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Lunedì, 01 Novembre 2021 13:39

L'"Anima!" degli animali e le bestie umane

GENOVA – Conosciamo Simone Perinelli (e conseguentemente anche Leviedelfool, ovvero Isabella Rotolo) dai suoi esordi, dopo aver lasciato l'approdo latiniano ed essersi messo in proprio, stanco di non riuscire a raccontare il suo orizzonte interiore, il suo universo così variegato. E crediamo che la sua dimensione dove meglio possa esprimere e far emergere il suo talento (attenzione, non stiamo parlando di comfort zone) e dare colore a tutte quelle sfumature che gli abitano dentro sia il monologo, i suoi deliri spiazzanti, debordanti, colmi di poesia e stupore, incredulità e magia che lo avvicinavano ad un Celestini, come atmosfere 4CE3E1F9-5544-44C5-8BDF-231D020A589E.jpegromane e come costruzione del racconto circolare, ma più visionario, meno incasellabile, che sfuggiva ad ogni definizione data. Di rara potenza i suoi “Yorick”, “Requiem for Pinocchio” e “Luna Park”, ai quali, nostalgicamente, siamo ancora visceralmente affezionati e ci è rimasto negli occhi come riempiva la scena, come le sue parole calavano come scure sul palco e da lì alla platea creando un magma permeante e duraturo nel tempo, una sorta di alchimia che legava corpi e materia attraverso suoni e parole. Perinelli era una felice overdose nella quale lasciarsi pungere e cullare.

Poi è arrivata Pontedera Teatro (in quel momento salvifica, che li ha proiettati in un circuito differente) che ha dischiuso produttivamente la via della collettività a Levidelfool, aprendo certamente nuove possibilità e immensi territori strumentali da sperimentare ma, di fatto, snaturando l'anima solitaria del suo frontman rock che in queste opere a più voci (“Made in China”, “Heretico” e “Baccanti”) ha suddiviso le sue digressioni in tanti alter ego, in una drammaturgia frazionata e sezionata a quadri, scena curatissime, d'impatto, raffinate, rarefatte, perfette cartoline, forse troppo ricercate per raccontare quel mondo nebbioso e opaco, affascinante e tenebroso, che hanno dentro che con i colori e la pulizia formale un po' si perde, si sfibra, si slaccia, si squaglia. Ci manca quella primordiale imperfezione artigianale.

Ar3022BF5E-9A89-4700-8F9B-3A9A99AB5B99.jpegriviamo dunque a questo nuovo “Anima!” (prod. Teatro del Carretto, Fondazione Luzzati - Teatro della Tosse) visto in una Genova che, tra le strutture impossibili di Escher, il dramma dei milioni di alberi abbattuti dalla tempesta distruttrice Vaia e la poltrona gigante di stracci in Piazza De Ferrari, è sempre una bella boccata di respiro salubre e salmastro che spariglia le cose rimettendole in un nuovo ordine. Peccato che l'unica replica (una sola!) fosse al Teatro del Ponente, a Voltri, lontano da tutto (20 km e un'ora di traffico) e da tutti, dalla bellezza, dalla gente: un problema di logistica difficile da incastrar825755DB-D554-46DA-BF24-48DA3A0DB92D.jpege con la centralità della Tosse. Il format, che si ripete, ricorda molto da vicino gli altri tre lavori corali precedentemente visti: in questa serie di scene ben architettate, artificiali, tutta questa forma ci distrae, ci porta lontano quando sono proprio le parole di Perinelli (scrittore elegante e affilato), che ci hanno sempre attratto, ad essere e a dover tornare protagoniste assolute. Accompagnato da Sussanah Iheme, Ian Gualdani, Alessandro Sesti, attori e danzatori ben miscelati, nel disegno luci sempre d'altissima qualità di Gianni Staropoli, e soprattutto grazie alle maschere di animali (artigianali e futuristiche) curate magistralmente da Francesco Givone, Perinelli (che sempre più ci ricorda Franco Battiato nel periodo nel quale “la barba col rasoio elettrico non la faccio più”) ci introduce e ci porta con sé in un suo viaggio all'interno dell'anima.

