Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

GENOVA – Cos'è un uomo senza i suoi ricordi? Il duo degli Instabili Vaganti da Bologna si è spostato nel mondo in questi ultimi quindici anni e qui, vagando appunto come il loro nome ci suggerisce, hanno trovato una casa, un luogo, più luoghi disparati sul mappamondo, dove risiedere, creare, fare residenze, progettare lavori. Si sono creati il loro status, il loro passaporto artistico passando frontiere e riportando le loro esperienze nei loro laboratori, prima, e nelle loro performance, poi. Lo scrissi al tempo della visione de “Il Rito” dove pareva che, dopo tanto peregrinare e tanto materiale accumulato nelle retine, sulle ossa, tra gli appunti, dovessero ancora pienamente metterlo a fuoco, selezionare, digerire le esperienze per farne “teatro”, e non per mettere in scena i loro viaggi. I loro viaggi artistici di una vita, che li hanno formati e li hanno portati ad essere ciò che adesso sono, che hanno creato quell'humus, quell'habitat dove stazionano, ed è da lì, in questo luogo immaginifico e metaforico, inesistente e immateriale, che devono tentare di far passare, di comunicare il loro mondo interiore.global_city_1.jpg

Anche questo “Global City” soffre delle stesse sbavature, seppur nel complesso si noti un deciso miglioramento e una maggiore accuratezza, video, coreografie e scene (la produzione del Teatro Nazionale di Genova, insieme al Festival uruguaiano FIDAE, nonché del Bando Siae “Per chi crea”, a sostegno del coro di sette giovani, si sente), con quadri dove ci raccontano il loro viaggio come una serie di diapositive e sezioni e racconti in giro per il globo. Sono ricordi estrapolati (come in “Minority Report” o in “Atto di forza”, “Se mi lasci ti cancello” e “The Bourne identity”) come in un laboratorio da esperimenti e cavie per toccare con mano il loro diario di bordo tra Messico, India, Uruguay, Corea del Sud. Malmo_600x400.jpgRimaniamo in superficie: ci raccontano quello che già sappiamo, ovvero che hanno fatto migliaia di chilometri per lavoro. Ne siamo entusiasti, li ammiriamo per questo, per ciò che sono riusciti a ritagliarsi. Ma poi? E quindi? Il viaggio dovrebbe essere un mezzo per raggiungere altre parti di sé non il fine ultimo come appare qui, viaggiare per raccontare di aver viaggiato.

Dovrebbero lasciarsi alle spalle questa loro poetica ed usarla e farla fruttare mettendola a servizio del teatro, non raccontarci che cosa hanno visto e fatto ai quattro angoli del pianeta ma, attraverso questa grande esperienza e fortuna che sono riusciti a crearsi e guadagnarsi sul campo, riuscire a metterla in un'opera senza cartina (altrimenti si scade nell'autocompiacimento), senza mappe e freccette (altrimenti è tripadvisor o booking.com), senza geografie tangibili (altrimenti si è blogger di viaggio o reporter, che è un altro mestiere rispetto all'attore o al performer). Manca il giusto distacco e la distanza necessaria per accantonare le proprie biografie, un lasciarsi in un angolo, divenire personaggio, quindi universale e trasversale, e abbandonare se stessi in camerino. Che il viaggio serva a formare, umanamente, esistenzialmente e professionalmente, ma che non sia lo scopo conclusivo e definitivo del racconto, il fine ultimo dello stare sul palco: “Queste sono le mie città, città reali nelle quali megalopolis_tampico-ph_TFM.jpgho vissuto e nelle quali mi sono sentita viva”, dice Anna Dora Dorno (deve lavorare sulla parte canora), “Questo è il mio teatro, questa è la mia arte e mi batterò per difenderla”, proclama Nicola Pianzola (bene, soprattutto nella parte coreografica e atletica). Un teatro che parla degli autori che fanno teatro, in un circolo claustrofobico a senso unico che fa il giro e che poi torna al punto di partenza.

