Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 739

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 735

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 752

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 617

L’opera buffa è una cosa seria, soprattutto nelle mani di Emma Dante. In occasione dei festeggiamenti organizzati dal Teatro di Roma per il duecentesimo anniversario dell’esordio nella capitale del compositore pesarese Gioachino Rossini, che avvenne il 20 febbraio 1816 al Teatro Costanzi con il “Barbiere di Siviglia”, alla regista palermitana è toccata la ‘sfida’ di dirigere l’ultimo dramma giocoso del genio marchigiano prima della svolta verso l’opera seria, “La Cenerentola, ossia il trionfo della bontà” del 1817. Lo spettacolo è disponibile sul sito del Teatro dell’Opera di Roma nell’ambito dell’iniziativa Teatro digitale, dove è possibile anche ascoltare la “Lezione d’opera” sul dramma, podcast a cura del musicologo, compositore e conduttore radiofonico del programma “Lezioni di Musica” su Rai Radio 3 Giovanni Bietti.
Si è usato in precedenza il termine sfida perché la storia di Cenerentola appare come una semplice favola morale a lieto fine che esalta la bontà e la mitezza come doti necessarie per il riscatto sociale, soprattutto per tutte quelle generazioni cresciute con la versione disneyana della fiaba, mentre Dante ha sempre portato in scena storie di donne in lotta con strutture di potere arcaiche ma persistenti in cui l’happy end non è contemplato, in una cornice spesso surreale e sospesa tra realtà e fantasia di certo non consolatoria ma arcana e misteriosa. La rilettura dell’opera rossiniana da parte delle regista punta lo sguardo su quei meccanismi di sopraffazione psicofisica e sulla violenza domestica di cui è vittima la giovane protagonista, apparentemente unica eccezione in una società di arrampicatori sociali che dietro la cipria, la livrea e le gonne a sbuffo nascondono meschina cattiveria e invidia.
Angiolina, detta Cenerentola, è una sguattera maltrattata dalle sorellastre Clorinda e Tisbe e dal patrigno don Magnifico (che sostituisce la matrigna presente della fiaba del francese Charles Perrault). Quest’ultimo, a insaputa della ragazza, ha dilapidato un sostanzioso patrimonio lasciato in eredità ad Angiolina dalla madre scomparsa per soddisfare, ogni capriccio delle altre due. La famiglia, nonostante viva nello sfarzo, è sull’orlo della bancarotta e quando viene a sapere che il principe cerca moglie, il nobile decaduto tenta in ogni modo di convincerlo a prendere in sposa una delle sue due figlie. In un ricamo di sotterfugi, malintesi e colpi di scena il rampollo però convola a nozze con la ragazza sporca di cenere per il tempo trascorso a riscaldarsi al caminetto.
Nell’opera frizzante e dinamica di Rossini messa in scena da Dante non ci sono però cenere, fumo e caminetti. La regista opta per una cifra scenografica insieme essenziale e appariscente. La vicenda infatti si svolge tutta in un interno, con una parete bianco confetto in cui si aprono finestre, in una monocromia lattiginosa dolciastra e luccicante rotta da poche variazioni, come le giacche simil Beatles color carta da zucchero e i guanti e le scarpe rosse indossate dal principe e dal suo seguito. L’ispirazione per l’allestimento scenico e i costumi è figlia della corrente artistica Pop Surrealism, nata negli anni Settanta negli Stati Uniti, e dai quadri di uno dei suoi massimi esponenti, Ray Caesar. La poetica del movimento, che nasce tra le subculture giovanili, è quella di una rappresentazione fumettistica carica di umorismo e sarcasmo, in netta opposizione con l’arte elitaria delle classi colte, e riproduce elementi della pop culture con uno sguardo psichedelico e allucinato. Dante quindi sceglie di connotare la società aristocratica come un ambiente frivolo e grossier, affogato in un edonismo capriccioso e infantile, insincero e viziato disposto a ricorrere alla violenza quando si sente minacciato. Durante la festa a palazzo reale, l’affannata e famelica ricerca di essere scelte dal principe porta le dame accorse al ballo a sfoderare armi da fuoco di varie fogge quando compare sulla scena un’ospite misteriosa vestita di nero, prima macchia di un (non) colore diverso che come una scheggia si conficca nell’epidermide pallida dell’aristocrazia. E’ Cenerentola, lì in incognito grazie all’astuzia di Alidoro, il precettore del principe, che ha assistito all’incontro del figlio del re sotto mentite spoglie con la servetta a casa di quest’ultima.
Prima di calarsi nell’abito da sera nero e di celare il volto dietro una veletta, la sguattera di don Magnifico e di Tisbe e Clorinda, Angiolina la cova-cenere aveva i connotati tipici delle figure femminili dipinte da Caesar, ragazze dalla fattezze di bamboline agghindate con delle mise provocanti in una miscela equivoca e inquietante di innocenza ed erotismo. Fiocchetti rossi in testa, capelli grigio argento come il vestito e la gonna, un grosso cinturone in vita che segna la mezzanotte, uno dei pochi rimandi alla Cenerentola più nota al grande pubblico, a cui viene attaccata una grossa catena che simboleggia la sua condizione esistenziale di persona sottomessa. “Cenerentola vien qua”gorgheggiano bizzose e incontentabili le sorellastre mezze svestite, un po’ ammiccanti un po’ arruffate, e lei va ora dall’una ora dall’altra potendo contare solo sull’aiuto di altre Cenerentole caricate a molla che la aiutano nelle pulizie. Lei in quella casa è utile solo in quanto elettrodomestico in carne ed ossa, non esiste in quanto persona. Per i suoi tentativi di lanciar al mondo un segnale della sua esistenza, è punita dal patrigno e dalle due sorellastre. La raffica di calci e pugni che le riservano dopo il ballo rompe quella subdola atmosfera di zucchero filato, è un lampo di verità illuminante. Senza essere uno spettacolo apertamente schierato, che avrebbe rischiato di diventare didascalico, questa rappresentazione ci ricorda quante invisibili Cenerentole abitano nelle nostre case, ridotte alle sole mansioni domestiche e succubi di vessazioni fisiche e psicologiche che non si trasformano, poi, in un lieto fine.

Lorenzo Cipolla

La musica, come l’arte in generale, si è rivelata uno dei settori più compromessi dal coronavirus. I live si sono completamente arrestati e la produzione ne ha fortemente risentito. Nonostante ciò si è continuato, per quanto possibile, ad andare avanti con la distribuzione musicale, puntando ovviamente alle piattaforme digitali e ai social. Igor La Fontana, direttore artistico dell’etichetta discografica Fenix Entertainment, ci ha raccontato come è cambiato il suo ruolo in fase di lockdown. Ad essersi fermato non è solo il lavoro nello studio di registrazione, ma anche tutto ciò che c’è dietro ad un artista: shooting fotografici, videoclip e relazioni con la stampa. La Fenix, attiva anche in ambito cinematografico, è in costante ricerca di nuovi talenti, oltre a vantare nomi ormai noti al grande pubblico. E’ il caso di Mirkoeilcane, che nel 2018 vinse il premio della critica "Mia Martini" al Festival di Sanremo, per la categoria nuove proposte.

Qui di seguito l’intervista al direttore Igor La Fontana.

D: Come è cambiato il suo lavoro durante la fase più acuta della pandemia? Quali difficoltà ha riscontrato?

R: In un periodo così particolare si sono attivate più forme di lavoro. Forme che sembrano innovative, ma che in realtà già esistevano. Per quanto un iter digitale possa sembrare più veloce, io ho riscontrato difficoltà nella gestione, soprattutto per quanto riguarda la questione tecnico-logistica. Personalmente, c’è stata una seria difficoltà nella direzione artistica, nel comprendere il momento del musicista e coadiuvare le varie figure.

D: Nonostante la singolarità del periodo siete riusciti a portare avanti qualche progetto?

R: Come etichetta discografica, nel periodo di lockdown, siamo riusciti a produrre un brano sulle piattaforme digitali. Fare uscire un singolo in un periodo del genere è rischioso, soprattutto se l’artista è emergente. In questo caso era già stata ultimata la parte artistica, quindi ci siamo attivati solo con la distribuzione. Con molti dei nostri cantanti avevamo in programma diversi progetti, ma ci siamo bloccati perché non era possibile lavorare in presenza.

D: Deduco che il lavoro in presenza sia essenziale nell’ambito discografico, malgrado, apparentemente, sia un settore che si presta molto allo smart-working. E’ così?

R: Nonostante ci siano molte alternative “virtuali”, la resa migliore del sound si ha solo registrando in studio. Anche la fase di post-produzione è fondamentale: è un momento di collaborazione tra arrangiatore, produttore artistico e artista stesso. La consulenza tra le varie parti è fondamentale e non si può pensare di ottenere prodotti di qualità producendo con l’attrezzatura che abbiamo in casa. Al giorno d’oggi nella tua stanza puoi creare il tuo personale studio di produzione basta un computer e una libreria musicale, però ci sono ragazzi alla vecchia maniera, in cui si parte dalla chitarra e l’artista si preoccupa solo della fase scrittura e arrangiamento. Questa è la linea standard di scrittura del pop italiano.