Il teatro, B0425849-3FDD-4B57-9515-86D3A46C9521.jpegcome l'arte in generale, dovrebbe essere comunicativo, riuscire a farsi ponte e passaggio; “Anima!” invece, a nostro avviso, soffre di un'impermeabilità eccessiva, di una chiusura che non lascia pori aperti, di uno scudo concettuale troppo spesso e solido per far partecipare altri soggetti alla festa. Questa frontiera ci tiene separati, lontano, CC764405-59E9-481C-A1D5-B7AF87A3EEA7.jpegdistanti e non ci fa accedere alla infinita mole di dati e documenti, di trattati e pensieri che sono stratificati nella stesura della drammaturgia, alta e intellettuale ma troppo ricca e sovrabbondante di segni e lirica criptica (1h 40') per un ascolto più fruibile e scorrevole. Ne emergono affreschi e cornici, si ricordano oggetti, flash e lampi nel deserto, come luci stroboscopiche che inquadrano e illuminano un blocco per poi nel buio perdersi e liquefarsi, diradarsi nella nebbia. Una sensazione netta di lentezza ci attanaglia, ci acquieta. Ci sono le maschere dei gatti (Perinelli e Rotolo abitano a Calcata dove placide abitano le famose e rinomate colonie feline del luogo) che sembrano catapultarci dentro il musical “Cats”, adesso le maschere di cavallo e di volpe. O manca qualcosa o c'è troppo, l'equilibrio sfugge. Il dottore con la testa di coniglio e il gorilla in carrozzina, il panda con la flebo, il lupo macellaio, il maiale col girello in uno zoo che incuriosisce ma ci lascia freddi. La riflessione di fondo potrebbe vertere sugli allevamenti intensivi? Non ci è dato saperlo. Poi arrivano la gallina, il gufo e l'uccello dal becco a scarpa, fino alla poetica farfalla filo conduttore per una fattoria degli animali pinocchiesca. Certo è che il verbo “animare” significhi dare vita e che il sostantivo “animale” ha la stessa radice di anima. Gli animali sono la parte più pura tra tutti gli esseri viventi, proprio perché non conoscono il bene e il male ma seguono soltanto la natura e l'istinto, a differenza degli umani, le vere bestie. Inoltre troppi finali affaticano. Dopo il “teatro da mangiare” delle Ariette nasce il teatro vegetariano de Leviedelfool?

Tommaso Chimenti 01/11/2021

SANSEPOLCRO – Guardi il cartellone del festival di Sansepolcro e rimuovi il pensiero sul Covid e su tutti i danni che, a cascata, sta procurando (e la valanga che nei prossimi mesi porterà nuovi scompensi) al settore dello spettacolo. Un calendario fitto, pieno, denso, corposo, una settimana d'immersione tra le pietre antiche del comune di Piero della Francesca, che quest'anno compie i 500 anni dalla fondazione, e l'innovazione delle performance che, fin dal suo debutto-scommessa (ampiamente vinta), diciotto anni fa, Lucia Franchi e Luca Ricci, i due direttori artistici, scelgono, portano, accompagnano, supportano con un lavoro costante che ha la sua esplosione nell'ultima settimana di luglio ma che anche durante l'anno illumina di cultura la Valtiberina. Innovazione e Tradizione i due capisaldi sui quali ondeggia la rassegna dove è facile scovare le novità che saranno, le tendenze che si faranno, i gruppi alle prime armi in mezzo a consolidati fenomeni. Padrino omaggiato del festival un'icona del nostro teatro contemporaneo: Roberto Latini. A lui è stata dedicata una mostra, un convegno, un premio, le letture dei testi dei suoi allievi di un corso di drammaturgia internazionale, riprese di spettacoli storici; un successo. Piece fino a notte fonda tra chiostri e angoli ritrovati, riscoperti, fresche mura secolari dentro le quali cullarsi, nascondersi, sognare. “Viaggio al termine della notte” è l'insegna di quest'annata bislacca e bisestile, la notte c'è stata, c'è, dal sapore koltesiano, ma noi ci passiamo dentro, attraverso, non vogliamo averne paura e rimanerne esclusi, autoemarginati, lontani, un viaggio che non è di piacere ma è di conoscenza e scoperta, dantesco potremmo dire, fuori e dentro noi stessi, le nostre radici, le nostre comunità di riferimento, i territori, con consapevolezza e presa di coscienza. La notte dobbiamo illuminarla, con le torce della ragione. Nella nostra analisi ci soffermeremo su quattro interessanti proposte che, per ragioni diverse, ci hanno solleticato,Quotidiana.com-foto-di-Antonio-Ficai-5-2.jpg incuriosito, attirato, avvinto.

L'analisi della realtà, dei suoi conflitti e delle sue crepe sono i nodi sui quali lavorano da sempre i Quotidiana.com, duo riminese che sfalda la banalità, s'intrufola nei nostri tempi bui e grigi, tenta di dar luce (a volte fuoco) alle pochezze e piccolezze del nostro immaginario collettivo. Ci svelano, ci scompigliano, ci scuotono. La loro poetica è intrisa di cinismo e sarcasmo, di freddezza come di fine intelligenza. Questo “Tabù” ha per sottotitolo la frase più bella di tutta la drammaturgia: “Ho fatto colazione con il latte alle ginocchia” che ricorda la noia, espressa anche dalla loro (non) recitazione neutrale-candida senza accenti che spiazza, ma anche il sesso dal quale parte tutta la loro riflessione che diviene elenco dei non detti della nostra società che si ritiene così evoluta ma che, constatando soprattutto gli ultimi tempi, sta facendo grossi passi indietro in termini di tolleranza, accettazione, integrazione, libertà di pensiero. Sempre uno davanti all'altro, sempre graffianti, i silenzi così debordanti, quel sottovoce che quasi imbarazza. Il format è il loro marchio di fabbrica, il registro è riconoscibile, le risate, come le frasi ad effetto cariche di ironia sprezzante e di veleno, si sono ridotte, come asciugate. La narrazione è ancora acida, urticante nell'esporre il ventaglio di temi o termini dei quali è meglio oggi non parlare: la menopausa, la depressione, il suicidio, il fine vita. Esprimono meno potenza entusiasmante, sparano meno botti ma la disperazione di sottofondo è ancora lì a farci bestemmiare sottovoce. Sono grilli parlanti per una danza immobile, una placidità che le-baccanti2.jpgnon si fa morbidezza, parole incastonate low profile, rispetto al passato meno flash, meno gong, meno bang. La pistola però è ancora fumante.

Le Baccanti” doveva essere un ensemble a più voci e più corpi, che la pandemia ha tagliato, distrutto, ridotto. Ma Simone Perinelli e Isabella Rotolo, il gruppo laziale leviedelfool, non si sono arresi né fatti intimorire proponendo un solo del funambolo-performer Perinelli. Purtroppo queste “Baccanti” hanno avuto un sapore leggermente didascalico e hanno risentito, pur nell'accuratezza, come sempre, di suoni e luci e scene, di rimandi a spettacoli del loro recente passato. Sembrava di veder condensati parti e pezzi di vita scenica vissuta in precedenza: i microfoni laterali e quello che scende centrale, il sound di bassi ritmato che incatena il testo e lo abbraccia abbrancandolo, le maschere giapponesi e il ramo al sapor orientale raffinato. Si sentiva sul palato un mix, un rimando (volontario?), ad “Heretico” come di “Made in China”, ritornava a trovarci “Yorick”. Noi rimaniamo ancora legati sentimentalmente ai vari “Pinocchio” e “Do you want a cracker” come a “Macaron” dove la forza, che diveniva furia, di Perinelli era vero maremoto che squarciava l'abisso e sciacquava gli scogli delle coscienze. Il suo stile, robertolatiniano, è inconfondibile ma stavolta entrare dentro le sue parole, che nel frattempo hanno perso visionarietà e poesia rispetto a come ci aveva abituato, è stato complicato. Seppur meno punk e meno dirompente, continuiamo a riconoscere a Perinelli l'arte del palco, il mestiere dello stare in scena, il talento del padroneggiare le parole e i versi, la costanza tambureggiante, l'inventiva (che a tratti si trasforma in invettiva), il genio che qui, forse, è rimasto imbrigliato nel Mito che a volte esalta e a volte tritura, a volte ti fa Dio, altre ti fa vittima.

Altro attore di razza, Paolo Mazzarelli, si fa carico dell'ambivalenza, prende la responsabilità pirandelliana del doppio, dell'essere e dell'apparire, Soffia Vento 2 1280x731 1300x731condizione sine qua non dell'attore. In un confronto serrato e intimo, ironico a scandagliare i chiaroscuri del mestiere, gli equivoci e gli equilibrismi per non perdere bussola e orientamento, in “Soffiavento” si apre una botola sul grumo che ogni artista deve comprimere e sciogliere, come se una fresca brezza d'aria di una finestra lasciata aperta avesse scombussolato i fogli diligentemente catalogati, controllati e ciclostilati di una vita. Mentre sta recitando il Macbeth si scolla qualcosa dentro e dopo non può essere più lo stesso, qualcosa cambia irreversibilmente e non si può tornare indietro. Le crepe fanno acqua da tutte le parti e Shakespeare lascia il posto ad una seduta psicanalitica, in una orazione accalorata e tossica, una confessione lenitiva e catartica. Come i cocci giapponesi incollati con l'oro. Come le ferite felici che lasciano passare finalmente la luce in fondo al tunnel. Dostoevskiano nel suo cupo personaggio come salottiero, foriero di aneddoti immerso nei personali ricordi di una vita spesa sul palcoscenico. Pippo, il nome del suo personaggio, sente le voci. Ci è venuto in mente Pippo Delbono. “Avere tutto è perdere tutto”, le sue massime stilettano, sfidano, lambiscono, carezzano e schiaffeggiano il teatro nel teatro convincente di questo ruolo che si mangia la persona, nella disperazione che affoga e resuscita. Il perdersi come attore è un ritrovarsi come uomo. Un naufragio che diventa salvifico, una parentesi che lo sveglia dal torpore: “Un artista non ha una vita, un artista è quello che fa”, un turbinio, un sistema che schiaccia. Mazzarelli è efficace e persuasivo, stabile e solido, vero nella finzione.

Il Teatro dei Borgia ci ha abituato a situazioni non convenzionali, ad usare gli spazi in maniera originale, a pensare oltre e altro rispetto al palco, al teatro, alle idee da mettere in circolo. Dopo aver visto il loro D'Annunzio, nella bocca del leone della Fiume croata, la critica-elogio del Meridione nel monologo disorientante “Sud-Orazione”, e quella “Medea” in furgone che strazia pochi spettatori alla volta dentro un van alla ricerca dei luoghi più periferici, asfaltati delle città dove prostituzione e lampioni non sono oggetti di scena, adesso ci ritroviamo dentro un'immaginaria mensa dove un eroe moderno, “Eracle, l'invisibile”, Eracle.jpgci racconta ascesa al Paradiso e discesa agli Inferi nell'impotenza, nel gelo, nel constatare come la nostra società riesca, per paura e scaramanzia, a dar più ascolto alle voci, ai rumors, che alla sostanza, più ai pettegolezzi che all'oggettività. La vita di un professore integerrimo e preparatissimo (ci è balenata alla mente la pellicola “The life of David Gale” con Kevin Spacey, altro accusato, nella vita reale però), amato da colleghi e alunni che viene spazzata via da un'invenzione di una studentessa. Si apre il girone delle maldicenze, quelle che se le neghi le affermi, quelle che se stai zitto le confermi. Non c'è salvezza, non c'è pietà per un uomo mite e buono, impreparato ad affrontare i dardi del destino e le prove del mondo che lo vogliono piegare. Se nella prima parte il citazionismo la fa da padrone in un monotono colore di sottofondo c'è un crack, una virata, prima appena impercettibile che poi diviene deflagrante, come un vetro rotto in miliardi di pezzi infinitesimali senza possibilità di ricompattarsi. Nelle parole di Fabrizio Sinisi, per la regia di Giampiero Borgia, la presenza di Christian Di Domenico, mentre prepara il pane, mentre imbusta acqua e una mela per qualcuno che non riesce più a sostentarsi e a trovare un lavoro, è un groppo in gola nella sua faticosa rincorsa per riprendersi ciò che gli hanno indebitamente tolto con il raggiro, con la furbizia, con la stupidità. E quando un uomo normale entra nel vortice della Giustizia togliersi marchi infamanti dalla pelle è impossibile come cancellare tatuaggi con acqua e sapone. La sua recitazione è un escalation, un diesel che prende corpo e si fa strada a falcate verso il disastro che possiamo solo accogliere. Scende il gelo, cala il panico. Siamo tutti come l'Ercole che abbiamo davanti, un eroe sconfitto che più perde più non si dà per vinto. C'è sempre un briciolo di apertura, di possibilità alla non rassegnazione ma ogni brano, ogni frase è un blocco di cemento, un incudine a pesare ulteriormente sulla bilancia a suo sfavore. E non ci puoi far niente, e l'immedesimazione è possibile e plausibile e nessuno si può sentire al riparo: da vedere per capire dove siamo arrivati, fin dove ci siamo spinti. Ne usciamo umiliati, svuotati e i molti applausi scroscianti non ci tirano su il morale.

