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TORINO – Alcune città, quando piove, possono risultare più tristi di altre. Del “Cielo su Torino che sembra muoversi al mio fianco” ce ne hanno già parlato a sufficienza i Subsonica ai tempi della fioritura dei Murazzi. Ma a Torino non ci si annoia mai: puoi respirare l'aroma di caffè nel Museo Lavazza, sentire i rombi in quello dell'Automobile, inalare la Storia con la maiuscola nel Museo Egizio, farti ispirare dal MAO dove in questo periodo scorre un'interessante abbinamento e rapporto tra Islam e l'acqua, commuoverti davanti alle fotografie sgranate dei campioni senza tempo del Grande Torino, proprio in questi giorni scoccavano i 70 anni dalla tragedia di Superga, oppure immergerti nei colori di Steve McCurry ed i suoi scatti da mondi lontani pieni di vita, di libri, di storie e di parole da leggere. Il Fringe di Torino arriva alla sua sesta edizione e si posiziona prima, quasi in un continuum tra la fine delle stagioni, del Festival delle Colline. I Fringe da noi non hanno attecchito come si pensava; dall'esperienza di quello di Edimburgo, che fa numeri e businness, molte città hanno voluto provarne gli effetti e l'ebbrezza: ci vengono in mente Roma, Spoleto o l'Apulia, e l'esperienza di Torino sembra essere quella che si è meglio strutturata e imposta nel panorama nazionale.

Il clima rimane off e giovane, il che è limite e ricchezza, limite perché si resta sempre nell'“emergente”, quasi emergenziale, ricchezza per l'entusiasmo che si crea attorno. Importante la scelta del Fringe torinese, diretto con sorriso e piglio da Cecilia Bozzolini, di utilizzare otto spazi non teatrali, locali, centri culturali, pub, dislocati nelle zone più diverse della città della Mole, dalla Barriera di Milano ai Magazzini sul Po, da Piazza Statuto a Piazza Castello: fermento, vita. Sui trecento progetti arrivati ne sono stati selezionati 27 che sono andati in scena nelle due settimane del festival per nove repliche complessive (una bella vetrina o un bel rodaggio). Gli spettatori avevano a disposizione tre spettacoli a sera nello stesso spazio, molto comodo e funzionale per una piccola maratona quotidiana dentro le pieghe del nostro teatro. La parola d'ordine di quest'anno è stata #fridom, il simbolo, onirico e leggermente pessimista, un dodo, bell'uccello piumoso, nostalgicamente estinto, non un bell'augurio per il teatro off. Non è mancata certamente la qualità però sono mancati i premi (miglior performance, miglior spettacolo, miglior testo), le giurie, tecnica e popolare, per poter valorizzare al meglio (anche il marketing è importante) gli spettacoli e il Fringe stesso durante l'anno. Il Fringe di Torino 2019, almeno per quanto ci riguarda, parla al maschile: già perché abbiamo riapprezzato o scoperto grandi interpreti carismatici, potenti, che sono riusciti a catalizzare l'attenzione con la forza delle loro parole, convinti, decisi, ammalianti, affascinanti animali da palcoscenico (e mai bestie di scena).Angelo Colosimo.jpg

Animali sì perché due dei quattro spettacoli che abbiamo selezionato parlavano di porci, o suini o maiali, a seconda dell'accezione che vogliamo dare al sostantivo che può essere declinato adesso in termini culinari-gastronomici, ora igienici, o ancora moralistici. Tra il reale e il metaforico sta la narrazione intensa di Angelo Colosimo (si mangia la scena) che ci porta tra le pieghe della sua martoriata Calabria con “Simu e Puarcu” (che chiude la trilogia con “Bestie rare” e “L'Agnello di Dio”) dove la lingua tagliente dello stivale della Magna Grecia è appuntito come un coltello per smembrare, tagliare, incidere, scuoiare. Colosimo governa questa lingua musicale e rude insieme, tra filastrocche in rima dalle quali farsi coccolare e cullare e l'arrogante e ispida sensazione di Far West dove vince la legge del più forte. Il macellaio ci racconta come sgozza i maiali, ai quali comunque vuole bene, il lavoro sporco, ma fatto con passione e dedizione quasi una missione, ma è tutto (nei cliché del meridionale simpaticamente esondante, ciarliero, di catene spesse al collo con la croce da baciare, i santi da reclamare e venerare, gli occhiali a specchio, la camicia colorata che fa subito spiaggia e calura) un rimando a sparizioni, a corpi nascosti e sezionati, ad un altro tipo di macellazione, certamente con meno amore e cura rispetto a quella animale.

Un racconto (ci ha ricordato le fiabe per niente consolatorie dei Fratelli Grimm) intriso di sangue che ci porta ad una storia vera, quella di Santino Panzanella scomparso e dissolto dalla ndrangheta e i cui presunti assassini sono stati prima arrestati e poi rilasciati per insufficienza di prove: una storia tutta italiana, una storia sbagliata. Colosimo (una recitazione carica e viscerale che ci ha portato con la memoria a “Roccu u Stortu” del conterraneo Fulvio Cauteruccio o “Acido fenico” dei leccesi Koreja o ancora “Kitsch Hamlet” oppure “U Tingutu” entrambi di Scena Verticale di Castrovillari) ha grande energia nel passare dalla dimensione (con un buon contributo di luci e sonoro) dello scannatoio a quella delinquenziale mantenendo un equilibrio sottile ora ironico adesso freddo ma sempre neutrale e naturale seguendo la logica mafiosa del segno della croce e dei barili d'acido, del santo da portare in processione e della brutalità nell'eliminare, o dissolvere ancora peggio, un nemico: quando il teatro serve per andare in direzione ostinata e contraria.

Ancora maiali Martorelli.jpgnella digressione di Fabrizio Martorelli, attore di razza, che, con “Peppa Pig prende coscienza di essere un suino” di Davide Carnevali, ci porta dentro ad un dialogo che oscilla tra il filosofico e l'economico con la figlia ancora piccola e sullo sfondo il mondo dei cartoni animati ed il marketing e le simbologie che queste instillano e inculcano nei bambini, potenziali consumatori. La narrazione ha molti step e varie fasi; si passa appunto dal neoliberismo e dalla lotta di classe al porcello dei cartoon che professa, contraddicendo la realtà, il “migliore dei mondi possibili”, passando per la CIA, Guantanamo, fino alla trita rivendicazione del teatro sul sistema teatrale e le lamentazioni contro i grandi Stabili che gestiscono il potere, per poi arrivare, dopo molti piani e molte, troppe, storie affastellate, dopo un po' se ne perde la cognizione divenendo complesso, ad una critica al mondo mercimonio dell'arte contemporanea. Il tema è molto interessante e l'incipit deflagrante, Martorelli ha lucidità ed è un trascinatore allo stato puro, adrenalinico, un'asciugatura di rimandi e salti e prospettive gioverebbe a tutto l'impianto che, comunque, nel suo complesso risulta godibile, anche se perdendo di leggerezza si fa serioso e non più pungente ma solo grave, ma potrebbe diventare esplosivo.

E' una contraddizione in termini la piece “Un'ora di niente” di Paolo Faroni che, all'opposto, sono sessanta minuti scanditi da verità allarmanti, cinismo urticante, grande umanità, racconti autobiografici privati il tutto miscelato da un sarcasmo pungente, esilarante, ficcante, urticante. Da solo sul palco, tiene le redini, affossa il pubblico in un corpo a corpo dove sempre esce vincitore con una dialettica intelligente e una costruzione drammaturgica che tocca i rapporti interpersonali e sentimentali ma anche l'autostima, il teatro, il sesso, in un tourbillon vorticoso, in uno Zibaldone dove si miscelano Natura e Anima con battute al vetriolo, “Il teatro è come un cane, il calore di qualcuno senza lo sbattimento di dover stare ad ascoltarlo”, con stilettate velenose: “Esiste una sola religione: l'erotismo. Tutte le altre infatti tentano di combatterlo”: deliziosamente spassoso, talmente insensibile da nascondere il bisogno di un abbraccio, quello del pubblico.Paolo Faroni.jpg

Importante l'indagine, durata quattro anni, di Gianni Spezzano (lo abbiamo visto in nella serie Gomorra) e Adriano Pantaleo (anima del Nest di San Giovanni a Teduccio a Napoli) sul mondo degli ultrà di calcio. “Non plus ultras” è un viaggio dentro le dinamiche, le strategie, le tecniche, le psicologie, le famiglie e tutto il non detto, e il non conosciuto, dentro quel terreno fatto di fratellanza, violenza, rapporti, intrighi, intrecci borderline a cavallo tra legalità e illecito, fede, odio, vicinanza. In una scena costruita con file di seggiolini da curva e manichini con maglie colorate ai lati e una croce in alto a santificare le feste e a benedire il campo, Pantaleo è un abile trasformista che presta corpo e voce a varie figure che aleggiano, sostano, gravitano attorno a quell'universo così romanzato da chi c'è dentro, così avversato da chi ne sta fuori. C'è ironia e freschezza, così come amarezza nel percorso evidenziato di teatro.it-Adriano-Pantaleo.jpgCiro che diventa ultrà per amore. Quasi come fosse una dipendenza, una malattia, un virus che si attacca e si appiccica addosso e non ti lascia più attanagliandoti perché ti dà una scansione della settimana, qualcosa per cui combattere, credere, forse anche morire, un'identità forte in un oggi labile e incerto, mellifluo e liquido. Pantaleo sale e scende dalla struttura, si lancia, si scapicolla, suona, canta, urla, intona i cori da stadio: ora è nei panni di Ciro poi diventa lo zio Salvatore filosofo, l'agognata fidanzata Susanna infine Biagio il Mohicano, il capo dei capi. Ma ci racconta una cerchia di figure, dai soprannomi coloriti: Chardonnay, Megabyte, Lupin, che ci fanno sorridere (a tratti è irresistibile) e ci aprono una finestra (suonando tanti campanelli da reception, gong come sul ring, piccoli tonfi come battiti del cuore) su un terreno troppo spesso, semplicisticamente, bollato soltanto come aggressivo e rude: certo ci sono le risse, le trasferte, l'adrenalina, la ferocia atavica contro le forze dell'ordine ma anche la trasmissione di valori, l'orgoglio, il rispetto di una città. Non dà giudizi, solo punti di vista, da vedere: ogni maledetta domenica.

