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Giovedì, 03 Giugno 2021 10:40

Festen: la verità tragica e la rimozione

TORINO – Nessuno in Italia lo aveva ancora messo in scena mentre in Francia, Germania, Londra, e soprattutto Scandinavia, è diventato un cult, un classico, sebbene la pellicola sia del 1998, quindi relativamente vicina nel tempo. “Festen” (vincitore a Cannes) incute timore solo al pensarlo, timore nella trasposizione dalla celluloide al palco, timore nel riproporlo troppo simile al film, timore nel cercare il naturalismo che la macchina da presa può produrre e Festen_photo_Giuseppe_Distefano0172.JPGche il teatro, necessariamente, deve cercare di declinare nel metaforico, nel simbolismo, nel non-detto. Se vogliamo tutta la violenza psicologica espressa dal testo è una miniera d'oro per chi, come il regista di questa versione (targata Tpe, Elsinor, TS Friuli Venezia Giulia, Solares) Marco Lorenzi (sempre più raffinato, consapevole e maturo), sa maneggiare la macchina teatrale e si pone in quelle ferite-crepe di senso che solo la parola e lo spettacolo dal vivo, se si riescono a toccare le giuste corde interiori, sanno creare e far sbocciare, fiorire ed eruttare. Il regista del film iconico, Thomas Vinterberg, che ha appena vinto l'Oscar come miglior film straniero con “Un altro giro” (durante la lavorazione della pellicola sua figlia è deceduta in un incidente stradale), è uno dei fondatori del movimento-manifesto-decalogo Dogma 95 (del quale fa parte anche Lars von Trier): niente luci artificiali, nessuna scenografia, assenza di colonna sonora, camera a mano, anche i costumi devono essere di proprietà degli attori e mai abiti di scena. Un ritorno al passato, la negazione degli effetti speciali. Quindi, sia per il tema proposto (una festa per il sessantesimo compleanno del padre-padrone di questa famiglia aristocratica che violentava la coppia di figli gemelli), sia per il bagaglio di aura che aleggia(va) attorno a questo “peso massimo” del cinema contemporaneo, la responsabilità era alta, la pressione in ebollizione.

Festen ©AndreaMacchia.jpgNon tutti gli spettacoli sono uguali, questo aveva una carica diversa, una patina, un forte richiamo. Come rappresentarlo? Il regista Marco Lorenzi ha avuto, durante la stesura della drammaturgia, un fitto scambio epistolare direttamente con Vinterberg che leggeva, faceva appunti e approvava le varie scene; un lungo lavoro di smussare, togliere, medicare. Possiamo dire che l'intuizione di Lorenzi, e del suo Il Mulino di Amleto, ha fatto centro: non riuscendo, non volendo, riproporre freddamente la pellicola (la cosa più semplice sarebbe stata quella di mettere tavolo e sedie al centro della scena), si è deciso per un escamotage da un lato tecnologico (quindi contravvenendo alle regole ferree del Dogma), dall'altro ricercando, proprio attraverso l'uso di strumentazioni, quell'artigianalità, quella semplicità, quel concreto che solo il teatro può regalare. Il telo, non un velatino, davanti al boccascena, sipario da proiezione, ci tagliava la visuale da quello che succedeva alle sue spalle. Due mondi divisi, come quello che è accaduto e quello che abbiamo visto, la verità dietro, con le sue storture e sporcature, e quello che ci fanno vedere, possiamo vedere, vogliamo credere, davanti a noi. Dietro questo telone-velo di Maya che scinde il Vero dal Falso, le scene erano costruite in presa diretta da una telecamera come fossimo su un set cinematografico e assistessimo alla realizzazione, Festen_photo_Giuseppe_Distefano31.JPGancora gretta e impura, di alcune scene poi da montare. E' un film nel film, è un teatro filmico, è quella giusta misura, la terza via tra palco e camera. Tra palco e realtà, cantava Ligabue. Nell'aria si annusa molto Ibsen, soprattutto “Spettri”. Una telecamera che riprendeva momenti e volti e sguardi e primi piani e li riproiettava sul grande schermo creando questa doppia e duplice visione possibile: dietro, illuminata dalla luce del cameraman, la scena per come veniva architettata, con i cavi, le imperfezioni, gli oggetti di scena, le falsità del cinema, davanti la ripulitura del tutto, la scelta dei dettagli da evidenziare ed esaltare, lo zoom intenso, il particolare da suggellare, il passaggio da sottolineare. Eppure era la stessa realtà ma presa da angolazioni differenti, piccola e naturale dietro, gigantesca e artificiale davanti. A quale credere? A quale donare la nostra fiducia?

Una casa in miniatura davanti alla scena ci porta in un mondo infantile, di giochi, di costruzioni, così come la favola noir di Hansel e Gretel ci introduce in questo mondo che di fiabesco ha soltanto i contorni inquietanti. Al centro del palco, aperto e svuotato del Teatro Astra torinese, due cerchi concentrici, un mirino per colpire meglio, per stoccare il colpo fatale, o anche il labirinto di Cnosso dove il nostro Padre-Minotauro (un Danilo Nigrelli grande anche in questo ruolo odioso e irritante, placido e calmo mentre tutt'attorno la rabbia sale) fa scempio di vergini innocenti, il nostro Padre-Barbablù che toglie e succhia la vita dai suoi stessi figli, un Padre-Ciclope che, a valanga, a cascata, ha distrutto le vite dei quattro figli e della consorte, costringendoli ad una vita di facciata. Centrale è anche la figura di Christian, il figlio accusatore del padre pedofilo, che con i suoi brindisi (alzandosi e battendo una posata Festen_photo_Giuseppe_Distefano0063 (1).JPGsul bicchiere attirando l'attenzione dei numerosi invitati) denuncia quello che il genitore faceva a lui e alla sorella Linda che si è suicidata da poco perché, anche a distanza di decine di anni, non riusciva a superare l'accaduto. Elio D'Alessandro, sofferente e tormentato, dilaniato, è appunto Christian e riesce a dare al personaggio vita dolente e disperata forza, tratteggiata anche nella veste musicale grattugiata, affranta e angosciata in sonorità straziate che ci hanno fatto pensare a Manuel Agnelli degli Afterhours o a Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP o ancora, per rimanere alla scena torinese, a Mauro Ermanno Giovanardi dei La Crus. Da sottolineare tutto il cast, unito e partecipe: Roberta Calia (la compagna incinta del figlio più problematico), Yuri D'Agostino (il cerimoniere dai mille coriandoli), Barbara Mazzi (la sorella psicologa che sta insieme ad una donna ma non FESTEN 1_phAndreaMacchia.jpgha il coraggio di dirlo alla famiglia), Angelo Tronca (il nonno con il trucco volutamente “storto” proprio per mostrare in maniera lampante l'imperfezione, l'errore, la non ricerca della precisione), Raffaele Musella (energico e vitale nel ruolo del figlio scapestrato), Roberta Lanave (la cameriera).

Da evidenziare anche la figura della Madre (Irene Ivaldi eccezionale, straniante nei panni freddi, glaciali, algidi, indifferenti) che tutto sapeva e conosceva e niente ha fatto per interrompere la mattanza né per salvare i propri figli-cuccioli dagli artigli del Drago tra le quattro mura domestiche. La Madre racchiude in sé il Male, quel male che non se ne andrà nemmeno quando il Mostro sarà allontanato; diceva Martin Luther King “non ho paura dei malvagi ma del silenzio degli onesti”. E' un compleanno che si miscela con un funerale, la chiusura del cerchio, la chiusura del baratro su questa famiglia vissuta nell'ipocrisia dei buoni sentimenti, nella falsità di sorrisi fasulli e contraffatti. Il sottotitolo è “Il gioco della verità” che ci porta diretti alle atmosfere e suggestioni pirandelliane del cosa è vero e che cosa è falso, e se la verità altro non sia che la realtà accettata e non quella accertata, la credenza collettiva che, a forza di dirla, supera e fa slittare i fatti, creando psicologicamente una rimozione da un lato e una sostituzione dall'altro, spostando eventi, una rimozione che è anche una esorcizzazione del Male, una salvezza, un rifiuto di responsabilità di fronte a momenti ingestibili o drammaticamente troppo esposti. Il pubblico è chiamato non solo ad assistere ma ad intervenire (con il suo silenzio-assenso) fin dall'inizio quando gli viene chiesto che busta vorrà aprire, la gialla o la verde, per alzata di mano. Era l'espediente che usava il padre per far scegliere, e quindi negare una propria responsabilità in ciò che sarebbe da lì a poco accaduto, il supplizio ai suoi bambini. La platea quindi (come il popolo tedesco di fronte ai campi di concentramento nazisti) diviene complice e sente il fiato sul collo di tutto quello che si dipana davanti ai suoi occhi e non può più dire di essere vergine ma ha, e si sente, le mani metaforicamente “insanguinate”. Il pubblico sono gli invitati alla Festa che non prendono posizione, che ascoltano e non supportano il ragazzo che denuncia ma, rispettando la forma e la buona creanza della società altolocata, le paillette e i lustrini, il galateo e la parvenza e i buoni costumi, annuisce e silenziosamente sostiene la tesi del padre che scredita il figlio con una violenza che ferisce e lacrima, una violenza sottile e soffice, una violenza dalla quale è difficile difendersi perché ha il sapore di una carezza calda e solo dopo averla accolta ti accorgi dell'emorragia interna.