Gli Instabili sono anche cresciuti come estetica, come impianto, più articolato, come struttura complessiva, più composita, come assemblaggio attorno ad instabili-vaganti.jpgun'idea. Dall'altra parte, in vari passaggi e fasi, si ha la sensazione di svariati riverberi che ci hanno ricordato troppo Pippo Delbono, echi della sua enfasi, rimandi al suo pathos. In mezzo a tante scene dove si susseguivano racconti e record delle varie fasi estere e in terra straniera del duo, questo il fil rouge di fondo, alcuni quadri invece ci hanno lasciato perplessi: estemporanee le maschere di Trump e Kim Jong-un, il wrestler messicano, un rap molto jovanottiano sulle città incontrate nel loro cammino, il tutto mischiato in un melting pot, english & espanol, senza essere riusciti a capire l'idea che gli Instabili hanno del teatro, sul teatro. Ci rimangono i chilometri che hanno percorso, ci è mancata la tridimensionalità. Un teatro di viaggio e non il viaggio del teatro.

Tommaso Chimenti 11/10/2019

BOLOGNA – Ha un che di aulico, mistico e magico l’apparato messo in atto, con una profusione di energie e impegno, oltre che di arti e mestieri, dagli Instabili Vaganti, formazione (potremmo dire duo, Nicola Pianzola da Novara e Anna Dora Dorno da Taranto incontratisi e stabilitisi a Bologna) attivissimi in questi anni, seppur nella giovane età dei due performer, più all’estero che in Italia. Hanno base nella collina vicino alle Ariette, altro duo creativo, sentimentale, affiatato: e forse non è un caso, la campagna da una parte con i suoi silenzi e i viaggi e il cosmopolita che tutto ruota e vortica attorno. E’ proprio il loro essere girovaghi e giramondo che ha fatto sì che in questi dieci anni abbiano intessuto rapporti e relazioni, attraverso spettacoli ma soprattutto workshop in ogni parte del globo, in svariate performazioni 4giugno altre 4zone del mondo: dalla Corea all’India, dal Messico alla Cina, Uruguay e Cile. Proprio in questi giorni è uscito, edito dalla Cue Press, il loro volume “Stracci della memoria” che racchiude il loro polifonico e prolifico percorso fino a questo momento ricco e intenso.
Ed è nella “Celebrazione” che l’anima e lo spirito più profondi degli Instabili viene fuori con tutto il suo bagaglio di respiro e attesa, di quella preghiera laica dell’uomo per l’uomo, quell'andare in profondità fino alla conoscenza ultima del sé, della consapevolezza, del vivere, del sentire l’altro come parte essenziale e integrante di condivisione, di riflesso, di specchio, di unione. Si percepisce, si scandaglia, si morde il tutt’uno che hanno creato in una settimana di lavoro all’interno dell’affascinante Chiesa San Filippo Neri con i performer giunti da tutto il mondo, unione artistica e d’intenti. “La Celebrazione” (ideazione e regia di Anna Dora Dorno) è un canto, un inno alla gioia e alla vita, allo stare, al dialogo come all’introspezione perché non può esistere l’una in assenza dell’altra. L’attesa è quella dei riti pagani che si muove attorno, con forza concentriche a creare vento e armonia, con il movimento fresco di vestali, in bianco, in nero, in rosso, a creare un vortice che sa di mare, di nuove energie immesse in questo spazio dalle volute altissime, dai soffitti scrostati, dagli affreschi, dall’incastro incastonato tra il recupero dell’antico e la valorizzazione dell’intervento conservativo contemporaneo.
