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MILANO – Dopo le tre figure paterne racchiuse nel drammatico “In nome del Padre”, Mario Perrotta, abbonato ai trittici ed alle trilogie (piacciono molto anche anche a critica e pubblico, sanno di un fil rouge non interrotto, di un ragionamento da poter continuare nel tempo) attacca anche il ruolo della Madre, la afferra, la morde, la azzanna, senza lasciare prigionieri. Se il Padre era tragico, qui, con “Della Madre” (prod. TSBolzano, Piccionaia) siamo nel campo del tragico-comico, di quel riso isterico grottesco che lascia l'amaro in bocca. Azzeccatissima e di forte impatto visivo la scena, composta da due elementi invasivi, opere d'arte contemporanea, inglobanti l'occhio, accerchianti nel loro essere tondeggianti, cosmici e “mammici” per definizione: potrebbero essere due enormi seni bianco latte, ma anche due gonne dentro le quali, come Winnie dei beckettiani “Giorni Felici”, se ne stanno le due donne protagoniste, topos della Nonna (o Grande Madre) e della Madre. Due missili, due capanne protettive, due mondi come se fossero stati estrapolati dal “Piccolo Principe”, due verande da camping osmotiche, due igloo che ci hanno ricordato quelli di Mario Merz (un paio di stagioni fa, proprio a Milano, all'Hangar Bicocca, andava in scena una sua mostra retrospettiva ed esaustiva sull'argomento). Queste cupole tanto proteggono dall'esterno quanto asfissiano all'interno, chiudono in relazioni problematiche, senza aria, senza scampo, senza fuga né mobilità, né azione. Infatti le due, che si azzuffano dialetticamente impossibilitate allo scontro fisico proprio perché bloccate nel loro tumulo, quasi fossero dentro sabbie mobili, sono ancorate e possono soltanto usate contro l'altra le armi della minaccia, del risentimento, soprattutto del senso di colpa: “la gente dà buoni consigli se non può dare cattivo esempio”.it_della-madre-luigi-burroni-6-850_original.jpg

Ma c'è anche, ovviamente, un terzo elemento focale attorno al quale tutto ruota, s'argomenta, s'avviluppa: la figlia. Ancora femmina, un terzo gradino rosa di questa scala evolutiva. La Grande Madre, la Figlia e la figlia della figlia. Oppure: la Nonna (lo stesso Perrotta, di spessore), la Figlia-Madre (Paola Roscioli, tempra aulica, lirica) e la Nipote (Yasmin Karam in ombra con videoproiezioni, fa capolino con una mano-cannocchiale come da dentro un sommergibile, “e guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po'”). A cascata, discendenza di Eva. E in questo mondo distopico futuro (si muovono sincopati, come robot, le due hanno giacchette bianche da Star Trek), da navicelle nello spazio dove ormai si è perso il contatto fisico (forse anche per procreare: il maschio non esiste e quando è chiamato in causa lo si fa per la sua assenza, o per offenderlo e denigrarlo, definito nella migliore delle ipotesi “inutile”), la figlia piccola, la nipotina, pur essendo già grande, preadolescente, naviga e fluttua, danza e nuota come una sirena, in questa campana di vetro, pancia calda e marsupio avvolgente, placenta acquacea, liquida e amniotica, miracolo della scienza del futuro, potendo passare senza problemi dall'utero materno a quello nonnesco. E qui scatta il cortocircuito, affettivo, sentimentale, semiotico, analitico.

Si scontrano due mondi opposti di educazione e sulle spalle della piccola si scarnifica una guerra di nervi tra Madre e Nonna. Vincerà l'anziana, la capofamiglia che detterà le regole sia alla figlia sia sul come portare avanti la vita della nipote. Le due, in perenni scintille, ci raccontano i loro Giorni Felici (eufemismo), incastrate senza via d'uscita, senza spiragli di domani. Un giorno anche la piccola diventerà madre avrà il suo seno gigantesco, il suo utero a forma di igloo dove poter recintare i suoi cuccioli e le proprie paure. La madre tiene saldo il cordone ombelicale della figlia, e lo strattona e ne fa cappio, allo stesso modo fa la Nonna, ingombrante e dittatoriale, con la propria figlia, richiamandola all'ordine, punendola, frustandola, tenendola in scacco, al lazo, costringendola nel suo cerchio. Potrebbero essere due Dee che si accapigliano sulla sorte degli uomini sottostanti dentro le loro bolle-mondi, dentro le loro vesciche-globi “giocando a dadi” con l'universo.

Questo it_della-madre-incontro-850_original.jpgil lato tragico mentre il comico, esasperato e spinto, è principalmente racchiuso in whatsapp, esilarante, tra le mamme (le temute chat di classe) con consigli, esperimenti, dialoghi tra suggestioni, scaramanzie, superstizioni, sui vaccini come sui comportamenti da tenere, la meningite, l'autismo, il diabete infantile. La madre è senza autorità e sia la Nonna che la figlia se ne approfittano. La donna di mezzo (è troppo grande per essere considerata ancora piccola, è troppo giovane per sentirsi madre), schiacciata tra le altre due figure in maniera ricattatoria, è oggi fragile, non ha strumenti, è in balia, terrorizzata, spaesata tra mille comunicazioni e suggerimenti da seguire, naufraga in una realtà che cambia forma velocemente e nella quale è spaesata tra gli insegnamenti rigidi che ha avuto e le libertà che vorrebbe concedere ai figli trattati come coetanei, amici ai quali non dire mai di no: una parabola del nostro tempo.

Anche stavolta Mario Perrotta (c'è la consulenza di Massimo Recalcati) è stato abile, brillante e illuminato, nel creare un affresco che tutti tocca con le armi più pure del teatro: la sintesi, il tentativo d'analisi del fenomeno, la non ricerca delle soluzioni, il non cadere nella dicotomia del giusto e dello sbagliato, il non schierarsi, il rimanere in bilanciamento tra la realtà dei nostri giorni e quell'esagerazione-inasprimento-esasperazione dei comportamenti per ridere, a denti stretti, di noi che ancora ci dichiariamo esseri evoluti, animali pensanti.

Tommaso Chimenti 10/01/2020

MILANO – “Il padre di oggi non sa dire qual è il senso ultimo della vita ma è capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso”. (Massimo Recalcati)

La famiglia è allo sfascio, le derive del femminismo hanno creato danni irreparabili ad un'istituzione già agonizzante ma della quale adesso se ne sente la mancanza, battuta fin dalle fondamenta e adesso colata a picco come un colosso dai piedi d'argilla. Ad essere messo in discussione è tutto l'impianto sul quale si basa la nostra società occidentale. Se mater certa est, non si può dire per il padre, l'uomo. Anzi adesso per venire al mondo, o per creare un nucleo familiare, la figura maschile non serve neanche. Prendiamo la maternità surrogata. Il padre diventa così, sempre più, mero strumento00xy sorpassato però dalla tecnologia e dagli studi scientifici. Il padre è stato retrocesso a spermatozoo prima, a fornitore di alimenti poi. Il padre si sente così, dopo la nascita del figlio, di troppo, di peso a questa nuova coppia formatasi, madre-figlio, in un triangolo pericoloso dove lui raffigura il lato debole, l'angolo minoritario. Si va a perdere la carica e la spinta paternalista, quella cioè del rifiuto, dei no (da contravvenire), dell'autorità con la quale confrontarsi e scontrarsi. Il padre diventa così un soprammobile, da sostituire, con poca voce in capitolo, estromissibile, emarginabile, fa arredamento finché può. Se però il padre non dà regole ai figli per non contraddirli (i genitori danno ragione ai figli anche nei casi di scontro con altri tipi di autorità, vedi i professori) quando sono in famiglia, e successivamente, se la coppia si sfascia, vengono rimpiazzati da un altro uomo che non potrà dare regole ferme e salde a figli non suoi.

