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CATANIA – E' un gioco sottile nel quale perdersi, scivolare come dentro le sabbie mobili, un meccanismo che sempre più, lentamente ti inchioda a passaggi, dettagli che mutano impercettibilmente, in un andamento tanto armonioso quanto feroce, adesso leggero ora scattoso dentro un marchingegno psicologico dove i personaggi (e gli attori), ma anche il pubblico, sono gli ingranaggi di un sistema che cambia le regole, che prende nuovi spiragli e luci, che assume nuove forme perché visto e inquadrato da diverse angolazioni. Potremmo essere dentro il tunnel degli specchi nell'affrontare questo sorprendente “L'Amante” di pinteriana scrittura al quale la regista Veronica Cruciani (prod. Teatro Brancati di Catania) non solo ha dato una veste nuova ma anche una percezione, un percorso misterioso e minimalista, che cangia i contorni, sposta, architetta come una partita a scacchi dove la strategia prende il sopravvento sull'azione. Un testo complesso, mai puramente lineare, pieno di non-detti, di sfaccettature ambigue. Una regia con solide idee.

DSC_8795.JPGIn quest'ambiguità la Cruciani ha voluto mettere, in questa palude dei sentimenti, Graziano Piazza e Viola Graziosi (convincenti, pieni di tinte e colori e tonalità, grande affinità e disponibilità nell'ascolto dell'altro in scena) nelle parti di Richard e Sarah, marito e moglie sulla scena, marito e moglie nella vita. Un altro, l'ennesimo salto mortale di questa messinscena. Come Tom Cruise e Nicole Kidman che però dopo la lavorazione di “Eyes wide shut” di Kubrick si lasciarono. Non è un dettaglio da poco che la vita entri prepotentemente dentro il teatro, dentro questa drammaturgia, che ha sessant'anni, che riserva sempre sorprese, nuovi bagliori, infiniti nodi gordiani e dubbi insoluti. Un puzzle con tessere mancanti, da inventare, elementi tra sogno e realtà, tra immaginazione ed enigmi che, anche a fine replica, non si saranno dipanati. Sta al pubblico fare “fatica”. Se forziamo un po' la mano al ragionamento potremmo avvicinare, o almeno trovare un parallelismo, tra “L'amante” e “Nella solitudine dei campi di cotone” di Koltes; in quest'ultimo un qualcuno voleva vendere qualcosa a qualcun altro che non sapeva di volere questa mercanzia. La merce che viene messa in vendita dentro questo testo di Harold Pinter (potrebbe essere l'anticamera o il prequel di “Tradimenti”, sempre a firma dello stesso autore londinese) non è tanto la fiducia ma quanto siamo disposti a recitare, a trovare nuove strade, a immedesimarci in altre vite per digerire meglio le nostre esistenze, quanto possiamo essere qualcun altro per essere pienamente noi stessi, quanta infelicità ci può regalare la monotonia.

Gli attori (che effettivamente stanno insieme dagli stessi anni della relazione dei personaggi che interpretano) cominciano senza costumi, con il copione in mano, con le luci in platea, presentandosi con i loro veri nomi, leggendo le didascalie del testo e le note di regia, parlano con il pubblico in un continuo scambio di battute e opinioni. Ed è questa la trappola (complice anche le sonorità di John Cascone e le luci di Andrea Chiavaro) che la regista romana tesse alla platea: piano piano le luci cambiano, la scena prende corpo, si mettono i costumi, tutto rigorosamente a vista. E' una materia pulsante, un magma che ribolleDSC_8890.JPG e che evolve da un attimo all'altro creando nuovi mondi, parentesi, bolle di pensiero. Il marito è consapevole dell'amante della moglie ma, si scoprirà, anche l'uomo ha una sua tresca con una prostituta. Coppia aperta quasi spalancata, si penserà. Sono complici ma ogni tanto accenni di violenza e colpi di gelosia scuotono la borghesitudine che li accompagna dolcemente, ora giocando adesso accusandosi e litigando, o ancora confessandosi sinceri senza filtri e perdonandosi. Che il letto sia di legno francescano duro e scomodo non è un dettaglio secondario, un talamo nuziale non confortevole. Gli abiti, il pigiama, la vestaglia, la poltrona, il divano, la tovaglia, tutto è di un verde spinto quasi psichedelico come un sogno acido, una deformazione della realtà mistica e allucinata.

