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PISA – “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare” (Pastore Martin Niemoller).

La batteria in primo piano, come terzo protagonista a tutti gli effetti accanto alle due sedie da scuola elementare, ci ha fatto sobbalzare alla mente quelle operette rock, quel teatro punk proprio dell'Europa del Nord, quella mixture caratteristica di 2568_big_La nostra maestra è un troll 2.jpgcerte performance che sfociano nel punk dove non riesci più a distinguere monologo e concerto. E infatti Sandro Mabellini, regista che si cimenta sia nel teatro di prosa che in quello per ragazzi (dicotomia tutta italiana, all'estero la linea di demarcazione non è netta), è di stanza da molti anni a Bruxelles e in Belgio, tra Jan Fabre, Jan Lauwers e Milo Rau, i motivi di visione e gli accessi al contemporaneo esondano e pullulano e le possibilità di abbeverarsi e alimentarsi a nuove forme sceniche è pressoché quotidiano. Il mash up di arti che si fondono e si inseguono sul palco è cosa consolidata, non crea scalpore né stupore. Alle nostre latitudini una batteria in scena diventa già “Wow”. Forse, andando indietro con la memoria, sovviene a riguardo quel “Roccu u stortu” per la regia di Fulvio Cauteruccio con la compagine musicale de Il Parto delle Nuvole Pesanti che dal vivo argomentava, grattava, solcava, cospargeva le scene di note piene e mai sazie.

Detto della batteria rossa e delle due sedie (non può non arrivare in superficie la recente polemica sui banchi monoposto con rotelle comprati dalla ditta Arcuri-Azzolina-Conte per 700 milioni di euro e inutilizzati), sul fondale campeggia il titolo dello spettacolo, “La nostra maestra è un troll”, segno che Mabellini aveva già utilizzato con il precedente “Trainspotting”. Il regista, appassionato di letteratura e drammaturgia d'Oltre Manica, ha preso il testo di Dennis Kelly, per intenderci l'autore delle serie tv “Utopia” e “The third day” e del musical “Matilda”, foriero di spunti e riflessioni sul potere, sulla ribellione, sulla nascita dei regimi, sul bullismo, e ne ha tratto una storia frontale piena di simbolismi, leggera per animi 2570_big_La nostra maestra è un troll 14.jpgcandidi fanciulleschi e, al contempo, scavando, instillatrice di interrogativi e aperture. Visto in presenza durante una diretta on line per le scuole al Cinema Teatro Nuovo a Pisa diretto da Carlo Scorrano, la favola noir splatter “La nostra maestra è un troll” (prod. Fontemaggiore Accademia Perduta/Romagna Teatri) vede la presenza di Edoardo Chiabolotti nella sua dolcezza e la svagatezza stralunata, tra Stanlio e Chaplin, di Liliana Benini (attrice anche per il Maestro Marthaler) nei ruoli dei due gemelli Teo e Alice. Ci piace pensare al fratello di Van Gogh e alla bambina nel Paese delle Meraviglie.

In questa scuola viene nominata una nuova professoressa-preside che è appunto un Troll, un mostro bavoso e squamoso che comincia a mangiare bambini staccando loro la testa e smangiucchiandoli amabilmente. Mentre il Troll elenca nella sua lingua norme assurde e infinite burocrazie a danni dei bambini, i professori lì dietro sogghignano e sghignazzano contenti che finalmente sia arrivato qualcuno a ristabilire l'ordine costituito, qualcuno dal pugno duro, l'Uomo forte buono per tutte le stagioni. Vengono instaurate nuove regole d'oppressione, giustificate con il fatto che i bambini sono discoli e monelli, viene regolato il lavoro minorile ed ogni protesta viene chiusa nel sangue e nel conseguente silenzio-assenso. I docenti (dai nomi ridicoli come a volte lo sono gli adulti: il Signor Piatti e Creduloni, Trabiccoli e Spunzoni fino a Banali) annuiscono grati e fieri e sadici fin quando le regole senza senso del Troll non colpiscono anche loro, ma a quel punto è impossibile ribellarsi. Le dittature nascono così, si insinuano piano piano, in molti casi supportate e spinte dalla cosiddetta “brava gente”, dalla borghesia che vuole tornare a leggi chiare e fermezza. Ricorda il crescendo del nazismo sostenuto dai benpensanti che si turavano occhi e naso.2571_big_La nostra maestra è un troll 15.jpg