performazioni 4giugno altre 7Su un piccolo palchetto rialzato al centro cinque interpreti, cinque lingue, Messico, Italia, India, Corea, Romania, comunicano attraverso l’universalità gutturale di suoni ancestrali che riecheggiano e trovano sponde tra queste mura che sanno di storia, che profumano di vita passata. I drappi rossi avvolgono come fiamme, come abbraccio di mamma, come fasce di sangue dopo una nascita travagliata. Ed è nell’immenso bianco attorno che la centralità di questa piccola piramide umana si esalta ed esplode in un mantra che sale e spiazza, scroscia e s’impenna fino alle vette per poi ridiscendere e infilzare, impilare, impalare gli uditori in un rimando continuo che colpisce occhi, cuore, orecchie. E’ avvolgente, indubbiamente, quest’ora contemplativa che ci accompagna verso le viscere della terra, dentro le pieghe del tempo. Scricchiola il pavimento come un lago fatato ghiacciato che sta per spaccarsi fino a condurci in un’altra dimensione, parallela, sotterranea, sottocutanea. La parte sonora coccola, liscia come una lingua mentre monta la moltitudine in un canto ritmato di piedi a battere e sobbalzare la terra a creare un’immagine di rilievo, solida e compatta, come il "Quarto Stato" di Pellizza da Volpedo, un muro spesso pronto alla corsa d’impatto, a non squagliarsi sotto il sole, un’onda vibrante dove si muovono all’unisono tutti e trenta i performer in un ammasso che dondola, scintilla, scivola, trema.performazioni_4giugno_altre (9).jpg
Siamo davanti ad un matrimonio ma anche ad un canto sofferente, uno sposalizio festoso e il suo contrario funebre, il ritmo della vita e il sacrificio sull’altare, il dolore come lo sprizzo solare: è la vita in tutti i suoi colori. I teli rossi si agitano come arpioni conficcati sul dorso della balena. Sembrano uscire stralci di Mito, Ulisse tra i flutti, Ercole e le sue fatiche, Atlante con il mondo sulle spalle. performazioni_4giugno_altre.jpgUrlano “Pain” ansimando in un afflato carico di meraviglia e il coro gira come dervisci, come zombie attorno al ponte levatoio. Sale la tensione, la scena si scompone e ricompone, ad elastico, trova un suo equilibrio prima di decostruirsi nuovamente in questa fragilità dolce, in questa precarietà strutturata, in questa cantilena-altalena di emozioni, di carezze, di passaggi, di sfioramenti sensuali. Nel loro cammino, spirituale e ateo, tra sacro e profano, c’è spazio per il ricordo, “Remember” ripetuto all’infinito, fino all’assuefazione.
L’eco crea pathos e adrenalina, enfasi e partecipazione; ecco la svedese che sciorina il suo appuntito discorso, la brasiliana che dal pulpito morbidamente incuriosisce, ecco Nicola Pianzola (in questo frangente molto vicino alla recitazione di Pippo Delbono) che traduce “This is the end” dei Doors prima che parta, ecumenica e trasognante, isterica e allucinogena, la voce di Jim Morrison graffiata e graffiante, mai morta, prima del ballo collettivo, orgiastico carnascialesco di braccia levate al cielo ad invocare quel dio, terreno e tattile, concreto e umano, del giusto, della verità, dell’ascolto, della vicinanza: un inno alla vita in tutti i suoi aspetti.

Visto all’Oratorio San Filippo Neri, Bologna, il 5 giugno 2018

Tommaso Chimenti 09/06/2018

BOLOGNA – 101 appunti come fossero i piccoli dalmata del celebre cartoon. Sempre di macchie si parla, comunque. Di sbagli, di errori, di tentativi, in sintesi, di vita. Sono tracce sparse, elenchi, righe scelte, pezzi, sprazzi, lampi, flash, carezze e schiaffi, sassi lanciati nelle vetrate della chiesa e pallonate sotto le macchine in corsa. Parole da sottolineare, versi prosaici da tenere lì buoni: arriverà l'occasione per usarli, per farli propri, per “Farsi luogo”, il titolo del pamphlet di Marco Martinelli (50 pp, 4.99 euro, Cue Press), regista, autore, teatrante da sempre collegato al Teatro delle Albe di 01martinelliRavenna, qui, in queste poche ma emblematiche pagine, messosi a nudo, soprattutto uomo con le sue fragilità e insicurezze, con i suoi occhi curiosi e scintillanti, con la lentezza del corpo associata alla grande velocità d'esecuzione di un'intelligenza guizzante che riesce a spostarti, a farti fare uno scarto, un passo alla volta, a spingere senza arroganza né violenza. Le sue parole sono appigli per scalare una montagna, ganci per issarsi fin sopra il promontorio per vedere il panorama della vita, sanno di fatica, odorano di mani e artigianato, di pensieri e pensare, di non smettere mai di credere in quello che stiamo inseguendo. La sua è una piccola grande utopia realizzabile.
E' un uomo sereno, si vede, risolto, si sente, pieno, completo, si percepisce. Ci dice di non inseguire falsi miti e semidei, primi tra tutti il successo e il denaro, miraggi distraenti, ma di essere sempre più noi stessi, di ritrovarci, di sentire intimamente quelle che sono, e ognuno ha i propri, i nostri desideri e priorità. Martinelli ci dice che non esistono strade sbagliate ma che tutte, se convinte e sentite, sono buone e degne da essere perseguite. Che niente cade dall'alto, niente spunta da sotto l'albero del Bengodi né sotto i cavoli, che bisogna, che è necessario fare fatica; fatica nello studiare, fatica nel tentare di capire, fatica nell'imparare, fatica nell'ascoltare. Li chiama “101 movimenti”, ma sono anche motivi e slanci, punti di un decalogo decuplicato da assaporare, morsi che partono dal teatro (“il luogo dove la gioia balbetta sopra le macerie”), il suo recinto preferito, ma che sfociano nell'esistenza quotidiana dell'individuo per poi ritornare alla scena.
02martinelliSi sente l'amore per la vita e l'affetto smisurato per chi lo circonda, la fortuna e i ringraziamenti in questa preghiera laica che sgorga dalla sua voce ora calma, adesso sottolineante, che si ferma e si appoggia a parole-chiave che aprono pareti celate, nascondigli, angoli e fa prendere aria e luce, ci spalanca le finestre di dentro. I suoi “luoghi” sono tanto tangibili quanto astratti e proprio perché fatti di contorni aleatori scivolosi e slittanti, travalicano, oscillano, scintillano, si spostano. Pensi di stare ascoltando parole di teatro, sul teatro e invece ti ritrovi a sentire eco e rimandi alla tua biografia, ad annuire, a sentire quel brivido che appare quando la nostalgia del passato si muove verso il farò del domani. Martinelli punta sulle persone e non sui personaggi.
E' un piacere stare lì ad ascoltarlo in questo circolo ristretto (siamo al Liv di Bologna, spazio gestito dalla compagnia Instabili Vaganti), vicini come03martinelli se le parole potessero scappare. Ripete di “andare a fondo”, di ricercare, di allontanare dalla nostre vite la superficialità, che non vuol dire vivere con pesantezza. Martinelli ride e sorride, eccome, sta qui la grandezza della leggerezza della profondità. La noti nel suo sguardo aperto, mai in difesa sempre pronto al rilancio. Parla di saperi, di lavoro, di “grazia” e “accanimenti”, di cittadinanza. Dice di “lasciare la porta aperta” perché chi vuole possa uscire ma anche perché possano arrivare, simbolico ma anche reale, altre persone attirate, incuriosite da quelle parole lasciate volare nel vento e portate per le stanze, in mezzo alla strada. Le parole, perché le parole sono importanti: “grumo” e “rovello” e “carne”, lettere concatenate che ti entrano dentro, dette piano quasi sussurrate, ed esplodono.
Sembrano termini non rassicuranti ma, proprio perché la vita non lo è, dobbiamo, sempre con quella fatica che è il leit motiv di sottofondo che striscia nella colonna vertebrale del discorso, assumerci responsabilità e crearci e cercarci antidoti alla banalità, alla stupidità, alle facili “trappole” disseminate lungo il cammino che ci portano lontano, in terreni inutili e fangosi, a disperdere energie e sogni. Ci parla di “coraggio” con chiarezza dura e diretta, elemento fondamentale della libertà, ci dice di non avere paura. Trasudano parole di incoraggiamento, di sostegno, di speranza. I buoni maestri sono rari. Abbiamo sempre più bisogno di persone così, come Marco Martinelli. Dobbiamo “farci luogo”, farci carico.

Tommaso Chimenti 10/09/2017

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM