Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

ROMA – Dopo averlo visto nelle vesti carnascialesche e viscerali dei Sonetti shakespeariani, dopo averlo ammirato in un Moliere colorato e raffinato, stavolta applaudiamo un Valter Malosti poliedrico, sempre più artista a 360 gradi, capace di cambi di registro, di sterzate, di intuizioni, di piccole grandi magie sceniche. In “Se questo è un uomo” (che in prima battuta era stato affidato a Paolo Pierobon che ha lasciato la “patata bollente” a 25 giorni dal debutto: un bravo a Malosti anche per aver preso la nave a quel punto della rotta), sempre terreno scivoloso con la retorica e la didattica e la didascalia sempre pronte a fare capolino, il direttore del Tpe di Torino (che lo produce assieme al Teatro Stabile di Torino e al Teatro di Roma) è riuscito, con una recitazione neutrale e che non lasciava adito né respiro a convenzioni né a facili commozioni, a far passare, nel suo quasi completo immobilismo, un dolore feroce, uno strazio silenzioso, lasciare ferite sotterranee.02-Valter-Malosti-ph-Tommaso-Le-Pera-1920x1278.jpg

Il suo è un teatro sempre curato all'estremo, denso di contenuti ma pulito in immagini che rimangono impresse anche molto oltre la fine della rappresentazione; qui l'uso delle proiezioni che dialogano perfettamente con il protagonista (1h 40' di monologo, mai stancante o fiacco, mai cede o tentenna), la scena (efficace di Margherita Palli) con il pavimento sconnesso e obliquo come un paesaggio lunare spettrale di crateri, come le vite degli ebrei dopo le Leggi Razziali, il coro (le bocche proiettate ci portano alla memoria “Non io” di Samuel Beckett) con i madrigali che trascinano con religiosità aulica e spirito febbrile, i due performer, usati con il contagocce, una danzatrice e un attore zombiesco, che intervengono a piccole dosi, come satelliti che danno ancora più risalto al pianeta centrale. Comunque non si tratta di un one man show anche se tutto ruota attorno al carisma e alla luce che emana Malosti/Levi fermo in mezzo alla scena nel suo cappotto, con la valigia, lì sospeso, abbandonato nel vuoto attorno e con tutto quel buio, soprattutto quando la casa alle sue spalle si alza dopo l'entrata nel lager, quel nero devastante, violento, crudele e brutale che dietro di lui vuole aggredirlo, tenta di mangiarselo, vuole inghiottirselo, vuole trascinare anche noi, succhiandoci dalla platea, come una calamita bulimica che attrae ogni materia che le gravita attorno.

Il progetto di Malosti è alto, inconsueto e impegnativo a cento anni dalla nascita del torinese Primo Levi (31 luglio 1919), tre gli appuntamenti ideati con altrettanti campioni della scena contemporanea nostrana: Pierobon, appunto in prima battuta, in “Se questo è un uomo”, Luigi Lo Cascio con “Il Sistema Periodico”, Fabrizio Gifuni in “I sommersi e i salvati”. La neve scorre sul velatino sul boccascena e, una volta caduto a terra, forma una sorta di fangoso appicicaticcio composto che sa di melma, di sporco, di quel laido incrostato che pervade i giorni nel campo di concentramento. Il suo è un racconto, il lento scivolamento nell'abisso, anzi in quell'Inferno che si fa parallelo, in audio, con quello dantesco. Il ritmo, nel suo incedere lineare e senza strappi, nella sua “normalità” di concatenazione degli eventi senza pathos03-Valter-Malosti-ph-Tommaso-Le-Pera-1920x1278.jpg (dona ancora più freddo alle ossa), è un cammino claudicante, una perdita, una discesa tra queste scale di grigi, sfumature di morte, con questi riflettori (le luci affilate sono di Cesare Accetta) che da più parti colpiscono, accecano, incartano Malosti come un interrogatorio al sapore di chiavistelli, al crudo rumore di ghigliottina. Malosti qui non è Levi, ma è Levi che racconta di se stesso in una triangolazione che restituisce gravità e distanza, un occhio esterno che allontana e rende la visuale più nitida sull'impianto. Un grande lavoro composito pulito.

Tante scolaresche (il tema si presta) e nessun fiato, nessuna distrazione, nessun bisbiglio: la luce oscura che arriva dal palco è talmente potente che annichilisce, ti rende esangue, prosciuga, congela, immobilizza, affascina, deglutisce come un imbuto, tira come un cono d'ombra, risucchia come sabbie mobili. E basta leggere Levi, e basta sentire Malosti per capire, anche a distanza di anni, quanto abbaglianti e incresciose fossero le inesattezze e gli errori grossolani e marcati disseminati all'interno della pellicola Premio Oscar “La vita è bella”: le baracche dei prigionieri in muratura con il pavimento, invece erano di legno con il fango a terra, il bambino che rimane con il padre, invece venivano separati e gassati subito, i teschi messi a piramide, invece c'erano i forni crematori per “farli passare per il camino”, gli americani che arrivano in Polonia con i carri armati a distribuire cioccolata e chewing gum (come accadde a Napoli, Malaparte docet), invece erano stati i russi CARIGNANO_12-Valter-Malosti-ph-Tommaso-Le-Pera_800_532.jpga liberare i campi. Inaccettabili stravolgimenti della Storia.

Valter Malosti conosce i meccanismi del teatro, le sue pieghe e al contempo non usa strategie, ruffianerie, sotterfugi, rimanendo minimalista pur nella somma che mai risulta debordante, anzi tutto è centellinato, misurato, millimetrico, ben calibrato. Inoltre, seppure tutto il testo sia concentrato su di lui e nelle sue mani e gravi sulle sue spalle larghe, mai si ha la sensazione del mattatore che “uccide” il testo e se lo mastichi per il puro gusto dell'applauso (abbiamo molti esempi in Italia di tale nefasto modo di stare in scena).

Il suo teatro.it-se-questo-e-un-uomo02-Valter-Malosti-ph-Tommaso-Le-Pera.jpgscorrere è ansiogeno in una calma apparentemente gelida che non ti concede vie di fuga né attimi dove poter stare tranquillo affossato sulla tua poltroncina, ogni incipit è uno spillo che ti costringe ad aprire gli occhi, ti mette a nudo in questa “demolizione di un uomo”, e ti senti piccolo, e ti senti vulnerabile, e ti senti indifeso e impotente, ingabbiato, “la presenza cattiva del filo spinato” la senti sulla pelle come brivido irto, sei solo, offeso, tramortito, senza speranza. Testo straziante e ancora necessario. E c'è quasi vergogna alla fine ad applaudire, perché il battere le mani è gioia o liberazione e in questo caso non ci può essere né l'una né l'altra. Se questo è Malosti lo vogliamo vedere altre dieci, cento, mille volte.

Tommaso Chimenti 10/11/2019

Foto: Tommaso Le Pera

SAN MINIATO - “Mi hanno sepolto, ma quello che non sapevano, è che io sono un seme” (Wangari Maathai).
Il silenzio degli innocenti. E' passato un secolo, cent'anni di solitudine, e ancora il cosiddetto “Primo Mondo” non si è messo d'accordo per certificare le atroci barbarie commesse su un popolo, gli Armeni.Come se mettere nero su bianco e sottoscrivere un termine, da più parti negato, “genocidio”, possa o meno alleviare sofferenze, sminuire morti e diaspora, far tornare indietro il ticchettio del tempo. Da37395417_1898062387160435_8487930256886333440_o.jpg una parte l'Impero Ottomano, di religione musulmana, dall'altra gli armeni, cristiani. Un milione e mezzo di decessi, di assassinii, se non è genocidio questo, se questo è un uomo. Cento anni e ancora la questione scotta e brucia (il recente scontro proprio sul tema tra Erdogan, padrone della Turchia, e Papa Bergoglio) e alla quale la scrittrice Antonia Arslan ha tentato di dare il suo contributo, dall'interno, raccontandoci “La masseria delle allodole”, una sorta di notte dei cristalli che andava a scardinare e frantumare la convivenza dei popoli e delle culture nella Turchia dell'inizio del secolo scorso. E dopo il trattamento cinematografico dei Fratelli Taviani adesso è il regista Michele Sinisi a dare voce alla scena grazie al Dramma Popolare in quel solco consolidato di classico e contemporaneo.

Già nel recente passato, in teatro, siamo stati testimoni di altre documentazioni artistiche sul genocidio armeno, dal “7th sense” coreografia di Angela Torriani Evangelisti per Versiliadanza a “La bastarda di Istanbul” di Elif Şafak con Serra Yilmaz produzione Pupi e Fresedde o ancora il vibrante “Armine, sisters” dei polacchi Teatr Zar, visto all'interno di “Fabbrica Europa” alla Stazione Leopolda fiorentina. Sinisi, partito agli esordi dal minimalismo del Teatro Minimo di Andria quando faceva coppia con Michele Santeramo, nelle ultime stagioni ha infilato una serie (sempre 37398826_1898064330493574_3604489240890572800_o.jpgsostenuto da Elsinor Centro di Produzione teatrale) di grandi regie, produttivamente impegnative, corpose, piene (stavolta quattordici attori in scena). L'impianto attoriale è quello collaudato e che ha ben funzionato in “Miseria e Nobiltà” e che ha retto l'urto ne “I Promessi Sposi”. La sfida con “La masseria delle allodole” era notevole, partire dal romanzo senza riproporlo, soppesare la pellicola tradendola con un linguaggio a più piani, sfaccettato, come un caleidoscopio che declina sentimenti, passaggi, atmosfere, miscelando temporalità, zoomando ora su un quadro, adesso potenziando una scena.