Padre: “E' colpa mia se mi sono capitati figli così incapaci?”

Christian: “Perché lo hai fatto?"

Padre: “Eravate buoni solo a quello”.

Repliche giugno: fino al 6 Teatro Astra, Torino; 8-13 Teatro Rossetti, Trieste; 15-16 Teatro al Parco, Parma; dal 18 al 27 Teatro Fontana, Milano.

Tommaso Chimenti 03/06/2021

Foto: Giuseppe Distefano, Andrea Macchia

MILANO – Dopo le tre figure paterne racchiuse nel drammatico “In nome del Padre”, Mario Perrotta, abbonato ai trittici ed alle trilogie (piacciono molto anche anche a critica e pubblico, sanno di un fil rouge non interrotto, di un ragionamento da poter continuare nel tempo) attacca anche il ruolo della Madre, la afferra, la morde, la azzanna, senza lasciare prigionieri. Se il Padre era tragico, qui, con “Della Madre” (prod. TSBolzano, Piccionaia) siamo nel campo del tragico-comico, di quel riso isterico grottesco che lascia l'amaro in bocca. Azzeccatissima e di forte impatto visivo la scena, composta da due elementi invasivi, opere d'arte contemporanea, inglobanti l'occhio, accerchianti nel loro essere tondeggianti, cosmici e “mammici” per definizione: potrebbero essere due enormi seni bianco latte, ma anche due gonne dentro le quali, come Winnie dei beckettiani “Giorni Felici”, se ne stanno le due donne protagoniste, topos della Nonna (o Grande Madre) e della Madre. Due missili, due capanne protettive, due mondi come se fossero stati estrapolati dal “Piccolo Principe”, due verande da camping osmotiche, due igloo che ci hanno ricordato quelli di Mario Merz (un paio di stagioni fa, proprio a Milano, all'Hangar Bicocca, andava in scena una sua mostra retrospettiva ed esaustiva sull'argomento). Queste cupole tanto proteggono dall'esterno quanto asfissiano all'interno, chiudono in relazioni problematiche, senza aria, senza scampo, senza fuga né mobilità, né azione. Infatti le due, che si azzuffano dialetticamente impossibilitate allo scontro fisico proprio perché bloccate nel loro tumulo, quasi fossero dentro sabbie mobili, sono ancorate e possono soltanto usate contro l'altra le armi della minaccia, del risentimento, soprattutto del senso di colpa: “la gente dà buoni consigli se non può dare cattivo esempio”.it_della-madre-luigi-burroni-6-850_original.jpg

Ma c'è anche, ovviamente, un terzo elemento focale attorno al quale tutto ruota, s'argomenta, s'avviluppa: la figlia. Ancora femmina, un terzo gradino rosa di questa scala evolutiva. La Grande Madre, la Figlia e la figlia della figlia. Oppure: la Nonna (lo stesso Perrotta, di spessore), la Figlia-Madre (Paola Roscioli, tempra aulica, lirica) e la Nipote (Yasmin Karam in ombra con videoproiezioni, fa capolino con una mano-cannocchiale come da dentro un sommergibile, “e guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po'”). A cascata, discendenza di Eva. E in questo mondo distopico futuro (si muovono sincopati, come robot, le due hanno giacchette bianche da Star Trek), da navicelle nello spazio dove ormai si è perso il contatto fisico (forse anche per procreare: il maschio non esiste e quando è chiamato in causa lo si fa per la sua assenza, o per offenderlo e denigrarlo, definito nella migliore delle ipotesi “inutile”), la figlia piccola, la nipotina, pur essendo già grande, preadolescente, naviga e fluttua, danza e nuota come una sirena, in questa campana di vetro, pancia calda e marsupio avvolgente, placenta acquacea, liquida e amniotica, miracolo della scienza del futuro, potendo passare senza problemi dall'utero materno a quello nonnesco. E qui scatta il cortocircuito, affettivo, sentimentale, semiotico, analitico.

Si scontrano due mondi opposti di educazione e sulle spalle della piccola si scarnifica una guerra di nervi tra Madre e Nonna. Vincerà l'anziana, la capofamiglia che detterà le regole sia alla figlia sia sul come portare avanti la vita della nipote. Le due, in perenni scintille, ci raccontano i loro Giorni Felici (eufemismo), incastrate senza via d'uscita, senza spiragli di domani. Un giorno anche la piccola diventerà madre avrà il suo seno gigantesco, il suo utero a forma di igloo dove poter recintare i suoi cuccioli e le proprie paure. La madre tiene saldo il cordone ombelicale della figlia, e lo strattona e ne fa cappio, allo stesso modo fa la Nonna, ingombrante e dittatoriale, con la propria figlia, richiamandola all'ordine, punendola, frustandola, tenendola in scacco, al lazo, costringendola nel suo cerchio. Potrebbero essere due Dee che si accapigliano sulla sorte degli uomini sottostanti dentro le loro bolle-mondi, dentro le loro vesciche-globi “giocando a dadi” con l'universo.

Questo it_della-madre-incontro-850_original.jpgil lato tragico mentre il comico, esasperato e spinto, è principalmente racchiuso in whatsapp, esilarante, tra le mamme (le temute chat di classe) con consigli, esperimenti, dialoghi tra suggestioni, scaramanzie, superstizioni, sui vaccini come sui comportamenti da tenere, la meningite, l'autismo, il diabete infantile. La madre è senza autorità e sia la Nonna che la figlia se ne approfittano. La donna di mezzo (è troppo grande per essere considerata ancora piccola, è troppo giovane per sentirsi madre), schiacciata tra le altre due figure in maniera ricattatoria, è oggi fragile, non ha strumenti, è in balia, terrorizzata, spaesata tra mille comunicazioni e suggerimenti da seguire, naufraga in una realtà che cambia forma velocemente e nella quale è spaesata tra gli insegnamenti rigidi che ha avuto e le libertà che vorrebbe concedere ai figli trattati come coetanei, amici ai quali non dire mai di no: una parabola del nostro tempo.

Anche stavolta Mario Perrotta (c'è la consulenza di Massimo Recalcati) è stato abile, brillante e illuminato, nel creare un affresco che tutti tocca con le armi più pure del teatro: la sintesi, il tentativo d'analisi del fenomeno, la non ricerca delle soluzioni, il non cadere nella dicotomia del giusto e dello sbagliato, il non schierarsi, il rimanere in bilanciamento tra la realtà dei nostri giorni e quell'esagerazione-inasprimento-esasperazione dei comportamenti per ridere, a denti stretti, di noi che ancora ci dichiariamo esseri evoluti, animali pensanti.

Tommaso Chimenti 10/01/2020

BOLOGNA – “La cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili” (William Burroughs).

“La vita è come andare in bicicletta. Per mantenere l'equilibrio devi muoverti” (Albert Einstein).

Il rumore delle ruote che scivolano sui cilindri, rimanendo in perfetto equilibrio dinamico, è il metronomo che fa rima con il battito del cuore, sono le virgole a questo flusso di coscienza che non conoscearrigazzi pause, è il misuratore di fatica e sudore che scansiona l'aria, che rimette in circolo endorfine, è la cadenza dei passi sempre più affrettati dentro il bosco della nostra esistenza, dentro la conoscenza di noi stessi. “Tempi maturi” (prod. Casa degli Alfieri, visto al Teatro delle Moline dell'Ert Fondazione a Bologna) ha una grande scrittura alle spalle e un grande interprete sul palco. Palcoscenico in questo caso è un eufemismo: Emanuele Arrigazzi, ottimo attore (qui performer per un'ora di pedalata sostenuta senza flessioni né cedimenti), è stato anche un buon ciclista dilettante, le sue gambe tradiscono questa sua prima passione, il quadricipite e il vasto mediale non mentono, gonfi, pompano, spingono senza sosta verso un traguardo che si sposta sempre un po' più in là, ad ogni passo.

E' una corsa contro se stessi quella di Arrigazzi (corpose e piene le ombre create sul muro che sembrano altri sé che corrono al suo fianco, superandosi; le luci sono di Fabrizio Visconti) nei panni di un attore-ciclista che ha affrontato la vita per vincerla, per batterla, per combatterla, ma in fondo, e lui lo sa, non ha spinto fino al limite, non ha raschiato il barile, poteva dare di più e l'insoddisfazione, la frustrazione, il malessere deriva anche da questo, da quel quasi, dai tanti forse, dalla mancanza di decisione nei momenti che contavano come uno sprinter in volata sul traguardo.

arrigazzi2Come ne “La Maratona di NY” di Edoardo Erba, dove lì i due protagonisti corrono su un tapis roulant, come ne “Le regola del giuoco del tennis” di Mario Gelardi lo sport è il sottofondo, è l'azione mantra che mordicchia senza essere protagonista, è contesto e pretesto, cornice dentro la quale muoversi in gesti ripetitivi che creano un tappeto dentro il quale accordarsi, accomodarsi scomodi, movimenti che ritornano, che incantano, che trattengono.

La bicicletta qui (grande lo sforzo fisico e la precisione, la dedizione e l'impegno di Arrigazzi) è sia compagno che aguzzino, sia confidente che avvoltoio, amico e sanguisuga che gli toglie le energie migliori. La bicicletta ha l'unica catena che ti rende libero. E' uno spettacolo non tanto sul ciclismo, nemmeno sullo sport, ma è un monologo sulla necessità di fare fatica, fatica come azione quotidiana per ripulirsi dai pensieri, fatica dosata per reggere meglio l'urto con l'oggi, fatica per essere più forti e più stanchi, più pronti e più tenaci. Ipnotizzano i raggi delle ruote che corrono come scorre il tempo sulle nostre rughe. Che poi i tempi non sono mai maturi oppure lo sono quando noi decidiamo di mettere un punto e cominciare a far sì che lo siano realmente invece di trascinarci tra mancate aspirazioni, cocenti delusioni, ambizioni fallite, chili di alibi, sensi di colpa senza prendersi le giuste responsabilità. Siamo noi stessi i primi grandi nostri nemici, ci freniamo, ci mettiamo i bastoni tra le ruote (appunto), ci fermiamo, ci facciamo paura.

“Tempi maturi” ci parla del cambiamento (dall'essere figlio a mettere al mondo un figlio, ad esempio), dei momenti di passaggio che vanno colti come papaveri di campo, di quegli attimi che è importantearrigazzi3 segnalare e selezionare, sottolineare e salvare nella nostra memoria, di tutti quegli scarti dove si percepisce chiaramente che gli ingranaggi hanno scattato all'unisono, di tutti quei crack che dentro di noi prima ci rompono per ricomporci più consapevoli. Ed il testo (scritto con abilità e cura, scelta delle parole e attenzione da Allegra de Mandato) è maschile e mascolino, muscolare e diretto che pare vergato da un uomo e allo stesso tempo presenta quella sensibilità delle cose perdute, dei margini sfuggiti, della non messa a fuoco, dell'impossibilità, della manchevolezza.

Mentre il protagonista corre, ininterrottamente in questo equilibrio precario, nel flusso del racconto di Arrigazzi (attore di razza, sempre concentrato e coriaceo ma anche permeabile alle emozioni che passano dalle parole sudate alle ruote e da queste al nostro ascolto sempre più partecipato: siamo tutti in bici con lui, tifiamo per lui, il nostro antieroe) si inseriscono dei piccoli sottocapitoli, capoversi illuminanti dove è percepibile il cambio di registro, la crescita dell'uomo anche grazie alle sconfitte, sempre mal digerite, alle cadute, mai accettate, ai lutti: si passa dai “Tempi Felici” di un passato recente, e ci sovvengono i giorni di Beckett, che diventano “Tempi Duri”, ci si impantana nei “Tempi Fermi” si arrigazzi4crede che i “Tempi stanno per cambiare”, si passa dagli agognati “Tempi di Guadagni” ai “Tempi Superficiali”, si incrociano i “Tempi d'attesa” pensando che siano ancora “Tempi Acerbi”, ed ancora i “Tempi Difficili” che lasciano il posto ai “Tempi di Confusione”, fin quando, finalmente, i “Tempi sono Maturi”. In questa grande galoppata, in questa cavalcata su quest'asfalto virtuale, passando dal lavoro dell'attore, gli amori leggeri, le piccole grandi prove che la vita ci pone davanti, la bicicletta (potremmo sostituirla con lo sport, la fatica, che è comunque prendersi cura, volersi bene, non lasciarsi scivolare nel torpore dell'oblio, dell'indifferenza) c'è sempre, come confronto con gli altri, termine di paragone, droga sana, palliativo, esigenza, tormento, necessità. Lo sport ti dice chi sei e a che punto sei, ti dice che se hai fatto molto non hai ancora fatto niente perché domani si ricomincia, ti dice che se molli non perdi contro gli altri ma perdi il rispetto di te stesso, ti dice che vincere o perdere vale ma vale di più dare tutto e sentirsi beatamente stanco e soddisfatto perché hai fatto il massimo. “Tempi maturi” è una dose di coraggio, è una spinta a non abbattersi, è un incentivo a pedalare anche quando non ce la fai più, anche quando, soprattutto, la salita si fa più ripida. I tempi sono maturi per vincersi, per battersi, per respirare: commovente.

Tommaso Chimenti 13/02/2019

FIRENZE – “Accendi un sogno e lascialo bruciare in te” (William Shakespeare).

Cenere siamo e alla cenere torneremo. Ma anche sotto la cenere cova il fuoco. Viene dalla fredda e gelata Norvegia (dove c'è il ghiaccio sta anche la fiamma per potersi riscaldare) questa pièce, “Ceneri”, questo incastro tra burattini, prima in miniatura e poi a grandezza naturale, e la sfera attoriale, questo incrocio tra la marionetta che prende vita e sembra umana e l'uomo che con essa si confronta, parla, interagisce, perdendo entrambi le proprie sembianze originali. Molto interessante il plot (i direttori del Teatro di Rifredi, Mordini e Savelli, li hanno visti ed apprezzati ad Avignone) con due famiglie, due storie parallele, due narrazioni di padre e figlio che si rincorrono, si aggrovigliano fino a tendere l'una nell'altra, fino a guardarsi allo specchio. Due i punti di vista: il pupazzo, mosso nell'ombra da mani veloci e buie tanto da scomparire allo sguardo, e lo scrittore che descrive la scena. Come essere catapultati in una sorta di “Sei personaggi”, al sapore di Ibsen o al gusto di Munch, dove l'autore vivifica e materializza le sue parole e crea le figure che ha appena descritto con l'inchiostro nelle sue pagine.Ceneri©Kristin_Aafløy_Opdan_02_rifredi.jpg

Il conflitto generazionale è il perno sul quale ruota questa doppia vicenda: da una parte la storia di un ragazzo piromane che incendiava case e fattorie, cascine e fienili nel 1978 nel Paese scandinavo (è stato anche pubblicato il romanzo “Prima del fuoco” di Gaute Heivoll, su quegli accadimenti realmente avvenuti, e dal quale è stato tratto il lungometraggio “Pyromaniac”) figlio di un pompiere (la mente vola subito al draghetto Grisù che invece che incendiare voleva fare il vigile del fuoco o a “Fahrenheit 451” da Bradbury passando per Truffaut), dall'altra lo scrittore, con il suo pc sul boccascena, che cozza con il padre rude e ruvido cacciatore di alci. Lo scrittore è nato proprio nei mesi nei quali si svolgevano i fatti e questo (ci pare un po' poco il nesso e il legame non regge molto) sembra unire in qualche modo la sua esistenza indissolubilmente al piromane.

Al Teatro di Rifredi (scopritori di teatro internazionale d'alta qualità) abbiamo avuto modo negli anni di assistere a meravigliosi spettacoli senza parole che esplodeva di senso in perfetto equilibrio tra una grande maestria teatrale e artigianale immersi in contenuti profondi; pensiamo alla Familie Floz o ai Kulunka. Certo in quel caso erano le maschere le protagoniste a differenza dei burattini di questo “Ceneri”. Manca qualcosa, la storia è debole, forse un fuoco di fondo, quel quid che poteva legare esponenzialmente le due famiglie, le due infelicità dei figli e la loro protesta nei confronti del padre, il primo che incendia e distrugge contro il genitore che bagna e seda la scintilla, il secondo tentando di elevarsi e cercare soddisfazione in un lavoro di concetto e intellettuale sconfessando il machismo patriarcale. Ma il parallelismo non tiene, dopo un po' si scioglie e si sfalda, l'amalgama non regge, il collante mostra le crepe. E' molto forzato, o non è spiegato a sufficienza, o mancano degli anelli di congiunzione. “I roghi non illuminano le tenebre” (Stanislaw Jerzy Lec).

La ffanchon_bilbille_.jpg__454x266_q95_crop_upscale.jpgigura del piromane (a grandezza naturale ricorda molto l'autoritratto di Van Gogh) si amplifica e diventa ora la coscienza, ora il Grillo Parlante adesso un Lucignolo nei confronti dello scrittore in un dialogo continuo tra se stesso e le sue paure, timori, angosce, dubbi, incubi (il lupo gigantesco che s'issa alle sue spalle). Semmai possiamo trovare un punto di congiunzione tra i due figli tentando di elaborare la psicologia di fondo che li muove: la vendetta, il senso di ribellione, l'opposizione che nel primo caso diventa distruttrice e nella seconda invece si fa positiva e promotrice. Ma entrambi vogliono affermazione e richiedono attenzione, vogliono battere i genitori, il primo sfidandolo sul suo terreno, pungendolo nell'orgoglio, il secondo provando a riuscire in un mestiere agli antipodi del padre. “Non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, quindi non si può combattere il male con il male” (Lev Tolstoj).

C'è una guerriglia sotterranea, il primo la affronta direttamente, il secondo cercando una strada diversa. Tutti e due cercano consenso: lo scrittore attraverso l'egoticità e l'autorefenzialità del proprio nome sul volume stampato, il piromane attraverso le fiamme che lo ergono a deus ex machina, a fautore di luce, a creatore di distruzione e morte, quasi il Dio del Vecchio Testamento. La marionetta diventa l'alter ego del letterato, la sua parte più buia e più cattiva, in un trasfert junghiano che ha il sapore di Psycho. Qui i pupazzi si fanno a grandezza naturale come le loro fattezze incredibilmente vicine, e scambiabili, con quelle umane. Ma non basta a far scattare la fiammella. Si sente che l'ingranaggio non è stato reso così comprensibile.

“Dentro di noi abbiamo un lupo buono e un lupo cattivo. Tra i due vincerà quello che nutrirai di più” (Motto Cherokee).

Tommaso Chimenti 10/02/2019

FIRENZE – “Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande I care. E' il motto intraducibile dei giovani americani migliori: Me ne importa, mi sta a cuore. E' il contrario esatto del motto fascista Me ne frego”. (Lorenzo Milani)

Le prime parole che escono, meglio sgorgano, spontanee sono “leggerezza” e “delicatezza”. Non c'è mezzo migliore, la carezza, il soffio, l'appoggiarsi, per far passare, per far arrivare temi grandi e ingombranti come macigni, la memoria, la famiglia, l'amore, la malattia, la vita e la morte, la perdita, argomenti che ci hanno toccato o che, lo sappiamo in anticipo, ci toccheranno, inevitabilmente nel prossimo futuro, ma che preferiamo, come struzzi con la testa sotto la sabbia, rimandare a data da destinarsi, prorogare, spostare nel tempo l'affrontare la caducità del nostro stare, minimale, infinitesimale, marginale, su questa terra, in questo mondo, in questa forma.kulkuna03
E dire che le maschere dei Kulunka Teatro non possono far altro, soprattutto all'inizio, che ricordarci i berlinesi della Familie Floz (altra scoperta per quello che riguarda l'occhio attento e allenato dei Pupi e Fresedde). Anche in Italia altri gruppi, pensiamo ai fiorentini Zaches o al giovane duo torinese Dispensa Barzotti, hanno proposto e stanno usando con particolare efficacia queste maschere spaurite, errabonde, impaurite, dai nasi adunchi e gli occhi cavi. Sono ferme, impassibili ma dentro ci puoi vedere il sorriso come la disperazione, l'allegria o lo sconforto, la maschera è soltanto lo specchio di chi in quel momento la sta osservando, è il riflesso dei nostri occhi che la stiamo guardando.
Siamo affetti da una malattia con prognosi riservata: l’esistenza” (Carlo Gragnani).
Parlavamo di delicatezza. Non esiste parola migliore per raccogliere il groppo e il grumo che provoca “Andrè e Dorine” del collettivo basco Kulunka. La storia è semplice, come qualsiasi esistenza, la parabola annunciata da nascita, crescita, morte. Non è il quando ma il come, non è l'inizio o la fine, che sono certi, ma lo svolgimento a rendere l'esistenza quel mistero da accettare e salvare, da indagare incuriositi e, perché no, anche divertiti. Siamo burattini legati ai fili del destino, o Dio o della Natura, che dir si voglia, ma abbiamo tutta la libertà sia di sbagliare sia di emozionarci, di dare e ricevere amore, di cadere e rialzarci con e grazie agli altri attorno a noi. Sale il pathos, la carica monta lentamente, ma inarrestabile, 01kulkunamostrandoci la vita di questa famiglia, appunto i due ormai anziani (un po' Sandra e Raimondo) che compongono il titolo della pièce muta, e il figlio ormai adulto che non vive più con loro, come ce ne sono tante, con i piccoli dissapori quotidiani, le lotte domestiche, i dispettucci che nel tempo sono diventati imprescindibili e segni distintivi del rapporto, piccole manie che sono divenute folclore caratteristico delle quattro mura casalinghe e che, se un giorno non ci fossero più, ci mancherebbero e ne sentiremmo profondamente il bisogno e l'assenza.
Una coppia, come quelle di una volta, unita da anni di piccole, continue, quotidiane azioni che ne denotano l'attaccamento vitale e feroce: lui, l'anziano con la faccia da Marco Pannella, autore di romanzi ma perennemente disturbato dal violoncello di lei, da giovane con il volto da Nina Moric dopo le varie “tirature” e da anziana simile a Moira Orfei, il ticchettio dei tasti di lui e l'archetto che oscilla orizzontalmente di lei. I pomeriggi sono mini battaglie di lievi prevaricazioni. Lei è il primo lettore del marito che non pubblica niente senza il consenso della moglie. Tutto sembra scivolare via tranquillo, giorno dopo giorno, violoncello dopo pagine scritte a macchina in un'armonia ovattata e leggermente noiosa, banale nella sua routine delle ore uguali alle altre. Ma la vita dà e la vita toglie. E allora è la malattia che arriva di soppiatto, non la senti, silenziosa non bussa nemmeno alla porta, si intrufola nelle stanze, nella mente e pian piano distrugge, si prende tutto, annulla i ricordi, azzera i contorni delle facce, cancella le fotografie, abbuia il passato, opacizza il presente, fa diventare tutto nebuloso, oscuro, svuota, smembra, rende l'intorno irriconoscibile.
La vecchiaia. E’ la sola malattia dalla quale non si può sperare di guarire”. (Orson Welles).02kulkuna
I salti temporali, i flashback, hanno molto di cinematografico; i piani sequenza si sovrappongono in un continuo rimando ad un “com'eravamo”, al prima, a quell'amore nato e sbocciato e coronato fino all'epilogo finale. La moglie, affetta da demenza senile o alzheimer, ci ha ricordato il padre de “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio” di Romeo Castellucci. Una canzoncina allegra e dolce, nostalgica e amara (echi che sembrano usciti da una colonna sonora di un film di Almodovar) fa da refrain a chiudere le scene, con una fisarmonica che tranquillizza e insieme inquieta, torna e ritorna come le nenie degli horror e ci dice che qualcosa di funesto e inarrestabile sta per accadere senza prepararci al peggio, incute timori e cattivi presagi senza dare soluzioni o paracaduti al dolore. Spariscono i volti, spariscono le parole, si confondono i gesti semplici nella perdita impietrita, nel vuoto incolmabile di chi resta menomato senza più memoria e chi rimane accanto impotente in questo limbo degenerativo senza salvezza. Ma il ciclo dell'esistenza si perpetra ancora incurante e la vita vince sempre e comunque, per istinto o per incoscienza. Siamo criceti sulla ruota con il destino segnato ma nel mezzo, tra una nascita non richiesta e la morte mai voluta, abbiamo tutto il tempo e la possibilità di dire, fare, baciare, lettera e testamento. E allora scrivete libri e suonate violoncelli. E amate. E' tutto qua. “A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure”. (Italo Svevo)

Tommaso Chimenti 10/02/2017

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