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FAENZA - E' una vita difficile e futuro incerto, soprattutto per chi deve lasciare la propria terra e raggiungere un'altra sponda dove, spesso, non è atteso né desiderato. Frontiere, barriere, dogane, chi è dentro e non vuole far entrare chi sta fuori e chi sta fuori che cerca con ogni mezzo, spesso illecito e illegale, di entrare dentro. C'è chi difende i confini e chi tenta di saltarli. Ma esistono delle regole inderogabili. E' la storia dei profughi dalla Siria verso l'Occidente, di quelli venezuelani verso la Colombia, dei messicani verso gli Stati Uniti, degli africani in Europa. E' la storia dell'uomo fatta di spostamenti e migrazioni. Ma siamo troppi e le risorse scarseggiano e nel Primo Mondo non tutti sono disposti a dividere i propri privilegi, a cedere i diritti acquisiti, a sezionare il benessere (l'Europa è in default e il capitalismo arranca da decenni). Non chiamiamoli populisti, però. Non possiamo però prendere lezioni dal falso progressista Macron, sulla carta paladino dei diritti degli oppressi (la Francia continua a sfruttare l'Africa, mentre pochi anni fa Hollande bombardò il Mali), nella realtà invece rispedisce in Italia migliaia di africani, irregolari, a Ventimiglia. Il problema è spinoso tra chi giudica la faccenda dal punto di vista umanitario (alcuni scappano dalle guerre, altri dalla fame e dalla miseria, tutti dalle torture in Libia), chi invece da quello interno, economico e di ordine pubblico. Siamo a sedere sopra una polveriera. E il teatro tenta di dare la sua ricetta che è quella di apertura indiscriminata e inclusione, di costante lavoro con gli ultimi, con gli emarginati, con i migranti.Invisible City_Dah Teatar.JPG

Il progetto europeo ideato dalla compagnia faentina Teatro Due Mondi (non c'entra niente Spoleto né tanto meno Garibaldi, il nome è invece da imputarsi ad una canzone di Lucio Battisti), attiva da quarant'anni, è un tentativo, già dal nome "Mauerspringer", ovvero "Saltatori di muri", per riflettere con i mezzi e gli strumenti del teatro di strada sul fenomeno portando acqua al mulino della discussione, della condivisione, del dibattito. Tema fragile come la ceramica, prodotto principe e tipico di Faenza dove è assolutamente da visitare il Museo Internazionale della Ceramica con, tra le migliaia di reperti antichi, anche opere di Picasso, Cocteau, Matisse. Dicevamo del Progetto europeo costituito attorno all'argomento: si sono allineate diverse compagnie di alcuni Paesi del Vecchio Continente, appunto il TDM per l'Italia, gli Hortzmuga Teatroa di Bilbao per la Spagna, la Compagnie du Hasard di Feings in Francia, i Dah Teatar di Belgrado per la Serbia, gli Theaterlabor di Bielefeld in Germania. Ogni compagnia è stata invitata nei festival organizzati in patria dai vari gruppi, mentre a Faenza è andato in scena il capitolo finale dell'esperienza (dal 3 al 13 settembre, tutti gli spettacoli ad ingresso gratuito) in vari comuni romagnoli, da ovviamente Faenza, Brisighella, Casola Valsenio, Riolo Terme, Solarolo; se il pubblico non va a teatro è il teatro che va dal pubblico. Tre gli spettacoli ai quali abbiamo assistito, tre le diverse linee guida sul tema, tre gli approcci, tre le visioni, gli sguardi.

Corroborante e colmo di rimandi l'"Off the wall" dei francesi della Compagnie du Hasard con una piece colorata e dai ritmi travolgenti. La Famiglia Rossi è un mieloso gruppo composto da Padre, vestito in giallo, Figlia arancione e Moglie in viola. Sono spensieratamente felici, con tutti i tratti stereotipati alla Truman Show, le solite azioni consolatorie sempre uguali a se stesse, giorno dopo giorno, i sorrisi posticci senza farsi troppe domande sul presente. Sono stucchevolmente contenti, forse un po' inebetiti. Ma la pacchia sta per finire. La scena è composta per la maggior parte da barili di latta, quelli da benzinaio oppure da autofficina: la cucina, i letti, la poltrona. La musica è fondamentale e segna i cambiamenti di stato e segnala quando i tempi stanno per mutare, quando l'aria sta per prendere altre pieghe: c'è una musica di sospensione, c'è quella di un carillon quando tutto scorre via roseo, c'è quella inquietante alla Stranger Things che anticipa tempi bui, c'è la tecno con la sveglia della mattina e i ritmi frenetici della vita moderna, c'è quella soft jazz che indica una finta tranquillità, ci sono gli ululati dei lupi che si avvicinano sempre più.

Alla Off the Wall_Compagnie du Hasard 2.jpgporta dei tre colorati, fiori in mezzo al cemento, bussano le guardie in tuta militare ma con la bombetta da Arancia Meccanica. Sono in bianco e nero, sono ingrigite, sicuramente non sono felici. E come sempre il potere all'inizio non arriva con la prepotenza o con l'arroganza ma entra piano chiedendo pure permesso. E' il Padre charlottiano stesso a farli prima entrare e poi a concedere loro, sotto pagamento, di poter spostare la frontiera, con sbarre e filo spinato d'ordinanza, in giardino. Sembrano la Famiglia Flintstones improvvisamente catapultata dentro il set del "Bambino con il pigiama a righe". E qui sorgono due suggestioni; la prima fa riferimento alla poesia attribuita a Brecht, “Prima vennero a prendere gli zingari...”, che ci parla anche di Martin Luther King che sentenziava “Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti” che diventa in un attimo complicità e assuefazione e assenso, dall'altra i racconti sulle popolazioni tedesche che abitavano nei pressi dei campi di concentramento che, forse sapevano, forse ne erano all'oscuro, ma sicuramente non si facevano domande, bastava loro il vivere tranquilli e in serenità anche se accanto alle loro finestre si alimentava l'orrore.

Ma il Potere, si sa, ha una fame insaziabile e atavica e le conquiste non gli bastano mai, che sia per reale necessità o soltanto per disprezzo del rispetto delle regole. I militari (ricordano anche quelli di Fahrenheit 451) tornano una seconda volta chiedendo, sempre dietro pagamento, di spostare la frontiera proprio dentro casa, sezionando le camere da letto e il soggiorno: si vendono la morale e la dignità per pochi spiccioli. Il proverbio indiano “Quando avrete abbattuto l’ultimo albero, quando avrete pescato l’ultimo pesce, quando avrete inquinato l’ultimo fiume, allora vi accorgerete che non si può mangiare il denaro”, sarebbe qui calzante. Con i soldi che cosa ci fanno adesso che vivono reclusi e hanno le guardie con il mitra in casa che adorano, in un apposito altarino, il loro Leader (a metà tra i personaggi rassicuranti di Folon e quelli surreali di Magritte) al quale mostrare devozione assoluta e servilismo totale? Prigionieri in casa propria, senza possibilità di ribellione. La terza volta è quella finale di un'occupazione, di una vera e propria invasione che li confina allo status di bestie in gabbia e li obbliga ad una Resistenza che non prevede l'happy end.

Uno spazio non teatrale, non convenzionale eccita e stimola sempre il pubblico che cerca questo genere di operazioni curiose e spesso fantasiose. I serbi Dah Teatar, con diversi innesti di non-attori locali usciti fuori da un laboratorio, hanno scelto un autobus di linea per il loro "In/visible city", un format che hanno in repertorio da una quindicina di anni e che adattano e declinano a seconda dell'ambiente e del luogo dove si trovano a replicarlo. Il concetto di fondo (sarebbe stato più interessante e importante la produzione di un nuovo spettacolo senza appoggiarsi ad uno già consunto e consumato dal tempo) doveva essere quello di tirare fuori da Faenza storie, aneddoti, ricordi appunto invisibili o al limite non visibili a tutti. La raccolta del materiale in fase laboratoriale Dah Teatar 2.JPGperò non ha dato i frutti sperati, anzi si è avuta la netta sensazione dello scollamento delle varie scene, più numeri e gag, senza un filo conduttore forte né una decisa coerenza drammaturgica. Più che un viaggio il nostro (siamo una sessantina sopra l'autobus di linea numero 2, una decina gli attori e musicisti) è una fuga, nell'aria c'è atmosfera di deportazione tra valigie di cartone e violini e fisarmoniche nostalgiche. Il teatro sopra il bus ci ha ricordato la famigerata "Amerika" da Kafka di Claudio Ascoli con partenza da San Salvi e destinazione ignota per una Firenze estiva deserta (ne parlammo nel nostro articolo "Teatro & Viaggio": https://www.recensito.net/teatro/il-teatro-e-il-viaggio-articolo.html ).