Ma c'è, veemente, anche una forte critica sociale; i bambini che vessati si rivolgono alle autorità per vedere rispettati e garantiti i loro diritti chiedendo aiuto prima alla famiglia, che non crede a quello che sente, poi al dirigente scolastico, che minimizza, successivamente alla Polizia che ha di meglio da fare come organizzare il ballo annuale dell'Arma e che si nasconde dietro la frase “I troll non esistono” (sostituite troll con mafia), infine, come extrema ratio, arrivando pure al Presidente della Repubblica che li usa per le foto di rito e li liquida in politichese. Le istituzioni che non aiutano i cittadini né tanto meno le categorie più fragili. Non rimane che farsi giustizia da soli, scendere in piazza, protestare qui con grazia e delicatezza facendo comprendere al Troll le loro ragioni. Un mostro, e qui la piccola parentesi sul problema-fenomeno del bullismo a scuola, che si 2575_big_La nostra maestra è un troll51.jpgcomporta da brutto, sporco e cattivo proprio perché tutti lo vedono come tale non facendo altro che rispettare la profezia che si autoavvera. L'inclusione del diverso porta sempre benefici. Importante il tappeto sonoro e le scelte musicali, tra la risata di John Cage, il pezzo al pianoforte di Aphex Twin, l'elettronica dei Daft Punk, fino ad Avro Part e la chiusa con “Billie Jean” di Michael Jackson da battimano e battipiede, tasto che potrebbe essere più spinto se il Troll, qui immaginifico e suggestione creata dalle parole di Chabolotti-Benini, che si scambiano anche i ruoli, fosse proprio il batterista che potrebbe parlare a colpi di grancassa e rullante, che potrebbe rockeggiare duro sui piatti, che si potrebbe scatenare menando con le bacchette come John Bonham dei Led Zeppelin in un dialogo feroce tra la forza bruta prima della conversione e della comprensione.

Tommaso Chimenti 24/03/2021

FIRENZE – Finalmente abbiamo visto Filippo Timi in un monologo. La critica che sempre gli avevamo mosso era quella di utilizzare un testo, che fosse Shakespeare o Ibsen, per tirare fuori le sue tematiche, il suo modo di stare in scena, “uccidendo” così la drammaturgia, che diveniva soltanto pretesto, e gli attori al suo fianco, schiacciati dalla sua forza. Timi qui invece è uno “Skianto”, performer a tutto tondo con quel suo modo poetico e vivace, verace e tagliente di raccontare, di portarti fino alle lacrime per poi, sul più bello, lasciarti lì sospeso ed immergerti in una bolla psichedelica e trash, rosa e svolazzante. E' la sua cifra: la ricerca della carezza, della condivisione, dell'apertura con il cuore in mano per poi, quasi accorgendosi di aver fatto trasparire troppo o di essersi troppo lasciato andare, rientrare nei ranghi a lui più congeniali, il video, la canzonatura, il perugino stretto e ruvido che non consola ma ferisce le orecchie, le canzoni trasformate, i balletti, gli immancabili Queen, Lady Gaga, Britney Spears, David Bowie, Elton John. Il suo show (accompagnato dal bravissimo Salvatore Langella al piano che “traduce” le hit in napoletano rivestendole 1 LOW Skianto - Filippo Timi.jpgdi un altro abito ancora più denso, vicino e struggente) sono delle montagne russe esistenziali, emozionali, sentimentali, ti porta in cima alla rupe e poi giù negli abissi ed è vero in entrambi i casi: ti scuote, ti muove, crea empatia, vicinanza, solidarietà con questo brutto anatroccolo nel suo percorso-passaggio doloroso prima di diventare cigno.

“Skianto” è la storia, pinocchiesca (c'è anche il naso; omaggio a Carmelo Bene), di una morte, di ciò che era prima, prima della sua resurrezione e rinascita, che ogni fine è un inizio. E lui, partendo dalla provincia della provincia, Ponte San Giovanni, alle porte di Perugia, sa cosa è stata la fatica di emergere, di uscire da una realtà piccola e misera e claustrofobica. E' la storia di un bambino che non riesce, metaforicamente, a parlare, ad esprimere le proprie emozioni, chiuso in un mondo suo che lo schiaccia e lo inaridisce. Timi è appeso nella sua tutina bianca spermatozoica da astronauta (ci ha ricordato la pellicola “Gravity” con George Clooney) e fa capriole da trapezista consumato ed evoluzioni tra luci e palle stroboscopiche, un canestro e il fondale a pois: “Siamo tutti marziani” come a sottolineare la diversità di ognuno di noi e la non omologazione. “Life is now2 LOW Skianto - Filippo Timi.jpgè il ritornello che chiude i capoversi tragici e drammatici, e cozza (l'inglese ha sempre quel sapore di futuro e progresso, quel gusto di pulito che appiattisce le differenze linguistiche, regionali e geografiche) con il suo umbro strascicante che sa di terra, materico e duro, che sa di tradizioni, di un tempo lontano. L'intimo lascia il posto allo psichedelico, il retrospettivo si discioglie nel conturbante, il racconto toccante e commovente scivola nello scoppiettante sfrenato, il profondo tramuta nel delirio scatenato, euforico, esondante, il dramma e la disco, lacrime e sorrisi, up & down. Non ci sono vie di mezzo. E' una confessione, uno sfogo, un vomito sconsolato. Si piange e si balla.

Puoi togliere Timi da Ponte San Giovanni ma non potrai mai togliere Ponte San Giovanni da Timi, parafrasando Ibrahimovic e il suo “ghetto”. Legato a fili come un burattino, la sua (quella del protagonista; c'è sempre molto di autobiografico anche se romanzato) è una 3 LOW Skianto - Filippo Timi.jpglunga lenta presa di coscienza del proprio corpo, dell'intorno, fino alla liberazione. Accettazione, emarginazione, isolamento, identità: chi sono, chi ero, chi sono diventato, chi sono voluto diventare con estrema fatica, lavoro, sudore. La storia di Timi è una rivincita, è un esempio, deve essere trascinante, è per questo che è così amato ad ogni latitudine, perché, sotto il trucco o le paillettes, i pattini a rotelle o i jingle anni '80, sotto questa patina che è più una difesa colorata, il pubblico ha capito quanto è vero, quanto si conceda, quanto ogni sera si metta in gioco, in ogni replica generosa, quanto, catarticamente, ogni sera sia unica in quell'impasto di hic et nunc che non lascia spazio al mestierante ma lascia posto all'uomo (a tutti noi), con le sue piccolezze, con la sua polvere di stelle. Timi ci dimostra che è possibile farcela, pur partendo dalla provincia, pur senza possibilità, pur con ogni sorta di difficoltà: il pubblico lo ha adottato e, al netto delle canzonature, del non prendersi mai troppo sul serio, Filippo è diventato paladino, vessillo, bandiera di questa grande voglia e desiderio di essere amati e abbracciati senza la paura di ammetterlo. Dovremmo preservarlo, proteggerlo, come uno degli ultimi panda.