Il tema è complesso perché negli ultimi anni si è sempre e solo guardato l'argomento dal punto di vista delle madri-mogli con il padre che, visto che “non partorisce con dolore”, ha meno appigli sui quali dibattere, meno punti a suo favore. Sembra che essere uomo e padre sia più una condanna, una condizione di serie b, rispetto alla madre che ti ha messo al mondo, nel sangue, che ti ha passato il cibo attraverso il cordone ombelicale, che ti ha fatto sentire, e per nove mesi, il respiro, la sua voce e il battito del cuore. L'uomo resterà sempre indietro di quei nove 000xymesi e la forbice si allargherà con il tempo, dall'allattamento in avanti, soprattutto nell'età infantile. Però non gli si può fare una colpa a questo pover'uomo, dimesso e dimenticato, di non poter procreare con il proprio utero mancante. Dopo Dio, è morto anche il Padre.

Detto questo, formulate le nostre ipotesi e ragionamenti ci viene in soccorso una bella e intensa operazione, meglio progetto, coordinato dal regista e attore monologante in scena Emiliano Brioschi, che ha ideato questo “XY” commissionando a tre talenti della nostra scrittura drammaturgica tre brevi testi, componendoli sul palco con potenza, sulla figura del padre e sulla paternità. XY sono appunto i cromosomi del maschio, mentre XX quelli della madre. I tre nomi sono Renata Ciaravino (milanese, della Bovisa ci tiene a specificare, abbiamo assistito qualche anno fa al suo edificante “Potevo essere io” con Arianna Scommegna), Giuseppe Massa (palermitano, corroboranti “Sutta scupa”, “Chi ha paura delle badanti?”) e Cristian Ceresoli (autore del noto “La Merda” che spopola da anni). Tre scritture differenti, tre pigli, tre affondi, tre angolature, tre visioni per un mosaico disperato e poco speranzoso, drammatico e ironico a tratti, dove si tocca con mano il terreno scivoloso e lo sconsolato tentativo di questi uomini di un riconoscimento sociale, di un ruolo, schiacciati all'ombra delle madri, in un angolo, quasi in castigo, come se dovessero scontare secoli o millenni di patriarcato. Brioschi dà voce e corpo alle tre istanze, è trasformista e densamente rock, un vero e proprio leader, front man viscerale e profondo, un uomo sdrucito messo alle strette, spalle al muro senza tanto orizzonte davanti da poter osservare. Tre testi autonomi ma cuciti osmoticamente tra ombrelli da set fotografico e manichini (e con uno straordinario uso delle luci a cementare, di Claudine Castay) con abilità ed empatia in un affresco che dipinge l'uomo, il maschio alfa, il padre come naufrago in un sistema che cambia troppo velocemente e con il quale, contro il quale non sa prendere le giuste contromisure lasciandosi travolgere. Ulisse non esiste più ma in giro ci sono tanti Telemaco alla ricerca disperata di questa figura che si è voluto, scientificamente e politicamente, abbattere, eliminare, mettere in cantina e data per superata, obsoleta.002

