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CHIANCIANO - “Ho perso le parole oppure sono loro che perdono me, lo so che dovrei dire cose che sai che ti dovevo e ti dovrei”, gorgogliava il Ligabue cantante. Quando le parole ti scivolano di mano come sabbia tra le mani, quando non riesci più ad afferrarne il senso, quando non sai più identificare gli oggetti quotidiani con un termine, allora non riesci più a comunicare, a esporre agli altri le tue emozioni, sensazioni, stati d'animo e, inevitabilmente, ti chiudi a riccio, dentro un muro invalicabile fatto di silenzi, una coltre di nebulosa impenetrabile perché ormai tutto il tuo intorno diventa un campo di battaglia disseminato di vocaboli sconosciuti come abitare in un Paese straniero senza aver accesso a quella lingua. Quando si perdono le parole si brancola nel buio del sospeso, tra i punti interrogativi e i vuoti, la memoria si fa labile, i ricordi si offuscano e sbiadiscono e tutto diventa confusionario e complicato, difficile e caotico.

ziocoso13jpg-scaled.jpgEd è proprio la memoria il fulcro, la spina dorsale, il perno sul quale gira “Dov'è finito lo zio Coso” (dal romanzo di Alessandro Scwhed, per la regia di Manfredi Rutelli e il non semplice adattamento, per la produzione LST Teatro, visto al Teatro Caos di Chianciano) che, limitandoci alla superficie potremmo etichettare come tragicommedia della Shoah, un on the road dal sapore klezmer, un inganno alla “Train de vie”. Certo l'atmosfera è di gusto ebraico e di fondo la narrazione si sviluppa intorno e attraverso i temi della deportazione e dell'Olocausto. Ma non solo. Il discorso si fa più ampio e le finestre aperte fanno rimbalzare riflessioni a specchio e nuove porte di ragionamento e pensiero. Con una semplice ma molto efficace scenografia, due divani da scompartimento dei vecchi treni, il plot si dispone in un altalenarsi tra due quadri, il vagone appunto e un salotto domestico. Il protagonista è il nipote dello zio citato nel titolo che racconta le vicende che lo hanno portato ad avere questo continuo e martellante mal di testa, fisico ma anche psicologico e psicosomatico, che se ne sta solitario, in penombra rintanato nelle proprie quattro mura sentendo voci e un forsennato bussare immaginario alla sua porta. Questi fantasmi.

L'impianto è leggero ma il sottobosco è trafiggente, scorticante, urticante. Mentre il nostro sconfitto (Alessandro Waldergan ha la gentilezza dei perdenti e suscita l'empatia per i vinti) sta andando in Ungheria a trovare lo Zio, scampato ai campi di concentramento, gli si avvicina un uomo elegantemente vestito di un candido, puro, bianco ariano che tesse le lodi di Hitler e si impegna nello smontare, e bollare come una grande performanceIMG20230126114546.jpg teatrale, la Seconda Guerra Mondiale, le battaglie, gli eccidi, le SS, i milioni di morti, i lager di sterminio. Un complottista-negazionista-Angelo della Morte (Gianni Poliziani sempre più convinto e consapevole dei suoi mezzi) che con arte retorica e doti dialettiche si fa strada dentro la coscienza dell'ebreo che vacilla nelle sue convinzioni, perde i suoi punti di riferimento, boccheggia dentro dubbi atroci. E' un dialogo acido dell'assurdo quello che si scatena tra i due, tra l'arrogante e aggressivo e violento verbalmente tedesco e il timido dimesso ebreo con il senso di colpa IMG20230126114847.jpgdel sopravvissuto. Si ha la netta sensazione del vortice silenzioso, dell'oblio che tutto spazza via, della dimenticanza che fa tabula rasa, dell'amnesia che distrugge le radici.

L'ariano potrebbe essere frutto della mente dell'ebreo per quell'afflizione e tormento atavico, per quel sentimento struggente di eterna sconfitta, di taciturna vergogna. E più lo scambio tra i due si fa incoerente e non-sense e più che l'ebreo ingenuo sembra convincersi delle tesi ardimentose del nazista, mentre il disagio emotivo e fisico aumenta e peggiora fino a fargli perdere i contorni degli oggetti, scordare il suono delle parole per identificarli, i nomi delle cose come quelli delle persone. E' il dramma acre di chi non viene creduto, la tragedia della rimozione collettiva, la malattia sociale che vuole mettere le brutture sotto il tappeto invece che affrontarle. Un testo sfaccettato che mette il sale sulle ferite del nostro tempo, una drammaturgia-prisma che ci graffia sorridendo, che ci taglia sogghignando, un'opera caleidoscopica che ci lacera sghignazzando amara delle nostre paure.

Tommaso Chimenti 30/01/2023

Venerdì, 16 Settembre 2022 18:52

"Secret life": la scienza deve essere morale?

TORINO – Il dubbio è amletico e senza soluzione: alla scienza e al progresso possono essere applicabili norme morali, comportamenti etici, etichette e patenti di giusto o sbagliato? Oppure l'Uomo può, e deve forse, cercare di studiare come poter superare i propri limiti, applicare intelligenza e strumentazioni per gettare uno sguardo sul domani, sul futuro, creare qualcosa che non esiste, sbirciare verso l'ignoto dello sconosciuto per renderlo, appunto, conosciuto e fruibile? L'uomo è fatto e composto di curiosità, senza queste caratteristiche si inaridisce, muore, si secca come un albero senz'acqua. Al tempo stesso qualcuno ci spiega che gli scienziati dovrebbero studiare e inventare e ingegnarsi solo nelle scoperte “buone” per l'umanità, scoperte pure che portino soltanto benefici. Ma chi è che decide e controlla la 1a3f8f5dc285878f1d75d423cdb0f8ee_XL.jpgbontà di queste innovazioni? Non esistono cose né parole né oggetti buoni o cattivi, esiste solamente il contesto, il come, la loro applicazione nel reale. Se costruisco un'arma, quella stessa non sparerà da sola. Un'arma è un pezzo di ferro che può portare alla morte solo se un umano premerà il grilletto. Quindi il libero arbitrio è il cardine ma l'uomo crede sempre, per assicurarsi un alibi buono per ogni stagione, di essere troppo debole e che davanti ad una pistola sicuramente, prima o poi, sarà portato dagli eventi (non dalla sua coscienza e scelta intima) a schiacciare il grilletto rimandando la responsabilità del proprio gesto all'oggetto invece che sul soggetto (lui stesso) che ha compiuto l'atto.

Il regista Manfredi Rutelli ed i suoi LST Teatro scelgono sempre testi con ampie finestre di riflessione, propongono un teatro che tra le righe, negli anfratti delle pieghe, dentro le parole riesca ogni volta a scardinare crepe, aprire spiragli, non dare verità ma concedere il beneficio del dubbio, socchiudendo parentesi dentro le quali approfondire, ascoltare più campane, instillare punti interrogativi di una dialettica mai fine a se stessa ma che spazi all'interno di un ventaglio di possibilità oltre l'ideologia, oltre il pensiero unico, al di là di indottrinamenti e prese di posizione tanto nette quanto ottuse. LST Teatro Secret Life Vita segreta degli umani .jpegIn questo “Secret Life”, testo dell'inglese David Byrne mai proposto né tradotto in Italia prima di questa versione a cura della compagnia chiancianese (presentato all'interno del composito Earthink Festival, rassegna dedicata ad ambiente e sostenibilità, per la direzione artistica di Serena Bavo, dal 9 al 17 settembre in vari spazi torinesi, dall'Atelier Spazio Fisico allo Spazio Kairos, dallo Spazio Cecchi all'Imbarchino del Parco del Valentino fino all'Off Topic e alla Cascina Filanda) attraverso felici incastri temporali si dialoga proprio sul filo flebile e tremolante della scienza che ha sempre il cannocchiale spostato su ciò che non c'è e la morale che tenta non tanto di comprendere il reale ma piuttosto di normarlo, controllarlo, assoggettarlo a regole politiche. Quindi se da un lato lo scienziato studia il possibile, la morale del presente tenta di tirare le redini, frenare, fermare o soltanto rallentare un processo comunque inevitabile e ineluttabile. Non puoi dire all'uomo di non “aprire quella porta” sul futuro, sarà la prima cosa che tenterà di fare.