Tommaso Chimenti 22/07/2020

ROMA – Prima o poi era inevitabile che accadesse: ovvero che Leviedelfool (scritto tutto attaccato altrimenti il duo di stanza nel borgo di Calcata si infastidisce) si gettassero, anima e cervello, sul “fool” per eccellenza, quel “Yorick” (prod. Teatro della Toscana) citato senza avere un corpo, il cui teschio, fin dalla notte dei tempi teatrali moderni, è identificazione con il famoso monologo di Amleto, quell'“essere o non essere” recitato e abusato nei peggiori incubi con calzamaglia e appunto cranio scarnificato in mano, voce impostata, pomposa, sguardo impomatato, Shakespeare old style in versione polverosa e stantia. “Fool” che per assonanza sembra “folle” quando il suo significato ci racconta intimamente altro: non è chi è pazzo ma chi lo fa, chi è sopra le righe, ma anche chi inganna, scherza, imbroglia (quello che fanno gli attori sul palco), il buffone, il giullare, sempre in pericoloso equilibrio tra la verità e la stranezza. Il fool-Yorick, visto con le retine di Simone Perinelli e Isabella Rotolo, è molto lucido (anche se la sua visione è da sottoterra, paragonabile al clown di It di Stephen King che esce dalla botola o dalle fogne), talmente consapevole del proprio spazio nel mondo, del proprio corpo, reale o immaginifico, del proprio tempo, ormai andato e qui, dal teatro, reso eterno e immortale.IMG_0682.jpg

IMG_9054.jpgYorick (visto al Teatro India all'interno della rassegna Teatri di Vetro, diretta da Roberta Nicolai che ha selezionato sette diversi artisti con una doppia fase, spettacolare e dialettica e, cosa interessante, in quest'ultima ha tentato di portare alla luce tutti i materiali, i processi, le parole che le compagnie non sono riuscite a far confluire nel prodotto finale, nella piece) è un pretesto per parlare di Amleto. Yorick arriva dopo altri monologhi, o meglio personalissime rivisitazioni linguistiche, di Perinelli incentrati su Pinocchio, Ulisse e Don Chisciotte, monologhi che alterna a spettacoli d'ensemble come “Made in China” o “Heretico”, mentre il prossimo step saranno “Le Baccanti”. Yorick rinasce dalle sue ceneri come araba fenice, c'è nell'evocazione e al tempo stesso manca perché è l'unico personaggio amletiano che non ha mai parola ma, insieme al Principe di Danimarca, è una delle figure più ricordate e che sono più passate all'uso comune, al senso collettivo culturale stratificato.

Yorick esiste perché la sua assenza è molto più forte delle altre presenze in campo. E Yorick non c'è, è rimasto soltanto il suo teschio che è il suo telaio, la cornice e non il ritratto, il confine senza un Paese dentro. Vedi il teschio e pensi ai vermi, alla decomposizione che lo ha ripulito, lisciato, sverniciato (oggi la mente va anche a quello di diamanti dell'artista Damien Hirst). Le sue orbite vuote come grotte sono sempre monito, la sua bocca aperta da eco è sempre urlo, icona del memento mori. Ecco che T.S. Eliot ci viene in soccorso: “Aprile è il mese più crudele, generando lillà dalla terra morta, mischiando memoria e desiderio, eccitando spente radici con pioggia di primavera. L’inverno ci tenne caldi, coprendo la terra di neve smemorata”, e la sua “Sepoltura dei morti” ci chiariscono il prima, l'antefatto, il preambolo, l'incipit.