D: A suo avviso, quali sono gli aspetti positivi e negativi che si sono accentuati in questo periodo?

Il seguito sui social si costruisce con il tempo, facendo dei live e con strategia di marketing come presentazione e comunicazione con la stampa. Questi sono dei supporti che in quarantena sono venuti un po’ a mancare, ma sono quelli ancora oggi più funzionali per la produzione discografica. Ci sono artisti che sono nati dai social e fanno da sempre un lavoro digital. Ovviamente in questi casi il riscontro è stato più che positivo. Per il cantautore o per il musicista che lavora ancora alla vecchia maniera, invece, ci sono stati non pochi problemi, primo tra tutti non poter intervenire con shooting fotografici e videoclip. questi ultimi creano un grande supporto alla produzione musicale e alla distribuzione.

D: Il settore musicale ha subito una gravissima perdita anche per quanto riguarda i live. Qual è la sua percezione?

R: Senza fare vittimismo, ma la parte dei live è stata quella più penalizzata e non c’è differenza tra un evento di piccola o grande portata. Spero possa ritornare tutto come prima, ma con tanta educazione civica in più. L’artista deve relazionarsi fisicamente con il pubblico, è la benzina che manda avanti la musica. Questo contatto diretto riesce a dare un plus all’artista: una carica maggiore, ma anche più consapevolezza rispetto ai followers o ai like virtuali.

D: Cosa si augura per il futuro musicale e artistico in generale?

R: Io spero che non verrà sottovalutata l’arte in generale, perché questo è stato un momento che l’ha esaltata, in qualche modo. Se non ci fosse stata la musica, che ci ha tenuto compagnia, sarebbe stato tutto più triste. Le istituzioni dovrebbero tenerne conto: il mondo in generale vive di musica. L’arte va rispettata in quanto tale, perché è fondamentale per l’uomo.

19/05/2020   Micaela Aouizerate

In questi 2 mesi di lockdown molti sono stati gli aspetti della nostra cosiddetta “normalità” che abbiamo dovuto mettere in discussione. Fra i più importanti, c’è sicuramente l’assunto stesso di “sentirsi parte di una comunità”, assieme a tutto il corollario di valori che eravamo soliti adoperare per distinguerci da un’etichetta, piuttosto che da un’altra. Ed è stato curioso osservare come il COVID-19 abbia in un certo senso coinvolto tutti allo stesso modo e, contemporaneamente, sottolineato tutte quelle caratteristiche che rientravano già in una visione esauriente di “distanziamento sociale”. Ricchi e poveri, privilegiati e dimenticati, lavoratori e disoccupati, patrioti e stranieri, fortunati e sfortunati. Se è vero che stiamo riaprendo gradualmente le porte per poter tornare insieme ad immergerci nel mondo, è vero anche che una certa idea di “società malata” ancora non ci abbandona. Malata di pregiudizi, soprattutto.

La musica, con la sua capacità di eludere ogni tipo di confine, è stata senza dubbio un elemento di estrema utilità in queste settimane, per molti di noi. Per colmare la distanza con le persone care, per dedicarsi al suo studio sotto molteplici aspetti, per riassaporare il religioso ascolto di vecchi brani e album, o fare nuove scoperte. Ma, soprattutto, per farci apprezzare veramente il valore della condivisione. Da quest’ultima voce nasce l’idea di voler mettere insieme le proposte musicali che troverete di seguito, ad opera di ragazzi che già prima dell’inizio della quarantena condividevano un percorso comune, fatto principalmente di studio e critica giornalistica delle arti (teatrali, cinematografiche e musicali).

Fino a diventare colleghi e, in qualche modo, anche compagni di viaggio.

18 brani, ciascuno consigliato da questi ragazzi con opportune argomentazioni e direttive, in cui si intrecciano emotività e raziocinio. Ogni canzone è stata, infatti, mossa da esigenze diverse: quella di regalare una carezza per sorridere, uno schiaffo di quelli propedeutici e formativi, o semplicemente, una parte di sé.

Un’avventura collettiva questa, se preferite, che siamo certi potrà tornare utile in ogni momento, perché la forza della musica sta proprio, come sempre, nell’andare oltre qualsiasi tipo di ostacolo, concreto o astratto che sia. Ed è anche un modo per continuare a viaggiare insieme e trasmetterci messaggi importanti (come si è cercato di fare con questa rubrica), mentre ci prepariamo a ripartire!

BUON ASCOLTO A TUTTI!  

(e un “GRAZIE” speciale ai miei colleghi del Master di Critica Giornalistica 2019/2020 presso l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico che lo hanno reso possibile).

  

“Acqua e sale” – Mina e Celentano (2003)

Un paio di birre nel locale, in mezzo alla gente nei tavoli pieni, e due tipi cantano al karaoke quella canzone dal groove attraente, ma in una orribile base MIDI: quella che cantano sempre tutti. Era il 1998 e “Acqua e sale” ci mise pochissimo a divenire un cult delle voci amatoriali e allo sbaraglio che, molte volte, tentavano di imitare i timbri inarrivabili di Mina e Celentano. Ed è strano riascoltarlo, oggi, chiuso in una stanza, luogo di isolamento sociale, con le voci originali del molleggiato e della tigre di Cremona, nell’arrangiamento originale di Massimiliano Pani e con quell’assolo di chitarra elettrica che scivola come fosse sull’acqua, creato ed eseguito da un giovanissimo Max Varini. Accordi semplici, un po’banali, ma “Acqua e sale” è, per noi italiani, la canzone per antonomasia dello stare insieme, della socialità: ormai un dogma. E quanto sarebbe bello, oggi, ritrovarsi in uno di quei locali, sentir partire quell’intro nel borbottìo generale e pensare: “Ancora? ma quanti soldi avranno fatto, con i diritti d’autore, quelli che hanno composto ‘sta canzone?”

(“…per berci di nuovo una birra insieme”)

Giuseppe Cambria

 

“Fiore mio” - Andrea Laszlo De Simone (2017)

Come una filastrocca che ritorna, si ripete e si fissa nella testa: “Fiore Mio” è semplicemente fine e replay continuo. Una serie di suggestioni visive richiamano i colori, i rumori e i profumi che avvolgono un legame stretto, passato o immaginato tra due amanti. Le sonorità anni 60/70 si mescolano a una contemporaneità ancora psichedelica, trascinata dalla voce morbida di Andrea Laszlo De Simone. Fiore mio è sospesa come i sentimenti che racconta, è candida come il biancore protagonista delle strofe. Onirica e traslucida, e ancora, edulcorata dai facili accostamenti lessicali, il suo ascolto conduce verso una seducente malinconia di cui sentiamo aver bisogno. Il brano è la cornice più familiare di un album -“Uomo Donna”- pregno di rimandi a quel progressive rock che non ha paura di esprimere un fenomeno, e i successivi epifenomeni, cantando frasi come «Fiore mio, fiore della mia anima». Il ricordo del cantautorato italiano di Battisti e Battiato arriva sino a noi, ora autentico e attuale. De Simone è in grado di abitare perfettamente il nostro tempo esprimendo l’universo-sentimento in modo pacato e naturale, senza tralasciare la sperimentazione di nuovi orizzonti.

Arianna Sacchinelli

 

“Mio fratello è figlio unico” – Rino Gaetano (1976)

Graffia e sorride la title track di un album epocale che esce nel 1976 col nome Mio fratello è figlio unico, opera di un menestrello poco eccelso per quelli del suo tempo che oggi chiameremmo semplicemente Rino Gaetano. Un paradosso ma senza voglia di demagogia sin dal titolo, acuto e fustigatore come i maestri dell’assurdo Beckett e Ionesco che aveva sposato quando animava le cantine off di Trastevere. È impossibile dire di lui e del suo “fratello figlio unico” al passato perché i geni nascono una volta ma parlano per sempre. “Perché è convinto che esistono ancora gli sfruttati malpagati e frustrati”, diceva Rino parlando a quell’outsider Mario a cui è dedicato l’amore del suo grido rotto, in una ballata di pianoforte, cori, e squarci di lirismo ad intermittenza. Oggi, in tempi di quarantena, ripenso all’ essere figli unici come ad una libertà irrevocabile. Significa scegliere di camminare da soli, al di sopra dei legami di sangue, al di sopra di cosa e chi il tuo tempo ti impone di essere. Soli, ma nel senso liberatorio che dà l’unicità.

Che poi, chissà chi era Mario (o Mariù?). Di certo uno che non “filava dritto”.

