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Mercoledì, 05 Febbraio 2020 19:23

"Saul", Gionata, David: ed io tra di voi

GENOVA – E' un gioco di incastri pericolosi, di relazioni adesso segrete ora palesi, quelle che intercorrono tra questi tre personaggi, tutti al maschile, tre lati dello stesso triangolo, tre spigoli, tre angoli dello stesso poligono. Saul, il Re, Gionata, il Figlio, David, il consigliere (potrebbe essere lo Spirito Santo) creano impasto e separazione, si uniscono e si allontanano, si amalgamano per poi prendere le distanze, si abbracciano per poi dichiararsi guerra, come atomi che prima si attraggono per infine respingersi. Un “Saul” molto giovane e contemporaneo, quasi un concerto, questa produzione del Teatro della Tosse (insieme ad Arca Azzurra e Teatro I, in collaborazione con Amat) e che ha ottenuto la menzione speciale alla Biennale di Venezia 2018 all'interno 1660647532HOME.jpgdel concorso per registi under 30.

La regia di Giovanni Ortoleva (cura anche la drammaturgia insieme a Riccardo Favaro) va nettamente in questa direzione, rinfrescando, ripulendo, creando una patina moderna e godibile ad un classico senza tempo: Re Saul delegittimato ed attorniato dal Figlio Gionata, suo punching ball preferito, viene calmato dal giovane David (Alessandro Bandini eclettico, spumeggiante: sentirete ancora parlare molto di lui, è il vero protagonista del terzetto) che diviene l'ago della bilancia, adesso si sposta e diventa indispensabile per il Padre, ora pende e si flette verso la grande amicizia con il Figlio. Si parla di possesso, di gelosia, di voglia di avere, di desiderio e bramosia. Si parla di viscere e carne, di sentimenti forti in un magma esplosivo e vivido che ha a che fare con l'amore, con l'affetto ma anche con l'avidità, con la cupidigia, con la smania, invidia e gelosia, con l'irrefrenabile ingordigia, che si miscela con l'impazienza, con l'ansia, con l'insoddisfazione, con la concitazione, con l'esasperazione: “Ogni uomo uccide le cose che ama o ne viene ucciso”. E' un testo tattile e materico che lo puoi toccare, le cui frasi le potresti mordere, i cui dialoghi sono solidi e marmorei.

Saul (Marco Cacciola sempre una sicurezza d'esperienza) è un regnante sul viale del tramonto, se ne sta in panciolle ma senza riposare, accappatoio e birra a guardarsi vecchi film mentre Gionata è il figlio schiacciato dalla gigantesca figura paterna, al quale non sa rispondere e dal quale viene immancabilmente vessato ed umiliato per la sua inferiorità. A rompere questo ménage, ormai cristallizzato e fisso nel tempo, questo rapporto malato tra sadico e masochista, arriva a gamba tesa a spezzare questo delicato equilibrio David che fronteggia il primo, facendolo innamorare, e carezza il secondo, facendolo capitolare. Per interesse, per passione o per natura, sta di fatto che David capisce di che cosa hanno bisogno entrambi gli antagonisti proponendo loro quello che non hanno mai avuto: i rifiuti a Saul, gli abbracci amorevoli a Gionata. Peccato però che si forzi troppo la mano sul rapporto omosessuale dei tre, o meglio di David con Padre e Figlio (Federico Gariglio1754605503.jpg puntuale, accorto e necessario anche nei ruoli di narratore e cucitore tra le scene, voce fuori campo e regista sul palcoscenico), sminuendo da una parte e limitando dall'altra la potenza della riflessione facendo apparire David come un arrampicatore sociale che attraverso affetto mercenario e sesso spiccio riesca a raggiungere le vette del successo e non per talento o meriti particolari se non, appunto, doti fisiche e approcci ambigui.

Il dramma (bergmaniano per l'introspezione e bernhardiano per intenzione ed atmosfere) è tutto spostato dalla Bibbia ai giorni nostri con il Monarca che diventa un celebre cantante ormai cinico, duro, misogino, “imbruttito” dall'esistenza, burbero e ruvido, il Figlio è un paroliere senza talento apprensivo e ansioso e David (che da giocattolo nelle mani del suo mecenate-pigmalione si trasforma in protagonista) vuole sfondare, riuscendoci, nel mondo della musica. La regia è colma di tanti segnali importanti e frizzanti: gli stacchi tra una scena e l'altra sono lunghi bui dal rumore assordante come se dentro i protagonisti si stesse per rompere qualcosa, come se imminente fosse il crack, la valanga che comincia la sua discesa, l'iceberg che si stacca e provoca lo tsunami.

Si parla di passaggio generazionale, di vecchiaia e testimone che dovrebbe correre dalla mano degli anziani saggi a quelle dei giovani: argomento molto attuale in questa società dove gli anziani ormai non muoiono più, lavorano finsaul-3.jpgo a tardi, hanno in mano le finanze dei Paesi, percepiscono la pensione (cosa che i giovani d'oggi non sapranno nemmeno che cosa sia), prendono il Viagra inventandosi la Quarta Età allungando e sostituendo la Terza, scatenando così una guerra tra l'Anziano che ha le possibilità ma blocca il flusso dei giovani verso il benessere e la realizzazione, e i Ragazzi ai quali rimane soltanto la protesta, la forza dei muscoli freschi che però gli si può ritorcere contro sottolineando la brutalità e non le istanze reali. Le coreografie ed il tappeto sonoro, che si fa rave techno industriale tamburellante e ritmante, danno quella giusta patina che avvicina le nuove generazioni di pubblico perché sulla scena si parla di loro, del loro fermento, del loro vulcano che non trova crateri dove esplodere, delle loro implosioni autoreferenziali, delle loro depressioni autoinflitte, della sensazione costante di sconfitta prima ancora di essere scesi nell'arena, di quella insoddisfazione che ne blocca molti, di quello strato di negatività e pessimismo che li pone in uno stallo, nelle sabbie mobili, nel fango senza stimoli: David è qui per dimostrare che Saul si può battere e buttare giù dal trono. Le fiabe (come le leggende, come il teatro) non insegnano che i draghi (le problematicità e gli ostacoli dell'esistenza) non esistono, le fiabe insegnano che i draghi si possono sconfiggere. “Saul”, in questo, è una bella lezione.

Tommaso Chimenti

ALBENGA – “Ho conosciuto il silenzio delle stelle e del mare, il silenzio dei boschi prima che sorga il vento di primavera. Il silenzio di un grande amore, il silenzio di una profonda pace dell’anima, Il silenzio tra padre e figlio e il silenzio dei vecchi carichi di saggezza”. (Edgar Lee Masters)

Il simbolo del festival di Albenga di quest'anno è un carciofo infuocato. L'umidità delle serre è rimasta invariata. La salvia, la menta, il rosmarino sono ancora lì a inondare di profumi di vita questi cacciola2.jpegcapannoni a vetri dai quali si guarda il cielo e nei quali si ascoltano storie millenarie come la terra, parole che fecondano questi “Terreni Creativi”, fertilizzando i campi, le zolle ma anche le persone, le menti, gli sguardi. I Kronoteatro, dopo l'affascinante puntata veneziana alla Biennale, ritornano nei loro luoghi forse con il loro cartellone più ambizioso, tutto votato al teatro di parola, all'attore: Cuocolo/Bosetti, Quotidiana.com, Babilonia Teatri e ancora Marco Cacciola, Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani, Gli Omini. L'amore per la terra (come per il teatro) può dare solo buoni frutti. Dicevamo teatro di parola, certo. Un teatro dove al centro c'è l'attore, questa figura mitologica che riesce a farsi vivere altre vite, a farti ridere e subito dopo piangere, a farti immedesimare come a riflettere: un dono esserlo, un regalo starlo ad ascoltare.

“La parola è una chiave, ma il silenzio è un grimaldello”. (Gesualdo Bufalino)

cacciola3.jpgMarco Cacciola (lo avevamo visto in situazione d'ensemble con l'Elfo o Latella, recentemente nella “Masseria delle Allodole” di Michele Sinisi ma mai in forma monologante come in questo suo “Farsi silenzio”: una bella sorpresa) fa parte a pieno titolo di questa categoria: potente, vigoroso ma anche commovente, Cicerone e Caronte. Ci vogliono tante parole per poter descrivere il silenzio, quell'attesa, quel sospeso inespresso dove dentro c'è già tutto, quell'ammasso solido che si liquefà ogni volta che apriamo bocca. “Chi sa tacere è vicino a Dio” (Catone). Marco Cacciola è un fiume in piena, di parole ovviamente; ci porta, ci guida, ci conduce in questo suo mondo che alterna l'ovattatura morbida al torrente che fluisce dai pensieri senza argini né diga. E' un viaggio il suo, un personale pellegrinaggio, un viaggio di zaino e borraccia, taccuino e suole consumate per scoprire, grazie ai luoghi e agli incontri, una parte di sé, una rinascita, un nuovo ascolto, un rifiorire. Tutto si gioca sul vero e sul falso, sul probabile e sul plausibile, su ciò che è realmente accaduto (come se avesse importanza ai fini del racconto) e quello che avrebbe potuto concretizzarsi. L'uomo moderno, troppo attaccato alla materialità delle cose ha bisogno delle parole per essere certo e della veridicità (non controllabile né verificabile) per sentirsi di stare nel giusto. Se la parola dà torto o dà ragione, il silenzio è incontrollabile, ti lascia in quel limbo dove tutto può essere e accadere, un magma lattiginoso e paludoso dove puoi sprofondare se non sai coglierne i germogli.cacciola1.jpg

“L’uomo in silenzio è più bello da ascoltare”. (Proverbio giapponese)

E' “una storia di fallimenti”, lo argomenta così Cacciola il suo pellegrinaggio (scritto insieme a Tindaro Granata), il suo viandare, il suo cammino da Torino a Roma con un'unica gigantesca domanda da soddisfare: Che cos'è il sacro? Il pubblico ha le cuffie, non tanto per sentire le sue parole quanto per ammirare e gustare fino in fondo tutti i rumori di fondo che ha registrato nei suoi passi, la minuzie dei piccoli scricchiolii, le ruote delle auto che battono l'asfalto, una corsa di un cane, un cigolio di un'altalena mossa dai pochi chili di un bambino. Ma il silenzio esiste realmente? E' alla ricerca di qualcosa. Cammina fuori di sé per scovare il pertugio, il sentiero segreto, il cunicolo, il passaggio remoto dentro non tanto le sue carni quanto dentro i ricordi, la memoria, il cuore. “La vera musica è il silenzio. Tutte le note non fanno che incorniciare il silenzio” (Miles Davis). Ci si guarda, tutti con queste grandi orecchie in testa, chi scettico, chi imbarazzato, si osserva, ci si aspetta da un momento all'altro una voce. Invece ci appaiono tutti quei rumori di fondo, quel tappeto sonoro si direbbe in teatro, che diamo per scontato, le chiacchiere troppo lontane per decifrarle, le tacchine in un bar che si scontrano con il piattino, una risata abbozzata poco più in là, le lacrime, la tangenziale, il ritmo di un passo avanti all'altro.

cacciola4.jpg“Il silenzio è una fonte di grande forza”. (Lao Tzu)

E poi ci sono gli incontri: il drammaturgo e poeta Antonio Tarantino, i genitori, un libraio, due anziane arzille che parlano in dialetto (bellissima la risposta della signora Alcea: “Per me il sacro è l'arcobaleno”), il cantastorie Isaac. Ormai siamo un tutt'uno, avremmo voluto essere con lui, avremmo voluto essere lui, le sue spalle, le sue scarpe, il suo taccuino, la sua curiosità, la sua pazienza nel cercare ciò che non sai né come cercarlo né dove trovarlo né che sembianze possa avere. Bisogna avere grande forza d'animo e interiore nel riuscire a ritrovarsi, in solitudine e in silenzio. Poi usciamo a riveder le stelle, saliamo sputati dal cemento, tutti insieme sembriamo un quadro, guardiamo i campi, questo cielo velato di tramonto e in lontananza un'autostrada, il sibilo degli pneumatici che si aggrappano alla lingua nera di catrame. Quello è stato IL silenzio, quella è stata la materializzazione di Dio.

“Il silenzio è la gentilezza dell’universo”. (Abdelmajid Benjelloun)

“Rapinarti del silenzio, non è già un crimine?” (Guido Ceronetti)

Tommaso Chimenti 

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