Questo “Yorick” è uno scavare la fossa, e la pala ce l'ha Perinelli, è un guardare in un tunnel buio e profondo, e la torcia ce l'ha Perinelli, è uno scovare la polvere ammassata sotto al tappeto, ed è Perinelli adIMG_9302.jpg avere nel suo pugno la scopa-scettro. E' una rievocazione, è un mantra, è un guardare “obliquo” (parola cara a Leviedelfool), da sotto, di lato, è un constatare (forse anche contrastare), con altri occhi e nuove prospettive, l'Amleto che suda, soffre, si aggroviglia là sopra con destrezza incerta, malcelata rassegnazione, una punta di tenerezza di fronte all'ineluttabile e a quella lotta inutile con l'esistenza: “Le vostre parole da qui sotto le ho già sentite tutte un milione di volte” è il suo canto di questa che potrebbe essere considerata un'operetta rock con una musica a scandire di bassi (Perinelli è fan di Giorgio Moroder) il cerchio di luce a terra. Perinelli è sempre più Caparezza (già sottolineato in altri nostri scritti sull'artista romano), è burattinesco e si inserisce in quella lista di teatranti contemporanei orfani di Carmelo Bene e che in qualche modo lo vogliono riportare sulle assi del palcoscenico, volontariamente o meno: Gianfranco Berardi e Roberto Latini su tutti.

Yorick è l'altra faccia della medaglia del Principe di Elsinor (il sottotitolo è infatti: “Un Amleto dal sottosuolo”), se fosse una fotografia sarebbe il suo negativo, e i due sono complementari, come il cavaliere della Mancia e Sancho Panza, come l'uomo e la sua ombra. Da qua sotto (dove sta anche il pubblico, evidentemente già morto) l'Amleto si sente in frantumi, si annusa in frammenti, si apprezza in suggestioni, si percepisce a stralci. IMG_9826.jpgYorick è la coscienza di Amleto: “Parole, parole, parole” ripete spesso (Mina lo perdonerà), come se intorno facessero rumore soltanto per non pensare, come per fingere di aver seminato l'irreparabile conclusione. Perinelli ha sound, ha grip, ha groove, non c'è dubbio in questo, è un centauro della parola, è un dribbling man dell'allocuzione, surfista dell'arringa, s'incolla alla presa e non la molla, granitico, cambia palco all'interno della stessa scena, si costruisce ambiti e nicchie dove stare perennemente scomodo, in vasca, in punta di piedi, con svariate parrucche, su una scala, a sentire la fatica del vivere come quella del non-vivere.

“Dov'è Amleto?” “Amleto non è dove mangia ma dove è mangiato” è uno scambio feroce che esemplifica la poetica e la tematica e le rendeIMG_9918.jpg lampanti, chiare nella loro oscuratezza fatta di carne e dissolvenza. Tutto è incentrato sulla forza di gravità, quella stessa che prima ci tiene appoggiati, appollaiati, appiccicati e attaccati al terreno, qui invece sembra spingere tutto sotto la linea della terra calpestabile: cadono i birilli che paiono sprofondare, gli cadono continuamente oggetti dalle mani scivolose che paiono rompersi, cade il gallo che non canta più fino a sgretolarsi e sparire. I colpi di mannaia ci azzannano, i colpi di ghigliottina ci tagliano, ci feriscono.

Perinelli toglie il velo e ci mostra le nostre miserie, la nostra decomposizione ancor prima che questa accada. Uno Shakespeare scomposto in tanti gusti da plasmare, mischiare, sommare. Yorick ci guarda dal buco, sorride perché sa come andrà a finire, noi sorridiamo, sappiamo come andrà a finire ma non vogliamo dircelo. Perinelli non è Yorick, ma lui non lo sa e vola lo stesso.

Tommaso Chimenti 21/12/2018

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