Da segnalare assolutamente “Sul divano” della Compagnia PerNoi, in un interno degradato da Cinico Tv, claustrofobico e spiegazzato, due fratelli (sono venuti in mente anche Scimone e Sframeli, anche se qui manca ancora quello stato di grazia e sospensione ma il climax è quello) bevono birra e giocano a calcio con una palla di carta. Si sono rinchiusi, rifugiati dopo un grave lutto, quasi hikikomori, e non vogliono più uscire perché lì dentro si sentono al sicuro, perché lì dentro tutto è rimasto uguale e non può far male. Divano e birra, birra e divano e tante bottiglie vuote come cadaveri delle possibilità che non hanno scelto, Sul divano.jpgcome le teste dell'Isola di Pasqua per guardare orizzonti lontani che hanno deciso di non percorrere chiudendosi dentro il guscio di un salotto spoglio d'affetti. Il tema della perdita e della difficile gestione del lutto striscia anche se l'atmosfera pazientemente costruita viene fatta virare, poteva essere giocata meglio, sull'ironia lasciando un po' d'amaro in bocca per quello che poteva essere. Il tempo, però, è dalla loro parte.

Favolosi e funambolici i Three Dots Company (i tre puntini, quelli di sospensione, quelli del non detto, quelli che lasciano sempre uno spazio per l'immaginazione e la fantasia...) che con “Mimes” ci hanno regalato divertimento puro legato però alla riflessione, mai banale o scontata, sul teatro nel suo continuo dialogo tra realtà e finzione, come sulla vita, sul prendesi sul serio, sul gioco dell'esistenza. Se due dei tre mimi usano in scena tutte le tecniche ci ci si aspetta da un mimo con i guanti e la faccia bianchi, lo specchio e appunto il mimare gesti, azioni e oggetti che effettivamente Mimes.jpgnon sono presenti, il terzo, cinico e spietato, mette in luce le falle del loro piccolo mondo, scopre le carte delle loro convinzioni. Ecco che una banana, reale e non solamente fatta immaginare, o una scala, diventano oggetti-grimaldello, feticci-piedi di porco (ritorna magistralmente il suino-refrain) per comprendere il reale, scatenando un'ironia incontenibile, una stimolazione intellettiva delicata, semplice ed esplosiva al tempo stesso: una fenomenale allegoria.

Tommaso Chimenti 19/05/2019

REGGIO EMILIA – Sono le storie i fili che ci tengono legati, come gli aquiloni, alla terra, quel suolo che ci sarà lieve, un giorno, e che altre volte ci fa sentire pesanti, al netto della forza di gravità. Sono le parole che ci fanno uomini, ci rendono passaggi fondamentali di sapere e portatori sani di sapienza, trasmettitori di memoria, connettori di sguardi. E questo lo ha capito bene “Reggionarra” in un susseguirsi di tre giorni dove la città del Tricolore ribolle di piccole grandi, semplici e genuine, mai naif, iniziative che hanno al centro due capisaldi: l'uomo e le sue narrazioni. Che cosa siamo in definitiva senza la parola, quella stessa che si fa essere incarnazione di valori e parabole, leggende e fiabe, arcani e nostalgie ma anche di insegnamenti e conoscenza. C'è chi racconta, mai spiegI lettini delle storie (4).jpga pedantemente, ma c'è, e ci deve essere, chi ascolta in uno scambio continuo, in osmosi, di pensiero e attesa, agognando il passaggio successivo. Le parole, quelle buone che non danno soluzioni precostituite e preconfigurate, ma quelle che scardinano, che spostano, che spingono un po' più in là, che aiutano, che sostengono, che fanno riflettere, che aprono porte e finestre, che mai chiudono, parole che accolgono e includono, che abbracciano e scaldano, che riempiono, che pongono domande, pungolano. Feticcio e iconografia per le storie è quel “C'era una volta” candido da nonna e lenzuolo, quel rimboccare le coperte verso l'età adulta per insegnare non che i draghi non esistono ma che i draghi, quotidianamente, grandi o piccoli che siano, si possono sconfiggere, con la tenacia, la coerenza, la costanza. Il drago è la nostra paura e si può battere soltanto affrontandolo: la fiaba è il primo passo verso la consapevolezza di quel bambino che un giorno sarà adulto. O forse gli adulti non smettono mai di essere bambini.