Gabriella Longo

  

“Strada facendo” – Claudio Baglioni (1981)

Quando mi è stato proposto questo progetto, la prima canzone che mi è venuta in mente è stata "Strada facendo" di Claudio Baglioni. Il suo testo e la sua musica mi sono state accanto nei momenti difficili e mi hanno fatto credere, come scrive l'autore, che ci sia qualcosa in noi di inspiegabile, che ci fa andare avanti e dire che non è finita. E' una di quelle canzoni che mi fa piangere ma anche sorridere, proprio come accade nella vita, e soprattutto pensare a quanto siamo forti quando, nonostante le mille difficoltà, ci aggrappiamo a quel gancio in mezzo al cielo. Percorrendo la mia strada ho capito di non essere sola, come ci dice la canzone, e per questo dedico la mia scelta a tutti i miei cari amici, che mi sono stati vicini nei periodi bui senza fare domande, e a me stessa per non aver mai mollato.

Silvia Cannistrà

  

“Should Have Know Better” – Sufjan Stevens (2015)

Should Have Known Better (dall’album Carrie & Lowell) ha lo stesso effetto della carezza di una madre, che con occhi buoni e pieni del mondo ci chiede di sollevare il viso, di staccarci dal nero sudario («black shroud / captain of my feelings») con cui abbiamo a lungo insistito ad avvolgerci il capo. Reprimere non serve a niente: le lettere vanno scritte e i pianti vanno sfogati. Con associazioni linguistiche che scorrono come acqua sorgiva, sonorità che sembrano provenire da vaporosi orizzonti onirici e accensioni capaci di risvegliarci dall’oscurità più spietata, Sufjan Stevens ricuce le ferite del cuore e prepara il terreno per la rinascita: il passato rimane passato («the bridge to nowhere»), ma a volte basta posare lo sguardo su qualcosa o qualcuno («My brother had a daughter / the beauty that she brings») per venire travolti dalla bellezza di un mondo che, tenero e ostinato, si rinnova sempre e comunque.

Maria Giulia Petrini

  

“A modo tuo” – Luciano Ligabue (2015)

Ero un’adolescente “alternativa”, o di quelle che vengono etichettate così, con la passione per il grunge e per i Green Day, con un padre appassionato di rock, musica classica e cantautorato italiano. E lì in mezzo c’era lui, Liga. Ha permesso ai nostri due mondi di incontrarsi, dando inizio ad una passione comune che è ancora lì, nel mezzo. Mi capita spesso di ripensare a questa storia, ultimamente. Mi ricorda che dall’altra parte, oltre la distanza forzata, c’è qualcuno ad aspettarti. Non so cosa succederà dopo questo enorme caos che stiamo vivendo, se saremo più uniti, più lontani, più desiderosi di stare soli o al contrario di immergerci nella vita con ancora più forza e tenacia. Se saremo capaci di riprenderci la nostra normalità. L’unico augurio che posso farci è di tornare a “camminare, cadere, rialzarci, cambiare” a modo nostro.

Claudia Silvestri

 

“The King Of Carrot Flowers, Pt. 1” - Neutral Milk Hotel (1998)

Neutral Milk Hotel, King of Carrot Flowers, Pt. 1. Un ascolto di due minuti soltanto, una ballata per chitarra acustica che sembra condensare in poche immagini l’intima mescolanza di spiritualità ed erotismo che verrà a dispiegarsi attraverso le altre tracce di In the Aeroplane Over the Sea (1998). L’urgenza che accompagna il cantare di Jeff Mangum e le note storte della cornamusa impregnano di malinconia un testo estremamente poetico, che evoca con delicatezza un’infanzia giocata tra i fiori di carota e «sacri» serpenti a sonagli. Gli angoli di casa, che in questi giorni sembrano riflettere soltanto il nostro isolamento, diventano i silenziosi testimoni di un mistero che si scopre sui corpi e a fior di pelle («As we would lay and learn what each other's bodies were for»), custodendo il segreto di un amore così liquido e denso da poterci affondare («And this is the room/ One afternoon I knew I could love you /And from above you how I sank into your soul»). Un brano per riempire di ricordo e di attesa questa stanza oggi così vuota, mentre fuori la primavera imperversa priva dei nostri battiti e delle nostre carezze.

Chiara Molinari

 

“That's Life” - Frank Sinatra (1966)

Sarà per lo stile inimitabile dell'autore, o perché il film “Joker” ha dato nuova linfa vitale a uno dei suoi migliori brani, ma “That's Life” di Frank Sinatra rappresenta la mia colonna sonora personale in questa quarantena. Perché? Semplice, contiene uno dei messaggi principali del cantante newyorkese. La vita è dura, può metterti a tappeto con dei potenti calci (o un virus!), calpestando i tuoi sogni, ma in ogni caso non bisogna mai arrendersi, bisogna sempre rialzarsi e tornare in gara. Dopotutto il mondo continua a girare e a giugno tutto potrebbe cambiare!

Matthieu Silvani

 

“Salirò” - Daniele Silvestri (2002)

Una canzone che quest'anno diventa maggiorenne. Corre l'anno 2002 infatti quando il cantautore romano porta la canzone al Festival di Sanremo. Nonostante si piazzi quattordicesimo, il brano è un successo e ancora oggi è consuetudine ascoltarne il caldo ritmo alla radio. Salirò è una irriverente scossa di energia positiva, è un messaggio scherzoso e speranzoso di ripartenza dopo una ferita d'amore. Metafore semplici e paradossali disegnano il percorso di Silvestri che "scotto come il tagliolino al pesto" è deciso prima o poi a rimettersi in gioco, alzandosi dal letto sfatto dove è stato lasciato. Inevitabilmente, è una canzone che mette di buonumore, fa sorridere, divertire ed entra nella testa, per poi non uscirne più, anche dopo anni.

Camilla Giordano

 

“Astronomy” – Blue Oyster Cult (1974)

Senza i Blue Oyster Cult la storia dell’hard rock così come la conosciamo sarebbe di gran lunga più povera. Una band caduta ingiustamente nell’oblio, ma non è mai tardi per riscoprirla. Con Secret Treaties hanno consegnato al mondo il loro capolavoro, e Astronomy, la canzone che chiude questo album, è tra le più celebrate. Una ballata rock malinconica dal testo metaforico soggetto a varie interpretazioni, composta in un crescendo musicale dai toni mistici. Dalle iniziali note dolcissime del pianoforte si conclude con un’esplosione musicale liberatoria sul finale. Se ascoltata ad occhi chiusi il senso di evasione dalla realtà è totale, si vola tra le stelle del firmamento insieme a Susy, dopodiché anche l’ascoltatore più ostico diventerà seguace del Culto dell’Ostrica Blu.

Tiziana Panettieri

 

“Concerto in sol” - Maurice Ravel (1931)

Il Concerto in sol fu presentato a Parigi il 14 gennaio 1932 e diretto dallo stesso Maurice Ravel che lo definì «un concerto nel senso più autentico del termine […] scritto nello spirito di quelli di Mozart e Saint-Saëns». La peculiarità del Concerto in sol sta nel suo essere poliedrico e visionario, capace di rendere in immagini i passaggi sonori letteralmente spettacolari, per cui si passa dalle atmosfere circensi a quelle dei jazz club, dai salotti reali ai moti interiori fino alla pura metafisica. Il secondo movimento, l’Adagio Assai, è forse il più dolorosamente nostalgico: si apre con il pianoforte solo che intona una lenta melodia come scandita da passi che ci portano intimamente e con fatica indietro nel tempo; l’entrata candida del flauto pare schiudere una porta attraversata, poco a poco, dagli altri elementi dell’orchestra come spiragli di luce nella penombra. Si delinea un’atmosfera che rimanda al sogno e all’immaginario, in un crescendo sempre più intenso, agitato e perturbante che sembra finire con un quiete risveglio in cui il tocco leggero e brillante del pianoforte copre di pioviggine l’aurora generata dall’oboe insieme con gli archi.

[Esecuzione consigliata (The Royal Stockholm Philharmonic Orchestra diretta da Yuri Temirkanov, con al piano Martha Argerich): https://www.youtube.com/watch?v=cJOW5mlhH_Y]

Martina Cancellieri

 

“Highway Patrolman” - Bruce Springsteen (1982)

Bruce Springsteen scrive, suona e interpreta canzoni con dolente empatia e uno sguardo sempre comprensivo, mai giudicante, su sogni infranti, chimere che battono nel petto, fuorilegge per necessità o per una psiche infranta, uomini e donne posti davanti a scelte e dilemmi morali che non contemplano vie di mezzo. Sono storie in musica di fallimenti a cui ci si rassegna e di speranze che ci fanno ancora correre mano nella mano con una persona, ridendo di una felicità esplosiva e incomprensibile, sotto il diluvio – vero ma anche simbolico. Frammenti di esistenze che toccano corde profonde, risvegliando ricordi personali per chissà quale associazione di immagini o sensazioni, e ci fanno provare tutto il vissuto di qualcuno o lo fanno risuonare come se fosse il nostro. Uno struggimento agrodolce. Provate per credere dando un ascolto a “Highway  Patrolman”, in origine scritta per Johnny Cash, e inserita nel disco del 1982 “Nebraska”. Polpastrelli sulle corde della chitarra, un microfono e l’amore gonfio di dolore di un uomo per un suo fratello.