Il viaggio dovrebbe essere dentro la "città invisibile" invece, tra schitarrate, sviolinate e poesie, si comincia prima con l'aneddotica delle origini della città, tra il fare sapiente e il quiz popolano, passando naturalmente dalla ceramica. Ma invece di Faenza, in maniera confusionaria, si cercano appigli dialettici e d'assonanza quasi per riempire i vuoti di senso; e così si parla dei cappuccini, i religiosi e quelli sorseggiati al bar, di Picasso, per poi scivolare, facile deriva, verso l'immigrazione (in modo ricattatorio), con salti concettuali semplicistici. Si butta nell'agorà del discorso la xenofobia e il caffè che è turco, un soldato tedesco, fino alle maschere veneziane e al popolo rom. Un calderone, troppa carne al fuoco (molta senza un reale costrutto) ha reso la piece in viaggio debole e affannata, incerta e traballante, senza una guida registica forte per uno zibaldone senza ossatura, senza spina dorsale, soltanto una serie di tessere di mosaico una in fila all'altra. Una frase da salvare però ce la siamo appuntata: "Sono un corpo che abita una città, sono una città che abita un corpo". E poi via agli stereotipi: "Qual è il Paese che accoglie più profughi?". E poi l'albicocca è cinese e la mela arriva dal Kazakistan. Come a dirci (come se ci fosse qualcuno che ancora non lo sa) che il mondo è uno solo ed è globalizzato, commettendo così il madornale errore di mischiare le cose con le persone, gli oggetti mercificati con i popoli. L'unica cosa da ricordare di "In/visible city" sta nell'essere transitati accanto ad una rotonda con al centro l'opera d'arte che raffigura la bambina che trascina un cetaceo, “Gaia e la balena” di Stefano Bombardieri: emozionante e straziante.

Molte Come crepe nei muri_Teatro Due Mondi.jpgperplessità, dubbi e domande ha invece suscitato “Come crepe nei muri” proprio del Teatro Due Mondi, sia dal punto di vista contenutistico sia da quello realizzativo-formale. Quando l'arte diventa mero strumento ideologico fa danni, quando il teatro diviene comizio senza contraddittorio allora trascende la sua funzione. Che ogni gesto, che ogni azione, che ogni opera d'arte sia politica ci trova d'accordo. Qui la questione è un'altra, che parte dall'ingenuità mostrata in piazza, anche per via della trentina di non-attori partecipanti al laboratorio, sia per le tesi srotolate in campo senza alcuna teatralizzazione se non azioni collettive, discutibili, intervallate da canti da corteo anni '70. La distinzione tra i mondi, il povero e il ricco, è netta, ben distinta, e i buoni, ovviamente stanno dalla parte dei diseredati, mentre i cattivi sono i ricchi tratteggiati sempre a bere e mangiare, alle spalle dei popoli affamati, a giocare a badminton, a ridere (anche i ricchi piangono...). La Regina d'Inghilterra viene assaltata da coloro che vogliono entrare a Londra e se non possono arrivarci con il passaporto fa niente, entrano, sono giustificati a farlo, con la forza, con la violenza. Una violenza contro le regole, contro le forze dell'ordine: il fine giustifica i mezzi, quindi lanciamo sassi, spacchiamo vetrate, rompiamo i cordoli delle frontiere, tiriamo qualsiasi cosa che distrugga l'ordine costituito. Si tifa per una disobbedienza incivile che lancia un brutto segnale all'Europa. L'arte, il teatro, possono saltare i muri, le persone dovrebbero attraversarli con i documenti in regola.

Tommaso Chimenti

BOLOGNA - “Non è uno spettacolo sull'immigrazione”, dicono preventivamente i due fondatori dei Kepler 452 per il lavoro che segue il fenomenale, dal punto di vista artistico e di resa di pubblico e repliche e premi “Il Giardino dei Ciliegi”. Ed è proprio dicendoci dal palco che questo non sarà un'opera sull'immigrazione che lo è e se, al limite, non lo fosse così lo diventa. Come quello che ti dice insistentemente di non pensare all'elefante bianco. Il pensiero va lì, incessante, senza sosta, senza salvezza, senza tregua. Il procedimento di fondo di Nicola Borghesi, sempre lucido, e Paola Aiello, efficace, (con Enrico Baraldi dietro le quinte) in scena entrambi in questa lingua di boccascena separata e divisa e sezionata da due grandi portelloni, ante gigantesche apribili che ci ricordano quelle delle arene da rodeo o frontiere, è quello non soltanto di prendere spunto dalla realtà e riportarla in teatro quanto di fare entrare il teatro nella vita e viceversa e sul palcoscenico portare questo mix, in maniera esplicita e palese, tra verità e finzione.43160826_341642903251407_6162707335656059495_n.jpg
Dopo il Giardino con la coppia di anziani sfrattati dal Comune di Bologna per far posto a FICO di Farinetti, adesso siamo dentro la storia di F., nigeriano clandestino quarantenne da vent'anni sul suolo italiano senza i requisiti necessari per potervi rimanere. Una storia di disobbedienza civile. Di fondo c'è una presa politica forte, diffusa e decisa, in questo “Perdere le cose” (debutto a “Vie Festival”, prod. Ert Fondazione; già il titolo sa di smarrimento, di sradicamento, di mancanza di punti di riferimento; l'uomo senza cose, case, posti, luoghi, oggetti, perde la sua connotazione e stabilità e certezze) la protesta è netta contro le leggi anti-immigrazione e contro gli sbarchi, si schiera contro Salvini e chi salvaguardia i nostri confini, terreni o marittimi. Dire “non è uno spettacolo sull'immigrazione” fa di F. e di “Perdere le cose” non soltanto uno spettacolo sull'immigrazione ma anche un manifesto, un simbolo perché non arriva di rottura affrontando il fenomeno nel suo complesso, sempre generalistico e impossibile da delineare, quanto dall'ottica di un solo sguardo che intenerisce e, in maniera moralmente ricattatoria, ci fa schierare senza prendere in considerazione tutto l'ingranaggio.

In “Perdere le cose” tutto il racconto è filtrato dalle parole dei due Kepler in scena nel riportare, rievocare, traslare i fatti, facendoli passare attraverso il filtro del linguaggio enfatico, teatrale in una sospensione. Una voce in sottofondo ogni tanto fa capolino e da subito capiamo che potrebbe realmente essere, nel suo italiano africanizzato, la voce di questo fantomatico F., nigeriano clandestino sottoposto a cure psichiatriche nel nostro Paese e senza documenti in regola, che c'è ma non si fa vedere, un Godot che aleggia ma non si mostra, non si palesa (perché non può e non glielo permettiamo, questa la tesi di fondo), che non fa epifania di se stesso, non ci appare messianico.

I Kepler (grande il loro impegno nel sociale) hanno conosciuto F. in un dormitorio per senzatetto e hanno deciso di raccontare la sua storia. Ma le smaxresdefault.jpgtorie singole non sono mai fini a se stesse ma si portano dietro un carico di notizie, un bagaglio pesante di situazioni, uno zaino di contingenze. Anche l'escamotage di portare sul palco una persona del pubblico che, con le cuffie, ripete la storia di F. che non può essere lì perché un governo cattivo e fascista non gli dà il permesso di soggiorno (senza averne i requisiti) ci instrada già su quale sia la parte giusta da seguire, ci dà la soluzione, ci dice chi siano i buoni e chi i senza cuore, ci spinge a fare il tifo e per chi far scattare la commozione (alla fine un'ovvia standing ovation) e per chi invece invocare le peggiori sfortune. In Italia per lavorare servono (anche negli altri Stati) documenti in regola, senza finisci nel lavoro nero, nell'illegalità, nella ricattabilità, nello sfruttamento, nella delinquenza: far rispettare le leggi non è essere fascisti.

Il “Perdere le cose” del titolo fa riferimento al fatto che F. come molti nelle sue stesse condizioni “perdono” i documenti, ma in realtà non li hanno smarriti, li buttano via volontariamente, li distruggono così, se vengono fermati dalla Pubblica Sicurezza per un controllo, non sanno dove rimpatriarti e qui restano. E' il gioco delle parti certo. E per F. il “gioco” è andato avanti venti anni certo vivendo di stenti e non nella “pacchia” (è bene sottolinearlo), del mestiere di “vu cumprà”, come egli stesso racconta, di notti in strada o in una stazione perché “il treno mi porta la speranza di andare via”. Nessuno vuol criminalizzare F. ma non vorremmo neanche farne un martire, un eroe (pazzesco che in molti paragonino i migranti ai partigiani!!!), un angelo in terra schiacciato dalle nostre leggi, per alcuni, dure e repressive, per altri lassiste e permissive. Alcune battute come quella “i Carabinieri ci vanno a teatro?”, sottintendendo, sogghignando, altro, forse un'ignoranza diffusa nelle forze dell'ordine?, fanno ridacchiare sotto i baffi quelli che guardavano in cagnesco chi rideva delle barzellette (terreno berlusconiano) su Pierino e similari.MG_8231-e1551966300487.jpg

Comunque F., senza lavoro, senza reddito, senza dimora né residenza (gli stranieri non rubano il lavoro se quest'ultimo non c'è per tutti, forse semplicemente non hanno le competenze adeguate per stare nel nostro mercato del lavoro occidentale, invece l'assistenzialismo esiste eccome, come esistono le frontiere, i passaporti, la Comunità Europea e gli extracomunitari), senza i documenti e la possibilità di mettersi in regola, rimarrà qui in quest'Italia cattiva (e ovviamente razzista, aggettivo che ancora ero riuscito a non utilizzare) fino alla prossima deroga, al prossimo colpo di spugna, al prossimo “condono”, al prossimo permesso umanitario. Alla fine ecco che l'eroe F. si palesa per la commozione di una platea partigiana (di parte, niente a che vedere con la Resistenza, precisiamo) che, evidentemente, inneggia alla clandestinità e a non rispettare le leggi del proprio Stato. Il Paese è spaccato.

Tommaso Chimenti 25/03/2019

“Tutte le facce dell’Arte”. L’Altrove Teatro Studio presenta il secondo appuntamento dedicato al teatro di prosa. Venerdì 16, sabato 17 e domenica 18 novembre in scena Drumul – La Strada, scritto e diretto da Lorenzo Di Matteo con Marius Bizau che sarà accompagnato sul palco dalle musiche dal vivo di Daniele Ercoli.

Drumul – La Strada è il racconto biografico per la scena dell’attore Marius Bizau nato in Romania nei primi anni ’80 sotto la dittatura di Ceaucescu. La storia dell’infanzia di Marius passa attraverso la rivoluzione fino al suo arrivo turbolento a Roma, a quindici anni, alla fine degli anni ’90. Per Marius sono i difficili anni dell’adolescenza. Sarà il teatro a condurlo al riscatto, a integrarsi del tutto nel nostro tessuto sociale. Una storia forte raccontata con umorismo e leggerezza: Marius si sente perfettamente a metà tra l’essere romeno e italiano e restituisce in scena la speranza che da ogni difficoltà possa nascere un’occasione.  

Un inno leggero e gioioso all’integrazione, uno spettacolo necessario rispetto al momento storico che stiamo vivendo in un’Europa che trasuda intolleranza. Drumul non è solo il racconto biografico di Marius ma è soprattutto la storia di sua madre Silvica che con inattaccabile forza d’animo – “di stampo sovietico” la definisce ironicamente il figlio – porterà avanti la famiglia in un intenso turbinio di eventi dalla Romania fino all’Italia. Nella lingua di Marius “drumul” significa “strada”: una strada che passa dal teatro e che l’attore restituisce attraverso il teatro. Le musiche eseguite dal vivo da Daniele Ercoli fanno da contrappunto alla narrazione e al tempo stesso diventano il vettore di un messaggio fondamentale: ogni essere umano in terra straniera può dare il suo contributo positivo. Come Marius che, dopo essersi sudato il diploma all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, lavorerà come attore italiano in Italia.

Quella portata sul palcoscenico da Drumul è una “bella storia” non solo perché il pubblico abbia il suo “lieto fine” ma perché ci ricorda che qualunque storia di immigrati può finire bene solo se daremo loro una possibilità.

U.s.

12/11/2018

SAN CASCIANO – “Intanto sul monte del Calvario smontavano le Croci, e ci nasceva un centro commerciale e due fiori che gridavano feroci” (Mannarino, “L'ultimo giorno dell'umanità”).