Fondamentale, a livello scenico ma anche drammaturgico, è stata la scelta di applicare alla scena dei grandi pannelli che hanno una doppia intelligente resa meccanica: possono infatti essere retroilluminati e proporre un'aura, una parvenza, un'essenza che arriva da un altro tempo sperso nell'Universo, ectoplasmi provenienti da altre dimensioni, defunti che dialogano e interagiscono nella linea del presente, oppure ruotare su se stessi, come porte di un saloon, aprendo sliding doors sconosciute, spalancando nuove idee o soltanto mostrando plausibili verità nascoste o anche, come il titolo ci suggerisce, vite segrete. Possiamo suddividere “Secret Life” in tre trance temporali: il professore Bronowsky, personaggio realmente esistito, scienziato e divulgatore (una sorta di Piero Angela, affabile, preciso, didattico e didascalico e al tempo stesso figura positiva entrata in tutte le case grazie ai documentari BBC con il suo fare amichevole e accogliente, spiegando argomenti complicati con un linguaggio semplice e adatto a tutti), la moglie vissuta per quarant'anni dopo la scomparsa del coniuge, il nipote al giorno d'oggi.TeatroAntropocene_2022_07_13_LucaMatassoni_HD_13.jpg

Bronowsky è Gianni Poliziani, presenza predominante, imponente e importante, voce calda e profonda (ci ha ricordato quella del doppiatore dell'uomo d'affari John Hammond ideatore di Jurassic Park), perno dell'affabulazione sul quale ruota tutta la piece, il nipote invece è Alessandro Waldergan nella sua fisicità dinoccolata gioca il suo lato da Paperino, tra lo scoordinato e l'ingenuo, attirando le simpatie della platea, Francesco Pompilio è una valida spalla, il collaboratore dello scienziato, la professoressa è Enrica Zampetti, veramente convincente, una sorta di presentatrice che introduce prima per poi entrare in scena, sempre lucida in questo dentro e fuori, vero ago della bilancia dei vari posizionamenti sul palco, infine la moglie è Clara Galante, precisa, dà colore e pienezza, oltre che ironia.

Si ride di noi, del genere umano, di quello che eravamo e di quello che siamo diventati, da cacciatori sanguinari ad inventori fino ai giorni nostri dove al massimo (non) riusciamo ad aprire una scatoletta o siamo imbambolati tutto il giorno davanti a video di gattini. Anche la decelerazione è un'accelerazione, negativa ma pur sempre un'accelerazione, come a dire che l'evoluzione può avere anche momenti dove sembra che non si stia andando avanti mentre qualcuno sta comunque lavorando per proporre sistemi alternativi, non sempre migliorativi dello status quo ma pur sempre tentando (spesso, forse sempre, per fini commerciali e non per il benessere dell'uomo o del Pianeta, sia chiaro) di cercare altre vie, nuove strade per affrontare il domani nebuloso, a tratti confondendolo ancora di più.

TeatroAntropocene_2022_07_13_LucaMatassoni_HD_26.jpgI pannelli in trasparenza, quasi dissolvenza cinematografica, creano un gap sia temporale che spettrale sia nel differenziare i personaggi in vita, davanti, rispetto a quelli che parlano dal loro passato. Brunowsky era un uomo irreprensibile, onesto, benvoluto e stimato da tutti, collaboratori e telespettatori (un nostro Enzo Tortora, per intenderci) mentre lo scandagliare dentro le sue stanze segrete, portando alla luce i suoi studi sulla bomba potenzialmente devastante per l'Umanità, potrebbero distruggerne l'immagine. Un testo che ci parla di sociologia e antropologia ma anche di quanto siamo disposti a scommettere sul futuro dell'Uomo, di quanta fiducia abbiamo in lui e nelle istituzioni che ci governano e sull'annosa questione del “chi controTeatroAntropocene_2022_07_13_LucaMatassoni_HD_27.jpglla i controllori”. Una drammaturgia che ci porta dentro gli studi sull'umanità e sulla nostra evoluzione, che procede a strappi e ad elastico, “il progresso corre che noi umani si sia pronti o meno”. Ma se si ha paura del futuro e dei suoi inevitabili cambiamenti allora vivremo nel terrore, impantanati nel fango dell'immobilismo, stretti e costretti dentro comfort zone sempre più asettiche e senza ossigeno. Se consideriamo anche la guerra come un frutto dell'ingegno umano (anche Leonardo da Vinci la studiava per rendere possibile la vittoria per i propri committenti) allora anche gli studi di Einstein o Enrico Fermi sulla bomba atomica (in questo ci ha ricordato la piece “Copenhagen” di Michael Frayn) devono essere visti e considerati in quest'ottica. Anche perché l'evoluzione dell'Uomo è andata di pari passo con distruzioni e guerre, l'annientamento dei nemici, l'estinzione di popoli (la storia la scrivono i vincitori) ed “essere umani vuol dire essere dannosi, distruttori e fare di tutto per sopravvivere”, anche attaccare altre nazioni: “Ad Auschwitz e Nagasaki non è stato il gas, sono stati i matematici”. Poi arriva la stilettata finale, vera e preoccupante, più realistica che pessimistica: “Andremo avanti fin quando non arriverà qualcosa che ci farà fermare come specie”. Un testo necessario (ben recitato, il che non guasta) sul nostro passato e sul nostro futuro. Sul presente invece siamo troppo invischiati e coinvolti per poterne fare un affresco super partes.

Tommaso Chimenti 16/09/2022

Foto: Luca Matassoni

 

SANTA MARIA A MONTE – Tutti noi pensiamo di conoscere bene la figura di Garibaldi. L'eroe dei Due mondi, Anita, i Mille, l'Obbedisco, le mille targhe viste in ogni città dove sta scritto “Qui ha dormito”. Eppure c'è molto da dire, da tirare fuori dalle pastoie del tempo, da quello che superficialmente crediamo o abbiamo letto di sfuggita senza approfondire. Nozionismo da cruciverba più che altro, al quale la presenza di Andrea Kaemmerle (che il phisique du role per interpretarlo a dir la verità ce lo ha sempre avuto) e la penna fine di Manfredi Rutelli hanno deciso di porvi finalmente rimedio in equilibrio tra la loro inconfondibile ironia, sagacia senza forzature, e una storiografia documentaristica, mai pedante ma preziosa e precisa, delineando un personaggio tout court che non può essere definito se non compreso nella sua interezza, senza limiti, soprattutto in relazione ai tempi in cui ha vissuto. Una vita eccezionale, fuori dagli schemi, per forza leggendaria, sopra le righe, eccentrica, altissima, morale. (Un intermezzo fuori dal coro e fuori dal contesto: “Garibaldi” era anche il soprannome che Maria Cassi dava al suo (e nostro) caro cuoco/chef/scrittore Fabio Picchi, ideatore e curatore del Teatro del Sale e del Cibreo di Firenze, da poco scomparso, che ci manca e che non dimenticheremo). E poi vogliamo ricordare la canzoncina (vagamente canzonatoria) ritornello-stornello “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda i bersaglier”, declinando tutte le parole con le cinque vocali per far ridere i bambini?Kaemmerle Garibaldi.jpg

Ecco da qui il sottotitolo, “Garibaldi, su una gamba”. Garibaldi colpito da fuoco amico nell'agosto del 1862. Ma la vita di GG è per sua stessa natura eroica, convulsa, piena di accadimenti irripetibili, unici, a tratti impossibili: decine di giri del mondo, viaggi in Giappone, ha abitato a Instambul come a New York, tre mogli, infiniti amori, quindici figli ufficiali, arresti e sempre fughe ed evasioni rocambolesche, parlamentare in cinque Stati sovrani diversi. La coppia Kaemmerle e Rutelli decidono per la via non temporale, non progressiva, non didascalica, senza date né appigli né punti di riferimento nel classico incedere, sua firma e cifra, dell'attore che, nella sua corpulenza che si fa parola e carne, gesti e mani a prendere IMG_2097.jpge calcare e tenere e abbracciare tutta la platea, farla propria, un cunto (tutto toscano) che diventa cascata e valanga a strapiombo fin quando non ti sommerge, ti ingloba, fin quando non si fagocita il pubblico. Ha questo potere Kaemmerle di essere esplosivo, di cullare e mordere, di carezzare per infine stilettare con forza, dolce e rude sembra di sentire la tridimensionalità delle sue parole come polpastrelli rustici su gote vergini. Il pubblico ne è travolto, sempre, e lo lascia fare come un turbinio, come un vortice, come una tromba d'aria in mezzo al mare che tutto trancia portando con sé. Raccontare la vita di Garibaldi è impossibile, una volta capito questo assunto la strada è già in discesa.

Ma questo “Garibaldi” procede in una triangolazione originale: non è il Garibaldi narrato dall'autobiografia vergata da Alexandre Dumas né quello tratteggiato dalla coppia di divulgatori Piero Angela-Alessandro Barbero, ma quello che emerge dal ritratto che ne fa Luciano Bianciardi, altro caposaldo della cultura kaemmerliana. La genesi del play è di ritrosia e di disamore: Kaemmerle, che ama e idolatra Bianciardi, crede che lo scrittore toscano, anarchico e polemico, abbia fatto il generale in camicia rossa letterariamente a pezzi. Invece si ritrova le pieghe delle pagine grondanti di stima, di rispetto per l'uomo, per le idee, per il suo lascito. Quello che colpisce non è tanto la sua lezione in vita, che qualcuno potrebbe paragonare ad un Che Guevara più romantico e un po' più annacquato, ma quanto nel tempo, dopo la sua morte, ad ogni latitudine, si sono prodigati, promossi e moltiplicati i movimenti garibaldini e i garibaldinismi che continuano a tramandare quei valori tutt'oggi, in vario modo, a vario titolo. Garibaldi che in vita era una vera rockstar, un semidio intoccabile e le cui gesta, in un mondo senza grandi mezzi di comunicazione, erano seguite grazie a dispacci e bollettini da più parti del mondo. Era un simbolo indomito, di libertà, di potere è volere, repubblicano, anticlericale, senza posa, senza padroni né padrini.Andrea Kaemmerle (2) LH.png

L'inizio è accattivante con una sorta di confessione di un imputato che, davanti alla Storia, di profilo e con la voce artefatta di un'eco taroccata e meccanica, esprime il suo disappunto di fronte a questo personaggio che realmente nessuno di noi conosce ma del quale abbiamo soltanto qualche piccola nozione sparsa. Ed è vero quello il testo ci dice: “Le statue di Garibaldi ti guardano dall'alto in basso come a dirti Ho fatto l'Italia vedi di non sporcarmela”. Garibaldi, che si è speso e battuto contro il Potere, è diventato nell'immaginario comune, per nostra assoluta ignoranza, il Potere stesso in una traslitterazione che confligge con la realtà degli accadimenti. Kaemmerle, grazie anche all'escamotage del personaggio inesistente, la madre di GG con la quale dialoga, ora è il narratore adesso è lo stesso capitano di ventura: il più grande navigatore, più di Marco Polo, più di Cristoforo Colombo. Il suo primo viaggio per mare, a poco più di vent'anni, è da Marsiglia a garibaldi su una gamba 3.jpgOdessa in barca a vela per caricare del vino. La sua iconografia grafica ci ricorda un po' Gesù, un po' Sandokan e un po' Marx, abbracciando gli estremi, facendo toccare gli antipodi in un unico simbolo. Personaggio mosso da istinti semplici ma proprio per questo il suo messaggio è arrivato in ogni Continente ed è sentito uno del popolo in ogni Nazione nella quale ha messo piede. La Regina Vittoria, così come Marx, non lo vorrà incontrare perché Garibaldi aveva la peculiarità di mettere in ombra chiunque talmente la sua popolarità era ingombrante. Le sue innumerevoli spedizioni vennero foraggiate tra gli altri anche da Verdi, conobbe Victor Hugo, a New York lavorava per Meucci mentre Abramo Lincoln gli scrisse una lettera per assoldarlo come generale nella guerra civile tra Nordisti e Sudisti. Questo “Garibaldi” è una sorta di Zibaldone dove le notizie vengono sparate come pallettoni di carabine e ognuna sembra inverosimile, quanto meno strana o irreale. Una vita avventurosa è il minimo che si possa dire per descrivere quella del Giuseppe Nazionale. Bene hanno fatto Kaemmerle e Rutelli nel riscoprire questa sua imponente figura (teatralmente quasi non affrontata) che tutti crediamo di conoscere (qui la falla della scuola) ma che soltanto pochi hanno percezione della straordinarietà della sua vita sempre in viaggio, sempre in battaglia, sempre pronto all'azione, senza mai tirarsi indietro davanti a nessuna causa, sempre moralmente coerente con i propri valori.

Tommaso Chimenti 12/09/2022

ROMA – Non è un teatro agiografico, anche se è inevitabile l'esaltazione del personaggio, quanto un teatro didascalico che, di questi tempi così magri e bui, male non fa certamente. Un docu-theatre che va tanto di moda oggi, una ricostruzione non progressiva ma sentimentale, come aprire un libro ricco di storie e sciorinare versi e poesie e fatti ed eventi per ricostruire, come una ricca ragnatela un affresco di cuore e pancia, sentito, vissuto, respirato. Già perché la vita avventurosa di Trilussa, anagramma del cognome Salustri vergato sui libroni dell'anagrafe, fa parte di quell'immaginario fumoso e decò che, romani di nascita o studenti di tutta Italia, pensiamo di conoscere e che invece, scavando, ci accorgiamo di sapere soltanto una piccola parte, una irrisoria percentuale degli accadimenti stratificati di una vita eccezionale, di un orfano che, con il proprio talento, arguzia e arte, era riuscito a farcela, ad uscire dall'anonimato, ad emergere, a sfuggire alla fame e alla miseria6f1da9edcbe586fd60eb7aff6ec7daf7_XL.jpg
vivendo sopra le righe, oltre le proprie reali possibilità. Partiamo dal titolo: “La tovaglia di Trilussa” (prod. La Bilancia, visto al Teatro Vittoria) che immediatamente ci porta dentro quell'affascinante e pericoloso, per certi versi, mondo di trattorie e osterie dove il vino dei Castelli non mancava mai e anche i soldi scarseggiavano. Il poeta, che ai suoi tempi era il nuovo che avanza, incarnando il contemporaneo se visto in relazione con il cantore del Belli, sempre a corto di denari (anche quando fu tradotto in Germania come in Argentina) negli ultimi anni della sua vita pagava con un pezzo di carta gialla, che serviva da telo sopra il tavolaccio, scrivendoci sopra qualche rima delle sue, pungenti, acri, salaci, soprattutto vere fotografie scanzonate del reale. Come faceva Antonio Ligabue, nella Bassa Padana, disegnando al ristorante per una ciotola calda di minestra. Il testo, ben condotto tra la commozione e la giusta informazione, sanguigno e intellettuale, scritto da Manfredi Rutelli e Ariele Vincenti (entrambi innamorati di Roma e della romanità), è un viaggio dentro quelle atmosfere a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, un piccolo mondo antico che ci fa sorridere in quel bianco e nero d'antan, di cappelli, carrozze, panciotti e salotti, un'umanità comunque feroce dove le disparità erano lampanti e accettate e dove era la fame la prima occupazione giornaliera ad interessare la gente. Un universo che però, pur in mezzo alle ristrettezze e a due guerre mondiali, aveva prodotto alle nostre latitudini, e in particolare a Roma (nel '36 era nata anche Cinecittà), personaggi del calibro di Fregoli come di Petrolini. Un macrocosmo che si nutriva di povertà per generare arte. 

A IMG-20211014-WA0013.jpgdare voce a questa straordinaria esistenza ci pensa Ariele Vincenti che, nel suo recente passato artistico, ha dato vita alle “Marocchinate” di Simone Cristicchi sugli stupri da parte dei soldati magrebini affiancati agli Alleati a Liberazione avvenuta, oppure a “Ago, il capitano coraggioso” sulla vita del difensore della Roma campione d'Italia Agostino Di Bartolomei. Diciamo che Vincenti ci mette la faccia, ma anche le viscere e l'anima, si appassiona e, mosso da un fuoco e da una ricerca tutta rivolta a rivelare e rinsaldare una certa romanità (anche se mai potremmo definirlo attore “territoriale” ma un “attore di radici”) che si sta sbiadendo, cerca ed ha bisogno di temi forti che lo coinvolgano, lo prendano, lo strappino, lo immergano completamente, lo avvolgano. E così è successo anche con Trilussa (esperimento similare fu messo in scena da Dario Ballantini con Petrolini) dove Vincenti riesce a tirare fuori tutta la sua carica da performer di razza, fumettistico e funambolico, guascone istrionico e guitto esplosivo, caterpillar di parole, mai sopra le righe sempre misurato tra poesia e canzone, stornelli e battute, barzellette e aneddoti toccanti, il tutto centrifugato in un amalgama che fa bene alle orecchie e al respiro. L'escamotage drammaturgico ideato dal duo Rutelli-Vincenti (affiancati dalla consulenza registica di Nicola Pistoia) è stato quello di inserire nella narrazione il personaggio di Remo, figura inventata che però ci restituisce quel calore e vicinanza che altrimenti non avremmo sentito nell'evolversi e nella successione degli accadimenti.

Un racconto che tocca Sciascia a De Filippo, Pirandello e appunto Fregoli e Petrolini fino, incredibilmente a Sandro Ciotti, un raccoIMG-20211014-WA0015.jpgnto spumeggiante e frizzante accompagnato dalle musiche del Maestro Pino Cangialosi a sottolineare (assieme alla scena raffinata di Sandro Giombini), un racconto di satira ma estremamente popolare nella sua accezione più alta, sincera e schietta. Vincenti riesce a tratteggiare, con i colori spontanei e con una mano leggera, la vita eccezionale e stra-ordinaria di Trilussa ricercato da creditori, vigili e strozzini, cercato da mille donne, e dandy e bohemien elegante che si additava le antipatie in egual misura del Vaticano come del Regime Fascista, tra amori e alcool, tra le sue poesie che erano favole e parabole e metafore che sbugiardavano i potenti mettendoli in berlina, che illuminavano piccole grandi verità che consolavano il popolo. Ariele (amatissimo dalla platea), che in ebraico significa “Leone di Dio”, è davvero sicuro e campeggia e troneggia affabile sulla scena, riempiendola, curandola, annusandola, impastandola, facendola sua ogni sera con vigore e generosità, guardandoti negli occhi immergendoti nella sua verità e onestà. Attendiamo una sua ricostruzione anche, ad esempio, su Fregoli (o Sordi o Aldo Fabrizi) per capire da dove veniamo e verso quale buio stiamo velocemente progredendo ad ampie falcate.

“C'è un'ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va…Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa”.

Tommaso Chimenti 24/10/2021

MONTICCHIELLO – “La Terra non è un'eredità ricevuta dai nostri Padri, ma un prestito da restituire ai nostri figli” (Proverbio dei Nativi d'America). 

Uno dei punti cardini del Teatro Povero di Monticchiello è sicuramente la memoria, il passato. Che ritorna. E non possiamo, parlando del presente, di questa 55esima edizione (dal 1967) del teatro in piazza ideato, progettato e messo in scena da una comunità, non pensare allo scomparso Andrea Cresti, regista e drammaturgo che per decenni ha tenuto le fila del progetto e del processo creativo di questa piccola società autonoma che grazie al teatro non solo non è morta ma si è rafforzata, consolidata e conosciuta (Monticchiello è Patrimonio Mondiale Unesco) in Italia e in tutto il mondo. E un altro doveroso omaggio va certamente a Paolo Coccheri, anche se il suo nome non può essere legato all'esperienza di Monticchiello, anche lui deceduto proprio in queste settimane, ideatore lucido e visionario del “Festival di Montalcino”, al quale il regista Manfredi Rutelli era particolarmente legato. La Toscana ha perso due grandi intellettuali teatrali.1 (14).jpg

Memoria, passato, futuro, si intrecciano inevitabilmente. Già la locandina di “Inneschi”, il titolo di quest'anno, contiene una bomba con miccia, all'interno della quale appare il nostro mondo in nero. Ma se apriamo ancora più lo sguardo, quella mina e quella Terra non sono altro che un occhio di un volto (forse artificiale) triste o perlomeno perplesso. Se nel passato (con Cresti) i testi vertevano più su temi di economia planetaria complicata, la coppia Gianpiero Giglioni e Manfredi Rutelli, preferisce da qualche anno parole più semplici, non saggi o trattati messi in bocca a paesani (che stonavano e non erano credibili) ma argomenti sempre complessi ma declinati ad una maggiore semplicità, flessibilità, comprensione. Stavolta è il cambiamento climatico, con le sue conseguenze disastrose, tra cui il Covid-19, e lo scontro generazionale tra chi ha cementificato a favore del capitalismo a discapito dell'ambiente, i nati nel Dopo Guerra nel boom industriale, e i ragazzi di oggi che si trovano a fare i conti con un mondo inquinato, distrutto, sempre meno verde, meno vivibile, con aria, acqua e sottosuolo tossici, messo in pericolo e che tende all'autodistruzione.

Dopo il tent1 (5).jpgativo, riuscito, dello scorso anno di fare del Teatro Povero di Monticchiello un viaggio itinerante tra gli angoli nascosti del borgo della Val d'Orcia, quest'anno si torna in Piazza della Commenda, proprio per intimo volere della comunità, quella “piazza” che per loro è il “teatro”, due termini che qui sono sinonimi. Tra gli spettatori anche due attenti gatti, uno bianco e l'altro rosso che hanno assistito anche a tutte le prove. I componenti di questo paese sono fragili per anagrafe ma non sono stati toccati da nessuna defezione a causa della pandemia. Attori non-attori per una drammaturgia e una messinscena collettiva forte proprio della condivisione, compatta e unita dal portare sul palco, come missione e way of life, le loro domande, i loro dubbi, i loro punti interrogativi sul presente.

Altra caratteristica del Teatro monticchiellese è il suo andare sul doppio binario del passato e dell'oggi come a dirci che il presente è solo una riproposizione ciclica di quello che è stato, pandemia inclusa, e che avendo superato le difficoltà di allora possiamo, senza abbatterci (come ha fatto questa piccola frazione di Pienza decenni fa quando rischiava di scomparire causa lo spopolamento e l'invecchiamento della sua popolazione), farcela anche oggi. L'importante è non camminare da soli, non sentirsi un'isola, cercare approdo e vicinanza negli altri. Si palleggia la Storia tra gli aerei che bombardarono questa zona nel 1944 e i cambiamenti climatici, tragedie esterne che mutano irrimediabilmente la vita degli uomini. Quella vita che ci porta a confrontarci con temi dei quali non conoscevamo l'esistenza e ci costringe a cercare soluzioni per continuare a sperare, a sopravvivere al nostro tempo. Dobbiamo invertire la rotta che ci sta portando all'autodistruzione. Intanto un cane abbaia in audio rabbioso in fondo alla valle, è quella minaccia della quale se ne sente l'eco e il riverbero ma che risulta invisibile (come il virus) e quindi difficilmente contrastabile. L'innesco di “Inneschi” (dal 31 luglio al 15 agosto) è questa bomba-vaso di Pandora ritrovata sul territorio, un qualcosa che covava nella pancia della terra, che macerava e macinava, un veleno che adesso, una volta scoperchiato, può esplodere, letteralmente e metaforicamente.1 (17).jpg

Anche nella finzione scenica monticchiellese, ogni attività viene chiusa ma, a differenza dei nostri mesi passati, quasi un ossimoro, qui le persone sono chiamate a stare fuori (e non chiuse in casa come nel lockdown) perché proprio dall'interno, da noi stessi, dalle nostre scelte sciagurate, che siano la guerra come l'inquinamento e il deforestamento, il pericolo può deflagrare da un momento all'altro. Anche se il boom ancora non c'è stato, la miccia è già accesa e aspettiamo soltanto il crack definitivo per prendere degli accorgimenti validi. Dobbiamo sempre trovarci davanti all'emergenza e al dramma e mai prevenire le sciagure. Ci è venuta alla mente la serie tv scandinava “Katla” dove la cenere di un vulcano ha coperto2 (13).jpg una cittadina islandese risvegliando antichi esseri dal ghiaccio. La bomba è qualcosa che torna a galla, che avevamo nascosto sotto il tappeto pensando che, non vedendola, come fa lo struzzo infilando la testa sotto la sabbia, non ci fosse. E invece le scorie nucleari o i rifiuti tossici torneranno in superficie prima o poi, e il terreno abbattuto o dato alle fiamme per farne appartamenti e resort non potrà più essere recuperato: sul cemento (a differenza del letame) non può più nascere un fiore. Molto interessante la metafora (punto nodale, focale e di senso di tutto il testo) sull'artificiere tanto atteso che prima è un apicoltore (è noto che la vita dell'uomo sul nostro pianeta è strettamente correlata a quella delle api) tutto bardato nel classico scafandro bianco, e che successivamente invece prende la forma di medici anti-Covid. Un triplo rimando.

Ma non solo, in “Inneschi” si mette in scena proprio l'assemblea che è l'humus vitale sul quale e dal quale nascono questi testi che sprizzano dalle diverse anime del borgo, oppure il fenomeno degli “hikikomori”, i ragazzi che, impauriti e delusi dal futuro senza speranza, si chiudono in casa e non vogliono più uscirne. C'è anche un attacco-denuncia agli stranieri che qui vengono a fare business, prendere, svuotare storia e tradizioni, o alle industrie di armi, macchine per uccidere e non per salvare. In tutto questo galleggiano senza ciambella di salvataggio né boe alle quali aggrapparsi i ragazzi, spaesati e disillusi, che cercano la loro strada nel mondo tra precariato, fughe all'estero a cercare miglior fortuna (la storia si ripete), mancanza di prospettive, economie misere per formare una famiglia. Intanto, in lontananza, quel cane continua imperterrito a ruggire, ad abbaiare, a latrare, ad ululare come un Cerbero: è un avvertimento del quale abbiamo soltanto timore ma che non abbiamo saputo cogliere come monito.

Tommaso Chimenti 08/08/2021

CHIANCIANO – “Prima viene lo stomaco, poi viene la morale” (Bertolt Brecht).

La compagnia LST in questi venti anni ha spacciato la sua droga culturale, ha immesso il suo sguardo stupefacente su Toscana e dintorni. Il suo regista, e anima, Manfredi Rutelli, ha collaborato in questi anni con le sue regie al Festival Orizzonti di Chiusi, alla creazione del festival FermentinFesta dedicato alla formazione attoriale e alla direzione del Teatro degli Astrusi entrambi a Montalcino, alle ultime rappresentazioni del Teatro Povero a Monticchiello, e nella direzione del Teatro Caos di Chianciano. E quest'estate si è allargherà fino a San Miniato dove, con Simone Cristicchi in scena, daranno vita al “Paradiso” al Dramma eRnzg3CQ.jpegPopolare. LST dicevamo, Laboratorio Stabile Teatro, è una compagnia teatrale, di quelle che, con sforzo e caparbietà, battono la provincia, i piccoli teatri, quell'off che è linfa. E' la provincia che fa l'Italia, è la provincia che ha più bisogno di idee, di freschezza, di ventate di nuovo, sono i teatrini sperduti che formano questo tessuto, questa ragnatela di rapporti, i cosiddetti “presidi culturali” portati avanti con testardaggine e cocciutaggine da questi gruppi che sfornano attori convincenti, testi contemporanei e portano un po' di luce dove altrimenti arriverebbero soltanto le urla della televisione.

Sempre a cura dell'LST, nei mesi scorsi avevamo assistito a “La Stazione” di Umberto Marino, stavolta hanno messo in scena “Il dio del massacro” di Yasmina Reza, testo portato in tournée nei grandi teatri qualche stagione fa, nella versione con quattro nostrani assi attoriali: Alessio Boni, Anna Bonaiuto, Michela Cescon, Silvio Orlando. Roman Polanski ne aveva tratto il suo affresco cinematografico, spostando la vicenda dalla Francia agli USA, dal titolo “Carnage” con calibri come Jodie Foster e Kate Winslet. Insomma, ce n'erano di punti di riferimento da eludere, di trappole da evitare, di copie da cercare di scongiurare.

Il parco attori a disposizione di Rutelli ha feeling, tempi, buon ritmo e soprattutto amalgama e complicità che, in testi come questo, sono essenziali e in ogni dinamica e scontro si percepisce la velocità d'esecuzione, la cadenza, la cura, le giuste sospensioni, le attese, gli slanci, soprattutto jJJr2uTA.jpegle battute con intenzione; è tutta questa polvere di stelle, tutto questo ammasso invisibile di cose che stazionano shakespearianamente tra cielo e terra che sul palco si animano e danno impulso alla vita in scena che si alimenta dei suoi protagonisti che, come detto, non deludono anzi sono frizzanti, in parte, mai sopra le righe, mai esondanti, sempre nel rispetto del testo e mai cercando di prevaricare il compagno per il fine ultimo dell'ego personale.

Nella conversazione ci si astenga da osservazioni intese a correggere: poiché offendere la gente è facile, migliorarla difficile, se non impossibile” (Arthur Schopenhauer). “Il dio del massacro” (visto in una prova per pochi intimi al Caos) in questione è tutto un gioco sottile di incastri, di cambi repentini d'umore, di scivolamenti, e scivolate a piedi uniti, in bassezze come di grandi discorsi filosofici ad avallare ora l'una ora l'altra tesi; quindi i tempi sono tutto, diventano vitali ed energetici, danno corpo e sostanza alla parola. Teatro appunto di parola questo che vede due coppie di genitori affrontarsi, in un interno borghese, dapprima civilmente, dopo che il figlio di una coppia, identifichiamola come “manageriale”, ha picchiato il figlio della coppia chiamiamola “di sinistra”. Escono fuori rapidamente, dopo situazioni di stallo e finta educazione posticcia messa sul piatto della civile convivenza e parvenza, tutte le differenze di visione del mondo, di status, difendendo ognuno il proprio figlio e quindi, di riflesso, se stessi e le proprie scelte e convinzioni. I figli sono un pretesto, un paravento dietro ai quali nascondersi, quando fa comodo, o esaltarli quando conviene al cognome e al casato.

Tanti cubi smontabili, componibili, spostabili e sovrapponibili (le nostre aree di comfort zone a compartimenti stagni che, per opportunità, possono essere divisi, segmentati o uniti a seconda delle situazioni nelle quali ci troviamo a doverci destreggiare) al cui interno oggetti entrano ed escono, vengono parcheggiati o immessi nella scena come conigli usciti dal cilindro. Cubi bianchi mentre tutti gli altri oggetti che ruotano attorno a questa commedia dark-noir (che parla a tutti noi perché demolisce la nostra società e il politicamente corretto che tanto va di moda rendendoci piatti e scialbi) sono rossi, di un rosso acceso, rosso peccato, rosso sangue, rosso scontro, rosso violento: il telefono, il catino, i tovaglioli, il phon, i fiori, i libri, i piatti, i bicchieri, le ciotole, il cardigan, il lampadario, le unghie, il liquore che stanno bevendo. E' un contrasto cromatico che ci accompagna dall'inizio alla fine mentre sale la tensione, mentre i decibel schizzano, mentre l'atmosfera si surriscalda e diviene bollente e urticante.

Enrica Zampetti (energica, soprattutto nel finale) e Alessandro Waldergan sono la coppia più agiata, soprattutto il secondo (fisicamente, e per timidezza e garbo e gentilezza e postura, ci ha ricordato lo scrittore Fabio Genovesi), che abbiamo apprezzato in svariate versioni, è sempre lucido, pungente, centrato nei cambi di registro, ha tatto e precisione nelle battute come è ficcante nelle punzecchiNgY4pkTA.jpegature mantenendo concentrazione senza perdere mai di vista il fine ultimo del teatro: il racconto, il passaggio, la storia, il personaggio come ingranaggio. Mihaela Stoica (molto attiva e presente, dà il cambio di passo ai vari momenti, è il la, la spinta, l'incipit della valanga) e Gianni Poliziani (tiene il polso della situazione, è il metronomo, dirige dall'interno le operazioni) sono invece la coppia più riflessiva che però mostrerà, messi in discussione e sotto pressione, il loro lato oscuro e isterico. Un gong, come sul ring, chiude le scene e apre immediatamente al cambio di climax: le coppie si confrontano e adesso sono schierate l'una contro l'altra ma i ruoli si invertono e gli aggressori diventano aggrediti, i boia declinano nelle vittime, i carnefici ribaltati nei sacrificati, oppure la solidarietà maschile cementa gli uomini come quella femminile unisce le due signore contro le idee dei due coniugi, le alleanze si consolidano così come le coalizioni si sfasciano. I piani si ribaltano velocemente e le fazioni si creano come precipitosamente si sfaldano, basta una parola o un silenzio per far scattare qualcuno o allontanare un, fino a quel momento, sodale. Le frivolezze e le buone maniere lasciano il posto alle accuse e un salotto compunto diviene terreno di scontro e battaglia, agorà dove far rispettare le proprie usanze, dove gli altri non sono solo avversari ma anche nemici, dove mors tua vita mea diventa motto da urlare sul campo di Marte.

Anche chi è largo di vedute e progressista presto scende dal piedistallo delle sovrastrutture dell'educazione e delle buone maniere per atterrare volentieri sul terreno scivoloso della violenza, della minaccia, della forza. Si vogliono dare lezioni a vicenda, i toni si alzano e l'inciviltà prende il posto della compostezza. Gli uni sottolineano agli altri le mancanze dei loro figli e quindi della loro famiglia che viene continuamente messa in discussione. r3cFdy2w.jpegI “pacifici”, sulla carta, diventano così provocatori, gli “aggressivi” rintuzzano e colpiscono in contropiede, si puniscono miscelando finta moderazione e calma apparente con crisi nervose e attacchi impulsivi all'arma bianca, insinuazioni e scuse, prediche e offese, colpe e sfide in un'altalena di sensazioni e sentimenti che chiedono alla platea, continuamente, di posizionarsi e schierarsi adesso con l'una ora con l'altra coppia. Un testo che ti tira per la giacca, ti smuove e ti scuote perché parla del nostro Occidente imploso, del nostro voler regolamentare anche la violenza dentro “canoni accettabili”, di voler legiferare ogni aspetto della vita rendendola noiosa, paludata, fangosa e soprattutto falsa e pesante. Diventano cinici, cattivi, corrosivi: in definitiva sono/siamo criceti dentro la nostra ruota a correre a perdifiato per non pensare, intenti a non renderci conto, dolo(ro)samente, la reale forma della nostra condizione, animali all'ingrasso che devono bruciare energie e aggressività altrimenti si estinguerebbero.

Il fatto che l’uomo sappia distinguere il giusto dallo sbagliato prova la sua superiorità intellettuale sulle altre creature; ma il fatto che egli possa agire in modo sbagliato prova la sua inferiorità morale rispetto a qualsiasi creatura che non può farlo” (Mark Twain).

Tommaso Chimenti 17/04/2021 

MONTICCHIELLO – Vivere d'istanti e non distanti, vivere d'istinti e non distinti. A volte un apostrofo fa la differenza, è il senso, il nesso che esplica, che potenzia, illumina, fa esplodere ed emergere. Il Covid non ha fermato il Teatro Povero di Monticchiello ma lo ha solamente cambiato, mutato, modificato, destrutturato forse in una chiave da prendere in considerazione anche per le prossime annate. Invece che il palco frontale in Piazza della Commenda, come di consueto, quest'anno sono state predisposte varie stazioni, una sorta di Via Crucis senza tragedia, o “Isole” come le hanno chiamate i drammaturghi Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli (riuscitissimo il loro esperimento), fino a far diventare l'appuntamento in Val d'Orcia una piece itinerante per piccoli gruppi scaglionati. Sicuramente più movimentato e interattivo, si ha l'impressione di prendere la cittadina percorrendola, di tastarne con le suole le pietre antiche, di scrutare le porte, godere dei suoi angoli nascosti, i gerani alle finestre, di toccare con mano palmo a palmo i metri, le facciate, i lampioni, ogni dettaglio che altrimenti sfuggirebbe. L'impostazione di quest'anno (diminuite le repliche, se prima erano dal 25 luglio al 15 agosto, quest'anno si è preferito accorciare dall'1 al 15 agosto) va incontro anche alle nuove generazioni che hanno bisogno di più freschezza e meno staticità. E' “Isole d'istanti” (54esima edizione dell'autodramma dei cittadini di questa preziosa gemma a sette chilometri da Pienza), flash di vita quotidiana che, come voyeur, osserviamo affacciandoci alle loro finestre, buttando l'occhio interessato alle “vite degli altri”, entrando nel loro quotidiano.116879851_1418053745072609_2663525803923806433_o.jpg

Tredici stazioni (un'ora e mezzo il cammino teatrale) partendo proprio da fuori le mura e attraversando simbolicamente quella Porta che ci fa entrare nella magia del sogno, nel solco del segno del tempo che si è fermato e che riemerge a respiri, a boccate, a momenti, riportandoci dentro bolle sospese. Si cammina, ci si ferma, si ascolta. Intanto il panorama della Val d'Orcia stordisce per bellezza, ci abbraccia a perdita d'occhio, sembra non finire, si vedono come puntini cipressi e olivi a impreziosire la tela baciata dal sole. Il fil rouge di fondo è lontano, fortunatamente, da tante elucubrazioni che negli anni avevano infarcito i testi monticchiellesi, soprattutto i massimi sistemi dell'economia e temi sociali messi in bocca ad attori non professionisti, dialettali, stonavano e divenivano non credibili. Invece stavolta è la semplicità delle scene che ha reso questo nostro 116892752_1418052368406080_7152040079617485786_o.jpgwalking tra pozzi e finestre, tra giardini ed orti, un lungo respiro, commovente e sincero, vero, che è andato a sondare le radici di questo luogo, a toccare l'anima antica di queste persone che inventandosi il Teatro Povero hanno fatto ricco, di spirito e di attenzioni, il loro borgo e noi che siamo fedeli osservatori.

Non può mancare una riflessione sul coronavirus che diviene metafora di assedio, di dentro e fuori, di difesa e chiusura come di accoglienza. I bambini sono stati tra i più colpiti e i meno considerati nel dibattito nazionale e al netto dei decreti attuativi: “Non ci possiamo nemmeno toccare”, brilla come un esplosivo, e poi: “Prima ci dicono di starnutire nel gomito e poi, per salutarci, ci dicono di darci il gomito”, geniale. Si passa poi alla grande dicotomia, a livello ministeriale, tra turisti e spettatori, con i primi ben accetti, perché devono spendere, e i secondi messi in disparte. Ma il teatro da queste parti non è e non è stato soltanto palco, recite, testo da imparare, costumi da cucire, luci da puntare; il teatro è stato la molla, il cardine, è divenuto la comunità stessa, il perno, a volte il pretesto, attorno al quale ruota da oltre mezzo secolo la cittadinanza di Monticchiello: “Se non ci incontriamo non esistiamo”, urlano con un filo di voce. Poi ci sono i ragazzi (nuovi hikikomori) che si sono abituati allo stare chiusi in casa, le quattro mura che accolgono e che fiaccano, che consolano, che ovattano, che proteggono dai problemi del mondo là fuori, che tengono al riparo dal relazionarsi con gli altri, meglio un videogame, la realtà virtuale o le chat dove tutto sembra vero ma non lo è, dove tutto è impalpabile.

Presente ma anche il passato si affaccia aprendo le persiane; ecco i ricordi dei matrimoni in casa o il cinismo dei padroni contro l'ignoranza dei mezzadri. Presente, passato ma anche futuro: 117035948_1418054611739189_6689255727403117703_o.jpgtristemente divertente l'episodio della “Bank of Valdorcia” (da sottolineare la prova di Pierluigi Bonari) che vuole convincere a trasformare queste terre cariche di storia e natura in resort e palazzi, relais e tower, facendo investimenti, rilasciando bot, facendo prestiti, modificando il territorio, modernizzandolo, snaturandolo, cementificando. Il momento più emozionante è quello nello spicchio angolare dove un maestro insegna, siamo ad inizio Novecento, a tre bambini. Il maestro è Arturo Vignai presente fin dalla prima edizione del '67 e che mai ha saltato un anno (ha 87 anni e tanto da raccontare). Una frazione delicata, una pennellata, una carezza tenera e calda che finisce in un abbraccio sentito, vicino, gonfio. Non può mancare una critica all'ecologia radical chic, di quelli (buona presenza quella di Alessia Zamperini) che hanno scoperto l'orto e il bio, di quelli che vogliono 117120011_1418054395072544_3491979561980374262_o.jpgtornare alle radici, alla terra, a coltivare, ai lavori con le mani e poi continuano ad inquinare, a rilasciare plastica nell'ambiente, a sporcare, contaminare, deturpare, riempiendosi la bocca con falsi proclami che poi, alla luce dei fatti, dissentono e non rispettano.

Ci si sposta veloci in questo Giro del Paese in 90 minuti, agili come api sulle corolle, scivola via lasciandoci sulla pelle un profumo buono di Storia, di Vita, di sano. Imprescindibile il sindaco con le sue continue dirette facebook, un primo cittadino che sbaglia le parole (alla Cetto Laqualunque), ora siamo immersi dentro una banda felliniana che suona dietro ad un funerale (da ricordare Daniele Mangiavacchi, sempre grande presenza) fino all'emozionante chiusura, proprio in quella piazza che ogni estate zampilla di pubblico e calore, di applausi e parole, che quest'anno è vuota e desolata, buia e sgombra. Una signora (Rosanna Picchiacci intensa) parla con una sedia vuota davanti a lei, con un amico immaginario, fin quando non si apre una porta (un'altra porta, come all'entrata) che ci “vomita” fuori, ci restituisce alla vita, fuori dal sogno, da quest'atmosfera ovattata e crepuscolare, nitida e ombrosa allo stesso tempo, lontana come nostalgia e pulsante come un battito.

Tommaso Chimenti 09/08/2020

CHIANCIANO TERME – Qualche giorno fa abbiamo trattato, raccontato e scritto del lavoro di Andrea Kaemmerle che tra Bientina, Casciana Terme, Volterra e Utopia, dislocata su tutto il litorale tirrenico, ha creato, con fatica, sudore e impresa, un suo pool d'attività che va allargandosi. Un parallelo può essere costituito attorno alla figura di Manfredi Rutelli che tra Chianciano Terme, dove ha la direzione del Teatro Caos, Monticchiello con il Teatro Povero, ultimi due edizioni alla drammaturgia e regia condivisa, Montalcino, con la direzione del Teatro degli Astrusi, e Chiusi dove al Festival è regista della produzione annuale, ha costruito il suo raggio d'azione, il suo solido spazio dove creare, progettare, organizzare. Che a Chianciano prima ci si andava soltanto per le terme (le rinnovate, 9695_manfredi-rutelli.jpgampie, comode Theia, con due piscine interne ed altrettante esterne con temperature a 33 e 36 gradi: relax garantito e assicurato), adesso è possibile abbinarvi un intrattenimento serale di qualità per completare la vacanza o il week end. Dicevamo figure simili (Kaemmerle e Rutelli; si spera che presto o tardi realizzino un progetto comune) che si rimboccano le maniche con un lavoro maniacale e artigianale, partendo dal basso, con poche risorse ma tante idee.

Una lst.jpgdi queste è la novità “Quizas, Quizas, Quizas” (testo e regia di Rutelli, produzione LST) che prende le mosse dal motivetto omonimo, qui diventato refrain che ritorna prepotente e assillante, canzone cubana che ha avuto illustri e innumerevoli cover dal '47, anno della composizione, ad oggi. Sta tutto qui, tra le pieghe del testo della canzone: “Stai perdendo tempo, pensando, pensando a ciò che più desideri, fino a quando, fino a quando? E così passano i giorni ed io mi dispero e tu rispondi Chissà, Chissà, Chissà”. E' in questo stallo, in questo immobilismo esasperante, in questo precario equilibrio claudicante che si sviluppa la vicenda che apre molte riflessioni sull'oggi, sulla situazione sociale contemporanea come sui suoi riflessi esistenziali che toccano tutti. Tutto può essere visto nella sua accezione reale come in quella metaforica, come una medaglia dalle due facce egualmente ed equanimemente parallela: una donna rimane bloccata in un ascensore.

Non è semplicemente una donna: è una cinquantenne che ha perso il lavoro e che adesso sta andando ad un colloquio di lavoro con un'agenzia interinale per essere “ricollocata” nel mondo del lavoro. Non soltanto: la donna è separata ed ha una figlia alla quale ha dato tutto e davanti alla quale non si è mai fatta vedere debole, una figlia che vuole aiutare a non fare i suoi stessi errori e sostenerla per farle raggiungere i suoi obbiettivi e desideri, cercando quella felicità, lavorativa e personale, che lei stessa ha messo in secondo piano prima per la famiglia e successivamente proprio per la ragazza. I rimpianti diventano un “chissà”, in questo vago futuro che le si prospetta davanti, nebuloso, confuso, incerto, fatto di vedremo, mai solido, mai duraturo, sul quale è impossibile fare affidamento, mettere le basi per un domani migliore. In qualche modo, perché monologo d'attrice e per la tematica di fondo, la perdita dell'occupazione, ci ha ricordato “Gli ultimi saranno i primi” di Massimiliano Bruno che portò, prima in teatro e poi al cinema, una superba Paola Cortellesi.QUIZAS-19-0102.jpg

La donna sospesa, letteralmente, in questa scatola, appesa a cavi d'acciaio, si confessa al pubblico in un monologo a cuore aperto dove passa in rassegna la propria vita e soprattutto i fallimenti in questa situazione di claustrofobia e costrizione che le ricorda la sua stessa esistenza fatta di infiniti obblighi, una rincorsa continua con il fiatone senza mai potersi rilassare, sempre stanca, senza mai un grazie, una pacca sulla spalla, un aiuto, un incoraggiamento. A “farle compagnia” in questa piccola, ennesima sventura, appaiono, in audio attraverso l'interfono, il custode del palazzo, un pompiere, il consulente del lavoro, altri uomini che non la capiscono, che non colgono il punto, che travisano, che non ascoltano le sue esigenze, che ironizzano, drammatizzano, sottovalutano nell'incomprensione più assoluta.

Nel testo di Rutelli, ben bilanciato tra un'ironia rassegnata e un realismo amaro, si fa riferimento a licenziamenti all'interno di un'azienda di calze, e la mente non può che volare alla vicenda Omsa. La precarietà nella vita di Anna (questo il nome assunto dall'attrice Cristina Aubry che si porta con forza sulle spalle il peso di un monologo non semplice) è condensata in questa situazione grottesca, sospesa a metri d'altezza dentro una scatola di latta dalla quale non può fuggire e dove anche i ricordi, del marito, della madre, fanno soltanto male e riaprono vecchie ferite mai rimarginate: “Cosa cambia se esco?”, si chiede in presa all'insoddisfazione più Progetto-senza-titolo-1.pngcompleta, mentre problemi, preoccupazioni, pensieri si sono mangiati l'entusiasmo per questa possibile, tentata nuova rinascita. I suoi ricordi sono un continuo Sliding Doors (ritornano le porte che a volte si aprono spalancando scenari, altre, come in questo caso, si chiudono, emarginandoti) sulle possibilità-opportunità, sulle infinite occasioni perdute. Adesso appare tutto troppo tardi: “Non ho più vie d'uscita”, sconsolata, quando anche la rabbia sembra passata, “Non so neanche se voglio uscire da qui”, lancia sul piatto svuotata. Ma non tutto è perduto, chissà, chissà, chissà...Perché non è finita fin quando non è veramente finita.

Tommaso Chimenti 03/12/2019

MONTALCINO – Riprendendo e recuperando la tradizione che nelle decani scorse aveva visto a Montalcino un importante festival di studio e formazione teatrale, il regista Manfredi Rutelli, romano ma da molti anni di stanza a Chianciano, ha ideato il "FermentinFesta" (5-8 settembre), luogo magico tra Storia, Natura, un vino conosciuto ed esportato in tutto il mondo, la Fortezza, i chiostri. Mostre, incontri, esiti di laboratorio (a cura di Carrozzeria Orfeo, Silvia Frasson, lo stesso Rutelli e Francis Pardeilhan), presentazioni di libri, premi, le conversazioni con il alessandro-serra.jpgregista Alessandro Serra, reduce dopo il Premio Ubu e l'ANCT anche da due Premi "Le Maschere" per il suo folgorante "Macbettu", e quella con l'attore Francesco Acquaroli che, dopo "Dogman" di Garrone e dopo aver interpretato Samurai nella serie Netflix "Suburra" (due stagioni, prossimamente la terza), è in procinto di volare a Chicago dove per sei mesi sarà impegnato nelle riprese della quarta stagione di "Fargo". Ospiti d'eccezione ed eccezionali.

Insomma francesco-acquaroli-5-foto-norbert.jpg"Fermenti" non ha certamente deluso le alte aspettative. Già si pensa al prossimo. Vibrante e commovente "Stiamo rinconcolti", spettacolo nato dal laboratorio di Silvia Frasson, sua la drammaturgia sugli appunti autobiografici dei sei non-attori coinvolti, bravissimi e intensi, tra i mattoni di un cortile di podere che sapeva di polvere, di aia, di sterrato, di nuvole e piccioni sopra i fili della luce a prendersi il vento della sera. Rinconcolti, nel dialetto di queste parti, significa vicini, raccolti, ma contiene in sé quel ruspante, quel ruvido, quei polpastrelli e quegli abbracci a cercare calore, una vicinanza che non è soltanto fisica ma anche interiore, come un andare, pur rimanendo fermi, nella medesima direzione.

In sei (un solo uomo) guardando di fronte a loro verso un panorama lontano perso nelle loro autobiografie, in un passato ingiallito ma che, appena nominato, ritorna prepotente a bagnare le palpebre, a far luccicare le retine, ad asciugarsi il naso con la manica, come si faceva da piccoli. Sei storie, che poi sono le storie di un'Italia contadina, sincera, vera, anche povera, materialmente, ma ricca di umanità, di scambi, di quella vicinanza che la città d'asfalto e ferro, di cemento e lamiere e clacson, ci ha sottratto. Sei narratori a tessere la storia universale dell'uomo, persone e non numeri, donne e uomini che si Silvia-Frasson-Actress_238.jpgchiamavano con i soprannomi, e il giorno cominciava e finiva con il Sole, pochi grilli per la testa (i grilli stavano soltanto nel campo), pochi fronzoli, una vita certamente più spiccia ma più tattile, terrena, zolle e non voli pindarici di influencer. Sei sedie a guardare contemporaneamente davanti a loro ma dentro e dietro di sé. Sono a veglia. Stanno. Molti silenzi, qualche parola sul giorno appena trascorso, sul lavoro sempre duro, sul domani che non riserverà sorprese, se non negative. E poi buio e lucciole (e subito si va a Pasolini) e ancora un silenzio pieno, spesso, corposo ma senza imbarazzi, non da riempire per forza.

C'è la signora che fin da piccola veniva d'estate da Torino, prima con la madre poi da sola, a trovare il nonno che arrivava a prenderle in lambretta. Erano anni di brillantina, del "vestito buono". E c'era il cielo blu e c'erano i cipressi, il grano e gli odori della campagna. Dopotutto da queste parti non è cambiato molto il paesaggio. E l'odore del pane di paese è tutt'altra cosa rispetto a quello di città. Tema di fondo: "Servi e Padroni". E se i servi faticano tanto, troppo, sempre, senza sosta, le soddisfazioni che traggono dalla semplicità sono infinite, indescrivibili. Che i padroni nemmeno se le immaginano, troppo concentrati sull'avere e poco sull'essere. Se vieni dal basso certe cose le puoi apprezzare, se le hai sempre avute le dai per scontate, non le puoi sentire fino in fondo, ne perdi il gusto.

C'è la signora che ci racconta che a casa sua era la nonna a comandare. Il nonno teneva i soldi ma li gestiva la nonna. E una volta al mese si andava al mercato a Siena con la corriera: praticamente un viaggio. Andare in città. Si andava e si tornava velocemente, la città non era la campagna, non si conosceva nessuno, poteva essere pericolosa e ci si sentiva insicuri a camminare per quelle strade così diverse. Andare e tornare, un lampo e fuggire verso le cose conosciute. E al mercato si poteva comprare solo lo stretto necessario, mutande, calzini. Nessuna concessione al lusso, allo svago, alla moda, agli sfizi, che i soldi erano pochi e dovevano bastare per tutti. Ma la nonna è golosa e una volta scoperto "il bacio di Siena" i viaggi in città diventano settimanali. Il gusto di quel cioccolatino, che era insieme tabù e segreto tra nonna e nipote, quello sgarro complice delle ferree regole patriancali aveva un sapore e un aroma che non può tornare, rimane scolpito nelle endorfine, nelle sinapsi del cervello: niente potrà essere uguale, niente più buono di quella divagazione, di quella fuga tra donne. Ed era proprio l'impossibilità di poter avere sempre, ogni giorno, il dolcetto prelibato che faceva scattare la gioia immensa di poterselo permettere, di darsi quel premio che quotidianamente la vita ti negava facendoti lavorare a schiena curva con molta fatica e preoccupazioni e poche soddisfazioni.

Ecco fermentinfesta.jpgl'uomo che ricorda il trasloco dalla vecchia casa di campagna ad una più grande con giardino, il trauma delle proprie cose impacchettate, dei ricordi messi in scatoloni e impilati, con la nuova casa che non dà la felicità, che non fa scomparire gli incubi.

Ecco la signora (grandi tempi comici e ritmo, pause, scrittura chitiana sanguigna e feroce) che abitava in campagna a Scandicci e Firenze era lontana, era diversa da dove abitava, era un'altra cosa. Il racconto sui bambini "parcheggiati" sotto lo sguardo vigile e torvo della nonna, inflessibile Cerbero. Di fondo si muove una brutalità normale diffusa, disseminata tra le cose, che scivola e non fa prigionieri: "I bambini non servono ma non devono dare noia" o ancora "I bambini sono un altro tipo di animali". Bambini reclusi e "prigionieri" sopra una coperta dalla quale non si potevano allontanare, come un recinto ma senza sbarre, fintamente liberi. Scappare era impossibile perché la nonna se ne accorgeva immediatamente e allora arrivavano i guai e le punizioni. Ma una volta la nostra piccola eroina ribelle fugge e riesce a raggiungere il pollaio che mai doveva essere lasciato aperto altrimenti oche e galline sarebbero uscite. E da piccoli si vuole fare proprio quello che ci è stato detto di non fare assolutamente. Apre il pollaio e un'oca, beccandola, scappa e non si ritroverà più. "Quando a scuola la maestra ha chiesto: Scrivi che cosa vorresti fare da grande, io ho disegnato un'oca".

Infine l'ultima che, nel solco delle differenze tra ragazzi di città e ragazzi di campagna, affronta gli amori estivi con quella leggerezza spensierata prima, quando ancora non c'è la malizia adolescenziale, e con l'amarezza nostalgica al momento di separarsi, fino all'anno successivo quando chiudevano le scuole e si aprivano tre mesi pieni di giochi, corse, rincorse a diventare adulti: "Spiagge dipinte in cartolina, ti scrivo tu mi scrivi, poi torna tutto come prima, l'inverno passerà fra la noia e le piogge ma una speranza c'è che ci siano nuove spiagge".

Tommaso Chimenti 11/09/2019

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