Lorenzo Cipolla

 

“At the door” - The Strokes (2020)

I puristi diranno che la mancanza della batteria e delle chitarre stravolge il canonico sound della band. Il massiccio utilizzo dei synth dal retrogusto anni ottanta cyberpunk (quasi vapor) sovrasta sovrano lungo tutta la canzone, senza grandi variazioni. Eppure il singolo è forse la track più bella del nuovo disco dei The Strokes, decadente e malinconica arriva dritta senza troppi orpelli grazie anche alle semplici ma incisive parole di Casablancas: Strike me like a chord//I’m an ugly boy//Holdin’ on the night//Lonely after Light…

Sara Moscagiuri

 

“Centro di gravità permanente” – Franco Battiato (1981)

Cerco un centro di gravità permanente… che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente. Il ritornello che racchiude tutto il messaggio della canzone. Il centro di gravità permanente è il nostro Io osservatore e lo si può formare attraverso l’essere attivi, svegli e osservatori del mondo. La forzata reclusione ha travolto tutti e ha completamente stravolto le sedimentate abitudini quotidiane, ponendoci davanti ad un, molto spesso, rinnegato confronto con noi stessi. Adesso più che mai, in un momento in cui tutto è precario e da “rivedere”, si rende necessario trovare il proprio equilibrio per riscoprire o scoprire il proprio centro nella realtà. Complice un ascolto a tutto volume nell’unica uscita in macchina in due mesi, questa canzone ha potenziato la voglia spasmodica di ritrovare la libertà di poter scegliere.

Miriam Raccosta

 

“Il cielo di Roma” – Aiello (2019)

«Tutte le volte che sono in volo mi torna in mente la maestra Gianna. Suo figlio è molto intelligente, ma sta sempre con la testa tra le nuvole». Il periodo della scuola è finito da un pezzo, ma forse conviene ancora avere la testa fra le nuvole per non pensare, lasciarsi andare nell'incertezza delle giornate che restano immobili. Aiello racconta sentimenti sbiaditi sotto "Il cielo di Roma" dove tutto cambia o forse tutto rimane così com'è. Sentirsi in trappola sotto o sopra lo stesso cielo accorcia le distanze e ci rende meno soli. Dovremmo essere in grado di toglierci la nostalgia come una maglietta che non sta più bene, farla svanire come il sapore di un bacio che si dissolve e invece lei resta lì, ci osserva e non se ne va. «Certe cose non cambiano. Molte di queste rimangono. Come tutte le volte che ti incontro per strada e la strada si alza e a me pare di stare sopra il cielo di Roma. A fissare la notte, a toccare le stelle con te». Abbracciarsi sotto lo stesso cielo sarà ancora possibile, per adesso ci basta la musica a far scorrere i pensieri come nuvole.

Laura Rondinella

 

"Moth Into Flame” - Metallica (2016)

 Il brano suona come una sorta di cavalcata, che denota una buona potenza esecutiva, dettata anche dal suono martellante del basso, per dare profondità al brano. Il concetto espresso nella canzone è come la ricerca del successo porti molte persone a fare di tutto, pur di ottenerlo. Nel caso specifico ci si concentra sul fattore fama, che spesso prende il sopravvento sul nostro essere rendendoci inconsapevoli di aver iniziato un processo che non farà altro che portarci alla pazzia ed al fallimento. Nel ritornello viene rivelato l'atto estremo che una persona è disposta a compiere pur avere un briciolo di fama, quello di arrivare a vendere l'anima al diavolo. La canzone ci parla quindi delle persone che cercano ad ogni costo di cambiare la propria vita, scendendo a compromessi che porteranno solo al fallimento ed allo sconforto. Ecco spiegato il simbolismo delle falene: presi dall'euforia, non capiamo che stiamo gettando via la nostra vita. Il monito della band, dunque, è che se non si seguono determinati criteri, ma si accettano stratagemmi per arrivare a traguardi altrimenti difficili da raggiungere, il crollo è inevitabile.

Alessandro Perri

 

“Across the universe” – The Beatles (1969)

Un classico da ascoltare, soprattutto ora che siamo in piena emergenza covid-19, è Across the Universe. Un brano del 1969, ma che tutt’oggi gode di una straordinaria modernità: basti pensare al testo che nel ritornello grida “Nothing’s gonna change my world”. L’originale versione dei Beatles, minimale e intima, viene ripresa, nel corso degli anni, da grandi nomi della scena musicale: è il caso di David Bowie, che nel 1975 rende questa canzone più graffiante. Una provocazione e una ribellione nei confronti del sistema. Più recentemente, invece, è stata rivisitata dal gruppo rock sudafricano Seether , che regala al pubblico una versione apparentemente più fresca, ma che lascia trasparire tanta malinconia e intensità.

Micaela Aouizerate

 

"Imagine" - A Perfect Circle (2013)

Se la perla originale di John Lennon riesce ancora, a suo modo, ad evocare quella sorta di desiderio trasognato o affascinante prospettiva, mossi dalle spinte rivoluzionarie dell’amore fraterno sessantottino, la rivisitazione (in chiave minore) di Maynard James Keenan & Co è da considerarsi, altresì, un’istantanea parodistica di questo nostro presente così sottovalutato, vissuto in maniera distratta e troppo spesso artificialmente edulcorato. Pianoforte martellante, violini stridenti, cadenzati e quasi spaventosi alla Bernard Herrmann, dissonanze dal sapore schönberghiano. Un crescendo sempre più graduale, quasi al punto di riempire l’aria di angoscia, come la nenia vocale dello stesso Keenan. Badate bene: questa Imagine non va intesa secondo un’accezione di pessimismo gratuito, ma piuttosto come una sana, quanto scomoda, presa di coscienza alla quale concedere la libertà di piegarci in due come farebbe un pugno nello stomaco ben assestato. Servono orecchie e animi consapevoli, per questo ascolto. Perché se è vero che, una volta tornati in quel mondo che si trova oltre la soglia di casa nostra, avremo tra le mani una certa idea di futuro, è bene tenere a mente quello intendiamo lasciarci alle spalle. Specialmente se abbiamo promesso a noi stessi di essere migliori, più passionali, attenti, onesti e comprensivi. Quello per commettere ancora vecchi errori è ormai una scusa passata di moda, come il lusso di essere vigliacchi.

Jacopo Ventura

Lunedì, 27 Aprile 2020 07:33

Musica per viaggiare (stando a casa) #4

Il motivo per cui la gente compone poesie liriche e canzoni blues sta nel fatto che la vita è breve, dolce e sfuggente. Il blues dà prova della stranezza del di ogni destino individuale

(Charles Simic)

Sommiamo le riflessioni, le distrazioni, i desideri, insieme alle promesse che abbiamo gradualmente seminato dalle nostre finestre e che speriamo di veder sbocciare come la primavera, potente e indisturbata, che c’è lì fuori. Quelle di essere migliori, per qualcuno. E quelle di riabbracciare una normalità che, nonostante non fosse la migliore mentre l’attraversavamo già da prima con onesta inconsapevolezza, adesso ci appare come la più fulgida delle luci in fondo al tunnel. Per qualcun altro.

Ai secondi va concesso uno slancio di compassione e comprensione. Ai primi, invece, un certo grado di ammirazione, perché probabilmente hanno saputo in questo tempo forgiare degli strumenti capaci di farli lavorare con maggiore fantasia e coraggio, in virtù di una presunta tela bianca sulla quale finalmente abbozzare, un domani, una nuova combinazione di colori. Qualcosa di simile, insomma, a quel mondo che hanno, probabilmente, sempre covato dentro di loro, ma che ancora non aveva saputo farsi strada attraverso le paure e le incertezze. Abbastanza da aprirsi uno spiraglio di luce, fermandosi sempre un attimo prima delle proprie orbite oculari. Anche lì dietro gli occhi, insomma, un intero mondo in quarantena.

Forgiare nuovi strumenti, è la soluzione, quindi. E per farlo occorre il tempo giusto, la cadenza giusta, il passo giusto. Un po’ come insegna il ciclo naturale delle stagioni, che è un po’ quello ambito dalle nostre emozioni e dai nostri pensieri. Occorre, pertanto, una certa primordialità si suoni.