Adriano Miliani non ha scelto un giorno casuale per mettere in scena il suo nuovo esperimento “La Giostra dell'Umanità”. L'11 settembre si porta dietro sentimenti e sensazioni ormai radicate in noi miliani4.jpgoccidentali, pensieri, rabbia, sconforto, paura certamente. Homo homini lupus. L'uomo è l'unica razza animale sul pianeta Terra in grado di autodistruggersi, di disintegrarsi, nessun altra specie avrebbe questo ardire, questa voglia e volontà. Lo sosteneva anche Albert Einstein: “L'uomo ha scoperto la bomba atomica, però nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi”.

E questa “Giostra” itinerante è una Via crucis, non a caso ha dieci stazioni di penitenza, passione e riflessione, per un viaggio intimo dentro i budelli del teatro e dentro noi stessi, per dieci spettatori alla volta. La parola giostra richiama la fiera, il luna park, i colori, i suoni della festa, le luci che abbagliano i sorrisi dei bambini, quella girandola di grida e schiamazzi alla ricerca di un nuovo gioco da provare. Qui è l'ossimoro della deriva dell'uomo, è il veleno, è il contrasto, la frizione, la rottura, quello che avrebbe potuto essere e che invece l'uomo ha intossicato, sporcato, fatto marcire.

milliani1.jpgEra Bukowski a dire che “La gente è il grande spettacolo del mondo. E non si paga neanche il biglietto”. A volte è uno show comico, altre tragico, molto spesso tragicomico. Ed è in questo solco che Miliani persegue la sua poetica, colorata e frizzante, sciogliendoti con un sorriso e raggelandoti subito dopo, in una continua altalena, un otto volante di emozioni, ora il caldo, il rassicurante, il familiare e immediatamente dopo il freddo della morte, dell'indifferenza, della mancanza di empatia. L'umanità che non ha umanità. Gli uomini non più umani ma calcolatori, aguzzini, boia, assassini per un pezzo di pane. La compagnia Jack and Joe mette sul piatto tutta la fragilità dell'essere umano, i suoi vizi, le sue contraddizioni, le sue debolezze, la sua ricerca di salvezza in un sistema che non ha vie d'uscita; è questa sua condizione di sconfitto che ne fa un potenziale killer del suo simile.

Il buio del Teatro Niccolini ci affascina e ci accoglie, come utero materno ci ingloba, ci fa spazio dentro di sé in quest'inquietudine diffusa, in questo brivido che corre leggero. Dieci piccoli indiani alla scoperta, vagando nel buio dell'animo umano pece. Un interno familiare, lui che fa le bolle di sapone, lei che lo ama, i due si baciano, lui che la rassicura: “Andrà tutto bene”, poi si allontanano e nel buio lo sparo del femminicidio. L'insoddisfazione, la frustrazione, la depressione. Dalle carezze al colpo allo stomaco, e ti senti stordito dalla gentilezza prima, da tutto quel gelo che ti cola addosso poi e ti impantana. Ci consegnano delle bambole zuppe, infradiciate, gocciolanti (di lacrime), ci fanno muovere in fila indiana e dopo, nel buio, ci dicono di farle cadere. Quando una flebile luce si accende, in una piccola pozzanghera tanti bambolotti galleggiano ricordandoci Aylan, il bambino siriano con la maglietta rossa annegato sulla spiaggia di Bodrum. Ti senti carnefice, in prima linea, chiamato in causa, accusato, forse, additato. Ma siamo tutti colpevoli perché, come diceva Freud “l'umanità ha sempre barattato un po' di felicità per un po' di sicurezza”?miliani3.jpg

Ecco che appare la giostra che dà il titolo alla piece: sopra vi ruotano dei manichini, piccoli fantocci con un abito bianco. Non fatichiamo a capire che sono spose bambine (come avviene tutt'oggi dalla Turchia a tutto il Medio Oriente quotidianamente) in attesa del marito-padrone che letteralmente le compra tra abusi, pedofilia, violenze d'ogni tipo, umiliazioni d'ogni grado. Ci sentiamo sporchi, complici di un sistema che, giocoforza, anche resistendo o ribellandoci, avalliamo e foraggiamo, alimentiamo. Un obeso (del Primo Mondo) che continua a ingozzarsi (teatralmente la scena più cool tra luci e chiaroscuri con questo sacco che si gonfia a dismisura) e accanto, girato l'angolo, un uomo che, per pochi spiccioli, spaccherà, fino alla sua morte, pietre (sono salite alla mente le fotografie di Salgado sulla Sierra Pelada) ed al quale l'istruzione è stata negata. Il calvario prosegue, leggero da una parte, accogliente e lisciante con violinista e un presentatore sorridente, fustigante dall'altro. Adesso siamo noi i viandanti del mare, i migranti, tra schizzi d'acqua e vento in faccia, bonaccia e onde; seduti al buio, immersi nei suoni dello sciabordio della schiuma, appena una luce rischiara la nostra miliani2.jpgnotte, davanti a noi uno specchio ondeggia e ci rimanda le nostre facce stupite: siamo noi i migranti, i possibili futuri immigrati. Fino alla lettura finale della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, praticamente in decine di Paesi carta straccia e lettera morta scritta a tavolino, utopia aleatoria, interrotta bruscamente dalla realtà che entra a piedi uniti, urlando, spegnendo la recita, facendo calare il sipario, ammutolendo e zittendo l'uomo che voleva parlare dei diritti inalienabili dei suoi simili. E' l'Umanità, bellezza.

“A volte penso che Dio, nel creare l'umanità, abbia leggermente sopravvalutato le proprie capacità” (Oscar Wilde).

“La Giostra dell'Umanità”, ideazione e regia Adriano Miliani, con Adriano Miliani, Marco Borgheresi, Samuel Osman, Sergio Licatalosi e Mirella Lampertico, e l'amichevole partecipazione del clown di Sandro Picchianti, il violino di Roberto Cecchetti e l’oste Gianni Traversini. Visto al Teatro Niccolini, San Casciano, l'11 settembre 2018.

Tommaso Chimenti 12/09/2018

LISBONA – Trentacinque anni di festival, quarant'anni della compagnia che lo organizza. Numeri tondi e importanti per il Festival de Almada, quello spicchio di terra collegato a Lisbona dal grande ponte in ferro rosso. Il Ponte e la statua del Cristo Redentore, i simboli di questa parte che s'affaccia sulla foce del Tejo e guarda l'oceano, grande e misterioso, lì ad un passo. Portogallo è il bacalau, è il pasteis de nata, è, inevitabilmente, Cristiano Ronaldo. Ma anche le maioliche azul che rivestono, dentro e fuori, le chiese, è la Chiesa del convento do Charmo che ha perso il tetto nel terremoto di36866233_10209226287372631_6506777403631599616_n.jpg metà '700 (ricorda San Galgano, l'abbazia vicino alla spada nella roccia), è indiscutibilmente il fado, i tram che s'inerpicano sulle vie in salita. Fascino e tradizione. Lisbona è Belem con la sua fortezza sull'acqua, con il monumento ai Padri delle Scoperte che si protende nel mare alla ricerca di nuove terre. E Almada sembra tuffarsi nel cuore di Lisbona. Non chiamatela periferia. Qui la Companhia de Teatro de Almada, diretta dal regista Rodrigo Francisco, mette in piedi, ogni anno dal 4 al 18 luglio, una rassegna internazionale con i grandi nomi del teatro; quest'anno, solo per citarne alcuni, Pippo Delbono, la Needcompany di Jan Lauwers, la Familie Floz, Spregelburd e Paolo Magelli. Gruppi provenienti dal Belgio come dalla Francia, dalla Croazia e dal Messico, Italia e Spagna, Slovenia e Germania, un'atmosfera multiculturale piena, vivace, frizzante.