Ripetono delle stesse scene come dovessero seguire, ed eseguire, un copione, come fossero dentro un “Truman Show”, fino a scambiarsi i ruoli, fino a diventare l'altro, fino a prendere le sembianze del coniuge (in una sorta di “Psycho”), fino al completo ribaltamento dei ruoli. E non è un particolare da poco nemmeno il fatto che realmente ci sia una distanza anagrafica tra la Graziosi e Piazza nella vita e quindi questo si riverbera anche sul palco: la scrittura maschile di Pinter ci mostra una donna più giovane, volitiva, aggressiva, testosteronica, consapevole, decisa, sicura di sé che obbliga il compagno più maturo, vittima e succube, più calmo e pacato, ad acconsentire a certe dinamiche imposte per il bene della relazione. E' in questa continua messa in scena che il matrimonio somiglierà sempre più al teatro con i ruoli da ricoprire, una trama da rispettare, un andamento da onorare.

Tommaso Chimenti 10/03/2023

FIRENZE – Ci hanno sempre stupito con le loro maschere che sembrano parlare, essere partecipi, emozionarsi, che prendono vita e sono in connessione e fusione con l'attore e in continua trasformazione emozionale pur essendo statiche, fisse e immobili. Ci hanno colpito in questi anni (a Firenze sono arrivati prima al Teatro di Rifredi poi al Teatro Verdi e infine al Teatro Puccini) per le loro storie trasognanti, cariche di umanità e poesia, sfavillanti giochi leggeri colmi di fantasie colorate e immaginazioni creative piene di pathos, allegria fanciullesca, corse spensierate, deliri beati e 189981.jpgquello sfavillante buonumore adolescenziale, quella festosità contagiosa, quell'esultanza eterea, quella felicità che si propagava dal palco alla platea. Il collettivo Familie Floz, cosmopoliti ma di base a Berlino, non sono gli unici nel panorama internazionale ad usare le maschere (in Italia ricordiamo Dispensa Barzotti, I Gordi, all'estero i Kulunka Teatro), ma lo fanno con un garbo che riconcilia, una grazia che placa e un'eleganza che rasserena. C'è una gioia dilagante nelle loro storie di vicinanza, narrazioni fumettistiche semplici di piccole sventure quotidiane dei loro personaggi antieroi senza mai dimenticare l'aspetto sociale. La loro cifra stilistica sono certamente le maschere create artigianalmente e la simbioticità tra il corpo dell'attore e il travestimento facciale di gomma. Tra le loro produzioni abbiamo assistito nel tempo a “Ristorante immortale”, “Teatro Delusio”, “Infinita”, “Hotel Paradiso”, “Garage D'Or”, “Haydi!”, “Dr Nest”.

E1624446369_dsc07596_c_simonwachterklein-scaled.jpg l'ultima novità “Feste” non fa eccezione in quanto a leggiadria, commozione, poeticità, armonia. Stavolta la storia di fondo, sul quale intreccio drammaturgico si appoggiano le loro figure immateriali e incorporee, risulta essere molto complessa con passaggi che rimangono sospesi e molti punti oscuri. Ma si dirà: non è quello l'importante, conta il sogno. Anche se rimangono criptici e annebbiati soprattutto gli scarti e i salti temporali. E allora immergiamoci in questa festa di matrimonio ma specialmente, come piace fare alla Floz, mettere l'occhio e il naso nel dietro le quinte, in tutto quel che si muove per far funzionare la macchina, nelle pieghe delle maestranze, di chi lavora alacremente per far sì che la facciata e la forma sia perfetta, chi si impegna per oliare i meccanismi e gli ingranaggi per rendere la complessità semplice e le difficoltà facili. E dietro un matrimonio che deve andare in porto ci sono i wedding planner e i segretari, i cuochi e i camerieri.

E' l'animo dei berlinesi quello di cercare di valorizzare il grande sacrificio di tutti coloro che permettono che le cose accadano e che vadano FESTE_couple©SimonWachter-1568x1046.jpega gonfie vele. Nel cortile (ci è venuto in mente l'omonima piece di Scimone a Sframeli) di una villa c'è grande fibrillazione per lo sposalizio di una giovane ereditiera. Lo chef è impaziente e i camerieri sbadati non fanno altro che far aumentare i sacchi della spazzatura nell'atrio dove si “scontrano” un custode anziano scansafatiche nel suo gabbiotto che detiene il potere di avere le chiavi del cancello d'entrata e la donna delle pulizie volenterosa giunonica amazzone sempre disposta a guerreggiare e rivaleggiare con lui. Accanto ai due il wedding manager professionista incravattato indaffarato e nevrotico e la segretaria pignola e compunta, la sposa dubbiosa, lo sposo ubriaco, gli amici dello sposo maldestri e alticci, il padre della sposa ricco e arrogante (forse un boss della malavita organizzata) che arriva sfrontato in elicottero (e fa arrivare un cocchio con i cavalli per portare la figlia all'altare: qui potrebbe venirci in mente il celebre funerale dei Casamonica), fino ad una giovane homeless incinta che si rifugia tra i bidoni della spazzatura. La musica è troppo sottolineante dei momenti nei quali ci dovrebbe essere empatia e partecipazione. Arrivano anche il postino di Amazon e il trasportatore che ascolta l'heavy metal.