Il blues, in questo senso, è qualcosa di più che una pura e semplice etichetta schiaffata per identificare un certo periodo storico, una certa condizione umana, un certo colore della pelle, un certo tipo di catene. Il blues è espressione stessa dell’anima nella sua costante ricerca di una “redenzione” che possa elevarla, porla al di sopra del tangibile, dove tutto improvvisamente risulta più chiaro. Un piccolo libretto d’istruzioni, se vogliamo, per imparare a muoverci all’interno del nostro piccolo/grade universo personale, dove le emozioni hanno la capacità un attimo prima di elevarci e quello dopo di affossarci. Ma sono sempre, in qualche modo, rivelatrici. Come i demoni con i quali sentiamo costantemente di dover combattere, quando invece basterebbe ascoltarli: in fondo, sono semplicemente lì a regalarci un’opportunità in più, ogni volta, per abbracciare una nuova consapevolezza.

Quella che, presto, ci servirà lì fuori, se non vorremo più commettere certi vecchi errori.

 

REDEMPTION (2018) – Joe Bonamassa


La tradizione più classica, dolce e poetica insegna: 12 misure su pentagramma, ritmica shuffle (letteralmente, trascinato). Un ciclo costante e ridondante come un treno che non smette mai di andare sulle rotaie, per dove non si sa. E nemmeno ai grandi maestri del genere deve essere importato granché: dai Robert Johnson ai BB King, a fare rumore fin dentro le ossa era ben altro, e il bisogno di redimere se stessi dall’oppressione era più di una necessità. Uno spirito che, tramandato di volta in volta, ha imparato anche a fare i conti con il mercato e a giungere sino a noi nell’espressione più moderna del blues. Joe Bonamassa, fra tutti in questa nostra epoca, è sicuramente colui che ha saputo sublimare al meglio, nel corso della sua prestigiosa carriera, quelle armonie e melodie figlie della musica afroamericana, condite di blue note (trasmessagli probabilmente dallo stesso BB King, con il quale ebbe la fortuna di condividere il palco già all’età di 12 anni!), e l’hard rock più genuino, non avulso all’occorrenza da sfumature pop. Redemption (J&R records) si configura cronologicamente come il tredicesimo album in studio da parte del virtuoso chitarrista e cantante statunitense, e nasce con una chiara e netta dichiarazione di intenti da parte dello stesso Joe: «Tutti abbiamo bisogno di essere redenti a un certo punto della nostra vita. Rendere questo album, inconsapevole per me, mi ha fatto iniziare questo percorso di redenzione. Si può obiettare che sia andato avanti a calci e urla, piuttosto che volontariamente. Musicalmente spero che soddisfi le vostre aspettative, emotivamente spero che ti incoraggi ad affrontare i tuoi difetti e ad uscire dall'altra parte più felice e più sano».

Il tiro di Evil Mama (traccia di apertura dell’LP), detta il passo pesante, quello con il quale si è soliti fare i conti all’inizio del viaggio, quando ci si carica in spalla non solo lo zaino, ma anche tutta la determinazione possibile. Chitarre a volte “grasse” e a volte più pulite (saltando da una Gibson a una Fender), riff incalzanti, linee melodiche sostenute da un’altrettanto massiccia sezione ritmica, sono il biglietto da visita anche di brani come King Bee Shackdown e Molly O, ai quali si aggiunge la cadenza old school di altri come Pick Up The Pieces, I've Got Some Mind Over What Matters, Love Is A Gamble, e le suggestioni di una ben più aperta Deep In The Blues Again, una cavalcante The Ghost Of Macon Jones e tutta l’intimità acustica di Stronger Now In Broken Places.La voce di Bonamassa si accompagna, per tutto il disco, in maniera solida ai messaggi racchiusi nei suoi testi, dove il “tempo” viene presentato come disconosciuto custode della chiave per la redenzione finale. Una volta raccolti i propri pezzi e lasciato il passato alle spalle. 

Self-Inflicted Wounds e la title track sono le due perle di questo pregevole prodotto rock blues, racchiudendo di fatto tutta la sintesi del viaggio che siamo chiamati a compiere, secondo il bluesman di Utica. Insieme al tappeto dei cori, le voci di tutti gli altri strumenti si fanno grezze ed essenziali, accompagnando tutto il significato dell’accettazione e della voglia di rinascita a cavallo di sonorità che, come onde del mare, riempiono e svuotano l’aria. Quasi un rito solenne tipico del blues, come una preghiera silenziosa prima dell’ “Allejua” liberatorio finale.

E’ il miglior Bonamassa di sempre a fornire con Redemption un briciolo di segnali, di indicazioni lungo il percorso di questa così (apparente) tribolata redenzione, così pieno di inciampi e fatica. La musica risulta essere, pertanto, una compagna fedele e maestra quasi necessaria per affrontare momenti come questi, che alla fine fanno parte di quell’unico, grande attraversamento che siamo stati chiamati tutti a compiere, in un modo o nell’altro. Diventarne padroni consapevoli è il segreto, nascosto dietro le note.

Jacopo Ventura, 27/04/2020

Giovedì, 09 Aprile 2020 15:01

Musica per viaggiare (stando a casa) #3

«Per conoscere il mondo, bisogna partire dall’uomo, perché l’uomo è paragonabile a degli occhiali che rendono conoscibile il mondo. Non conosciamo mai il mondo come tale, ma sempre attraverso delle mediazioni. Quali sono queste mediazioni? Sono anzitutto le forme della sensibilità, lo spazio e il tempo; le cose si danno nello spazio e nel tempo: se non ci fossero lo spazio e il tempo, non ci sarebbero le cose. Lo spazio e il tempo sono dentro di noi:  siamo fatti in modo da strutturare l’esperienza a partire da spazioe e tempo».

Per introdurre il senso e l’importanza di questo nuovo “suggerimento musicale in tempi di quarantena” che andrò a sottoporvi qualche riga più in giù ho ritenuto opportuno (se non addirittura necessario) avvalermi delle parole utilizzate del filosofo e accademico italiano Maurizio Ferraris per descrivere uno dei passaggi fondamentali del pensiero kantiano. Nello specifico, abbiamo a che fare con le basi di quella "Critica della ragion pura" che fu scritta e pubblicata nel 1781 (e del quale mi ritengo un profondo estimatore dai tempi del liceo), dove a suscitare maggiore travaglio per il suo autore fu un problema decisivo: che cosa posso sapere, cioè che cosa legittimamente mi è dato di conoscere del mondo, a me in quanto essere razionale? Risposta: conoscere significa far coincidere quello che ho in testa con quello che c’è nel mondo. Più semplicemente, attraverso i sensi (che danno origine a sensazioni e intuizioni) prendo coscienza del mondo e lo metto in relazione con i concetti (elaborati dal mio intelletto). E’ dall’azione combinata di tali strumenti che si genera, così, la “vera conoscenza”.

Questo umile exploit da tuttologo (mi perdonerete, spero) serviva a riportarci all’attualità, in virtù della vera crisi con la quale stiamo veramente facendo i conti, pur non essendone del tutto consapevoli: ovvero, della nostra concezione del tempo e dello spazio. I meccanismi della nostra routine, prima che fosse drasticamente messa in stand-by, ci hanno inesorabilmente abituato ad uno stile di vita scandito essenzialmente dal “ritmo delle scadenze”.

Provate a pensarci, in piccolo o in grande che sia: un tempo per essere bambini e uno per essere adulti, uno per essere studenti e un altro per essere lavoratori, un tempo per essere genitori, un tempo per invecchiare, un tempo per giocare, per mangiare, per dormire, per leggere, per fare l’amore, per pregare. E così via, all’infinito. Tempi che hanno smesso da qualche secolo di rispettare i ben più rodati e funzionali cicli naturali, per dare maggiore adito a quelli tipicamente umani legati alla produttività e al profitto. L’importante, ci viene ricordato in maniera più o meno implicita, è essere prolifici. Ma per chi o cosa?

Da qui la mia scelta musicale per questa occasione. Piccole istruzioni per l’uso: buttate via gli orologi e una volta all’ascolto chiudete gli occhi. Lo scopo, qualora non vi fosse ancora chiaro, è quello di spogliarci completamente della nostra abituale, vecchia e fallimentare concezione del tempo e dello spazio.

 

“DARWIN!” - BANCO DEL MUTUO SOCCORSO (1972)

"Cieli umidi e senza colori

Ecco il mondo sta respirando

Muschi e licheni verdi spugne di terra

Fanno da serra al germoglio che verrà".

 

Se si dovesse spendere anche solo qualche parola per ogni traccia contenuta in questo album, il rischio minimo è di tirarne fuori un vero e proprio saggio musico/filosofico. Testi evocativi e pieni della purezza poetica più autentica ed essenziale, che lasciano spazio e ragion d’essere ad una musica quasi primordiale caratterizzata principalmente da chitarre, sintetizzatori, organo e pianoforte. “Darwin!” (Ricordi, secondo album di Francesco  Di Giacomo & Co) è una vera e propria sublimazione sonora, che ci proietta al cospetto della prima danza tribale compiuta dall’essere umano sul pianeta, sospesa a metà fra l’istinto di sopravvivenza propriamente animale e il bisogno “inconscio” di evolversi per dare forma e significato alla propria esistenza.

Uno slancio verso l’ignoto quasi oneroso per qualche ascoltatore, ma che da L’evoluzione, passando per 750.000 anni fa…l’amore? fino a Ed ora io domando tempo al tempo ed egli mi risponde...non ne ho! restituisce il piacere di un simile “sforzo”.

Nel rapportarci a questi nostri tempi così confusi, viene spontanea l’idea che il rock progressive possa fungere, in qualche modo, da medicina utile a disintossicarci dall’automatismo della società contemporanea, programmata secondo scadenze e ritmi che ci hanno reso delle macchine impersonali. Le stesse macchine che ora, in virtù dell’eccezionalità della situazione globale, sono andate completamente in tilt. E, quindi, diventa necessario per la nostra sopravvivenza rivedere il significato stesso di certe parole come “fare” (orientato al prodotto) e “agire” (orientato al soggetto, che si dà una mèta e una scelta).

E’ l’invito, inoltre - riprendendo il discorso di apertura - a rivalutare la nostra concezione del tempo e dello spazio, e questa perla di rara bellezza  del Banco del Mutuo Soccorso si dimostra più che adatta allo scopo. Anche solo per la possibilità di evadere dalla logica dei 3-4 minuti a canzone ai quali siamo stati abituati in termini di fruibilità e vendibilità. A sorpresa, persino la musica sembrerà, alla fine del giro di giostra, assumere nelle vostre vite un ruolo completamente nuovo, quasi inedito.

In ultimo, è ripensare al rapporto che noi come esseri umani abbiamo con la nostra esperienza di vita, la nostra provenienza, e, soprattutto, con il mondo. Del resto, è grazie a questo confronto finale, volenti o nolenti, che possiamo accertarci ogni giorno di essere presenti alla nostra esistenza e alla nostra essenza.

Jacopo Ventura  09/04/2020

Argo, nuovo lavoro della cantautrice pugliese Orelle, nasce dalla necessità ben precisa di fotografare e mettere nero su bianco un percorso durato più di un anno e mezzo, fatto di chilometri macinati e di live vissuti.
Da qui la scelta di registrare il disco in presa diretta, con un trio jazz, per ricreare quel suono a tratti aleatorio e sospeso, a tratti più sporco e saturato, con poche sovraincisioni, che rimanda alle sonorità delle produzioni anni ´70, soprattutto nell´approccio.

Questo disco è come una fotografia scattata con una macchina analogica, quelle che apprezzi di più se sono un po’ sgranate, concepito e registrato da Orelle in compagnia di talentuosi compagni di viaggio. Le ispirazioni nella scrittura sono plurime e anche molto diverse tra loro e proprio per questo non sono stati posti vincoli di genere nel risultato finale, un riuscito connubio tra il mondo più Indie e quello Jazz.
Orelle è Elisabetta Pasquale che ha cantato e suonato contrabbasso e chitarre, Domenico Cartago il pianoforte e le tastiere, Luca Abbattista batteria e percussioni. Hanno portato la loro esperienza Stefano Amato (Brunori Sas) insieme ad Emanuele Braca (Velvet Score) ai violoncelli, Fabrizio Bosso alla tromba e Dimartino che è la voce di Fili d´oro. Lorenzo Buzzigoli ha curato la produzione e la registrazione.

La dicotomia d´intenti dell’album non è stata una ricerca o un costrutto, ma una semplice espressione di quello che ora è la vita di Orelle: cantautrice da un lato e studentessa di contrabbasso, nonché esploratrice del mondo Jazz dall´altro. Ponte ideale e fonte di felicità e di soddisfazione per l’artista.
In Argo, il movimento e la dinamica tipiche della live session rimandano ad una sorta di fluidità, galleggiando tra aria e acqua, elementi a cui sembra ispirarsi Orelle col suo timbro vocale, ma che sono stati fonte di ispirazione anche per la grafica di questo nuovo lavoro.

Questo approccio vocale, molto diverso rispetto al precedente EP di debutto Primulae Radix, è stato un cambiamento del tutto naturale, senza per forza essere un punto di non ritorno. È semplicemente adatto alla Orelle attuale, un po´come se l´album e il suo modo di interpretarlo fossero nati nello stesso momento.
Sin da subito la cantautrice pugliese ha immaginato questo disco come una figura femminile o semplicemente come più figure racchiuse in una: da qui la scelta del titolo Argo, che nel mito è sia un cane che con pazienza aspetta il ritorno del suo amore Ulisse, sia la nave che va a cercarselo l´amore. Attesa e ricerca nello stesso tempo, stato bipolare che ogni donna racchiude in sé non solo in amore, ma nella propria vita in genere.

Il disco si apre con Linea d´aria, ingenuo approccio ai cosiddetti tempi composti e prosegue con Alibi, una sorta di “stream of consciousness” di un momento quotidiano.
Un immaginario più scuro e concreto è invece quello di Keep Quiet, brano da cui è tratto il primo videoclip, nel quale Orelle descrive una realtà più lasciva e femmineo di liberazione ed espiazione di energie negative, come una sorta di climax orgasmico.
Arriva quindi la sospensione di Fili d´oro, un viaggio mentale nell´intimità di due persone che lasciano al tempo la responsabilità della fine della loro storia: la tromba di Fabrizio Bosso e la voce di Dimartino arricchiscono e completano questo stato di fluttuazione.
Itaca e Argo, in tutta la loro evoluzione, fungono da ponte tra due o più visioni musicali, differenti approcci alla cosiddetta intelligenza emotiva, centro focale dei testi di questo lavoro.
L´ascoltatore è accompagnato in un mondo più intimo ne La stanza da tè ed in Fossile , brano scritto per la madre, ma anche in scenari più decisi e frizzanti come nel caso di Natura Morta, in cui l’artista descrive una personale visione di bellezza composta in gran parte da imprecisioni che in Natura sono caratteristiche dominanti, o in Polo Nord con il fantasma di una chitarra acida e crunchata.
Roma bianca è il pezzo più semplice e datato del disco ma anche quello che, proprio per questo, ha rappresentato la scintilla per la carriera di Orelle.
L’album si chiude con Mosaico, volutamente staccata dal resto dell´album. È un canto terapeutico suonato chitarra e voce da Orelle di prima mattina, poggiata al letto della sua stanza.
Come un rituale che l’artista esegue ad intervalli regolari, Orelle immagina di cantarla all´orecchio di Gabriella, violinista sua amica scomparsa prematuramente nel 2014, alla quale è dedicato questo brano e non solo, dolore e speranza uniti in un omaggio dovuto e molto sentito.

L’album è stato prodotto, registrato e mixato da Lorenzo Buzzigoli tra marzo e settembre del 2016 presso il Folsom Prison Studio di Prato. Alcune voci sono state registrate da Alessandro Grasso presso il Four Walls Studio di Giovinazzo.
L’artista è riuscita a dare una direzione precisa all’intero album, ricercando insieme al fonico un tipo di sonorità ben precisa, calda ma decisa sin dai primi momenti e votata a mantenere il più possibile l’attitudine live dei musicisti. Proprio per questo scopo il trio originale (batteria, piano e contrabbasso) è sempre stato registrato in ensemble.

Argo esce il 28 aprile 2017 per Black Candy Records con distribuzione Audioglobe ed è disponibile in formato fisico e digitale in tutti gli store.
Le edizioni sono Warner Chappell Italia.

Mercoledì, 18 Marzo 2020 14:43

Musica per viaggiare (stando a casa)

In questo profondo momento di smarrimento, di mancanza di certezze alle quali siamo “semplicemente” poco abituati, è davvero importante (oltre che squisitamente umano) aggrapparsi a tutte quelle formule che magicamente possono aiutare a riconnetterci con noi stessi, con gli altri e, senza esagerare, con l’universo.

La musica, in questo senso, sappiamo benissimo essere molto più di un semplice mezzo, di un tappabuchi congeniale ai vuoti della routine, e forse proprio per questo (nella sua generale drammaticità) la situazione che ci ritroviamo a vivere costituisce, in modo quasi insospettabile, una grandiosa opportunità. Di cultura, di libero scambio, di ampliamento dei nostri comuni orizzonti: un vero e proprio slancio verso l’ignoto nel quale, tutto sommato, possiamo riuscire a farci compagnia e ispirarci a vicenda.

Eccoci allora pronti ad attrezzarci come si conviene, a rispolverare i vecchi cd, i vinili, fino a cimentarci in una ricerca molto più ponderata del normale all’interno del mondo dello streaming, così pregno di opportunità e alla portata di tutti. Mettiamoci letteralmente “in ascolto”, e condividiamo tra di noi tutta la migliore musica possibile anche per restituire all’imperativo “RESISTERE” tutta la sua forza, bellezza e autenticità, in questo contesto globale 2.0 dove tutti siamo più vicini, ma mai davvero connessi l’un l’altro.