In “Buddy Love” della Ciaravino, il figlio è visto come la zavorra ai sogni di quest'uomo, stanco, disilluso, sfibrato, insoddisfatto, il figlio come scudo e alibi da una parte, come problema, incaglio alla felicità dall'altro, limite invalicabile, muro che non permette di raggiungere i propri desideri, la propria affermazione. Buddy è un tastierista e il bambino (in tutti e tre il bimbo-figlio non ha voce, è silente ma è come se ogni suo respiro s'amplificasse assordante, despota nelle scelte di questi due adulti che “tiene in ostaggio” nella sua dittatura naturale che tutto vuole e tutto prosciuga) dorme dietro in macchina che, come in un road movie, nella grande avventura della vita, accompagna il padre, evidentemente contro la sua volontà, come bagaglio pesante che rallenta e fa inciampare. Non è colpa del figlio, non è colpa del padre. Si sentono, quasi si potrebbe mordere da quanto è spessa questa coltre, devastazione e abbattimento, depressione e sconforto, dell'essere triturati in un sistema senza più vie di fuga, senza più scappatoie o uscite: cane alla catena. Una volta che si è padri lo si è per sempre. E molti non sono pronti, e non è un fatto di essere responsabili o essere adolescenziali o essere afflitti dalla Sindrome di Peter Pan, e non lo saranno mai. Forse anche poco aiutati dalle donne al loro fianco o dalle avversità sociali, in primis la carenza di lavoro e il precariato, che certamente non aiutano la serenità. La Ciaravino ha il grande dono di un'ironia secca che ti culla fino al cambio di registro che ti coglie sempre impreparato e intontito, perché ridi e dopo averlo fatto ti trovi a vergognarti dell'aver sorriso in una sorta di continuo senso di colpa. Questo padre è, come tutti noi, un uomo medio, un gregario, uno sparring partner, certamente non un supereroe e come tale si muove tra mille difficoltà, sentendosi sempre in difetto, sempre in deficit e per questo si lacera dentro e muore sempre un po' di più perdendo autostima e quella del figlio che in lui non riesce a vedere un esempio da seguire ma solo un uomo che non ha avuto il coraggio di prendere la vita per le corna, un rammollito pieno di rimpianti che ha messo i sogni in una discarica, morendo ogni giorno di più tra la periferia frustrata dell'anima e il provincialismo del cuore.

003Nell'avvolgente “Valentina” di Massa è il gran snocciolamento di nomi (per il futuro nascituro) a farci cadere nella cantilena, in quella patina di allegria e spensieratezza pre-parto che coglie tutte le coppie in attesa. Man mano che si scivola nel testo ci si rende conto che c'è un'unica voce a dichiarare, a sentenziare nella sua finta felicità, a spiegare e articolare. E' la voce della madre; il padre, trattato alla stregua di un inseminatore, è un qualcosa che deve solo asserire e acconsentire, il suo silenzio è preso per assenso e non per perplessità o dubbio. A lui viene chiesto di fare la sua parte primordiale, quella primitiva e di essere, anche, contento e felice. Ma nessuno chiede mai ai padri se sia arrivato il loro momento biologico, se sia scattato il loro tic tac interiore. Quando questo padre mangia, divora letteralmente avidamente quasi fagocitandola animalescamente, un'arancia, con il succo che esplode e si spande, sembra di vedere una bocca di bestia che dilania una pancia di mamma, estinguendola. Ci sono donne che arrivano alla gravidanza per riempire dei vuoti esistenziali mentre l'uomo pare implodere come schiacciato da questa nuova vita che lo annienta, lo soffoca.

Altamente angosciante è il terzo (ma non ci sono stacchi violenti, è un continuum che scivola senza fratture), “La pratica del dolore” di Ceresoli, che vira (troppo) allo splatter e al crime, con un medico che ha perso il figlio e che, per rivalsa e vendetta, pratica e induce aborti non richiesti a pazienti in visita di controllo provocando lo stesso dolore da lui provato. “Se un figlio senza padre si chiama orfano, come si chiama un padre che non ha più il figlio”?004

Una donna non potrà mai assorbire in sé la figura femminile e quella maschile, la femmina e il maschio, la madre e il padre. La biologia e millenni di evoluzione stanno lì a certificarlo. Il padre è utile e fondamentale prima nel concepimento e durante tutta la crescita del nuovo individuo. Brioschi è un fuoco adrenalinico in un corpo a corpo con il pubblico, è completo, convinto e convincente nel tratteggiare quest'umanità colma di debolezze, incerta, indecisa, frammentata, senza aiuti, nel disegnare questi padri abbandonati a se stessi, alle loro miserie quotidiane. Una bella intenzione originale, tre penne attente, un attore solido per un tema tutto da scartavetrare. Senza paure, senza buonismi.

“La funzione simbolica del padre è appunto nell’unire il desiderio alla Legge attraverso un processo di conciliazione. Questa unione avviene non solamente attraverso la coercizione autoritaria, ma soprattutto offrendo una sponda al desiderio debordante. Il compito del padre è trasmettere il desiderio da una generazione all'altra, è permettere l'eredità”. (Massimo Recalcati)

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