Il mondo feste-2.jpegdei benestanti si scontra con quello dei lavoratori e già sappiamo da che parte stanno i Floz rendendoci, i primi, rammolliti e viziati e presuntuosi e i secondi capaci di cavarsela in qualsiasi situazione, senza lamentarsi, furbetti e distratti, forse negligenti, irresponsabili ma mai disonesti. Pensare che tutti i personaggi che abbiamo qui sopra elencato sono interpretati da soltanto tre attori, mimi e performer straordinari. Ci siamo poi lanciati in un gioco di somiglianze: il cameriere stempiato potrebbe ricordare Pippo Franco, mentre la segretaria puntigliosa e perfezionista è sosia di Linda Hunt, attrice hollywoodiana Premio Oscar, il portinaio potrebbe essere Antonello Fassari, il manager Pippo Baudo, la sposa Miriam Leone, il maestro di danze il Ministro Brunetta, lo sposo poteva essere Rupert Grint l'interprete di Ron Weasley, l'amico di Harry Potter, un amico dello sposo un mix tra Mentana e Gheddafi, il cuoco Gad Lerner e la donna della pulizie la Vanoni. Detto tutto questo, sembrerebbe però che il tocco dei Floz sia leggermente appannato e spesso la ricerca della risata o della commozione oscuri la trama.

Tommaso Chimenti 11/04/2022

BOLOGNA – Quasi un'Arancia Meccanica questo gioco al massacro dove tutti i quattro componenti delle due coppie ne escono a pezzi, distrutti, frammentati, spappolati. La coppia anziana (qui due grandissimi interpreti come Sonia Bergamasco e Vinicio Marchioni) e la coppia giovane (Ludovico Fededegni e Paola Giannini) che si guardano, si scrutano, si rivedono come davanti ad uno specchio, quello che sono stati, quello che saranno. Ed è un Latella in formissima quello che pennella questo “Chi ha paura di Virginia Wolf?” tutto sul filo della ferocia controllata, della quadrate-sito-TSU-4.jpgrabbia moderata, dell'ira furibonda e di una distruzione borghese e dialettica, più fioretto che sciabola. E si riforma la coppia Latella-Marchioni che già portarono sul palco un capolavoro come “Un tram chiamato desiderio”. E c'è un comune denominatore tra i recenti ruoli teatrali di Marchioni: il suo Stanley del “Tram”, Brick de “La gatta sul tetto che scotta” (per la regia di Arturo Cirillo) e questo George.

La deflagrazione dell'ipocrisia anglosassone-americana-puritana-conservatrice (il testo è degli anni '60, di Edward Albee). Subito ci appare una scena, tra l'hopperiano e il carveriano, dove i parallelismi cromatici sono fondamentali per cercare un binario, una rilevanza, un'associazione, per comporre i pezzi di questo puzzle spaiato e decomposto formale dove, all'apparenza tutto sembra perfetto e ideale mentre le crepe stanno per implodere: la poltrona è gialla come l'armadio, il piano è rosso come l'abito di George-Marchioni, le tende che ricoprono le tre pareti sul fondale a celare Latella-scaled.jpge proteggere sono verdi come l'abito di Martha-Bergamasco (elettrica: suona gli ottantotto tasti e canta come una consunta Janis Joplin), viola invece sono le piccole volpi sul boccascena come la parrucca indossata dalla moglie. Non sono casuali gli incroci in questa confezione di teatro borghese d'interno, ad una prima occhiata, che diventa disseminato di ferocissimi attacchi tra squali, iene, avvoltoi in un tutti contro tutti che lascia cadaveri al suo passaggio come un monsone. Tutti i colori hanno un qualcosa di sbiadito, di scolorito, di sfumato e affumicato, passato, fumé.

I senior: lui è un professore universitario nell'ateneo il cui rettore è il padre di sua moglie. Un rapporto ormai logorato ma che, come nello stallo di un finale di partita bloccato senza vie di fuga, rimane, sta, barcollando ubriaco, tentennante ma in un suo pur precario equilibrio smodato continua a restare in piedi. E sembra un gioco tra i due più maturi personaggi quella di invitare, sovente, una coppia più giovane per smorzare i loro entusiasmi nel futuro, per mostrare il fondo del bicchiere, il raschiamento del barile, la vergogna e lo schifo e fin dove si può arrivare ad odiarsi, senza limiti, senza censure, senza più dignità né orgoglio, senza più limitarsi. E' una violenza psicologica di strategie e attacchi furtivi a scoprire i punti deboli e a colpire proprio lì dove fa più male in un crescendo che non lascia spazio alla salvezza, che chiude tutte le porte al domani. Una vera e propria guerriglia dove tutti i colpi sotto la cintura sono contemplati. Ma i due coniugi “anziani”, che forse si rinfacciano le stesse cose e sono caduti mille volte nelle stesse dinamiche ormai consumate e consolidate, hanno bisogno, come per vezzo, di avere un pungolo, un meschino stimolo, un pubblico vergine che ascolti quelle stesse minuzie esistenziali per la prima volta, in un duello fino all'ultimo sangue per vedere chi ha ragione, per mostrare sul banco (degli imputati) tutte le prove a carico, i moventi, le ingiustizie subite, i torti accusati. Ma è sottile il discrimine se i due effettivamente si stiano azzannando alla giugulare o se recitino, di tanto in tanto, quasi per scandalizzare i nuovi arrivati in quella dimensione da campus, uno stesso canovaccio, come a teatro, sera dopo sera, un copione da rispettare ormai assodato e ricordato e concordato, lascivo, dissoluto, disturbante, quasi un gioco di società dove due complici si impegnano a distruggere le aspettative e il futuro di una giovane coppia, per noia, per mancanza di passione, per quella subdola ricerca di fare del male ad altri quando ormai non se ne può più fare alla persona che ci sta ancora accanto.

Ci aggredisce un senso di impotenza davanti a questi blocchi che si fronteggiano, a questi nemici che cambiano casacca, a queste fazioni liquide che mutano schieramento, dove tutti vorrebbero andarsene ma dove tutti rimangono per colpire e finiscono per essere presi di mira rimanendo invischiati nella voglia-bisogno di vendetta, intrappolati in un desiderio di rivalsa che li fa ancor più affondare, li indebolisce perché li lascia sguarniti del germe della sopravvivenza pensando più a come rivalersi del torto che a quello che potrebbero perdere in questait_virginiawoolf-02-03-2021-850_original.jpg roulette russa (infatti apparirà anche una pistola) dove, alla fine, tutti perderanno indelebilmente se stessi. Le provocazioni e le istigazioni montano come panna per poi sciogliersi e immediatamente, dopo una piccola tregua quasi a riprendere fiato e forze e prendere nuovamente la rincorsa, risalire ancora più perfide e toccanti e cattive chi-ha-paura-i-Virginia-Woolf-foto-di-Brunella-Giolivo-5-e1641817630359.jpgcercando il nervo scoperto, nel triste play del gatto col topo. Marchioni e la Bergamasco, attori di un gigantesco spessore con una prestazione super, tengono dritto il filo di una tensione palese e di un erotismo strisciante come se le umiliazioni che si infliggono e che li trafiggono possano in qualche modo risvegliare la loro eccitazione sopita. Hanno carattere e tempra per reggere questa manipolazione patologica (2h 40') e ci vuole un fisico bestiale (dopotutto siamo a Bologna città di Luca Carboni, all'Arena del Sole) per tenere botta alle nevroticità dei loro ruoli, per non soffocare nel tremendamente infelice, per non farsi avvolgere da tutta quell'insoddisfazione che, come marea, come onda, ci assale, ci travolge.

La citata nel titolo Virginia Woolf non è altro che l'inconfessabile che alberga dentro ognuno di noi, è quella coscienza che chiarifica le nubi degli incubi, è quella voce da voler mettere a tacere, è il grillo parlante che non vogliamo ascoltare, è quella fatica che non vogliamo fare, preferendo continuare ad annaspare invece di, finalmente, imparare a nuotare. Ci vuole sudore per essere la parte migliore di noi stessi, ci vuole sofferenza per uscire da schemi preconfezionati e incancreniti, ci vuole un grande sforzo per uscire dalle paludi di relazioni consolatorie ma dannose e croniche e acide e corrosive, ci vuole impegno quotidiano per scegliere di volersi bene.

Tommaso Chimenti 26/02/2022

Foto: Brunella Giolivo

BOLOGNA - “Per la ragione degli altri” fin dal titolo sembra posizionarsi e schierarsi e portarci sulla strada della morale accertata sociale che fa da muro e spartiacque verso gli atteggiamenti e le scelte personali. E ci fuorvia, ci manda fuori rotta. Perché, nella rivisitazione pirandelliana di Michele Di Giacomo e Riccardo Spagnulo, non si parla di rottura tra l'individuo e la società alla quale appartiene né, tanto meno, di famiglia, deriva e forzatura tra gli anacronismi del Nobel siciliano (ne è passata d'acqua sotto i ponti da quel 1895, anno di pubblicazione del testo) e i contemporanismi abbastanza discutibili. La trasposizione dei due autori (prod. Alchemico Tre e ATER, con il sostegno di ERT, visto in anteprima al Teatro delle Moline bolognese) ricrea un interno con tre televisori e altrettanti personaggi, asciugando il dramma familiare in un triangolo composto dal Marito (lo stesso Di Giacomo, sempre convincente, qui un filo remissivo) la Moglie e l'Amante.Per la ragioni degli altri foto 5.jpg

Molte infelicità messe sul piatto della bilancia, il Marito in grigio, la Moglie in bianco, l'Amante in rosso, rispettivamente l'appiattimento banale, la candidezza, il peccato. Tutto un po' stereotipato. Un matrimonio ormai finito o al limite fortemente compromesso per il tradimento dell'uomo, una Moglie sterile, il Marito che ha avuto, per debolezza più che per passione, per pietà più che per lussuria e appetiti sessuali, una figlia con una donna, l'Amante, che non ha mai amato. Il poveretto (lo salviamo, è travolto dagli eventi senza soluzione al rebus inestricabile) vorrebbe fare il romanziere ma la nascita della figlia, che sente più come una zavorra che come amore, lo costringe a riciclarsi come giornalista per un piccolo giornale di provincia. L'atmosfera è cupa e dannatamente pesante. Servono soldi per pagare casa e vitto all'Amante e alla figlia, la situazione con la Moglie è ai minimi storici.

PER LA RAGIONE DEGLI ALTRI.jpgPiù che altro è il dramma personale dell'Uomo contemporaneo, schiacciato, compresso tra più pulsioni e non in grado di soddisfare, soprattutto, le aspettative delle donne al suo fianco, non tanto per flebilità di polso e carattere, quanto per le condizioni che, al netto di insoddisfazione personale, precariato e post adolescenza diffusa e perpetrata, gli remano contro e lo naufragheggiano. Chiedersi, dopo questo spettacolo, che cos'è la famiglia, è fuori luogo. Non è la domanda giusta. Come portano su terreni impervi e scoscesi, soprattutto politicamente, le interviste (sembrano quelle pasoliniane sull'Amore) che ruotano attorno al concetto di Famiglia che sembrano essere state messe per confermare o consolidare la tesi conclusiva della piece (la deviazione Genitore 1 e Genitore 2?).

Se il testo ultracentenario pirandelliano non poteva, per i tempi nel quale è stato dato alla luce, tener conto della legge sull'aborto (alla quale poteva affidarsi l'Amante in altri momenti storici), sulla legge sul divorzio (della quale poteva approfittare la Moglie), dell'inseminazione artificiale (sempre la Moglie), dell'adozione (sempre la Moglie), del femminismo post anni '70 con un'altra consapevolezza e indipendenza, soprattutto economico-lavorativa, trovarcelo oggi come un emblema e un baluardo a favore delle coppie di fatto, delle unioni civili, dei matrimoni tra esponenti dello stesso sesso sembra quantomeno, come anticipato poc'anzi, forzato e tirato per i capelli. Non si avverte oggi tutto questo giudizio sociale “degli altri” in queste nostre attuali metropoli d'asfalto e indifferenza dove la morale, a volte purtroppo altre per fortuna, è una parola svuotata dai suoi significati. Qui forse, oltre al dramma del maschio contemporaneo, si sottolinea il potere, ovvero la possibilità di poter arrivare a soddisfare i propri bisogni attraverso il mercimonio: la Moglie infatti alla fine “comprerà” la bambina (che qui tutti trattano come una cosa da spostare e un oggetto sul quale far leva) che il marito ha avuto con l'Amante per ricreare quella Famiglia che non avevano potuto avere, causa la Natura matrigna.

Tutti e tre i personaggi sono perdonabili, sembrano con le spalle al muro, senza una reale scelta se non quella che alla fine prenderanno, senza vincitori né vinti. L'errore, la bambina, la pietra delloPer la ragione degli altri foto 1.jpg scandalo che non si può più nascondere, è l'ingranaggio che fa inceppare tutto il meccanismo borghese, il sistema di convenzioni (quale è inevitabilmente la Famiglia) ed è lo squilibrio che, paradossalmente, riaccende la miccia dell'unione, rinsaldando la Vera famiglia, i coniugi, e allontanando la scheggia impazzita, l'Amante, che aveva solo portato scompiglio e sconquasso nel loro menage. Interessante, ma non reale, Per la ragione degli altri foto 2.jpginvece la scelta registica di affidare il ruolo dell'Amante all'attrice meno avvenente e più matura delle due, uscendo così dallo stereotipo (ma confortato dalla pratica dell'oggi) dell'Amante che va a rimpiazzare la moglie anziana. Qui invece la Moglie sembra avere tutte le caratteristiche positive, bellezza, giovinezza, innamorata e soldi, mentre all'Amante non rimane che la miseria. Nello scontro-confronto il vincitore salta agli occhi dalla fase primordiale nell'impari lotta. Manca qualcosa, un gusto, un sapore, una ventata, una spolverata di realtà.