Quello che segue può essere considerato il primo di tanti preziosi suggerimenti, nel tentativo di imparare ad apprezzare maggiormente la nostra “solitudine” attraverso dei veri e propri viaggi introspettivi, come fossimo alla deriva. Persino la compagnia del resto del mondo, una volta riaperte le gabbie, potrebbe avere un “suono” diverso.
BUON ASCOLTO!

“THE DARK SIDE OF THE MOON” – Pink Floyd (1973)

Può sembrare una scelta scontata, soprattutto in virtù del sound tipicamente psichedelico al quale ci hanno sempre abituato Roger Waters & Co. Aggiungeteci, se volete, altri lavori di notevole portata “introspettiva” come “Wish You Were Here” (1975) o “The Wall” (1979), e allora farete sicuramente fatica nel preferire un ascolto piuttosto che un altro. Insomma, con i Pink Floyd, in generale, si va abbastanza sul sicuro, ma mai come in questo momento storico “The Dark Side of the Moon” (1973) rappresenta quella che a suo tempo lo stesso Waters definì un’istanza di empatia politica, umanitaria e filosofica, dimenticata, oggi, dietro gli schermi dei pc e dei cellulari della gente, ossessionata non tanto dal voler mantenere il proprio contatto con il mondo quanto, piuttosto, con la propria identità messa pericolosamente in discussione nel momento in cui la giostra della routine ha smesso di girare.

Si tratta di un preziosissimo concept album, che rincorre visceralmente temi quali il conflitto interiore, la morte, il rapporto col denaro e col tempo, l’alienazione mentale e il confronto con tutto ciò che è altro da noi. Un viaggio articolato in 10 brani rimasti nella storia (come “Time”, “The Great Gig in the Sky”, “Money”, “Us and Them”), da compiere ad occhi chiusi mentre si restituiscono alla musica e alle parole tutta la fiducia possibile, essenziale per lasciarsi risucchiare da quel piccolo/grande universo nascosto nella parte più “oscura” del nostro essere, senza accorgimenti lisergici. E, soprattutto, per imparare farci i conti una volta tornati a riprendere fiato in superficie, lì dove il mondo sembra essersi momentaneamente fermato.

“The Dark Side of the Moon” è, in buona sostanza, un invito sincero a toglierci la maschera e a confessare che “no, non siamo padroni di nulla” al di fuori di noi stessi, ma solo responsabili del nostro essere.

Jacopo Ventura, 18/03/2020

Domenica 12 gennaio 2020 alle 18.30 - a grande richiesta - torna la lettura-concerto che racconta il movimento che poi verrà chiamato Beat Generation.

Partendo dalle origini e dal libro cult “On the road”, passando per i grandi ideali del rifiuto della violenza e della liberazione sessuale si riascolteranno i brani noti e meno noti della “Brit Invasion”, fino al folk americano e alla musica psichedelica che saranno lo sfondo per il successivo grande movimento sociale degli hippie. 

Lo spettacolo Beat Generation attraverso le voci di Ottavia Bianchi, Marius Bizau e Giulia Nervi, accompagnate alla chitarra dagli arrangiamenti di Giacomo Ronconi, ripercorre il periodo tra la fine degli anni 50 e il 1969: quel decennio di musica che è stata la colonna sonora di grandi cambiamenti. Giorgio Latini farà da contrappunto, narrando gli eventi più suggestivi accaduti in quegli anni ormai mitici e mai dimenticati.

Nel 1940 l’incontro tra Jack Kerouack e Allen Ginsberg genera un movimento che quattro anni più tardi prenderà il nome di Beat Generation e culminerà nel 1951 con la scrittura del libro cult “On the road”. Gli ideali della Beat Generation sono il rifiuto della violenza, del materialismo e delle regole della vita convenzionale, la liberazione sessuale e delle droghe. Perché questo moto di ribellione diventi fenomeno di massa bisogna attendere il 1957, quando il libro viene pubblicato divenendo immediatamente il manifesto di una generazione. Sull’onda lunga di questi ideali nascerà il beat, ovvero il movimento musicale che si origina proprio nei primi anni ‘60.BG 12 1 2020

La scelta della “scaletta” in Beat Generation è stata forse la fase più difficile. In questo senso l’apporto di Giacomo Ronconi è stato fondamentale: insieme a lui si è trovato il necessario equilibrio tra le canzoni per così dire “obbligate” e alcune chicche meno note. L’inusuale arrangiamento per una sola chitarra e ben tre voci cantanti ha dato vita ad una serie di soluzioni che hanno rappresentato una sfida per gli interpreti che nascono, in primis, come attori e che si lanciano in questa nuova sperimentazione artistica.

La narrazione punta ad esaltare la musica stessa con brevi e curiosi aneddoti relativi alla nascita di queste canzoni che si rivelano utili anche a svelare i retroscena meno conosciuti di un così denso panorama musicale e sociale. Attraverso il racconto di quanto davvero accadeva in quel periodo, lo spettacolo mette in evidenza il valore contemporaneo che queste canzoni ancora posseggono.

 

Per tutte le informazioni riguardanti la Stagione 2019/2020 dell’Altrove Teatro Studio è possibile visitare il sito www.altroveteatrostudio.it

scrivere all’indirizzo Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. o contattare telefonicamente il 351/8700413.

BIGLIETTI

Intero 15 euro – Ridotto 10 euro – Tessera 2 euro 

Redazione 7/01/2020

Mercoledì 18 settembre 2019, alle ore 12, l’Associazione di Promozione Sociale “I Pensieri dell’Altrove”, fondata nel 2012 da Ottavia Bianchi e Giorgio Latini, presenta la Stagione 2019/2020 dell’Altrove Teatro Studio. Nel quartiere Prati, a pochi passi dalla fermata metro Cipro, uno spazio che racchiude teatro, scuola di recitazione e spazi a disposizione degli artisti.

Dopo il successo della Stagione 2018/2019 che ha visto crescere il progetto Altrove in termini di offerta artistica e di consolidamento identitario connesso al quartiere Prati e alla città, una nuova Stagione è alle porte. Un’idea di teatro e di arte che si rinforza e rinnova grazie alla passione dei direttori Ottavia Bianchi e Giorgio Latini che partono  quest’anno al grido de La Bellezza è di Tutti.

Prosa, Musica, Danza: un cartellone che intende soddisfare la domanda di intrattenimento del pubblico del quartiere ma che si apre all’intera città. Altrove Teatro Studio

Si parte il 25 e il 26 ottobre alle 20 e il 27 alle 17 con LE SORELLASTRE di e con Ottavia Bianchi insieme a Patrizia Ciabatta, Flaminia Cuzzoli, Giulia Santilli e con la regia di Giorgio Latini. Il 3 novembre alle 18.30 SOME DISORDERED INTERIOR GEOMETRIES, con Paola Bedoni, interprete e coreografa, accompagnata dalle musiche di Charles Ives, Gyorgy Ligeti e Cesar Frank, le luci di Andrea Margarolo (produzione Compagnia Xe, MiBACT, Regione Toscana, Comune di San Casciano Val di Pesa).  Dal 19 al 23 novembre alle 20 e il 24 novembre alle 17 NON SO NEMMENO SE SONO FELICE, adattamento e regia di Luca De Bei, con Paola De Crescenzo, Aura Ghezzi, Roberta Infantino e Carla Recupero. Il 6 e 7 dicembre alle 20 e l’8 dicembre alle 17 CON LA BOCCA PIENA DI SPILLE, scritto da Martina Tiberti che ne cura anche le musiche, con la regia di Raffaele Balzano e interpretato da Patrizia Ciabatta e Giuseppe Mortelliti (produzione Un rigo sì e un rigo no). Il 14 dicembre alle 20 e il 15 dicembre alle 17 DIARIO ELETTORALE, di e con Mario Migliucci, con le musiche di Mariaclara Verdelli e contributi video di Gianluca D’Apuzzo. Il 22 dicembre alle 18.30 CONCERTO DI NATALE del coro Le Mani Avanti diretti da Gabriele D’Angelo. Il 12 gennaio alle 18.30 torna BEAT GENERATION, di Giorgio Latini che sarà sul palco con Ottavia Bianchi, Marius Bizau e Giulia Nervi, accompagnati alla chitarra da Giacomo Ronconi. Il 24 e 25 gennaio alle 20 e il 26 gennaio alle 17 va in scena SETE, di Walter Prete, con Giorgio Sales e la regia di Lorenzo Parrotto. Il 7 e 8 febbraio alle 20 e il 9 febbraio alle 17, UN CAPITANO, dalla vera storia di Amr Abuorezk, testo originale di Giulia Lombezzi e Amr Abuorzek, diretto da Eleonora Gusmano, con la scenografia a cura dell’Asilo dei Lunatici e le musiche originali di Alessandro Romano. Il 21 e il 22 febbraio alle 20, LA SIGNORA DEL PIANO DI SOPRA STA PARTENDO, scritto  diretto da Tommaso Paolucci e Francesco Pietrella che saranno sul palco con Matteo Berardinelli e Francesco Vittorio Pellegrino. Il 28 e 29 febbraio alle 20 e il 1° marzo alle 17 MUMBLE MUMBLE, di Emanuele Salce e Andrea Pergolari, con Emanuele Salce e Paolo Giommarelli, la regia di Timothy Jomm e i costumi di Giulia Elettra Francioni. Il 13 e il 14 marzo alle 20 e il 15 marzo alle 17 TUTTO DA SOLA CAPITOLO II - MEGLIO SÓLA CHE SÒLA, scritto e interpretato da Giulia Nervi e diretto da Massimiliano Vado. Il 22 marzo alle 18.30 ROMEO E GIULIETTA - L'AMORE FA SCHIFO MA LA MORTE DI PIÙ, con Beppe Salmetti e Simone Tangolo, che ne ha scritto anch le musiche, drammaturgia e regia di Cecilia Ligorio. Il 27 e il 28 marzo alle 20 e il 29 marzo alle 17 NOVILUINIO, scritto e diretto da Lorenzo Di Matteo con Marius Bizau e giochi di ombre a cura di Carla Taglietti. Il 3 e 4 aprile alle 20 e il 5 aprile alle 17 MA CHE COLPA ABBIAMO NOI, di e con Chiara Casarico e Giuseppe De Trizio (coproduzione Il NaufragarMèDolce & Radicanto). Infine, il 17 e il 18 aprile alle 20 e il  19 aprile alle 17 LE MAMME, LE VISIONI di e con Luca Trezza  accompagnato sul palco da Davide Paciolla e Francesca Muoio.