Tommaso Chimenti 16/01/2020

Poiché la Francia può contare su una vera industria cinematografica che il nostro Paese per il momento si sforza solo di immaginare, anche il genere del film per ragazzi ha un’importanza oggi del tutto sconosciuta al cinema italiano, malgrado alcuni recenti quanto modesti tentativi di intercettare il pubblico giovanissimo. Eppure avremmo una tradizione alla quale ispirarci: su tutti Luigi Comencini (“Le avventure di Pinocchio”, “Cuore”), e poi Folco Quilici (“Ti-Koyo e il suo pescecane”), Sergio Sollima (“Il corsaro nero”), Lucio Fulci (“Zanna Bianca”), Enzo D'Alò.

In questo senso, c’è solo da imparare dal sistema francese. Perché, dati alla mano, i principali fruitori delle sale italiane sono i ragazzini. E il cinema italiano non fa quasi niente per accontentarli: non ha funzionato il bel "Tito e gli alieni", si è difeso "La befana vien di notte" e ora siamo in attesa di “Copperman” e del “Pinocchio” secondo Matteo Garrone. Ma non si tratta di impostare un’inutile e sciagurata battaglia contro la Disney o la DreamWorks, ma di presentare qualcosa di almeno simile alle serie di Asterix e “Belle & Sebastien”, a “Mia e il leone bianco”, “Il piccolo principe”, “Il piccolo Nicolas e i suoi genitori”.

Un filone coltivato in modo sistematico e costante, che da una parte dimostra l’attenzione alle attese del pubblico infantile e dall’altra affronta storie universali ma legate all’immaginario nazionale – compito, peraltro, non difficile per un popolo tanto sciovinista. Ultimo titolo del catalogo è la superproduzione “Remi”, che Antoine Blossier ha scritto e diretto a partire dal classico “Senza famiglia” di Hector Malot, già all’origine di una fortunata serie anime e sei volte adattato per il grande schermo.

La storia è nota. All’età di dieci anni, Remi scopre di essere un trovatello. L’incivile padre adottivo vorrebbe chiuderlo in orfanotrofio: si salva grazie all’intervento provvidenziale di Vitalis, un musicista girovago che si esibisce con il cane Capi e la scimmietta Joli-Couer. In giro per la Francia, il misterioso mentore non solo insegna al bambino a leggere e scrivere, ma lo incoraggia altresì a coltivare il talento per il canto. E lo accompagna alla ricerca delle sue vere, imprevedibili origini…

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“Remi” è, a suo modo, un’operazione esemplare: nel riprendere un testo fondamentale per l’immaginario francese, Blossier riesce a trovare un piacevole equilibrio tra una rilettura piena di suggestioni fantasy (la neve dentro il palazzo di “Edward mani di forbice”, gli adulti de “I Goonies”, tutto il repertorio spielberghiano) e il forte ancoraggio al locale paesaggio geografico ed emotivo. Molto si deve a Romain Lacourbas, che fotografa in Cinemascope i grandi e selvaggi spazi con un nitido senso dell’epica e segue una mappa cromatica accessibile ai piccoli spettatori. Il progetto è chiaro a partire dalla forma: costruire un classico che sia godibile oggi come domani.

Pur non essendo fedele alla cronologia narrativa (“ho dovuto ridurre tutto a un anno”, ha affermato l’autore, “e cercato di adattare la drammaturgia, che è sostanzialmente una cronaca, alla struttura classica in tre atti di una sceneggiatura”), Blossier si mantiene fedele allo spirito dell’avventuroso e lacrimevole racconto di formazione, adattandosi allo sguardo innocente di un bambino che impara a vivere vivendo – e soffrendo. Maleaume Paquin ha la spiazzante naturalezza tipica dei bambini attori, in felice duetto con la star Daniel Auteuil in un ruolo larger than life (nonché con i due animali, davvero incredibili).

A sottolineare l’elemento fiabesco, una cornice in cui l’anziano Remi, davanti al camino, narra la storia ad alcuni bambini che non hanno alcuna intenzione di dormire. Lo interpreta il magnifico e sottoutilizzato Jacques Perrin, un attore che negli anni abbiamo visto crescere, maturare, invecchiare: una presenza eterea e fuori dal tempo che mette in dialogo il cinema con la realtà e mantiene negli occhi una fanciullezza indispensabile per garantire la credibilità di un film limpido, edificante e placidamente anacronistico.

Lorenzo Ciofani 31-01-2019

REGGIO EMILIA – Sono le storie i fili che ci tengono legati, come gli aquiloni, alla terra, quel suolo che ci sarà lieve, un giorno, e che altre volte ci fa sentire pesanti, al netto della forza di gravità. Sono le parole che ci fanno uomini, ci rendono passaggi fondamentali di sapere e portatori sani di sapienza, trasmettitori di memoria, connettori di sguardi. E questo lo ha capito bene “Reggionarra” in un susseguirsi di tre giorni dove la città del Tricolore ribolle di piccole grandi, semplici e genuine, mai naif, iniziative che hanno al centro due capisaldi: l'uomo e le sue narrazioni. Che cosa siamo in definitiva senza la parola, quella stessa che si fa essere incarnazione di valori e parabole, leggende e fiabe, arcani e nostalgie ma anche di insegnamenti e conoscenza. C'è chi racconta, mai spiegI lettini delle storie (4).jpga pedantemente, ma c'è, e ci deve essere, chi ascolta in uno scambio continuo, in osmosi, di pensiero e attesa, agognando il passaggio successivo. Le parole, quelle buone che non danno soluzioni precostituite e preconfigurate, ma quelle che scardinano, che spostano, che spingono un po' più in là, che aiutano, che sostengono, che fanno riflettere, che aprono porte e finestre, che mai chiudono, parole che accolgono e includono, che abbracciano e scaldano, che riempiono, che pongono domande, pungolano. Feticcio e iconografia per le storie è quel “C'era una volta” candido da nonna e lenzuolo, quel rimboccare le coperte verso l'età adulta per insegnare non che i draghi non esistono ma che i draghi, quotidianamente, grandi o piccoli che siano, si possono sconfiggere, con la tenacia, la coerenza, la costanza. Il drago è la nostra paura e si può battere soltanto affrontandolo: la fiaba è il primo passo verso la consapevolezza di quel bambino che un giorno sarà adulto. O forse gli adulti non smettono mai di essere bambini.

Da questo “sogno” nasce l'ideazione curata, sempre con attenzione e delicatezza, dal Teatro dell'Orsa (i reggiani Bernardino Bonzani e Monica Morini), i leggeri ed eterei, trasognanti come pan di zucchero e spirituali come lievito, “Lettini delle storie”. Si entra nel loro mondo incantato, in punta di piedi, silenziosi, rispettosi, nel loro immaginario fiabesco, religiosamente laico e profano, che, in un attimo, ti riporta indietro nel tempo quando la nonna o la mamma ti raccontavano una favola, forse sempre la stessa e che volevi ascoltare, per consolidarla, per consuetudine ma anche in maniera consolatoria, ogni sera per provare il piacere della paura e il timore che potesse cambiare il finale. I lettini sanno sempre un po' Monica Morini e Bernardino Bonzani.JPGdi Freud e psicanalisi, di racconto intimo e parole personali, incantate e chiuse in una parentesi, un dialogo profondo tra il narratore e l'ascoltatore. All'interno dell'inquietante Galleria Parmeggiani, tra bauli e armature, vasi e lance da collezionisti che rimbalzano nelle epoche e nei secoli, dove la Storia la senti presente, pressante e pesante, ecco gli angeli in bianco (i tanti giovani narratori che arrivano per l'occasione da tutta Italia formati dall'Orsa e da Antonietta Talamonti), cadaverico o celestiale, che ti conducono per mano, con leggerezza infinita e sfioramenti che abbattono la quarta parete, alla tua postazione, al tuo incontro uno ad uno, occhi negli occhi. E' un rito con le sue formule e i suoi dogmi: ti devi lasciare andare. Si ritorna indietro nel tempo, a ritroso, piacevolmente, ci si lascia cullare, coccolare accoccolati tra queste parole soffuse e lievi che incantano dolci, che scendono quasi a coprire le palpebre o le lacrime.Monica Morini e Bernardino Bonzani (2).JPG

Importante e fondamentale è l'incrocio degli occhi, saldo che non si abbassa mai, e il tatto e contatto, le mani, le dita, i polpastrelli, nei piccoli gesti che fanno casa e rifugio, salvezza e famiglia, forse placenta e posizione fetale, sicuramente riparo. Qui non può succedenti niente, sei al sicuro. Il tuo lettino, vicino ma non troppo ad altri lettini, è lì che ti aspetta. Ti devi togliere le scarpe, lasciare la tua anagrafe fuori da quelle lenzuola immacolate di latte, abbandonare la tua biografia e fare un salto carpiato al te bambino, quello che voleva succhiare ogni parola distillata per rincuorarsi, rinfrancarsi, crescere faticosamente un po' di più ogni sera. Le parole cadono come fiocchi di neve, il tono è basso, tutto è confortevole sdraiati sotto la zanzariera del lettuccio a baldacchino: la coperta è bianca, il cuscino è bianco, l'abito leggero della vestale è bianco. Sei invaso dall'abbacinante bagliore di tutta questa purezza che cozza con la penombra intorno, quella Storia che, attraverso gli oggetti in esposizione tra teche e vetrine, esprime guerra e sangue, battaglie e morte.

I lettini delle storie.jpgHanno costruito un piccolo universo fragile fatto di carezze e sorrisi, di lievità, friabile e amorevole. Sei immerso, per mezz'ora, in un sogno fanciullo e puro, in un'aurea sospesa: è una fortuna esserci. E senti la tua storia (“La Bella e la bestia” uguale per tutti) e ne percepisci pezzi e parti che arrivano e provengono dai lettini vicini, come echi precedenti, il passato che ci accomuna, come riverberi di ciò che stiamo per vivere, il futuro che ci attende. E' una lezione da imparare la gentilezza, la calma, la pazienza, una lezione mai da dimenticare, sempre da alimentare, sempre da foraggiare non tanto a parole quanto con l'esempio. Il Teatro dell'Orsa, come la sua stella di riferimento, indica la strada maestra, la luce da seguire per non perdersi, senza forzature, senza pressioni: la dolcezza dell'incanto, la grazia del sussurro possono salvare il mondo.

Tommaso Chimenti 21/05/2018

FIRENZE – Marco Paolini costruisce le sue storie su una base documentaristica. Se vogliamo possiamo dire che, come in ogni inchiesta, prima deve necessariamente avvenire il fatto e in seconda battuta deve esserci qualcuno che la passa, che la comunica, che la amplifica. In qualche modo, prendiamo Ustica o il Vajont ad esempio, Marco Paolini è stato il grande architetto, su una base storica e certificata, di un immenso romanzo popolare che ha delineato la coscienza civile e morale del Paese su quegli argomenti. Più dei giornali, più dei filmati, più delle pellicole, l'immaginario condiviso nazionale è stato geometricamente curato dalle parole cadenzate, ironiche e tragiche (e l'ironia è fondamentale nell'incedere narrativo di Paolini per far risaltare palese il ridicolo, il viscido, lo squallore dell'uomo, del potere, della politica), di questo cantore moderno che non usa altro che il suo stare su un palcoscenico, il suo dare forma alle immagini attraverso le sue parole, semplici, chiare, nette, il suo portarti, il percorso che inscena e dipinge strada facendo.2paolinijpg
Stavolta il registro cambia linea; non più Paolini (che in questi giorni ha in uscita un film nel quale è protagonista “La pelle dell'orso” dove ci porta in un altro rapporto padre-figlio) si basa su un passato certo e reale, da spiegare e divulgare cercando di tirare le fila di un ragionamento (politico, nella sua accezione più alta) ma si spinge a schiudere il prossimo futuro, con fantasia e pessimismo, con fantascienza e lungimiranza. Che un buon narratore annusa, sente, conosce, maneggia talmente bene il presente (a volte lo plasma pure) da capire i binari del domani. Gli intellettuali servono a questo dopotutto, a cogliere i segni e i segnali del quotidiano per tracciare delle bisettrici per meglio comprendere domani.
In un futuro non troppo lontano, riecheggia leggero Asimov, un uomo si è innamorato non di una donna ma della sua voce (ecco Siri, la guida di alcuni smartphone o ancora possiamo arrivare alla pellicola “Her” di Spike Jonke). La donna gravemente malata gli lascia, alla sua morte, il figlio di cinque anni da accudire. Il bambino, in un mix di prodigio e genio ma anche ingenuo e infantile, si fa chiamare “Numero Primo” (e qui fa capolino “Uno sceriffo Extraterrestre” con Bud Spencer e Terence Hill o “I figli degli uomini” con Clive Owen). Ed ecco le due corsie paoliniane (che qui per certi versi sembra guardare alla visionarietà e al surrealismo di Celestini) quella sulla paternità e quella scientifica. Le due scie si mischiano e si aggrovigliano come la spirale del dna. Proprio di genoma, di intervento umano, di sperimentazione sugli embrioni si tratta. E la fiaba di questo incontro, tra un bambino orfano e un padre che non si aspettava più tanta gioia dalla vita (il figlio è un “debrutalizzatore” della realtà), vira sul noir, sul giallo con fughe, inseguimenti, con uomini che cercano di prendere, rapire il piccolo perché custode di una sapienza, di un nuovo modo di poter nascere, di una nuova maniera e frontiera di fare, creare in laboratorio uomini geneticamente modificati. Il punto di rottura è stato superato, il punto di non ritorno varcato.
3paoliniUn mondo, un'Italia del domani per niente rassicurante con le scogliere di Venezia, l'invasione di pidocchi e topi, le scuole prima intitolate a Giosuè Carducci e adesso a Steve Jobs, con la domotica che sta prendendo il sopravvento sugli umani non più aiutandoli ma spingendoli a nuovi comportamenti, le fabbriche della neve in città al posto delle industrie, accozzaglie di etnie avvelenate e inacidite in casbah sovraffollate.
Da una parte la tecnologia che non lavora per il bene dell'umanità ma la inaridisce, dall'altra questo splendido rapporto di solitudine e famiglia, di isolamento e vicinanza tra un padre e un bambino, un rapporto maturo che migliora l'idea di mondo dell'adulto, che adesso ha trovato un vero senso all'esistenza. Una fiaba nera, e neanche a lieto fine, dove le persone, gli uomini tornano ad essere quello che sono: mani, occhi, bocche, abbracci, carne, sangue, sentimenti, stomaco e pancia, togliendosi di dosso tutte le sovrastrutture nelle quali abbiamo creduto, sulle quali ci siamo adagiati pensando che ci migliorassero e ci facessero diventare la vita più comoda. La vita non è comoda e se lo diventa ci impoveriamo, se non pensiamo, se non lavoriamo, se non fatichiamo, ci impigriamo, diventiamo cose, oggetti, soprammobili con un telecomando in mano, consumatori e non cittadini, se non lottiamo, se non combattiamo perdiamo il senso ultimo del respirare senza essere più individui pensanti. Se gli adulti sono ormai corrotti, sporcati, sciupati, spezzati, solo i bambini possono riportarci un passo indietro e raccontarci quello che abbiamo dimenticato, quello che eravamo quando vedevamo il mondo dal basso della loro altezza. Il cinismo logora chi ce l'ha.

Tommaso Chimenti 12/12/2016

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