Tommaso Chimenti 27/12/2018

MONTALCINO - “L'estate da noi non è mica un periodo felice che il caldo ti toglie la pace la polvere copre ogni cosa e ti spezza la voce”. Ha ragione Daniele Silvestri. Nella stagione del caldo e dei bikini, delle onde e del solleone aumentano i suicidi. Sarà la costrizione al divertimento forzato, sarà l'appiccicaticcio sudato, saranno le zanzare. “Estate sei calda come il bacio che ho perduto, sei piena di un amore che è passato che il cuore mio vorrebbe cancellare”. Forse l'estate piace solo ai bambini, con i loro secchielli e palette. In un luogo più immaginifico che realistico, più dell'anima e del sogno che terreno hanno luogo “Le vacanze dei Signori Lagonia” (prod. Teatrodilina e portati a Lagonia1Montalcino nel corposo e interessante cartellone ideato dal sensibile, capace e attento direttore Manfredi Rutelli per il finalmente riaperto Teatro degli Astrusi), momento sospeso dove confessarsi, tra la logorrea della moglie obesa e invalida e immobile (Francesco Colella en travestì, riempie la scena con un personaggio statico, sorta di Hamm del “Finale di Partita” beckettiano; anche autore del testo insieme a Francesco Lagi, regia), e i silenzi o i moti gutturali primitivi e ancestrali del marito un po' Shrek e un po' Lerch (Mariano Pirrello in punta di piedi dà tempi e ritmi, come vero metronomo, si aggira come atomo attorno al nucleo), scendere a patti, fare i conti di un'esistenza disgraziata, processarsi a vicenda, condannarsi, forse perdonarsi. Come in “Zigulì”, eccezionale monologo di qualche stagione fa con protagonista Colella, anche qui si parla di figli; non ci sono, fanno capolino, sono pesanti macigni anche se invisibili, indigeribili nella loro assenza che fa male.
Una spiaggia lontana da occhi di altri villeggianti, una “solitary beach”, per dirla con le parole prese in prestito da Franco Battiato: “nel pomeriggio quando il sole ci nutriva di tanto in tanto un grido copriva le distanze e l'aria delle cose diventava irreale: mare mare mare voglio annegare, portami lontano a naufragare”. Un istmo, una parentesi graffa questa lingua di terra, un limbo d'attese dove non si sente il “sapore di mare che hai sulla pelle” di Gino Paoli né la “voglia di remare per fare il bagno al largo, per vedere da lontano gli ombrelloni” di Giuni Russo. La spiaggia è approdo, è sponda, è andare, è partire. Ma lei, matrona dittatoriale, è ancorata al terreno senza possibilità di movimento e lui, ubbidiente ex muratore disoccupato, costruisce castelli di sabbia perfetti. Uno dipendente dall'altro guardano la marea, la schiuma, le onde, quella massa d'acqua che imperterrita prosegue a Lagonia2lisciare il bagnasciuga e che può essere rivelatrice, che può portare con sé risposte aspettate da un'intera vita. Nei loro silenzi, che fanno massa e sono solidi come mura difficilmente scalabili e costruite pazientemente nel tempo, si sentono i lamenti e le fragilità, le debolezze e i dolori di molte famiglie del Sud portate negli ultimi decenni sul palcoscenico, da Emma Dante a Franco Scaldati, da Scimone Sframeli a Scena Verticale, da Enzo Moscato a Michele Santeramo e Fibre Parallele.
La settecentesca, e sempre da brividi, “Lascia ch'io pianga” (aria di Handel e libretto di Giacomo Rossi) infatti fotografa alla perfezione questi sentimenti di rancore misto a rassegnazione, abbandono e sconforto impastati nelle lacrime seccate, depressione e forza di sopportazione arrivata al limite, sottomissione e accettazione passiva che ribollono dentro, l'abbattimento di giorni e mesi e anni sempre uguali infangati di noia, lo scoramento nell'oggi e la sfiducia che domani le cose possano cambiare, una grande malinconia di fondo che si incastra come Tetris a un'agitazione demoralizzante che li rende inquieti da una parte e docili repressi dall'altra: pentole a pressione tristi e polverose pronte a saltare o a farsi esplodere. La desolazione e il vuoto di questa convivenza divenuta accanimento terapeutico si spande come macchia d'olio amara, si allarga senza salvezza, in preda ai morsi dell'agonia. Forse l'inferno per alcuni è proprio qua, sulla Terra.