28mar13-459.jpgHa una patina da Fratelli Coen l'“Arizona” dei messicani Teatro de Babel, testo smaccatamente anti-Trump, polemico con l'arma dell'ironia (facile), pungolo alle politiche migratori e anti-immigrazione che stanno sconvolgendo l'attualità, dal muro ai confini con il Messico ai barconi verso l'Italia, ai respingimenti in Ungheria. Ormai la politica interna degli Stati più sviluppati è la politica estera. Qui tutto è ipercolorato, acceso come un fumetto, volutamente, forzatamente spinto verso la tesi che gli statunitensi sia tutti dei bifolchi gringo con la camicia a scacchi e il fucile pronto a sparare mentre i messicani (o chi proviene dal Sud del mondo) sia buono, bravo, pacifico e non solo voglia venire in un altro Paese ma, arrogantemente, non chiede permesso ma pretende il libero passaggio, forse anche una casa e un'occupazione. La critica sociale verso le politiche di frontiera del governo Trump (il muro non lo ha fatto, quello che già c'è è dell'epoca di Clinton) avrebbe avuto senso e sostanza se fosse stata fatta dall'interno, ovvero dal una compagnia statunitense non certo da una messicana. Ma torniamo al teatro. Gli Stati Uniti sono un posto xenofobo, abitato da trogloditi che a male pena connettono concetti e parole. Semplificazioni. Tutto è parodia, sullo sfondo un confine che è metà fisico e altrettanto metaforico. In video le centinaia di persone che ogni notte scavalcano le recinzioni e in audio l'inno a stelle e strisce: la platea si scalda, tutti contro gli “invasori” americani, tutti con i jeans e cenando al MacDonald's. Altra facile speculazione l'uomo (ricorda il personaggio di Crozza Napalm51) è un bovaro ignorante mentre la moglie (le donne, si sa, sono sempre un passo avanti agli energumeni maschili), pur nei suoi dubbi e nelle sue incertezze, è più sensibile e aperta, progressista e possibilista. Il pic nic sulla frontiera è assurdo. Si sentono i profumi del “Grande Lebowsky” come gli afrori da “Breaking Bad”. I messicani del Teatro de Babel ci dicono che gli americani guardano con il binocolo un nemico che non esiste (infatti i due coniugi non scovano nemmeno un erede dei Maya intendo a passare il confine clandestinamente) ma è dentro di loro, alberga nelle loro coscienze sporche. C'è un sibilo che ci porta all'“Aspettando Godot”, ad un qualcosa che deve accadere ma che proprio nel momento giusto ritarda, tentenna, si stoppa, un coitus interruptus. Marito e moglie scrutano la platea, siamo noi i nemici, i messicani in un mix da musical campagnolo tracoloniapenal_04.png “La casa nella prateria” e il nostro Mulino Bianco, l'immancabile Bibbia e nel naso quel senso da Far West. Nel finale, pulp e splatter, la ridicolizzazione degli U.S.A. raggiunge il suo acme. Peccato che esistano ancora i confini, gli Stati, i passaporti, le leggi, i governi.

Da una frontiera da eludere ad una reale impossibile da oltrepassare una volta varcato il cancello: la prigione. I portoghesi del Teatro do Bairro hanno ricreato quel velo di angoscia claustrofobica del quale è impregnata “Colonia penal” di Genet riuscendo a rendere e restituire tutto il peso chiuso, tutto quello strato di impossibilità e rapporti deviati che scaturiscono dietro le sbarre, tutti i poteri e le subalternità da subire, le scale gerarchiche alle quali essere sottomesso. Ricorda le performance dei Living Theatre. Gli aguzzini hanno cappelli da Pinocchi, la ghigliottina sta in primo piano a ricordare la fine, la conclusione mentre le pareti semoventi si aprono o si richiudono, diventano un angolo ottuso o acuto come ventagli, come un incubo sotto il quale essere schiacciato senza via d'uscita in questa penombra, reale e dell'anima, che tutto ammanta come una lingua di catrame, in questo lager dalle sintonie fragili, in questo campo di concentramento allucinato senza scampo.

zapiranje_ljubezni-01-v.jpgInfine il “Final do amor” di Pascal Rambert a cura degli sloveni Mini Teater, un Lui e una Lei che si fronteggiano in monologhi lunghissimi, scagliandosi, scannandosi, insultandosi, tentando di amarsi odiandosi. In una scena vuota, svuotata e arida come il loro rapporto giunto al capolinea, si urlano in faccia come gatti randagi, vorrebbero andarsene ma ritornano perché hanno bisogno del nemico di una vita. Tanto sono immobili, fissi, statici, verticali nella loro postura, tanto i loro gargarismi vocali e il loro profluvio di parole azzanna l'altra, lo travolge, lo inonda, lo spazza come cascata, come valanga, come alluvione di rancore e di tutto quel non detto che adesso esonda, travalica, non riesce a rimanere negli argini. Sembrano Marina Abramovich e l'ex marito Ulay nella celebre performance “The Artist is Present”. Vanno a folate, attacchi e rinculi, reprimende e scuse, singhiozzi tremanti e accuse solide, una guerra, meglio una guerriglia dove avvicinarsi e ritirarsi a fisarmonica in un flusso di parole da apnea, una sfida, una mitragliatrice che spara critiche e denunce, mancanze e insoddisfazioni da “C'eravamo tanto amati”, una danza di morte, un ballo per rinascere.

Tommaso Chimenti 16/07/2018

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