Che poi “masseria” è molto simile come assonanza (non etimologicamente) a “massacro” e queste due anime, così lontane e qui così vicine, hanno stessa cittadinanza sul grande palco in Piazza del Duomo; in un andamento armonico e altalenante, anche disturbante, che tiene sulla corda e frigge, ci accompagna in una scena casalinga, un interno di festa familiare di stampo bucolico, con scherzi e screzi, rincorse e progetti per il futuro buttate su un tavolo da Ultima Cena leonardiana (le scene sono di Federico Biancalani, colorate e barocche, nell'accezione positiva del termine, spunta un barbecue e una scultura ad albero di vassoi e abiti che sembrano impiccati) ora predisposto per il banchetto adesso ripiano da obitorio, autopsia o sudario di morte. Per contrasto e frattura dalla serenità all'angoscia, dentro una violenza acida, arida, nera, buia37412568_1898063997160274_4339443451876605952_o.jpg come la cieca foga discriminante, annientante, distruttiva del Potere nei confronti delle minoranze. Sinisi (coadiuvato nella drammaturgia dalla fidata penna di Francesco Asselta) ha le redini del play e usa e sfrutta e dirige (sempre in scena kantorianamente, silente s'aggira) e ha in pugno saldamente la situazione piena di rimandi, di segni contemporanei, di affreschi, citazioni e tocchi, destabilizzanti e divertenti: i video, le foto tra i protagonisti, i microfoni, la presa diretta con la “giraffa” come se stessero girando un reality, la voce roca e sensuale di Roberto Latini, Aznavour, Antony and the Johnsons, corsi di cucina come se fossero a Masterchef o La prova del cuoco, Romeo e Giulietta miscelato con Lady Gaga in un frullatore spietato che pungola, tiene lo spettatore attivo e partecipativo e non può lasciare indifferenti.

La festa della domenica schiamazzante dove i sorrisi si sprecano (l'esperienza di Stefano Braschi emerge) mentre dall'altra il nero cupo pece del generale che impartisce ordini duri e senza empatia (buona prova, statica ma vigorosa, dell'infortunato, ingessato al piede, Ciro Masella tra Crudelia Demon e l'istruttore di “Full metal jacket”) al colonnello (Marco Cacciola energico e febbrile; ci sono venute in mente le ballate “La guerra di Piero” di De Andrè e “Il mio nemico” di Daniele Silvestri), l'unico che ha ripensamenti, dubbi, sensi di colpa, domande laceranti. Da sottolineare la voce di Adele Tirante con l'aria “Lascia ch'io pianga” da palpiti mentre dall'altra parte i militari (con caschi da celerini, la mente va inevitabilmente al tristemente celebre G8 genovese ma anche a pellicole cult come “I Guerrieri della notte”, “Funny Games” o “Arancia 37575253_1898060237160650_5956649787309686784_o.jpgmeccanica”) narrano la ferocia bruta, le torture e le brutture perpetrate in un contrasto che fa fremere e tremare tra una Pietà michelangiolesca e l'immagine-foto simbolo di Aylan, il bimbo siriano trovato annegato su una spiaggia. Lascia il segno anche Gianni D'Addario nel suo monologo sgrammaticato, dislessico, gramelot intenso e drammatico, sentito e vivo, grondante e toccante (ci ha riportato alla mente l'emigrante Ametrano in “Bianco, Rosso e Verdone” nel suo sfogo quando torna al paese per votare). Lo specchietto per le allodole è una trappola dalla quale il povero uccello, che canta, che fa poesia e che dona bellezza, non riesce a scappare.

“La masseria delle allodole” dall'omonimo romanzo di Antonia Arslan. Produzione: Elsinor Centro Produzione teatrale, Arca Azzurra Teatro, Fondazione Istituto Dramma Popolare; elaborazione drammaturgica Francesco M. Asselta e Michele Sinisi; scene Federico Biancalani; costumi Elisa Zammarchi; luci Federcio Biancalani e Michele Sinisi; aiuto regia Nicolò Valandro; regia Michele Sinisi; con: Stefano Braschi, Marco Cacciola, Gianni d'Addario, Marisa Grimaldo, Giulia Eugeni, Arsen Khachatryan, Ciro Masella, Stefania Medri, Giuditta Mingucci, Donato Paternoster, Roberta Rosignoli, Michele Sinisi, Adele Tirante.
Visto a San Miniato il 25 luglio 2018.

Tommaso Chimenti 26/07/2018

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM