cinese, può far male, può ferire in profondità dove è difficile, se non impossibile, rimarginare il dolore. Ha aspetti psicoanalitici questo “Le ferite del vento” (1h 20', dell'autore madrileno Juan Carlos Rubio; prod. Società per Attori, Teatro Civico La Spezia; visto alla Sala Umberto di Roma) portato in Italia dalla regia fervida e intelligente di Alessio Pizzech: due uomini che si affrontano e scontrano e confrontano (fino a confortarsi) con un terzo che aleggia misterioso e indecifrabile, un fantasma dai contorni labili e inconsistenti, un ectoplasma del quale rimane soltanto il ricordo anch'esso fugace, immateriale, incorporeo. Una morte li divide, una morte li unisce.Ferite-del-vento.jpg

Dopo la scomparsa del padre anaffettivo, frugando tra le carte del padre, Raffaele, per sistemare gli aspetti burocratici dell'eredità, il figlio, Davide (Matteo Taranto riesce bene a destreggiarsi dentro l'inquietudine, la forza che si fa debolezza per poi ritrovarsi nudo davanti al bisogno d'aiuto, possente e fragile) scopre delle lettere, lettere d'amore, lettere spedite da un altro uomo proprio al genitore. L'idea granitica e solida del padre tutto d'un pezzo, che non amava nemmeno sua moglie, si sgretola in un attimo, va in frantumi come uno specchio colpito con violenza. E' questo padre mancante e assente (lo fotografa benissimo e in maniera lapidaria la canzone di MinaBugiardo e incosciente”), come lo è stato peraltro anche in vita, l'anello di congiunzione tra i due uomini, un uomo incapace d'amare, di provare sentimenti o quantomeno di riuscire ad esternarli, dimostrare gesti d'affetto, una carezza, una parola, un abbraccio, un bacio, una tenerezza, soltanto freddezza e gelo. Le lettere le ha spedite appunto un altro uomo, Giovanni, un Cochi Ponzoni duttile e versatile, lucidissimo interprete, riesce a coniugare l'amore in svariate riflessioni, un piacere vederlo così in forma. Questo padre (se Davide è il figlio, lui è sicuramente un Golia o un colosso dai piedi d'argilla) ha condannato entrambi in vita a ricercare la sua approvazione e stima senza essere minimamente ricambiati, ed entrambi Cochi ponzoni 1.jpegsono rimasti ancorati all'idea che quest'uomo potesse cambiare, potesse un giorno voler bene loro, aprirsi, farli sentire ben accetti, benvoluti, amati nel senso più ampio del termine.

L'atmosfera trasognante (in questa versione nostrana importantissime le musiche di Paolo Coletta e le luci di Michele Lavagna) ha un riverbero nascosto che ci porta ad un mix sensoriale tra “Tutto su mia madre” quando la telecamera si alza dal campo di prostitute e inquadra Barcellona (“Tajabone”), e “Un tè nel deserto” (Ryuichi Sakamoto) quando John Malkovich corre tra le dune per raggiungere l'oasi. Fuggire da qualcuno e andare disperatamente alla sua ricerca forsennata come nodo da sciogliere, come percorso da camminare, come assioma da spiegare. La scena (orchestrata e architettata da Alessandro Chiti) prevede due grandi parallelepipedi, uno verticale l'altro orizzontale (entrambi rigidi, fermi nelle proprie posizioni e convinzioni) che si iLe-ferite-del-vento.jpgntersecano creando un incavo, un insieme, un rettangolo frutto dell'unione dei due, dell'osmosi e dell'incastonarsi, con i due interni borghesi delle abitazioni, del padre e del presunto amante, comunicanti e drappeggiati da teli leggeri di plastica quasi a sottolineare l'aria da obitorio e autopsia delle emozioni e delle passioni. Un uomo misterioso, il padre, che non si è fatto conoscere e che, involontariamente, ha unito questi altri due uomini, prima in conflitto e competizione, adesso vicini, ognuno alla ricerca di quello che l'uomo deceduto non aveva mai concesso loro.

Dentro il baratro della scomparsa i due si salvano a vicenda (trovando un figlio? trovando un padre?) sublimando un amore, esorcizzandolo; prima si erano visti rovinare la vita dalla sua insensibilità e adesso, con la sua mancanza, stavolta fisica e reale e tangibile e materiale, hanno ritrovato un centro, hanno rimesso in ordine gli appunti sparsi (c'è un coup de theatre fondamentale che tutto ribalta), hanno dato un senso ad esistenze tenute in sospeso, appese ad un filo, ossessivi e tentennanti e adoranti come pulcini tremolanti con il becco aperto in agognante ansia del nutrimento dei genitori. Un padre, immensamente amato e profondamente odiato, che con i suoi silenzi li ha perseguitati in vita, che ha minato le certezze del figlio e dell'amante (inteso come colui che lo amava, non ricambiato), che li ha resi duri e disillusi, dubbiosi, incerti, paurosi e soprattutto soli. Un testo che ci parla di dipendenza, di responsabilità, di identità, di genitorialità, di perdono.

Tommaso Chimenti 19/03/2023

FIRENZE - “Ogni corpo immerso in un fluido subisce una forza diretta dal basso verso l'alto di intensità equiparabile alla forza-peso del fluido spostato”. Semplicisticamente, una sorta di azione e reazione. Siamo, inevitabilmente, in una piscina, anzi negli spogliatoi tra armadietti e la scena, didascalica ma efficace, di Federico Biancalani (il pubblico è posto sul palco del Teatro di Rifredi), che ci ricorda proprio le corsie di una vasca olimpionica con i galleggianti a dividere il percorso dei nuotatori. E subito la mente vola al videoclip anni '80 “Smalltown boy” dei Bronski Beat: acqua, spogliatoi, violenza, nudi, prurigine, voyeur. Già perché nel testo acuto e brutalmente psicologico del catalano Josep Maria Mirò si parla di acqua come liquido amniotico, ovvero come affetto e dolcezza e salvezza e protezione degli adulti verso i più piccoli, si parla di acqua come galleggiamento di fronte alle accuse infamanti, si parla di acqua in termini di annegamento dentro la shit storm, si parla di acqua come boccheggiamento tra le insidie di chi vuol vedere il male ad ogni costo, si parla di acqua come paura dell'ignoto, del cadere, del non riuscire a riemergere, soffocare in mezzo ad imputazioni dalle quali è difficile difendersi.ade998328c27804c8008624736894cb9_L.jpg

Ci sono due istruttori giovani (i gagliardi e muscolari Giulio Maria Corso e Samuele Picchi, fisico da gladiatori guerreggianti ben affiatati, affilati e allineati, credibili in tutto l'excursus drammaturgico, tranne che nello scontro fisico risultato ben poco realistico e alquanto posticcio) che sono caratterialmente agli antipodi: uno, il nostro antieroe Corso (sguardo pungente da Lucignolo provocatore e bella tenuta su quella linea sottile tesa tra l'abisso e l'arroganza), spigliato, contro le regole, scavezzacollo, l'altro (Picchi ha fatto un salto di qualità rispetto a “Tebas Land”) è più saggio, posato, con la testa sulle spalle. C'è la responsabile della struttura, Monica Bauco storica attrice con molta esperienza, qui spinge troppo sul melò, che diventa ago della bilancia tra il mondo interno che si sviluppa tra bambini e acquaticità, e quello esterno che vede, controlla, giudica gesti dal cemento delle tribune e affibbia significati a movimenti e tenerezze travisando in malafede la realtà.

C'è ne “Il principio di Archimede” (regia e traduzione di Angelo Savelli; la prima italiana nel 2018) la grande paura del nostro tempo, ovvero quella di perdere la reputazione e, grazie e per colpa dei social network e degli smartphone sempre a portata di mano e di clic e di video, che ci vogliono trasformare in giustizieri della notte, in citizen journalist, in persone in grado, senza conoscenza delle leggi e ignare delle conseguenze, di mettere online contenuti estrapolati, momenti che diventano assoluti strappati a contesti dove sarebbero stati relativizzati. Questa mania, che si fa smania, di diventare giudici della vita degli altri, di essere tutti moralizzatori delle vite degli altri, questo poter monitorare, con la spada di Damocle appunto del telefonino (ma bastano anche le voci di corridoio e le chiacchiere che in un attimo attraverso le chat di whatsapp diventano “virali”, come piace tanto dire), questo aver sempre tutto sotto controllo, questa censura preventiva, questo sorveglianza sociale reciproca, il gusto per il fake che diventa trash e gossip, questo decontestualizzare, e quindi questo rendere freddo ogni rapporto, dinamica e relazione inevitabilmente ha distrutto la spontaneità, l'allegria dell'improvvisazione facendoci sempre chiedere, prima di muoverci, se un gesto o un atteggiamento potrà essere compreso nella sua sincera e reale forma o se potrebbe essere scambiato e frainteso e giudicato “inopportuno” (altra parola che va molto di moda). Abbiamo paura e nella paura legiferiamo e vogliamo che tutto sia spiegato e chiaro, ma il mondo Il-Principio-di-Archimede.jpgci sfugge continuamente di mano e invece vogliamo ingabbiarlo, metterlo in categorie ferree uscito dalle quali sei in fallo, senza possibilità di redenzione, passibile di gogna mediatica.

Un bambino piccolo, avendo paura dell'acqua, era stato abbracciato e baciato (l'insegnante dice su una guancia, una bambina che ha visto la scena dice sulle labbra) dall'istruttore. Comincia un processo illecito alle intenzioni fatto di accuse (essere un pervertito, un molestatore) dalle quali non è possibile difendersi, i genitori montano rabbia e schiumano vendetta (Riccardo Naldini, altra colonna attoriale di Rifredi, non è così incisivo nel lasciarci nella sospensione, nel dubbio su da che parte stia la ragione), l'istruttore infangato e additato, prima di essere principio-di-archimede-fotopinolepera-2.jpgomosessuale poi pedofilo (anche se differente per età e vicende può far nascere un parallelismo con “Il caso Braibanti” di Massimiliano Palmese), non sa a cosa appigliarsi per tentare una difesa (tutto sembra assurdo e grottesco) e più cerca di spiegare più si infila in un ginepraio di spine alimentando il sospetto, aumentando la sfiducia attorno a sé. Un gesto che poteva essere di sostegno e supporto ad un piccolo nuotatore tremolante (l'interpretazione e la regia però ci fugano ogni possibile punto interrogativo ed equivocità annullando le ambiguità sulle quali il testo si fonda e donandoci la verità dell'assoluzione e dell'innocenza dell'incriminato che non viene mai messa realmente in dubbio) diventa la ghigliottina, il casus belli, il nodo del contendere, il crack che fa scivolare la vicenda nella tragedia, che fa ribollire gli animi mettendo da parte la logica razionale e pensando soltanto a farsi giustizia da soli.

Molto interessante la scelta del riavvolgimento del nastro, con il classico rumore del rewind delle cassette musicali, per ritornare alla scena precedente, tornare ad un prestabilito momento e da lì ripartire argomentandola, aumentandola, perfezionandola. Escamotage, usato più volte all'interno della pièce, ma che risulta sempre funzionale, fruttuoso, puntuale, una scansione che fa rielaborare gli eventi, riassestare i fatti, riallineare le prospettive. Il politicamente corretto ci distruggerà perché disumanizza e imbriglia, raffredda i rapporti, toglie la vita, il calore. Un testo attualissimo, necessario, indispensabile.

Tommaso Chimenti 04/04/2022

Foto: Pino Le Pera

ROMA – Dopo la non esaltante visione del superincensato e iperpremiato “Fa'afafine”, per il quale si era gridato al miracolo, al capolavoro e ci si erano spellate le mani (soprattutto certa critica e grazie anche alla pubblicità, evidentemente controproducente, data dalla protesta e dalla raccolta firme per bloccarne la messinscena nelle scuole), ho voluto provare l'ebbrezza del nuovo lavoro di Giuliano Scarpinato per confermare il primo giudizio o se ribaltarlo completamente. E' bello, e interessante e positivo, qualche volta, darsi anche torto, sconfessarsi, mutare le certezze in possibilità, tenere sempre la porta aperta al cambiamento, all'incertezza, al dubbio. Non è capitato, almeno stavolta, almeno in questo caso. Ci siamo dati ragione, abbiamo convalidato la prima impressione.MG_3370-copia.jpg

Se nel primo caso era il gender fluid il tema cardine, un bambino che una mattina si sentiva maschio e il giorno dopo femmina, stavolta, in “Se non sporca il mio pavimento” (prod. Wanderlust + CSS, in collaborazione con Rifredi, Corsia OF, Industria Scenica, Angelo Mai), è una storiaccia da cronaca nera di pochi anni fa con una coppia omosessuale che assassina brutalmente una donna; l'area e l'universo di riferimento sta sempre lì, sospesa in quel preciso ambito. Similare l'ambientazione scenica con la riproposizione di una cameretta, i famigerati video proiettati sul fondale, questa sensazione come di stare sott'acqua, in apnea, aiutata dal suono amniotico e ovattato, da pesci che fluttuano. Potrebbero essere l'uno il continuum dell'altro, ovvero il bambino problematico e viziato di “Fa'afafine”, cresciuto in una famiglia da lui bullizzata e succube e repressa e schiavizzata, che nella tarda adolescenza si trasforma nell'assassino di “Se non sporca il mio pavimento” (da una frase di un testo di Heiner Muller a sottolineare la freddezza, l'indifferenza, l'anaffettività, il glaciale). Ipotesi forzata.
Scarpinato fa sempre riferimento alla realtà, alla cronaca; se nel primo caso la storia era quella di Alex White e del suo nucleo familiare, stavolta è all'omicidio Rosboch (provincia piemontese, 2016) dal quale si prendono le mosse. Un adolescente che vuole tutto e subito, un Lucignolo manipolatore bipolare e isterico che tiene al guinzaglio, attraverso il sesso, un cinquantenne parrucchiere omosessuale (Gabriele Benedetti schiacciato e compresso dal ruolo, lontano dalla sua consueta forza, distante dalle sue corde emerse soprattutto con Fabrizio Arcuri), dal quale si fa fare regali, 20190411_111830.jpge la supplente dalla quale si fa consegnare i risparmi di una vita, oltre 200.000 euro.
Non è ormai più la questione del cosa, ma è sempre il come si affrontano le storie. E non è un dettaglio da poco. Qui tutto sembra andare verso la superficie, l'estetica, la forma, invece che tentare una profondità sul già detto, un'analisi sotto la buccia, una riflessione sotto la scorza. Quasi diventa ai nostri occhi un eroe maledetto, di quelli da dark plot, questo ragazzino allucinato e perennemente rabbioso (Michele Digirolamo, attore feticcio di Scarpinato, sempre sopra le righe) intento a voler spendere soldi non suoi, comprare abiti, ballare sfrenato, mettere la musica ad alta gradazione di decibel, senza mostrare alcuna empatia né pietas verso questa insegnante (Francesca Turrini sottotono, con il freno a mano tirato e impostatissima rispetto a come l'abbiamo ammirata con Carrozzeria Orfeo), sola senza affetti e che vive con la madre (Beatrice Schiros in video, sempre pungente, cinica e arcigna, sue caratteristiche che non molla neanche qui, per fortuna non si è fatta snaturare) alla quale fa da badante, circuita e depredata, illusa, usata, abusata, sfruttata.1077_10573_foto.jpg
Ci sono stereotipi come zucchero a velo e banalità q.b., non mancano (come potrebbero) Madonna e Whitney Houston ritmate e ballabili, e tutto vira, magicamente, sul macchiettistico, diventa un fumettone psichedelico che fa collassare il senso del fatto di cronaca, lo tradisce e lo travisa, sposta l'attenzione, ne trasforma il contenuto in forma, si perde nei dettagli ma soprattutto perde di credibilità. Vince il grottesco, tutto è caricato fino all'iperbole, manierato e barocco e smodato, in questo gusto ipnotico al sapore di un trash avariato, avendo il potere di riuscire a ridicolizzare, nell'ammasso colorato e kitsch, anche feroci e atroci delitti come quello della Rosboch.
Quando si tocca il reale, e soprattutto la cronaca nera, si dovrebbe stare doppiamente attenti a maneggiare con cura il materiale che si ha a disposizione. Tutto trabocca, tracima, deborda fino ad ottenere l'effetto opposto, il boomerang dell'assuefazione, un'enfatizzazione esagerata e sproporzionata che annulla la vera vittima ed esalta il Male.

Tommaso Chimenti 18/04/2019

PALERMO – Se Franco Scaldati è il precursore e il pioniere della lingua siciliana per la scena teatrale, la coppia storica Vetrano/Randisi sono i suoi profeti. Le loro movenze sul palco, la loro grazia e delicatezza fanno frizione con le parole ora dure e rudi e irruenti e violente del drammaturgo palermitano e, come in una capriola carpiata, adesso si allineano alla poesia decadente, ora diventano ossimoro con il volgare, l'irrimediabile rabbiosità, l'incensurabile astio di periferie squallide, cemento e solitudine dell'anima. Se l'intorno è una pietra tombale di provincia, se l'asfalto fa marcire i fiori e il sole non riesce a portare il calore sperato, la difesa dell'uomo è quella delle apparizioni, di corpi che furtivi s'appoggiano al reale, bucano la dimensione, si fanno tangibili, tanto da poterli non solo vedere ma anche da poterci parlare. Sono le “Ombre folli” (prod. Teatro Il Biondo) le creature nate dalla penna di Scaldati che mise a punto una decina di monologhi dai quali Vetrano/Randisi, come Ombre-Folli-05.jpgsempre superbi e leggeri, pennellatori di stati d'animo, dispensatori laici di visioni, hanno deciso di cucire e legare “Creatore d'ombre” assieme a “Creature e Travestimenti” ed infine piazzare il carico emotivo di “Sabella” per un fluire tra viscere ed eccitazione, tra il degrado putrido e l'erotismo, tra lo squallido e il celestiale.

Stiamo nel mezzo a fluttuare tra gli Inferi decomposti e il Paradiso di putti paffuti e nuvole pannose. Gli uomini o sono diavoli in terra o angeli caduti ma sempre si sono sporcati, sempre hanno dovuto barattare l'innocenza con la sopravvivenza, la purezza con la salvezza. La lingua è stata mantenuta quella originaria, un palermitano che ferisce, acuto, puntuto, grattugiato, che adesso è tradotto in una sorta di specchio e rimando tra i due in scena e ora è illustrato e illuminato sul fondale nero in una triplice forma che rimbalza, ritorna, riecheggia ancora più potente. Una lingua calda (di Scaldati, scomparso nel 2011, hanno già messo in scena il must “Totò e Vicè” e “Assassina”), parole dense e concrete come mattoni ad innalzare muri su questi segreti indicibili, a scavare fossati e divisioni tra il dentro di grotta e il fuori apocalittico deserto. Sembra che tutto il mondo, il loro mondo, sia rinchiuso in queste stanze che ci aprono socchiudendole a spiragli e fessure abbaglianti, a soffietto iridescenti, incandescenti.

Diablogues-Vetrano-Randisi-TOTO-E-VICE.jpgUno scrittore in scena sbatte le sue parole, romanzo o lettere o confessioni che siano, in una sorta di rimando con Jack Nicholson in “Shining” da una parte e rimbalzando con quel “Misery non deve morire” fino ai “Sei personaggi” pirandelliani (altro amore molto frequentato per VR), e dall'inchiostro e dalla fantasia si chiarificano sbucando dall'ombra e dalla nebbia delle figure sbiadite e allungate come capocchie di fiammiferi che parlano e gli parlano scivolando su una passerella di lumini e ceri da seduta spiritica (la scena come sempre pulita e minimale, una fotografia), sbucano presenze sfocate, fantasmi che prendono corpo. E' una Casa degli Spiriti allendiana quella che emerge dal nero della memoria e del tempo, rievocazioni che per osmosi affiorano da un passato che ancora è trauma, è non detto, è fiamma mai sopita sotto la cenere. Pensiero, sogno e realtà si scambiano di ruolo, si fondono, si allontanano, si abbracciano fino a non riconoscere più i confini dell'una e dove inizia l'altra dimensione. Sono presenze di assenze quelle che sbocciano e fioriscono “in questo ammasso di tenebra”.Ombre-Folli-13.jpg

L'incubo si fa terreno: “Io sono solamente i miei pensieri” e, in forma di transfert psicoanalitico, si mescolano fino a perdersi ed a chiederci chi sia l'ombra dell'altro. La pedana che fa da passerella dove calpestare la frontiera tra la vita e l'aldilà è la porta d'apertura, imene che fa passaggio e botola tra i due mondi, è divisione e Stargate. Eccoci al cuore pulsante delle “Ombre folli”, quel “Sabella” che molto ci ha ricordato il “Petrolio” pasoliniano con quest'uomo che la notte si traveste per regalare la sua bocca ad altri maschi. Però non può essere riconosciuto, il quartiere è piccolo, verrebbe messo alla berlina, non potrebbe più uscire di casa per la vergogna. Se qualcuno lo riconosce, lui deve eliminarlo, ucciderlo. E' un'uccisione metaforica nello sdoppiamento borghese/ribelle, convenzionale/rivoluzionario, è un'autopunizione, un'autoevirazione della parte di slide_website22.jpgsé che lo giudica e che non lo perdona. L'attrazione e la repulsione sono i due grandi baluardi scaldatiani, la voglia e il desiderio subito rimangiati dal controllo sociale, dagli occhi indagatori, da questo senso di pudore cattolico e benpensante e moralista (con i fatti degli altri) che soffoca ambizioni e pulsioni. Ognuno diventa carnefice di se stesso, odiatore, boia, insoddisfatto, represso, giudice e accusatore di se stesso.

Vetrano e Randisi hanno sempre l'entusiasmo della prima volta, sono pieni di vita e la trasmettono, portatori sani di lirismo, riescono sempre a far passare l'amore per il teatro attraverso i loro corpi e i loro piccoli gesti quasi coreografati, infondono acume e tenerezza e quella dolcezza placida che, confliggendo con i sempre duri e difficili temi rappresentati, spiazza e ti afferra, coinvolgendo in un abbraccio, lasciandoci con quella strana sensazione di gelido nelle ossa quando hai le mani sotto l'acqua bollente.

Tommaso Chimenti 27/03/2019

ROMA – Il 14 febbraio arriva nelle sale italiane ''Mamma+Mamma'', il film opera prima di Karole Di Tommaso, prodotto da Bibi Film e Rai Cinema, presentato in anteprima lo scorso 12 febbraio al Nuovo Cinema Aquila, alla presenza del cast e di associazioni e personalità vicine al mondo LGBTQ+. Non si poteva scegliere luogo migliore per presentare un film del genere, il Pigneto, quartiere lesbico per antonomasia. E infatti “Mamma+Mamma” ci racconta di Karole e Ali, due donne che si amano e che vogliono diventare mamme dello stesso bambino tramite l'inseminazione artificiale, che sperimentano in una clinica di Barcellona, non essendo ancora regolata legalmente in Italia. Il film, realizzato con il contributo del MiBAC e con il sostegno di Regione Lazio e Fondazione Apulia Film Commission, è distribuito da Bibi Film insieme ad Altri Sguardi, la nuova etichetta che si propone di creare nuovo calore intorno al cinema italiano, di ritrovare un dialogo con lo spettatore sostenendo film che lo facciano riflettere mentre raccontano la complessità del nostro presente.

Mamma+Mamma“Mamma+Mamma” nasce da «un'abbondanza d'amore»: così Karole di Tommaso, intervistata dalla giornalista Michela Greco, presente in sala, illustra la genesi del suo film, frutto del lavoro appassionato di una crew di sole donne, in cui è sottile il confine tra biografia e sceneggiatura (firmata da Chiara Atalanta Ridolfi). Si tratta infatti del racconto dell'esperienza realmente vissuta dalla regista e da sua moglie Alessia, circa due anni fa, per coronare il loro desiderio di maternità.
La gestazione del film comincia appunto nel 2016, quando Karole comincia a scrivere il suo «diario delle emozioni», in un momento in cui, in Italia, veniva approvato il DdL Cirinnà sulle unioni civili. La sera del 20 maggio 2016, mentre nelle piazze italiane si scatenavano i festeggiamenti e si sbandieravano le bandiere arcobaleno per questa conquista tanto attesa, Karole credeva che non ci si poteva che aspettare di meglio dal futuro. E invece, dice, oggi «stiamo peggio di allora».
Eh già, perché la legge Cirinnà prevede che persone maggiorenni dello stesso sesso possano costituire unione civile, godendo degli stessi diritti sociali, fiscali, patrimoniali delle coppie eterosessuali sposate. Tranne uno: l'adozione congiunta, che era prevista dal primo testo unico presentato in Senato nel 2014, ma che la stessa Cirinnà decise poi di vietare, avendo eliminato ogni riferimento al matrimonio, e nominando invece tutti gli articoli del Codice Civile. Ad oggi, l'unica adozione possibile per le coppie omosessuali è l'adozione del figlio del partner.
La senatrice Cirinnà è presente in sala e, dopo aver manifestato tutta la sua solidarietà nei confronti del mondo gay («sono iscritta al Mieli e all'Arcigay»), ci dice: «avremo l'equiparazione dei diritti sul matrimonio e sulla genitorialità. Non si torna indietro sulle unioni civili, ma non si va neanche avanti». Insomma, Karole e la sua produttrice, Matilde Barbagallo, credevano di essere in ritardo per pensare un film del genere, che le coppie omosessuali di lì a poco avrebbero acquisito anche il diritto all'adozione. E invece, dopo quasi 3 anni, i figli delle famiglie arcobaleno continuano a essere invisibili per lo Stato italiano. Ma “Mamma+Mamma” non nasce con l'intenzione di fare politica, né polemica: Karole Di Tommaso ci dice di aver iniziato a scrivere questo suo diario per raccontare a suo figlio il contesto caotico in cui è nato.

Mamma+Mamma3Dopo i discorsi di presentazione e di grandi speranze, la visione di “Mamma+Mamma” ci lascia delle sensazioni contrastanti: da un lato, ci rincuora il tentativo di raccontare una realtà – quella delle coppie e famiglie lesbiche e omosessuali – della quale la maggioranza degli italiani e delle italiane conosce ancora molto poco, considerandolo un mero capriccio, secondo la retorica per cui “in Italia i veri problemi sono altri”. Dall'altro, affronta questa questione accarezzandola appena, passivamente, facendola slittare quasi in secondo piano.
Con l'intento di non fare polemica non va a fondo di niente, e l'ennesima stimolazione ormonale non andata a buon fine genera in mamma Ali (interpretata da Maria Roveran) lo stesso livello di stress dell'acqua che non esce più dalla doccia. Anzi, quando l'acqua non esce e ad Andrea (Tagliaferri, terzo personaggio incomodo e fastidiosissimo, ex fidanzato di Ali che vive “a scrocco” a casa di lei e della sua ragazza) viene una crisi di nervi, Ali chiede allarmata a Karole (Linda Caridi) di trovare una soluzione pur di farlo stare buono. O ancora, dopo il fallimento del primo tentativo di rimanere incinta, Ali regala ad Andrea, per farlo andare a cena con la ragazza che lo aveva lasciato, i cento euro che Karole ha faticosamente messo da parte per volare ancora una volta verso la clinica di Barcellona a tentare di nuovo. Alla fine della proiezione, non abbiamo capito, paradossalmente, quale fosse la posizione del personaggio di Alessia riguardo il suo restare incinta. Sembra subire più che vivere questo processo.

Mamma+Mamma2Non sentiamo la complicità e la battaglia appassionata delle due, non è questo a emozionarci. Il “miracolo” del test di gravidanza finalmente positivo non suscita in loro la felicità che ci aspetteremmo. Ciò che più ci resta dalla visione del film è invece il forte desiderio e la tenacia di Karole (grazie alla vitale interpretazione della Caridi) di avere questo figlio dalla donna che ama. Ci emoziona l'illustrazione del suo contesto d'origine (Guardialfiera, un piccolo paesino in provincia di Campobasso), che trova ampio spazio nella pellicola, tra presente e passato: ci sono i suoi ricordi di bambina, di quando faceva la pipì in piedi insieme al fratello, con grande disdegno del prete del paese; c'è la genuinità dei vecchi del suo paese, la premura della madre e la sua difficoltà di dirle la verità. Ma lo confida a suo nonno, di volere un figlio con un'altra donna, gli spiega che in Italia non è possibile farlo, ci vogliono un viaggio in Spagna e tanti soldi. E allora lui le fa arrivare a casa un vaglia coi risparmi di una vita. Perché lui, ormai vecchio, ha già amato e sognato tanto con la sua donna, e ora è giusto che sua nipote investi nel suo amore – anche se non ha scelto di sistemarsi con un uomo, che magari sarebbe stato più facile.

Perché «quando si parla con le storie, e non con le ideologie, avvengono i miracoli», ci ricorda l'attrice Linda Caridi dopo la proiezione del film. Lei e Maria Roveran ci raccontano della preziosa settimana romana trascorsa insieme alle vere due mamme, per conoscersi a vicenda. Maria ci dice di aver cambiato la sua idea sulla maternità dopo aver incorporato, da attrice, la visione del mondo di Alessia. Sente che la sua percezione è stata trasformata per sempre dopo questo incontro. Linda regge lo schermo tanto bene quanto sa già fare incantevolmente con il palcoscenico, è la forza portante di questo film. Sa restituirci una Karole che è – come lei stessa la definisce – «una donna molisana piantata, che crede che quello che vuole arriverà». Ci racconta di come si sia ritrovata a «mettersi addosso, in pochissimo tempo, una cosa enorme». Di come le persone di Guardialfiera l'abbiano «presa d'assalto» per insegnarle il dialetto molisano tramite i più svariati espedienti, aiutandola così a fare pratica con la lingua, con cui aveva già iniziato a familiarizzare dedicandosi all'ascolto di registrazioni di poesie e stornelli molisani.

In conclusione, vale la pena vedere “Mamma+Mamma” per conoscere il talento di Linda Caridi, vera forza portante del film, attraverso la sua interpretazione fresca e generosa; per le musiche di Giulia Anania e Marta Venturini, per l'amabile cameo di Lilith Primavera e perché, seppur con poca energia, può essere un impulso per ripensare e ampliare la nostra idea di genitorialità.

Sara Marrone, 13/02/2019

MILANO – Per fortuna che è rimasto ancora qualcuno che certe cose le scrive e successivamente le fa anche dire ai propri attori. Scrivere senza tesi preconcette e preconfezionate da difendere, senza farsi paladino di un'idea. Senza paura, senza dover cedere, senza il timore di uscire allo scoperto, in solitudine, senza l'ansia di essere messo all'indice, nell'angolo, additato come controcorrente solo perché pensante. “Reproduction” (visto in forma di studio al Teatro della Contraddizione, garage artistico, fucina dove campeggia la scritta: “L'arte è una puttana, costa”) è un testo complesso e composito che ha in sé molte anime e un solo comune denominatore: un'intelligenza lontana dai cliché. Si parla di riproducibilità dell'arte ma anche di procreazione, il riprodursi della specie umana. La critica, in forma di protesta pop e sopra le righe, non è velata ma palese e diretta e tutta giocata con stile, estetica, leggerezza, tocchi ironici, spunti salutari,reproduction1 senza prurigine fino all'origine del dibattito che troppo spesso ormai la maggioranza abortisce e aborrisce per l'ansia di scontrarsi con un nuovo dispotismo dilagante, rassegnandosi, dubbiosi ma quieti e muti, di fronte a violente ondate di minoranze fatte percepire (grazie anche a media complici e conniventi, tra questi proprio il teatro che spesso si fa pulpito e comizio per supportare tesi politiche) alla società silente come necessità primaria. La compagnia è quella Phoebe Zeitgeist (pzteatro.org) con Giuseppe Isgrò regia e mente, Francesca Marianna Consonni alla scrittura. Brecht, Pasolini e Fassbinder i punti di riferimento nella loro personale stella dei venti.
In un Eden sintetico con un retrogusto che sa di “Giardino delle vergini suicide”, il prato è di un verde psichedelico (tutto il falso è vero) lo scontro è tra due damigelle e due concezioni di vita: la Signora in rosso, (Francesca Frigoli vagamente Amy Winehouse) che ha sentito l'orologio biologico, il tic tac della gravidanza, e la Dark Lady di ferro algida, autonoma e vamp dura (arriva montando una scopa reproduction2come strega moderna; Chiara Verzola richiama Milva o Ute Lemper, tendente a Oriana Fallaci, cattiva e acida Crudelia Demon) dedita e votata a fare della propria esistenza un'opera d'arte (“Quando stendo i panni allestisco”) senza bisogno di liquefarsi nelle pochezze animalesche, perdersi tra le onde dell'istinto sperperando la ragione: “Avere un figlio è avere qualcuno da rendere infelice”. Un'ora e mezza abbondante nella quale si ha sempre l'impressione del guizzo in un contesto ricercato, luccicante e kitsch, elegante nel suo essere esagerato, ipertrofico ma sensibile.
A gravitare come piccoli pianeti attorno a questi due Soli, come ioni attorno al corpo dell'atomo, tre figure maschili fortemente effeminate (Leprotto, Zebrotto, Conigliotto, harem omosessuale d'immaginario disneyano in magliette a righe come ireproduction3 marinaretti-gondolieri di Jean Paul Gaultier) che, tra lazzi e frizzi, giochi, vocine e schiamazzi, fanno da corollario e coro antico, spalti e fazioni, servi di scena, animali d'accompagnamento, contorno a queste due forze in campo che si scontrano in una battaglia epica, mitologica, fumettistica. Ogni frase è una ferita, ogni passaggio un crampo, ogni perifrasi taglia supportata da una colonna sonora ballabile che va dagli Smiths a Prince, da Marc Almond a Gianna Nannini, da Annie Lennox a David Bowie passando per i Cure.
Certo la veste sartoriale con la quale hanno addobbato la disputa è quella di una parodia favolistica ma le radici di queste parole appuntite sfondano la terra umida di questi tempi dove avere un'opinione propria e non allineata significa essere fastidiosi e scomodi. I tre spalleggiano perfettamente le due Regine agli antipodi nelle loro calzamaglie da Nurejev e stivali da Far West, in bilico tra uno Stregatto molto british e un Bianconiglio cinico e ingenuo. Il bambino che nasce ha le fattezze plasticose di Cicciobello (ci ha ricordato il finale del non riuscito “Darling” dei Ricci/Forte) prima di trasformarsi, con cambio anche di genere (tanto caro al dibattito attuale il gender), in una Barbie (e qui sovvengono i Tony Clifton Circus nel loro distruttivo “Hula Doll”). La marmellata è dannunziana, imburrata con velluti damienhirstiani, con una patina andywarholiana su un letto jeffkoonsiano. Poi lo snodo si focalizza, dopo la disfida tra le due possibilità e scelte femminili, sui nuovi nuclei che vogliono riprodurre un sistema perbenistico che hanno rifiutato e dal quale sono stati rifiutati: la famiglia tradizionale, i figli. Come nell'impastare un hamburger vegan si cerca lo stesso nome, la stessa forma, prendendola in prestito da esempi che si vuol combattere e sconfiggere, di ciò al quale ci opponiamo con forza. “Imitation of life” la chiamavano i R.E.M. I nostri son tempi vuoti e meschini che vanno riempiti con una burocratizzazione del linguaggio, panacea d'ogni male. Da far vedere sia ad Adinolfi che a Vendola. Mettendoli vicini di poltrona. Mano nella mano.

Tommaso Chimenti 14/06/2017

CALENZANO - “Dove tra ingorghi di desideri alle mie natiche un maschio s'appende, nella mia carne tra le mie labbra un uomo scivola l'altro si arrende” (Fabrizio De Andrè, “Princesa”).

Nella parola “maschio” o “maschile” c'è quel “ma” iniziale che fa da incipit, un termine che parte dubbioso, febbricitante, ipotetico, contraddittorio, sospeso, in bilico, nell'incertezza di un prima che vacilla, traballa, si tende. Nella “fiammina” invece si sente il calore, la linfa che cresce, il fuoco, la fiamma attratta, con una forza contraria a quella di gravità, verso l'alto, le nuvole, il cielo, come un dito infuocato ad indicare le stelle. Maschio e femmina, uomo e donna, mondi lontani che, a volte, si riuniscono in un corpo solo.masculu1
Masculu e fiammina”: cosa rimane di un rapporto nel quale si sapeva ma non si parlava, si conoscevano fatti e dettagli ma si evitava di metterli sul piatto, di discuterne, scandagliarli? Una madre (echi di “Psycho”, ma senza thriller né splatter), che adesso sta distesa orizzontalmente, ferma, immobile, defunta, una lapide, una foto, una rosa, un piolo, distante ma vicino, che fa da contraltare, scomodo, dove il figlio, ormai anch'esso anziano, che la va a trovare al camposanto, si siede, quasi fosse una penitenza, per raccontare quello che già la madre intuiva, aveva notato, sospettava: la sua omosessualità.
Saverio La Ruina è attore sensibile e fa della gentilezza e dell'armonia i tratti fondamentali della sua ricerca e della sua progressione nella drammaturgia italiana. Affronta temi difficili, ampi, scivolosi, ma lo fa con la leggerezza della strada, del paese, con l'utile riparo di un dialetto che è sempre aspro ma che nella sua bocca, tra i suoi denti, dalle sue labbra esce come sibilo arrossito e timido, sillabe dolci. La denuncia La Ruina la fa, l'ha fatta, la farà, passando da “Dissonorata” a “La Borto”, fino alla violenza casalinga sulle donne di 000masculuPolvere”, con l'impegno e il puntiglio, con la volontà di non dare mai lezioni né aprire le porte della conoscenza ma con quel tocco soffice, una carezza potremmo dire, che ci conduce dentro storie che già conosciamo, lette distrattamente nella cronaca senza soffermarci, sentite in uno dei tanti tg arrotolando un nuovo giro di spaghetti. La sua narrazione è semplice, e qui esplode la sua forza, una piccola cascata di parole che mai travolge con prepotenza ma che, con guanto di velluto, sfiora, passa sulle cose, come una pennellata, un canto, una mano nella mano.
Parla con lei”, potremmo dirla alla Almodovar. Le voci lontano che gracchiano di sottofondo ci portano in un abitacolo ristretto, giardini chiusi nell'ombra, piazze assolate, cortili interni, portici e archi di periferia, una voce che fa ricordo e famiglia, infanzia e poi adolescenza e infine gioventù e maturità, quella voce che ti chiama quando giochi, quella voce che riecheggia nella testa, quella voce che è filo che ti lega, boa di salvezza, casa dove tornare, quella voce che è mamma, che è madre, che somiglia al parlato dell'attacco di “Diamante” di Zucchero Fornaciari, poche parole in dialetto strascicato che già fanno tempo che passa e brividi. Il figlio racconta, si confessa a questa madre che ormai con il suo silenzio (qui non è omertà: “Grazie per tutto quello che non mi hai detto e per quello che non mi hai chiesto”) può solo annuire e acconsentire a questo sfogo, finalmente, lieve, emancipato, pulito, risolto. La neve tutt'attorno è simbolo di quiete, di cappa morbida, anche se somiglia a una spruzzata di cenere vulcanica, caduta per ammantare nel segreto, proteggere in una bolla sospesa nel tempo (forse il dialogo-monologo è immaginario), queste parole che hanno percorso tanto tempo prima di essere partorite.masculu2
È un'esistenza piccola e fragile, fatta di poche cose quella del “nostro”, tra zie da accudire, gli amori del passato, la panchina posizione privilegiata dalla quale guardare lo scorrere immobile del piccolo centro cittadino del Sud impantanato nei pregiudizi e in quel bullismo denigratorio, composta da offese e sberleffi, vergogne ed emarginazione, verso i “masculi a cui piacciono i masculi”. Alla madre (a se stesso, in definitiva) riporta le angherie, ma senza lamentazione, gli epiteti, ma anche con autoironia, gli sgarbi fino alle minacce e alle percosse fino alla morte pasoliniana del compagno aggredito e ucciso con l'unica colpa d'essere omosessuale.
Una vita a subire, gli occhi addosso, una normalità dei sentimenti mai potuta vivere fino in fondo, sempre “braccato”, nascosto, nell'ombra. E tra i santi Cosma e Damiano, la prima coppia di fatto della cristianità sempre accorpati e associati, la Riccione degli anni '70 e “Ti amo” di Umberto Tozzi, tra un ricordo di commozione e una ventata pop, l'affresco che ne esce è una protesta civile, senza rivendicazioni né astio combattivo aggressivo, una richiesta al mondo di più ascolto e meno giudizio, guardare e considerare l'altro che ci si para davanti, sia che tu sia “masculu” sia che tu sia “fiammina”, soltanto per quello che è: una persona.

Tommaso Chimenti 29/01/2017

LUCCA – “Sei solo nato nel momento storico peggiore per essere un maschio bianco, eterosessuale e cristiano” (Chuck Palahniuk, “Red Sultan's Big Boy” in “Romance”)

In bilico tra l'inno e la ridicolizzazione, come è nelle corde sarcastiche e pungenti di Roberto Castello, veleggia questo maschio “Alfa” da più parti, negli ultimi decenni, demonizzato, irriso, vilipeso come uno straccio vecchio, come un corpo appartenente a una antica mentalità, a una condizione e concezione vintage dell'evoluzione. Eppure il maschio alfa è la prosecuzione della specie, è il dominante capobranco testosteronico che regge il peso di una comunità. E, sia in natura che nella società civile, è un efficace ed essenziale momento di consolidamento e raccordo di speranze e intuiti, di sintesi di un pensiero, di una semplice linearità salvifica. Un'altalena di aspettative e ricorsi, un'oscillazione tra la protezione, verso l'esterno, e la pericolosità, interna tra le quattro mura, rendono il maschio alfa potenziale danno e presenza energetica e salda in una elettricità, in un elastico a doppio filo che eccita e impaurisce, che esalta e incute rispetto, che attrae e allontana, che difende, preserva e ripara ma che non è addomesticabile. “Superuomini si nasce, grandi uomini si diventa” (Roberto Gervaso).alfa1
“Alfa” si inserisce perfettamente, e a pieno titolo, all'interno della stagione dedicata al “Genere” della Tenuta Dello Scompiglio, a pochi passi da Lucca (una riflessione sull'area teatrale tirrenica sul versante contemporaneo andrebbe fatta: oltre a Spam a Porcari, il Grattacielo e il Teatro delle Commedie a Livorno, il Sant'Andrea e i Sacchi di Sabbia a Pisa poco altro si muove sul litorale), in un contesto bucolico di vigne e fienili ma allo stesso tempo funzionale, attento ai passaggi, ai cambiamenti, che annusa l'aria di quel che sarà. Castello, qui regista e non coreografo, crea un ensemble di momenti, un mosaico di scatti nei quali emergono ad intermittenze luminose, quasi flash back nella memoria ancestrale, impressi nella nostra corteccia cerebrale, lampanti visioni su questo uomo chiamato ad assumersi responsabilità e a caricarsi sulle spalle il futuro e il domani del suo clan e della sua specie, in conflitto con un mondo circostante che lo vuole b(l)andire, boldrinianamente, dal ventaglio delle possibilità, eliminare dall'album di famiglia, estromettere perché ritenuto portatore di valori negativi, bollato come primordiale, non evoluto, pericoloso. “Il superuomo è il senso della terra” (Friedrich Nietsche).
Come ogni uomo alfa che si rispetti, questo nostro (Mariano Nieddu ha forza interpretativa impattante e quella catarsi che gli permette di calarsi totalmente, sempre convincente senza strafare mai: sicurezza e certezza), immerso in quest'aia colorata e solida di blocchi di cemento da periferia urbana, è attorniato dal suo harem, dalle sue groupie (Alessandra Moretti, Ilenia Romano, Francesca Zaccaria ai microfoni come coro da concerto) di compagne e amanti o dal gineceo familiare che vede in lui un punto di riferimento. Scudi di asfalto verticale, come posati a barriera, a difendere privilegi acquisiti ma anche argini valoriali dietro i quali nascondersi e ripararsi di fronte all'ondata di perbenismo manicheo che avanza, quasi una Stonehenge moderna, un abitacolo-ricettacolo delle peggiori ansie della pancia del Paese, accerchiati da lettere grondanti odio e razzismo, sesso e fascismo. In questo brodo primordiale, fatto anche di distruzione e prevaricazione, l'uomo alfa sperimenta e assorbe grazie alfa2anche al maschilismo delle donne che gli gravitano attorno e addosso che lo spingono a indossare i panni, a tratti consunti e già ampiamente sfruttati, dell'uomo forte, dell'uomo solo al comando, della punta dell'iceberg, del cavaliere senza macchia, del capitano coraggioso e temerario.
Il maschio alfa diviene quindi anche condizione non scelta ma assegnata, non volontà ma costrizione per “sopravvivere e moltiplicarsi”, “in competizione per l'immortalità”, “freccia che punta all'infinito”, “memoria imperitura”. È la Natura non la società pulita e asettica che vogliono costruire azzerando le differenze, appiattendo, a colpi di leggi ed emendamenti, milioni di anni di trasformazione, crescita, progresso, sviluppo, perfezionamento. In fondo siamo, anche, animali. Lo vogliono silenziare, mettere in un angolo, non dargli più voce in capitolo, mettere a tacere, alla porta, emarginarlo, metterlo alla catena come Melampo. Si stanno impegnando per mettere al bando e alla berlina peli e muscoli, per costruire, a tavolino, come in un laboratorio, un mondo senza linfa, senza nerbo, senza spina dorsale, senza ossatura né colonna vertebrale, impaurito e molle che frana al primo colpo di vento, che cede al primo colpo di Stato, acconsentendo passivo e prono. “L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, un cavo al di sopra di un abisso” (Friedrich Nietsche).
Se da una parte viene anche esaltata la sfera decisionale, dall'altra, come contraltare, l'alfa è tratteggiato e disegnato, meglio fotografato (come nella locandina della piece) e raffigurato come Ken, l'eterno ragazzo impostato di Barbie, belloccio ma finto, di plastica. Dopo tanto teatro omosessuale, con istanze (anche giuste) omosessuali e questioni omosessuali, problemi della comunità omosessuale e nudi e strusciamenti e ammiccamenti omosessuali, gay e lgbt (e qui potremmo fare un cospicuo e corposo elenco di esempi che dal palcoscenico scivolano spesso nel comizio), ecco un teatro eterosessuale. Che piaccia o meno il maschio alfa è necessario, imprescindibile. Chi ha paura del maschio alfa?

Tommaso Chimenti 06/12/2016

Venerdì, 04 Novembre 2016 08:56

Due polli senza galline alla riscossa

FIRENZE - Metti due galli in un pollaio. Che, si sa, ovviamente litigheranno. Ma, normalmente, e in natura, qualsiasi recinto da becchime che si rispetti, è così chiamato perché popolato da una moltitudine di polli. O meglio, di galline. E' proprio per questo che i galli, cresta alzata e bargiglio orgoglioso al vento (il pride), si inalberano e si adombrano fino ad arrivare ad affilare le loro unghie e i rostri per contendersi i favori dell’harem delle pennute. Due galli che combattono, a meno che non siamo in uno di quei luridi scantinati sudamericani di scommesse clandestine, per nessuna femmina da coprire, è proprio un ossimoro, un controsenso. Questi due galletti del cult “Un Poyo Rojo” (una settimana di repliche al Teatro di Rifredi) non vogliono ferirsi ma soltanto aversi, non vogliono combattersi ma soltanto prendersi, non vogliono uccidersi ma soltanto saltarsi addosso l'un l'altro.001poyo
Uno dei due è visibilmente su di giri (come la platea tenuta per un'ora sul sottile filo dell'eccitazione, di costumini attillati e adamitici, sui corpi sudati, sui continui strusciamenti e ammiccamenti) e tenta in ogni modo, fino a riuscire nel suo intento (vi abbiamo spoilerato il finale, tanto era prevedibile e scontato, e richiesto dal fremente pubblico che sfrigolava impaziente) di circuire l'altro maschio del cortile. Se poi a tutto questo ci aggiungete una scenografia fatta di armadietti in ferro (s)battuto, immagine convenzionale che richiama prurigini da caserma, saponetta in doccia e spogliatoio di una squadra di calcio, allora ci sono tutti gli stereotipi giusti per un velato spinto erotismo.
Uno stancante e sfibrante corteggiamento serrato, un lavorio continuo ai fianchi fino al momento in cui il gallo “etero” cede alla avance del gallo “omosessuale” (i topoi sono chiari e lampanti nei movimenti, nelle intenzioni, nei gesti dei due pur bravi danzatori argentini), ci instradano sulla teoria di fondo che lega le deboli scenette, sul fil rouge che cuce le fiacche gag e questi quadri slegati (le imitazioni degli animali, il playback di Mina, altro cliché mastodontico sui miti canori gay, il gioco portato all'esasperazione dell'improvvisazione sulle varie frequenze radio trovate casualmente): che ogni eterosessuale possa essere attratto, incuriosito e infine convinto.
003poyoUna pièce tendenziosa quindi che, sotto una parvenza di simpatia e divertimento, mette in campo forzature e tesi socio-antropologiche e ci dice che, tra un balletto sfiorandosi i capezzoli e una mossetta adocchiante, tra occhiolini furtivi e palesi cenni d'intesa, tra tic di labbra pronunciate e dita procaci a carezzarsi, sia non solo plausibile ma anche possibile e realizzabile riuscire nell'intento di scardinare le “presunte” convinzioni e “pseudo” certezze di questi eterosessuali “noiosi”. L'etero, secondo questo racconto in forma di danza contemporanea (e non di teatro fisico), se ben accerchiato si lascia andare, apre il ponte levatoio e si lascia volentieri assediare e invadere. Non è certo qui il caso di citare le teorie, che molti contraddicono, sulla “bisessualità congenita” di Sigmund Freud o la “Scala Kinsey” sull'orientamento sessuale nell'essere umano dell'omonimo professor Alfred.
Un sottendere continuo e costante, un lento bombardamento, lo stillicidio della goccia cinese per portare a conclusione e a pieno compimento l'idea iniziale, quel bacio prima negato e poi accordato, quell'incrocio di corpi tanto desiderato e agognato e che diventa reale dopo struggimenti e battaglie simulate, dopo martellanti aggressioni soft e assidue invadenze. Nel finale quasi una liberazione-concessione dopo tanti assalti coatti, ma furbescamente patinati di allegria, dopo tante cariche all'arma bianca, ma velate di gaudio. Il pollo rosso lo preferiamo quando è Tandoori.

Tommaso Chimenti 03/11/2016

FIRENZE – “Se fossi un po più gay di quello che sono, mi farebbe piacere essere accarezzato dalla volée di McEnroe” (Gianni Clerici)
Da una parte c'è un muro inflessibile che si fortifica se si sente minimamente attaccato nelle sue certezze. Dall'altra la flessibilità, la possibilità. Da una parte la rigidità omologata, dall'altra la paura di essere giudicati. Da una parte c'è il seguire la corrente, quell'incasellarsi, quell'ingolfare la fila del “perché si fa così”, dall'altro un'indipendenza autonoma velata di ipocrisia per non farsi scoprire. Come davanti a uno specchio, la rete da superare, i nostri due tennisti si guardano, si studiano, si confrontano, vedendo le proprie mosse riflesse nell'altro. Una patina di leggero divertimento e un cuneo di profondo pensiero, come montagne russe, avvolge e spinge “Le regole del giuoco del tennis” (prod. Nuovo Teatro Sanità di Napoli) scritto da Mario Gelardi. I nostri due atleti non giocano contro ma stanno dalla stessa parte del campo in un doppio sotto rete. Sembrano dissimili, diversi l'uno dall'altro, lontanissimi. E in uno spirito cameratesco, di confessioni machiste e tennis1conquiste femminili il muro del non detto cade, le indicibili vergogne vengono abbattute, la coltre delle bugie si dissolve tra un lob e un passante da fondo campo.
Lo sport, lo sappiamo, è metafora della vita: c'è l'avversario da battere, un ostacolo da oltrepassare. Avversario e ostacolo, la maggior parte delle volte, siamo noi stessi. “Le regole” è l'affresco del nostro mondo, della nostra società, dove tutto pare certo e fermo, spiegabile con termini altisonanti, studi scientifici, documenti con linguaggio tecnico nella massima comprensione e spiegazione possibile: o stai di qua o stai di là. Tutto è semplice, se la vita fosse un manuale, una scienza esatta. Ma è all'interno delle regole dure e inflessibili che si aprono le possibilità delle sfumature, di tutti i grigi (noi, gli uomini) che stanno, vivono, soffrono, si muovono tra il bianco e il nero, i dogmi. Siamo tutti sbagliati proprio perché lontani anni luce dalla perfezione, per questo siamo tutti uguali, ognuno con le proprie scelte, tutte plausibili e con lo stesso grado di dignità.
Questi due amici (Carlo Geltrude e Riccardo Ciccarelli si combinano, si incastrano a meraviglia, opposti che si attraggono) si trovano, sembra casualmente ma evidentemente l'argomento pungolava e faceva capolino da tempo, ad affrontare il tema dell'omosessualità in un'altalena ironica e sentita dove sul piatto prima appare l'amicizia, poi la sincerità infine il sentimento. Ed è più facile accodarsi a un pensiero, sentendo di non essere soli, che per primi alzare la mano, avendo paura di non essere accolti, accettati ma anzi emarginati e rifiutati, scartati, messi all'angolo, in croce, in castigo.
Gli scambi tennistici (anche sudati, ci ha ricordato in questo “La maratona di NY” di Edoardo Erba), intervallati ora da liti e confessioni come dall'elencazione formale (“dura lex sed lex”) dei codici contenuti nella normativa che regola il play di racchetta e palle (anche qui, se vogliamo, un riferimento fallico), diventano ben presto coreografie sgrammaticate, balli di gruppi tennis2con velocizzazioni o rallentie dove i due caratteri stereotipati tratteggiati dei protagonisti (il single e il fidanzato, l'ignorante e l'universitario, il cinema sparatutto e il musical, quello alla moda e agiato, l'altro disoccupato, l'uno di mentalità aperta l'altro conservatore) si scontrano e si uniscono, si allontanano e si avvicinano, si repellono e respingono, si prendono e si dondolano, si spingono e si accolgono in una continua unione e lontananza, ricerca del contatto e dell'abbraccio geloso e rifiuto dell'idea di provare qualcosa per qualcuno del nostro stesso sesso.
Volteggiano di passi di valzer viennesi (la regia di Carlo Caracciolo è colorata e armoniosa nel suo impianto semplice e scarno ma fresco e agile come un ace), su punte da scarpe da ginnastica sgraziati “Sul bel Danubio Blu” come fossero Romeo e Giulietta o La Bella e la Bestia, Rapunzel o Biancaneve o La Bella Addormentata e il Principe, ma anche come Braccio di Ferro e Bruto (la canzone omonima di Samuele Bersani è in questo illuminante), o ancora Patroclo e Achille o Batman e Robin. “Le regole” ci dice di non aver paura e che le regole, nella vita, non esistono, o meglio, devono essere fatte proprie perché se vivessimo seguendo alla lettera le regole saremmo degli automi noiosi, invece siamo uomini e donne con le nostre fragilità e debolezze, lontani da una perfezione che in Natura non esiste. La frase: “A volte basta un fallo e la partita si riapre”.

Visto al Teatro delle Spiagge, Firenze, il 17 maggio 2016

Tommaso Chimenti 18/05/2016

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