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MODENA – “La vita è una combinazione di pasta e magia” (Federico Fellini).
Sembra di entrare in un lager o una mensa. O un sogno di Wes Anderson. O ancora un mondo distopico da serie tv dove prima tutto è allegro e frivolo e all'improvviso cala il gelo della scure. Gelo come la latta, il ferro del quale è composta la curiosa e originale scenografia confezionata di “Cantina” dei belgi Laika: una sorta di igloo-tendone con tavoli allungati e l'atmosfera da Oktober Fest. Dicevamo latta: di latta sono i vassoi, le pareti, i bicchieri con quel freddo che ti riporta alla padella ospedaliera o al vaso porta fiori da tomba. Il loro gioco infatti, di quest'allegra compagnia scanzonata, è quello che tutto non è ciò che sembra. L'occhio dice una cosa, il cervello la decodifica, il gusto e il palato rimangono sbalorditi: ecco che quello che credevi fossero patatine sono invece barbabietole, le polpette sono focaccia, il pesce è in realtà verdura, il succo all'apparenza all'arancia sa invece di cetriolo. Confondere i sensi. Si mangia in questa scatoletta; noi forse siamo le sardine compresse.CANTINA-Kathleen Michiels-2.jpg
Il meccanismo in inglese si basa sulla facile rima fish (pesce) - dish (piatto) – wish (desiderio) e nel corso della serata-musical si svelano gli ingranaggi di questo impianto ora bucolico e disneyano, adesso pulsante noir. Tre i grandi temi, trattati con leggerezza a pennellate dolcemente, niente di così ardito e politicamente ficcante: il cibo finto che il nostro mondo ci propina in sostituzione con quelli buoni e genuini di una volta, chiamalo CANTINA-Kathleen Michiels-3.jpgprogresso; il lavoro sottopagato e senza garanzie né tutele nelle grandi catene di distribuzione, non solo in campo gastronomico (da McDonalds al recente caso Amazon); l'aspetto ecologista e ambientalista dell'immensa quantità di plastica che ogni giorno l'uomo scarica in mare avvelenando i pesci e conseguentemente anche se stesso, nel corso della catena alimentare globale, mangiandoli.
Intrattenimento, niente più, sia chiaro, tra coreografie e balletti, figure addobbate con centinaia di posate e altri con decine e decine di guanti, chi ha gli spaghetti in testa, chi i cocomeri, chi le banane. In alto una barra-pannello, come quelle che cambiano e si modificano nelle stazioni dei treni, sembra dia informazioni e ordini a commensali e camerieri svampiti, confusionari e catastrofici (nella parte misteriosa ci ha ricordato il “Ristorante immortale” della Familie Floz) che pare governato da un dio, una macchina o un mostro che tutto mangia, inghiotte, fagocita, distrugge, fa in poltiglie.cantina2-1.png
L'aria è quella da “Piccola bottega degli orrori” in bilico tra il colore acceso e quel brivido di fondo dell'imprevedibile con entrate e uscite in puro stile saloon, con giacche di luccichini, il bingo che tutto trasforma in un Luna Park o in un matrimonio balcanico (le pietanze, tutte vegetariane, non sono il massimo anche perché contengono quel quid di repulsione alla vista che non aiuta), e le musichette tetre a sottolineare il momento epico di tempesta e sconquasso, ma tutto rimane in una bolla in superficie senza mai calare né calcare la mano, infiocchettando di frizzantezza non riuscendo mai a cavalcare né approfondire, ad andare oltre la coltre, a scalfire la buccia, a rompere la corteccia di questo ricevimento un po' folle e un po' stralunato. C'è magia e alchimia ma ci saremmo aspettati di più. Nel connubio tra cibo e teatro le Ariette do it better.

Tommaso Chimenti 07/05/2018

Foto: Kathleen Michiels

 

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