Da questo “sogno” nasce l'ideazione curata, sempre con attenzione e delicatezza, dal Teatro dell'Orsa (i reggiani Bernardino Bonzani e Monica Morini), i leggeri ed eterei, trasognanti come pan di zucchero e spirituali come lievito, “Lettini delle storie”. Si entra nel loro mondo incantato, in punta di piedi, silenziosi, rispettosi, nel loro immaginario fiabesco, religiosamente laico e profano, che, in un attimo, ti riporta indietro nel tempo quando la nonna o la mamma ti raccontavano una favola, forse sempre la stessa e che volevi ascoltare, per consolidarla, per consuetudine ma anche in maniera consolatoria, ogni sera per provare il piacere della paura e il timore che potesse cambiare il finale. I lettini sanno sempre un po' Monica Morini e Bernardino Bonzani.JPGdi Freud e psicanalisi, di racconto intimo e parole personali, incantate e chiuse in una parentesi, un dialogo profondo tra il narratore e l'ascoltatore. All'interno dell'inquietante Galleria Parmeggiani, tra bauli e armature, vasi e lance da collezionisti che rimbalzano nelle epoche e nei secoli, dove la Storia la senti presente, pressante e pesante, ecco gli angeli in bianco (i tanti giovani narratori che arrivano per l'occasione da tutta Italia formati dall'Orsa e da Antonietta Talamonti), cadaverico o celestiale, che ti conducono per mano, con leggerezza infinita e sfioramenti che abbattono la quarta parete, alla tua postazione, al tuo incontro uno ad uno, occhi negli occhi. E' un rito con le sue formule e i suoi dogmi: ti devi lasciare andare. Si ritorna indietro nel tempo, a ritroso, piacevolmente, ci si lascia cullare, coccolare accoccolati tra queste parole soffuse e lievi che incantano dolci, che scendono quasi a coprire le palpebre o le lacrime.Monica Morini e Bernardino Bonzani (2).JPG

Importante e fondamentale è l'incrocio degli occhi, saldo che non si abbassa mai, e il tatto e contatto, le mani, le dita, i polpastrelli, nei piccoli gesti che fanno casa e rifugio, salvezza e famiglia, forse placenta e posizione fetale, sicuramente riparo. Qui non può succedenti niente, sei al sicuro. Il tuo lettino, vicino ma non troppo ad altri lettini, è lì che ti aspetta. Ti devi togliere le scarpe, lasciare la tua anagrafe fuori da quelle lenzuola immacolate di latte, abbandonare la tua biografia e fare un salto carpiato al te bambino, quello che voleva succhiare ogni parola distillata per rincuorarsi, rinfrancarsi, crescere faticosamente un po' di più ogni sera. Le parole cadono come fiocchi di neve, il tono è basso, tutto è confortevole sdraiati sotto la zanzariera del lettuccio a baldacchino: la coperta è bianca, il cuscino è bianco, l'abito leggero della vestale è bianco. Sei invaso dall'abbacinante bagliore di tutta questa purezza che cozza con la penombra intorno, quella Storia che, attraverso gli oggetti in esposizione tra teche e vetrine, esprime guerra e sangue, battaglie e morte.

I lettini delle storie.jpgHanno costruito un piccolo universo fragile fatto di carezze e sorrisi, di lievità, friabile e amorevole. Sei immerso, per mezz'ora, in un sogno fanciullo e puro, in un'aurea sospesa: è una fortuna esserci. E senti la tua storia (“La Bella e la bestia” uguale per tutti) e ne percepisci pezzi e parti che arrivano e provengono dai lettini vicini, come echi precedenti, il passato che ci accomuna, come riverberi di ciò che stiamo per vivere, il futuro che ci attende. E' una lezione da imparare la gentilezza, la calma, la pazienza, una lezione mai da dimenticare, sempre da alimentare, sempre da foraggiare non tanto a parole quanto con l'esempio. Il Teatro dell'Orsa, come la sua stella di riferimento, indica la strada maestra, la luce da seguire per non perdersi, senza forzature, senza pressioni: la dolcezza dell'incanto, la grazia del sussurro possono salvare il mondo.

Tommaso Chimenti 21/05/2018

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