Tommaso Chimenti 15/01/2017

Lunedì, 31 Ottobre 2016 09:00

Chi non "Balla" nella vita gode solo a metà

LIVORNO – “Il ballo è la manifestazione verticale di un desiderio orizzontale” (Woody Allen).

Ballano i topi quando il gatto non c'è, balla il ballerino di Dalla, e c'è chi balla coi lupi, mentre Bruce Springsteen balla nel buio. Sembra che il ballare o il danzare sia il verbo, e questo fin dalla notte dei tempi, dai riti magici ancestrali e primitivi, che più identifichi per l'uomo l'essere vivo, attivo, nel pieno delle sue forze, felice, integrato con il proprio corpo, con la Natura circostante, con il Creato. Come diceva John Dryden: “Ballare è la poesia dei piedi”. Come i dervisci rotanti che attraverso la forza centrifuga di gambe, piedi e braccia raggiungevano il Nirvana o uno stato di catarsi che li avvicinava a Dio ripulendoli dalla polvere terrena, dalla banalità della piccola vita umana. Se ballare è appunto l'azione per eccellenza per 01ballafotografare uno stato di grazia tra il proprio corpo e l'Universo, in questo “Balla” (visto al Teatro delle Commedie, atto conclusivo della rassegna “Utopia del Buongusto”) la posizione predominante e lampante è la staticità, la fermezza, l'immobilità. Andrea Kaemmerle, attore selvatico e sensibile, qui intreccia i fili della sua verve noir e comica con le parole di un racconto cechoviano (“Il violino di Rotschild”) e le fa risuonare nella sua grancassa ovattandole di risa amare, velandole di una mestizia in chiaroscuro, di una malinconia che dilania e morde nell'impossibilità di cambiare le cose, nell'impassibilità, nell'impotenza.
E' un Kaemmerle diverso questo, che cerca nuove sponde, meno clownesco e più dedito e devoto alla riflessione. Non è vero, non è giusto: all'introspezione analitica esistenziale ci ha sempre abituato ma nelle precedenti prove la profondità, per pudore, per paura di pesantezza, era sempre lastricata o spalmata come marmellata da una dose carica di venature poetico-suadenti, dal sorriso sornione e sarcastico. Qui viene fuori l'animo tragico, la cappa che incombe sulle nostre vite. Il nostro, faccia bianca funerea e naso rosso da patologia, è il falegname Joseph, che potrebbe essere Geppetto, che costruisce bare, abbrutito, perdente, perennemente arrabbiato e corroso. E' un povero suonatore di violino, e qui si aprono delle parentesi che ci portano prima a Nathan Zuckerman, il personaggio chiave dei romanzi di Philip Roth, e dall'altro lato alle figure di Edgar Lee Masters. Una stanza ombrosa, come le parole che colano in questo monologo a due voci, un salotto cupo e claustrofobico come il rapporto ultradecennale tra marito e moglie, dove si respira miseria senza alcuna nobiltà, povertà tangibile e metaforica, disperazione.
02ballaIn una sedia a dondolo giace la moglie Marfa che va avanti e indietro in un movimento ossessivo molleggiante. Marfa (nel cui nome sono racchiusi il “mare” e il “fare”, termine e verbo che indicano lo spostarsi, l'essere in azione, ossimoro della vita da “segregata” che aveva condotto la donna nel piccolo borgo) è in realtà un manichino costruito da Federico Biancalani (scenografo, tra gli altri, anche di Michele Sinisi o Ciro Masella) con movenze, scatti e gesti che la fanno sembrare inquietantemente viva. Il falegname becchino si sfoga con la donna che solida resta impassibile nel suo incedere autistico, resiste alle invettive del marito incattivito e ingiallito dall'astio, alle sue lamentele continue senza soluzione, al suo restare imprigionato e impigliato in un'esistenza scalcinata e sgangherata che non ha regalato loro alcuna comodità o felicità.
Ma è quando quella sedia, prima occupata dal manichino realistico si fa vuota per il decesso dell'anziana compagna che si percepisce netto e salato il contraccolpo dell'assenza; quella poltrona adesso ferma è un monito contro l'indifferenza. Il monologo a due non si spezza con la mancanza, prima silenziosa, della moglie che anzi adesso sembra riempire l'incolmabile, spiegare il miracolo dell'inspiegabile, sembra avvicinarci al mistero insondabile della vita. Che va vissuta senza rimpianti. Come quel ballo a due che non c'è mai stato tra Joseph e Marfa.

E coloro che furono visti danzare erano ritenuti pazzi da coloro che non potevano ascoltare la musica(Friedrich Nietzsche).

Tommaso Chimenti 31/10/2016

FIRENZE – Le case dei villaggi dei film sul Far West sembrano solide. Da lontano, in campo largo, appaiono stabili, di legno massello, con salde fondamenta massicce nella sabbia. Ma è tutta apparenza, esiste soltanto la facciata, tenuta su, dietro, da assi in diagonale per sorreggere la messinscena. La parvenza non ha il suo corrispettivo con la profondità. Entrando in quei saloon c'era solo terra riarsa. Tentando di cercare un minimo di profondità nella nuova opera del Cirque du Soleil si finisce a terra nella sterpaglia, si rotola al tappeto, si inciampa sui nostri stessi passi. Da molti anni il Cirque cambia il titolo alle proprie produzioni ma la salsa è sempre la stessa, pur nell'altissima qualità degli ingredienti: tecnica, interpreti e strumentazione. Un gran fiorire di costumi, un impasto tra musical e circo, atletismi d'ogni sorta e coreografie da etoile che creano immagini impeccabili e splendide suggestioni. Il Teatro latita, rimane la maraviglia, le botole che si aprono e si chiudono, che ingoiano o che lanciano fuori, le altezze e le costruzioni aeree, le funi e le altalene, i geyser che sputano fumo zolfino dal basso, le verticalità e le trazioni, i corpi scolpiti.Varekai2
Di fondo un grande perché che lascia insoddisfatto il palato, un vuoto che sentiamo concreto e tangibile sotto la spessa scorza di colori e girotondi, giravolte e piroette. Sembra che tutto l'armamentario di risorse messe in campo per "Varekai" (quaranta eccezionali professionisti sul palcoscenico del Mandela Forum; dieci repliche soltanto a Firenze) serva per distrarre e non per concentrare, serva per perdere contatto e controllo invece che fare adesione e abrasione. Una volontà di non far pensare a nient'altro che alla superficie della visione, usare gli occhi e le retine e non le sinapsi del cervello, fermarsi e fissarsi al bidimensionale imbrattando e infarcendo il tutto di decibel da stadio e cromature psichedeliche frastornanti.
In questa sorta di mondo alternativo e trasognante, molto ripreso da “Avatar”, tra grugniti e ruggiti e un vento ancestrale, si muovono questi esseri umanoidi primordiali e immaginifici misti ad animali preistorici, epici o mitologici che in alcune loro parti ci ricordano i caproni o il Dio Pan, i pesci degli abissi o anfibi pericolosi e serpenti biblici, altri sono fiammelle-anime da Divina Commedia, fino ad arrivare a spiriti veri e propri, diavoli per ogni gusto, giullari di corte, creature vitruviane, contornati da regine e folletti, elfi, stelle di mare e demoni, entità metà Varekai4Diogene e metà Zio Fester, centauri e tartarughe ninja, iguane e troll, dinosauri di squame e code e pinne, teschi e galli cedroni. C'è tutto il ventaglio e il panorama per Halloween e dintorni, cosparso di riti aztechi e sfide a colpi di spade che scintillano come in “Star Wars”. Un'immensa precisione, cura dei dettagli, forza e pulizia tecnica sono messe al servizio di una storia che sempre estratta da “Le mille e una notte” dove l'amore vincerà sull'odio e sulle diversità.
Tra gioco e inquietudine, cadute negli Inferi e riscosse, apparizioni e sparizioni, questo mondo sottosopra offre il suo lato più umano e accoglie l'angelo caduto dal cielo (potrebbe essere Lucifero), appunto scivolato dal blu dipinto di blu e dalle nuvole placide e pannose e ritrovatosi inerme, stavolta strisciante, in territorio sconosciuto e nemico. Ribelle tra i ribelli. Ha perduto le ali, non può rialzarsi ma viene comunque aiutato a rimettersi in piedi e infine, come qualsiasi favola infantile che si rispetti, trova pure il tempo di sposarsi. E vissero tutti felici e circensi.
Qui molta bellezza e perfezione nel gesto paradossalmente ammantano e guastano, occludono e anneriscono, consapevolmente, un risvolto debole che si sfalda con un grissino, un vuoto che fa eco. Rimane un grande cartoon d'animazione in carne ed ossa per famiglie. Abbiamo ancora bisogno di virtuosismi, orpelli e svolazzi, di merletti e origami scenici? Forse la risposta è Sì, e non è un gran sollievo. Esci fuori e hai una gran voglia di un panino alla porchetta per ritrovare poesia e mistero.

Tommaso Chimenti 30/10/2016

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