L’Altrove Teatro Studio è uno spazio nuovo, concepito da due attori non solo per il pubblico ma anche e soprattutto per l’attore, figura che negli anni ha dovuto ampliare sempre più le proprie competenze passando anche per la scrittura, produzione e promozione degli spettacoli di cui è interprete.

Da un punto di vista strutturale la scelta progettuale è stata quella di creare quattro ambienti e due spazi principali: uno pubblico – quello del teatro – concepito come una scatola nera e flessibile, modulabile come un “cantiere” in continua evoluzione e trasformazione; uno privato – quello della scuola – concepito come un ambiente neutro e confortevole, in cui è collocata la zona tecnica per la musica e la docenza.

Dal punto di vista della formazione l’Accademia d’Arte Scenica dell’Altrove Teatro Studio ha come obbiettivo la formazione di attori consapevoli e padroni delle tecniche di movimento scenico e voce naturale, dell’analisi del testo, e profondi conoscitori di autori classici e moderni di chiara fama. 

Lo scopo dell’offerta formativa dell’Accademia e dei corsi promossi dall’Altrove Teatro Studio è quello di costruire un ponte per il professionismo attraverso il quale l’allievo possa prepararsi ad accedere alle migliori accademie o scegliere d’immettersi nel mercato del lavoro consapevole di avere un bagaglio importante di abilità e conoscenze.

Per tutte le informazioni riguardanti l’offerta artistica e formativa dell’Altrove Teatro Studio è possibile consultare il sito Web o scrivere all’indirizzo Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

U.s.

16/09/2019

FIRENZE – Si può riuscire a parlare di temi scottanti, attuali, moderni, profondi e pesanti come la depressione, il licenziamento, l'allontanamento dai figli, anche facendo, e molto, ridere e sorridere. Con una patina di risate si riesce ad andare più a fondo e a far sedimentare quel velo necessario, per comprendere meglio, per immedesimarsi, per calarsi nell'amara situazione di moltissime famiglie dei giorni nostri. Il Teatro di Rifredi sembra aver azzeccato ancora una volta questa formula, un altro cavallo di battaglia che ha il surplus di portare il teatro in spazi non convenzionali. Dopo le infinite stagioni, sempre sold out, de “L'ultimo harem”, con questo “Walking Therapie” siamo sicuri di essere davanti ad un altro crack, un nuovo possibile cult fiorentino, una nuova piece-cofanetto pieno di sorprese che non può far altro che migliorare, accrescersi esponenzialmente, alimentarsi. Secondo anno di questo esperimento che Giancarlo Mordini e Angelo Savelli videro ad Avignone2 LOW - Walking Thérapie-2.jpg (scritto dai belgi Nicolas Buysse, Fabrice Murgia, Fabio Zenoni) ed al quale hanno cambiato forma e connotati spostando l'azione dal camminare alla famigerata tramvia, croce e delizia dei fiorentini.

Due attori (si compenetrano Luca Avagliano e Gregory Eve), ma anche improvvisatori sempre con le antenne aperte sul reale, su tutto quello che gli si muove attorno e grandi perfomer, che si incastrano alla perfezione, fisicamente (uno alto e uno basso, uno magro e uno rotondo), ed emotivamente, sempre pronti ad usare quello che accade in maniera contingente per trasformarlo in gag, per usarlo ad uso e consumo di una narrazione-canovaccio ma che prende spunto e gioca ogni sera con gli incontri casuali e fortuiti che si materializzano sul cammino delle decine di persone con le cuffie che loro conducono, come Pifferai magici, dalla fermata di Rifredi a quella di Scandicci. Siamo, nell'accezione dello spettacolo, un gruppo di persone “che stanno male”, in terapia come suggerisce il titolo, intervenute “ad un seminario sull'accettazione del dolore”. Molti inglesismi, tanta cialtroneria, frasi fatte e condivisione, abbracci per non sentirsi soli, per “espellere lo stress”, gestire le nostre paure. L'equilibrio del gioco è la grande sint76-walking-thérapie-1.jpgonia tra le due figure, caratteri agli antipodi, tra il sicuro e serio guru e il suo aiutante-adepto che sta imparando le tecniche di convincimento e si sta risollevando (ma questo lo capiamo mano a mano che il racconto entra nel vivo) da una difficile e drammatica situazione personale che lo ha azzerato ed annientato.

Nelle cuffie (come nel recente spettacolo “Underground” del duo Cucolo/Bosetti al Napoli Teatro Festival; qui con più unione d'intenti tra conducente e platea in movimento) i due ci danno ordini e informazioni con i divertenti incastri di piccoli litigi sotterranei e lievemente impercettibili a contraddirsi, a non far emergere la verità, a camuffare il nostro percorso, fuori nella città e di consapevolezza dentro noi stessi. La parte più esilarante prende corpo nelle numerose fermate della tramvia e nel consueto saliscendi cittadino serale: partono canzoni nazional-popolari, Nicola Di Bari, Ivan Graziani, Eugenio Finardi, Renato Zero, e veniamo incitati (impossibile resistere a dar sfogo all'ugola sanremese che è dentro ognuno di noi) a cantare e lasciarci andare mentre gli altri passeggeri ci guardano stupiti e una cappa d'ilarità contagiosa si spande tra le sediole azzurre e grigie e la voce metallica che avverte della fermata successiva. Il dolore e l'infelicità, ovvero come combatterli, rimangono sullo sfondo, così come la depressione, malattia dei nostri tempi insoddisfatti; siamo naufraghi e cerchiamo 582833-thumb-full-720-2018_0714_walking_therapie_rifre.jpguna meta o un mentore che ci indichi la strada maestra partendo dal presupposto, qui in modo faceto e ilare, che “nessuno di noi sta bene” e che “tutti abbiamo un grumo di dolore”. Vero, verissimo. Forse ne ridiamo per esorcizzare questo triste assioma. Un giorno di dolore che uno ha, direbbe Ligabue.

Tra storielle, citazioni, filastrocche, rime, canzoncine, esercizi, prese di coscienza, formule di autoconvincimento arriviamo a Scandicci dove inizia (va leggermente asciugato) un altro spettacolo: ognuno segue i due “scienziati” alla ricerca della felicità e nella sperimentazione sul campo dell'analisi dell'infelicità altrui, studiando gli altri esseri umani che stanno bivaccando (non sono felici neanche loro, fingono serenità in famiglia) Walking_TheErapie_5_-_-MR.jpgtra cemento, asfalto, qualche gelato annoiato, bambini ululanti, palloni stanchi, le luci brutte dei neon. Il disagio che i due cercano di combattere e ostacolare è proprio quello del quale hanno sofferto: fragilità, timidezze, ansie, vergogne, imbarazzi, drammi esistenziali. Se Gregory Eve è il grande burattinaio che tesse e trama e muove come una pedina l'altro “dottore”, Luca Avagliano è un Caparezza (si lancia anche in un pezzo hip hop ben ritmato e orecchiabile) esondante, energetico, spumeggiante. Si può vedere e prendere “Walking Therapie” come uno spettacolo comico (lo è, e molto) ma senza dimenticare i grandi insegnamenti disseminati nel testo e tra le pieghe delle schermaglie tra i due. Uno spettacolo che non può far altro che decollare con nuove repliche.

Tommaso Chimenti 15/07/2019

Pagina 1 di 4

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Digital COM