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LISBONA – Almada è sempre un soffio, un respiro, quasi un'isola lontana e vicina a Lisbona, ai suoi azulejos, alle sue strutture che cambiano, alla sua storia. Almada la vedi, è lì a portata di mano, la fotografi in lontananza che sembra irraggiungibile e quel ponte, sempre rosso fiammeggiante, pare un elemento scenografico e cinematografico messo lì per aumentare la magia del posto, delle acque che si incontrano, veloci del Tago e feroci dell'oceano a cozzare proprio davanti ai tanti murales, carichi di espressività e socialità, nati sulle vecchie e scalcinate mura di ex magazzini e vecchie fabbriche, cantieri navali in disuso. Almada pare un'isola, riconoscibile con quel Cristo che a braccia larghe ci abbraccia e non ci lascia mai soli. Gli aerei solcano di continuo il cielo anche in questo periodo post-Covid. La fase finale della Champions League si giocherà qui, a casa di Cristiano Ronaldo marchiato a strisce senza colori. La tramvia taglia Almada e la rende raggiungibile, veloce. Da Almada, con il bel tempo, si possono vedere entrambi i ponti, il XXV Aprile rosso come il Vasco de Gama bianco, oppure a sinistra Belem e a destra in alto il Castello. Negli ultimi decenni si è trasformata; sembra piccola ma è grande, moderna con le sue piazze dove giocano piccole fontane a zampillare verso il cielo, dove gli skate sfrecciano. Ecco, se vogliamo trovare un paragone, Almada sta a Lisbona come la Giudecca sta a Venezia. Città di mare, luoghi dove si respira il salmastro. Da trentasette anni il Festival di Almada (quest'anno ancora più coraggioso di sempre il suo direttore artistico Rodrigo Francisco) è un faro nel campo teatrale europeo: in questa edizione addirittura si è passati dalle due settimane standard di programmazione (solitamente era dal 4 al 18 luglio) alle oltre tre (dal 3 al 26) rilanciando proprio quando molti hanno desistito. Anche i molti e sparsi teatri dove sono andati in scena gli spettacoli ci hanno mostrato, ancora una volta, il bisogno, la fame e la necessità di teatro di un popolo che ha vissuto il festival e riempito le sale, appuntamento atteso ed aspettato tutto l'anno: il centrale Municipal Joachim Benite che sembra una piscina capovolta con i suoi infiniti piccoli quadratini celesti a rischiarare e illuminare di luce tenue l'intorno, l'Academia Almadense moderno e funzionale, l'Incrivel Almadense cubo nero, il Forum Romeu Correia di grande impatto nel parco dove spicca la scultura delle tre braccia, con mani aperte a toccare le nuvole, l'Estudio Antonio Assuncao bianco e piccolo che pare una facciata di un palazzo messicano. Il bacalao non manca mai, nei pranzi e nelle cene condivise, momento conviviale dove potersi incontrare tra compagnie ed operatori provenienti da tutto il mondo, mentre la scelta complicata è se prendere una Sagres o una Super Bock, le birre che vanno per la maggiore in Portogallo. Almada ogni anno ci sembra più attiva e contemporanea, Lisbona più fresca e giovane, il Portogallo più frizzante e aperto. Andrebbe fatto un monumento nazionale ai pasteis de nata, il pasticcino a base di pasta sfoglia e crema.87A7431©ALIPIOPADILHA.jpg

Sospesa tra cinema e teatro ci è apparsa la piece “O criado” (quest'anno soltanto tre sono stati gli spettacoli stranieri, tutto il resto erano di provenienza portoghese) di Andrè Murracas, non a caso anche regista cinematografico. Partendo da “The servant” adattato da Harold Pinter, il regista, che è anche attore e movimentatore di oggetti per le videoproiezioni ma anche lettore e mixerista al suo tavolino da lavoro centrale, è il deus ex machina che si muove, sposta, fa, articola tra i suoi mille spazi. Il tutto in bianco e nero e il tutto in continuo parallelo e confronto, in controluce, in prospettiva, in sovrapporsi, in dissolvenza, tra la realtà, la pellicola in questione e la riproposizione nel presente della stessa scena in video, quasi un doppio, allo specchio. Ma non solo; il film e le azioni del regista-performer in teatro dal vivo sono intervallate da interviste con vari attori che rispondono, leggono parti del copione o lo provano nel privato delle loro abitazioni. Murracas è molto hitchcookiano. Come se il teatro entrasse in contatto e in dialogo (diavolo?) diretto con il cinema. Ma se l'idea può essere arguta, la sua realizzazione, soprattutto con l'avanzamento, risulta didascalica con lo scorrimento delle immagini e la spiegazione delle stesse come fosse un cineforum o una conferenza o una lectio lasciandoci distanti, un po' in sordina, laterali rispetto all'opera molto nebulosa e criptica, ben orchestrata ma poco viva. E' questa la deriva del teatro o l'evoluzione del teatro? Speriamo sia soltanto la prima opzione. Il regista diventa anche dj, si improvvisa prestigiatore ma ha poca presa ed empatia ottenendo un effetto freddino che sa di un tentativo, un esperimento non andato a buon fine, naufragato senza dolcezza, rimasto a metà strada, con il colpo in canna. E se il cinema fosse soltanto il teatro in remoto?

Se “O criado” in una scala sentimentale era razionale e controllato, possiamo assolutamente affermare il contrario per quel che riguarda “Rebota, Rebota” della spagnola Agnes Mateus, un vero vulcano cosparso di argento vivo e mercurio incandescente. Sul palco è una furia, un ciclone, uno tsunami che tutto spariglia e travolge, una forza possente e titanica, una vera rocker, un fuoco, un turbine. Ha una marcia in più03_REBOTA__f.Quim Tarrida.jpg la Mateus nella sua invettiva che parte in tono canzonatorio e brillante e si fa pian piano sempre più atto d'accusa sul tema della violenza sulle donne divenendo, alla fine, vero e proprio stato d'allarme, processo accusatorio, presa di coscienza sul femminicidio, consapevolezza e moto di ribellione ed orgoglio. Sul boccascena, come una punk dai pantaloni dorati scatenata sulla musica techno con la faccia dipinta come Joker, la performer sperimenta la sua parodia machista-latina con tutti gli stereotipi del caso, partendo dalle offese alle donne. Il suo è un canto, un grido, un urlo, s'accapiglia, s'infervora, s'agita, si scalda. Il suo è un alfabeto delle ingiurie e degli insulti che normalmente le donne, ad ogni latitudine e in ogni contesto sociale, devono subire. Il suo è un j'accuse doloroso, a tratti rancoroso, spesso retorico, pieno di furore positivo e d'impeto rovente. Diventa cascata e torrente in piena, è un diesel che si fa turbo. Dopo gli oltraggi è tempo di scartavetrare e ribaltare il vero senso maschilista delle fiabe per bambini dove la donna aspetta sempre che il maschio la salvi, la sposi, la elevi dal suo rango di subalterna. Frasi al veleno, “nel calcio non ci sono omosessuali” o “se una donna non si sposa vuol dire che è lesbica”, fanno da contraltare con fasi più pop e leggere. E' un Leo Bassi in versione femminile, vulcanica, senza peli sulla lingua, è un Puk che non fa sconti, che non cede, che non molla la presa, che ti mette all'angolo con le spalle al muro, davanti alle responsabilità della società, degli uomini e delle stesse donne che accettano, subiscono, non si ribellano. Funambolica, elettrica, sconquassa, percuote, distrugge, è un carrarmato, un caterpillar, uno schiacciasassi che non si incrina, vera pasionaria, amazzone intensa, energia pura, spinosa, mai doma. L'elenco delle donne uccise per mano maschile tra le quattro mura domestiche in Spagna è un pugno nello stomaco ma è quando, da circense, diventa il bersaglio di un lanciatore di coltelli, metafora della condizione femminile, che il discorso si fa ancora più cupo fino a quando la Mateus non mette la testa, per minuti interminabili, dentro una carriola piena di terra ricordando lo struzzo ma anche pratiche di tortura: “Le donne dimenticano per sopravvivere, le donne perdonano”. Dall'alto cadono centinaia di palline (il rimando agli organi sessuali maschili è evidente e voluto): it's raining men!

Altro tema cruciale della nostra società è senz'altro la religione, i suoi fanatismi, i suoi deliri, le sue allucinazioni, i suoi isterismi, le sue farneticazioni, le sue esagerazioni. La religione vista come uno scudo, come un parafulmine a tutto ciò che accade, una protezione, un tetto sotto il quale rifugiarci nel mezzo del temporale della vita, un riparo conservatore e consolidato, accondiscendente e consuetudinario e consolatorio. Ma quando a diventare fanatico religioso e osservante alla lettera della Sacre Scritture è un adolescente le cose si fanno problematiche perché mette in CM_0842.jpgcrisi una serie di dinamiche e comportamenti assodati, crepano l'ordine costituito delle cose, il normale andamento di regole e divieti, mina l'autorità dei professori, quella dei genitori. “Martir”, testo di Marius von Mayenburg, per la regia di Rodrigo Francisco (in Italia l'hanno realizzato i Filodrammatici di Milano un paio di stagioni fa), ci porta dentro la trasformazione della psiche di un ragazzo, nel suo avvicinamento al Vangelo fino a considerare il mondo moderno come sponda naturale per le parole millenarie degli apostoli, applicando le parabole dei santi come leggi inamovibili che tutto regolano. La messinscena è ampia e aperta, bianca, pulita, un quadrato con tante finestre che adesso si fa scuola, ora casa, infine chiesa. Teche linde alle pareti dove poter scrivere (come sono gli adolescenti, teli bianchi, spugne che raccolgono) versetti e frasi, citazioni bibliche e virgolettati che danno un senso alla vita, che la spiegano, la chiariscono, vetrate come lavagne. La religione come appiglio e piede di porco per dare una definizione all'insondabile esistenza degli umani. Il ragazzo (molto convincente il protagonista) che diviene ogni giorno sempre più devoto e pio, bigotto ed osservante, che rifiuta il contatto con le ragazze, che entra in aperto conflitto con la madre e con la professoressa, nodo e fulcro della vicenda. Chi è il Martire? Chi vuol farsi Martire? Chi è vittima e chi invece si fa passare per vittima? In questo gioco al massacro ci si scambia la pena di una croce da portare per divenire quei “Martiri” che la società può tollerare, sopportare, santificare, con i quali solidarizzare e non, per senso di colpa, emarginare.

Interessantissima la riflessione del giovane regista e drammaturgo Tiago Correia che incentra la sua riflessione sul “Turismo”, quella massa di persone che si spostano, mangiano, fanno foto, si muovono, prendono mezzi, hanno bisogno di servizi, incrementano l'indotto di un Paese inevitabilmente trasformandolo a suo gusto e misura snaturandolo intimamente. Il Portogallo, negli ultimi anni, ha sponsorizzato dinamiche per far sì che i pensionati europei, prendendo lì la residenza non paghino le tasse per i primi dieci anni.1533_© Jose Caldeira_© Jose Caldeira.jpg Un bel colpo, un Paese sicuro, tranquillo, con una buona qualità della vita, un clima mite anche d'inverno e nuove strutture per i suoi nuovi cittadini. E' ovvio che il turismo, e di rimbalzo l'economia, per soddisfare chi viene a spendere nel nostro Paese, lo voglia a sua immagine e somiglianza, a cominciare dal cibo, ai costumi, tutto si frantuma, si globalizza, diventa meticciato, le tradizioni si perdono, tutto si annacqua tra souvenir (prodotti comunque in Cina) e mete sempre meno esotiche ma anzi frequentatissime. Non esiste più un luogo che non ha visto turismo e turisti che sì comprano, dormono e cenano ma che trasformano le città in gadget, ninnoli, soprammobili, cartoline. Le città così violentate perdono la loro anima, i residenti che lasciano il centro affittando a prezzi astronomici. Quello che è successo con Venezia, città fino alle sei di pomeriggio invivibile e dopo deserta. Quello che è successo a Forte dei Marmi in Versilia con i russi che sono arrivati in massa a comprare le ville. Si crea una bolla finanziaria e immobiliare per le quali per i residenti che lì ci vivono tutto l'anno, i prezzi diventano insostenibili, i servizi ai quali poter accedere irraggiungibili in quella che era ed è ancora casa loro ma, in pochi decenni, esclusi, emarginati dal mercato. Se ci mettiamo anche che per attirare capitali stranieri (negli ultimi anni cinesi, russi, arabi) devi abbassare il costo del lavoro, va da sé che in molti Paesi del mondo, compreso il Portogallo e l'Italia che vivono di turismo, tra qualche anno, dopo l'ennesima fuga dei cervelli, in patria non rimanga che lavorare nella ristorazione o nella ricettività alberghiera. Un magro panorama.

La messinscena è europea, di grande respiro internazionale con un uso delle luci evocativo e serafico e sensuale, le immagini riprese in presa diretta e riproiettate sulla scena, il rumore costante di aerei che atterrano e partono per il mordi e fuggi low cost. Se tutti possono andare dappertutto allora il prezzo si abbassa compresa la qualità in nome di una quantità che diviene dozzinale, grossolana. Le Nazioni si trasformano in divertimentifici, in succursali estive per stranieri con il portafoglio gonfio. Basti pensare alla Grecia alla quale è rimasto il mare e le isole. I Paesi diventano quello che i turisti sperano di trovare, le persone del luogo v1211_© Jose Caldeira_© Jose Caldeira 1.jpgengono sostituite, bisogna imparare le lingue altrui per potergli vendere l'ennesimo ricordo a pochi euro. E' un gioco che in pochi anni può distruggere ecosistemi di usi e costumi centenari inseguendo il Dio denaro e cercando di soddisfare le richieste, la domanda che gestisce e trasla l'offerta. Dimmi cosa vuoi e sarò in grado di dartela in un cortocircuito di competizione internazionale per attrarre più rotte possibili, intercettare più flussi. Vengono scoperte nuove mete, si costruiscono aeroporti, sorgono città che non c'erano, servizi, possibilità, il lavoro c'è per tutti, sottopagato ma c'è, fin quando non viene aperta un nuovo mercato che attragga maggiormente. Perché nel mondo del turismo, dove tutti sono andati dappertutto, è la novità quello che cerchiamo sempre, il nuovo, il mai visto. Appena il turismo di massa si sposta da un luogo ad un altro vengono mese sul lastrico generazioni e popoli, famiglie intere. Il turismo è una droga, è un doping che pompa quelli che all'inizio sembrano soldi facili ma che gonfiano i conti, le spese, l'inflazione. Il turismo è come la prostituzione, vittima delle ondate e delle voglie. Gradualmente gli Stati perdono i loro connotati, la propria identità sbiadisce, diventa movida e alcool, ristorantini, code, musei. I piatti tipici si avvicinano al gusto del forestiero per poterglieli vendere più facilmente, storie millenarie di popoli si inchinano a tripadvisor, si genuflettono a booking e tutto prende il sapore di una Disneyland al retrogusto del “menù turistico”, quelli dove non mangi ma ti riempi e ti rimane quella sensazione di pienezza senza che il palato sia realmente soddisfatto. Le città diventano “a misura di turista” e non “a misura di cittadino”, il turismo che usa ed abusa, consuma e sporca e se ne va lasciando i problemi a chi la abiti 365 giorni l'anno. Turismo e responsabilità spesso sono due rette parallele. Una bellissima intuizione, una regia fresca, una dialettica efficace per smuovere il dibattito.

Tommaso Chimenti

Mercoledì, 05 Febbraio 2020 00:08

Festival di Sanremo 2020: prima puntata flop

Difficile ricordare un'edizione che si sia particolarmente distinta negli ultimi 20 anni per la qualità e la quantità dell'intrattenimento (musicale e non solo), senza piuttosto correre il rischio di essere sommersa da una valanga di insulti e commenti social al vetriolo. Comunque la si pensi, la cultura popolare ha definitivamente abbandonato le poltrone del Teatro Ariston, e questa 70° edizione del Festival di Sanremo ne è la conferma più di un contratto firmato col sangue. A dare il via alla “Messa in scena” è un Fiorello in abiti da prete che tenta di scaldare il pubblico con battute lampo sui temi del momento, un po’ per cominciare a dare una scossa allo share, un po’ per smontare le accuse di sessismo delle scorse settimane e un po’ anche per ricordare che nei primi anni 2000 è stato un grande showman. La scenografia ineccepibile di Gaetano Castelli accoglie l’entrata “poco” trionfale di Amadeus che subito dopo pochi secondi dalla presentazione viene nuovamente soccorso dal buon amico Rosario, tra mini provocazioni sul possibile flop del festival e altre a sfondo politico (“Qui a Sanremo, si entra Papa e si esce Papeete”).

Inizia la gara dei giovani, o meglio, la prima selezione. A passare il turno sono l’“8 Marzo” di Tecla (che oltre a rimandare molto alla “Che sia Benedetta” di Fiorella Mannoia fa rimpiangere le plastiche esibizioni della Tatangelo con la sua “Essere una donna”) e una presuntuosa “Vai bene così” di Leo Gassman. Agli Eugenio In Via di Gioia va il premio morale di "scimmiette da tormentone estivo" e al simpatico Fadi un ringraziamento per averci sinceramente provato.


Il tempo di lasciare a Tiziano Ferro il compito di “storpiare” il povero Domenico Modugno (e, successivamente, anche Mia Martini) e inizia ufficialmente la gara dei big. Irene Grandi apre le danze con la sua tipica grinta, sebbene la canzone “Finalmente io” sia un brano povero sotto molti punti di vista. Diletta Leotta entra in scena come prima valletta (dimenticando che per essere simpatici bisogna anche essere spontanei) per introdurre in successione Marco Masini (“Il Confronto”, classico repertorio masiniano) e Rita Pavone (“Niente. Resilienza 74”, canzone pseudo giovante con vago sentore di naftalina) e cedere poi il palco alla più notevole Rula Jebreal, almeno finché non gioca anche lei sulle battute sessiste pre-Sanremo.


Achille Lauro ripropone con la sua “Me ne frego” il copione dell’anno scorso (forse un pelo più sgradevole), Diodato sembra risvegliare per un attimo gli animi con “Fai Rumore” (ma occorre un secondo ascolto a orecchie ripulite) e Le Vibrazioni tornano sul palco con una noiosa “Dov’è” (unica nota positiva: il traduttore della L.I.S. alle loro spalle durante l’esibizione). Superato il faticoso scoglio fatto di Albano e Romina (per il solo piacere dei nonni) e l’ennesimo teatrino Fiorello-Amadeus, irrompe nella gara Anastasio con un rap interessante dal titolo “Rosso di rabbia”.


Elodie suggerisce il prossimo tormentone per le ragazzine con “Andromeda”, prima che Rula Jebreal si cimenti in un monologo contro la violenza sulle donne (più interessante di quello di stampo sentimentalistico alla italiana della Leotta, ma forse un po’ troppo artificioso) e lasci nuovamente spazio alla musica con Bugo e Morgan (“Sincero”, progetto interessante, se non si è fan dell’ultima ora di questa, nemmeno troppo, “strana coppia”), Alberto Urso (“Il sole ad Est”, poco apprezzabile almeno quanto Il Volo nelle passate edizioni della rassegna), Riki (“Lo sappiamo entrambi”, tipica canzonetta pop da podio di Sanremo) e a chiudere Raphael Gualazzi (“Carioca”, valida fusione fra testo italiano e musica dal sapore brasileiro). Decisamente poco rilevanti le incursioni finali del cast de “Gli anni più belli” di Gabriele Muccino e di Emma Marrone (quasi interminabile), eccezion fatta almeno un po’ per Gessica Notaro accompagnata da Antonio Maggio nell’esecuzione de “La faccia e il cuore” (un resoconto dei drammatici trascorsi dell’ex Miss Romagna 2007, firmato anche da Ermal Meta).


12 proposte musicali, per lo più discutibili. Scambi di palco poco rilevanti fra presentatori e vallette (buoni solo con il tema del femminicidio di mezzo), ospitate di spessore esiguo e nessun sussulto o note di encomio che valgano le oltre 4 ore e passa davanti allo schermo. Insomma, la nave è salpata. Ma, come era prevedibile, non ha lasciato nemmeno il porto.


Jacopo Ventura

Il 70° Festival di Sanremo è ormai alle porte, e come da programma, ha già cominciato ad attirare l’attenzione del pubblico su di sé attraverso controverse scelte musicali e temi sociali da portare sul palco. Quest’anno tocca al femminicidio.

La cornice del Teatro Ariston è ufficialmente pronta ad ospitare la 70° edizione del Festival di Sanremo (lo start il 4 febbario) che, lasciandosi precedere come sempre da rumors e indiscrezioni (più o meno voluti), piuttosto che allargare la lente d’ingrandimento sulla qualità delle canzoni in gara, strizza l’occhio anche nel 2020 alle tematiche sociali “del momento”. Significativo, in questo senso, è stata non solo la ben nota gaffe del presentatore designato Amadeus, ma anche (e soprattutto) la scelta di far partecipare alla gara, insieme agli altri 23 “campioni” previsti, il discusso rapper Junior Cally (pseudonimo di Antonio Signore). images 1

A suscitare scandalo sarebbero stati proprio alcuni testi appartenenti alla più recente produzione del cantante romano classe 91, in particolare il brano “Si Chiama Gioia” (dall’album “Ci Entro Dentro”, 2018) che, insieme all’imbarazzo generale causato “forse” dalla difficoltà del successore di Baglioni-Bisio-Raffaele nel giustificare una tale onnipresenza di carattere femminile sul palco dell’Ariston (ben 10 vallette spalmate sulle 5 serate previste!), ha dato il via libera allo sfogo generale dei populisti-moralizzatori-occasionali che per quest’anno hanno eletto tema sociale della kermesse sanremese il “femminicidio”. Con tanto di relativo hashtag “#iononguardosanremo”, stavolta di matrice pseudo femminista.

Nessuna novità, quindi, per quel che riguarda il tipico gioco-forza della rassegna musicale più famosa d’Italia, che da sempre a suo modo ospita argomenti di carattere socio-politico per avere qualche riflettore in più puntato e consentire alla Rai di fare dignitosamente i conti con l’Auditel in questo periodo dell’anno. Se il caso “Mahmood” della scorsa edizione ha potuto far leva sul tema dell’“immigrazione incontrollata” (piuttosto che su quella della canzone stessa), volgendo lo sguardo indietro di alcuni anni, in maniera anche disordinata, è possibile rintracciare alcuni casi altrettanto esemplari, spesso e volentieri per iniziativa degli stessi artisti in gara.

Ed ecco allora spuntare il compianto Giorgio Faletti che con la sua “Minchia Signor Tenente” (1994) denunciava la vergognosa criminalità del Sud d’Italia, oppure la violenza domestica sui bambini di Ermal Meta nella canzone “Vietato Morire” (2017), la pena di morte cantata da Enrico Ruggeri e Andrea Mirò (“Nessuno Tocchi Caino”, 2003), la mafia secondo Fabrizio Moro (“Pensa”, 2007), l’abusivismo spiegato in maniera irriverente dagli Elio e Le Storie Tese (“La Terra dei Cachi”, 1996), l’impegno politico e romantico di Daniele Silvestri (“L’uomo col Megafono”, 1995), senza dimenticare i vari Celentano (“Il ragazzo della via Gluck”, 1966), Nilla Pizzi (“Vola Colomba”, 1952) e altri ancora.

La vera questione, a questo punto, torna a concentrarsi (come ormai troppo spesso capita) sulla strumentalizzazione di certi argomenti “occasionalmente” tanto a cuore all’opinione pubblica, con relativi personaggi da mettere alla gogna, per una questione strettamente di comodo. Allora, perché non citare brani meno recenti, additati all’epoca come sessisti ma dei quali non se ne è mai parlato abbastanza a causa (magari) della mancata concomitanza con eventi di spicco della tv italiana?

Nel 2010, ad esempio, Fabri Fibra sfornò la sua “Donne” (“Controcultura”), qualche anno dopo il più esplicito Gué Pequeno “sputava rime” nel rap di “Tutte in Fila” (“Lettera al Successo”, 2014), il lattante Sfera Ebbasta pubblicava la controversa “Hey Tipa” (Emergenza MixTape, 2013), fino ad approdare a tempi più recenti dove troviamo Fedez feat. Dark Polo Gang e il porno assoluto di “TVTB” (“Paranoia Airlines”, 2029).

Come storicamente accade, poi, la reazione immediata del “popolino” è quella di bollare un intero genere musicale come causa della cattiva educazione delle giovani generazioni, cosa che negli Stati Uniti (ad esempio) è stata bella che superata, per quel che riguarda il rap ovviamente (senza scomodare il rock, il jazz o chi per loro), già dai tempi di The Fat Boys, Beastie Boys, Tupac, The Notorius B.I.G., Snoop Dog o Eminem (tanto per abbracciare il più possibile l’intera storia del rap/hip hop). Guerre tra bande, lotte sociali, spensieratezza e, sì, anche le donne: le vere tematiche di questo genere figlio del funky, reggae, scat e rhythm and blues non sono mai state un mistero, ma da noi inesorabilmente persino un certo grado di consapevolezza sembra arrivare in ritardo. Altrimenti non passerebbe in sordina un brano come “Uomini Contro” di Ensi (2013), al cospetto di tanto moralismo pre-Sanremo.

Anche quest’anno, insomma, il Festival della Canzone Italiana si fregia della chance/responsabilità di affrontare insieme ai suoi telespettatori un tema di indiscutibile attualità come la “violenza sulle donne”, qualora il fu monologo della Littizzetto nel 2013 non fosse già stato abbastanza. La memoria di questi tempi si sa è corta e puntare il dito contro certi artisti definendoli fomentatori di certi cattivi esempi di carattere civile e morale è facile, soprattutto quando non ci si informa abbastanza. Troppo, troppo facile.

Jacopo Ventura

 

TORINO – Nel 2018 le donne vittime di femminicidio in Italia sono state 142 (dati Eures). Dal 2000 ad oggi, in questi venti anni, oltre 3200: un massacro, una strage, un'ecatombe, un disastro, un martirio, un attentato. Non va certo meglio in Europa: nel 2016 l'Italia registrava un tasso di omicidi con donne vittime pari a 0.5 ogni 100.000 persone. Uno dei livelli più bassi, e non è che ci sia da festeggiare, un amaro primato: la GB arrivava a 0.9, la Francia a 1, la Germania a 1.1. Non c'è da gioire. La cronaca, ogni giorno, ci riporta alla cruda realtà, come uno schiaffo, da Nord a Sud, tocca tutti i ceti sociali. E' per questo che il tema, spinoso e scivoloso (si può cadere nel banale come nel cronachistico) va affrontato con delicatezza. In “Scene di violenza coniugale” (prod. Teatro Stabile di Torino, Teatro di Dioniso, Pav) molte inesattezze, dimenticanze, superficialità hanno intaccato la visione, indebolito l'argomento, non centrato il focus. Mancanze a partire dal testo di Gerard Watkins (traduzione di Monica Capuani) attore e drammaturgo inglese naturalizzato francese. Tanti i dubbi e le incertezze che abbiamo incontrato. A partire dal titolo: quel “coniugale” 3_SCENE_Malanchino_Troisi_Serra_Corradino_Cipolletta_ph_Manuela_Giusto-800x540.jpgvisto che le due coppie in questione, una di giovani scalcinati (ventenni?), l'altra di adulti (quarantenni?) non sono sposate. Scricchiolamenti, fraintendimenti.

Siamo a pochi passi dal Teatro Carignano, aspettiamo fuori da un elegante portone di un elegante palazzo nel centro elegante di Torino: vengono a prenderci come invitati ad un ballo, ad una festa, ad un ricevimento. La sala (solo per quaranta spettatori alla volta) sembra essere fuori rotta rispetto alle parole del testo che ci porta nel 14esimo arrondissement (a proposito, la traduzione poteva cercare una trasposizione in una metropoli non meglio identificata del nostro Paese, dire “siamo nel quattordicesimo” confonde, allontana), una sala formale di stucchi dorati, specchi, Scene-di-violenza-coniugale-modus-verona.pngcaminetti e parquet: sembra di stare alla corte di Luigi XIV e non in un appartamento e per giunta di periferia. Già la location spiazza, destabilizza, non trova appigli né corrispondenze, lascia sospesi, interdetti.

Non abbiamo neanche capito perché la regista (Elena Serra) ci accompagni uno ad uno a dei posti da lei assegnati (facendosi personaggio), cercando il migliore per ogni persona del pubblico, come se questo avesse un fine cosa che poi, con lo scorrimento della piece, notiamo e comprendiamo che non ne ha alcuno. Perché questa pantomima, che necessariamente avrebbe dovuto implicare una conseguenza un effetto di tale scelta? Misteri.

I quattro attori (Roberto Corradino esperto, Clio Cipolletta interessante nel suo fare ansiogeno, Aron Tewelde combattivo, Annamaria Troisi accurata, bravi ed impegnati ma dai decibel troppo forzati, sempre sopra le righe, dalla recitazione eccessiva, affettata ed esagerata se non proprio esasperata anche quando non servirebbe) dialogano cercando una sponda nel pubblico, raccontando alla platea, occhi negli occhi, ed anche questo fa uscire dal pathos del momento, toglie dall'immersione dello spettatore dentro la storia che si sta sviluppando sul palco: appare una recita, qualcosa che sa di finzione, di replica, l'hic e il nunc si perdono tra sguardi complici, alla ricerca di una relazione visiva che fa perdere potenza alle parole dette; in qualche modo “ci si crede” meno, si esce dal patto sottaciuto e intimo tra attori e pubblico. SCENEDIVIOLENZA1.jpgInteressante è il ping pong emotivo tra le due coppie che, nella stessa stanza, con entrate ed uscite angoscianti (il crash in audio tra una scena e l'altra è didascalico), si intescambiano vivendo situazioni simili in ambiti spaziali e temporali differenti.

Altro misunderstanding è l'incrocio tra le due coppie, la malandata e scalcagnata giovane e la borghese matura, che visitano lo stesso appartamento, gigantesco ma periferico appunto, incontrandosi e proponendo entrambi, quindi punto di scontro e frizione tra le due fazioni, la documentazione per accaparrarselo. Ulteriore cortocircuito è il fatto che la casa da affittare possa essere motivo di contesa sia di uno spacciatore-malavitoso di borgata, vestito malandato con una tuta da ginnastica, che di un fotografo-imprenditore, si cambia più volte d'abito con camicie alla moda, elemento che ci fa capire che ha disponibilità economiche. Ma non è tutto: le due coppie si incontrano nell'unione delle ascisse di tempo e spazio, nello stesso luogo fisico, con la regista che, dopo aver accompagnato gli spettatori alla loro seduta diventa agente immobiliare, senza che questo momento, che appare centrale e cardine per lo sviluppo della narrazione successiva, abbia alcuna conseguenza, non muti assolutamente alcuna vicenda o azione nella seconda parte. Ogni oggetto, ogni azione proposta in ogni quadro dovrebbe avere, a cascata, delle ripercussioni all'interno della scena stessa altrimenti sono inutili e fuorviano lo spettatore verso elementi futili e superflui. Ed ancora un perché: perché la nostra Caronte o Virgilio, la regista che diviene anche agente immobiliare, si presenta con una piccola pancia da donna incinta di qualche mese, senza che questo elemento, anch'esso visivamente molto potente, perché implica altre riflessioni, porti alcun stravolgimento, nessuna idea, nessun risvolto? Scene messe lì, che se ne vanno come sono arrivate, come parentesi senza alcun nesso o senso pregnante.

La SCENEDIVIOLENZA2.jpgquestione più antipatica invece deriva proprio dalla drammaturgia comunque caotica e confusionaria: sembra che Watkins non abbia molto rispetto per la figura femminile da una parte e dall'altra quasi giustifichi certi atteggiamenti deviati maschili. Tratteggia la donna della coppia più esperta come una instabile, con due figli da altrettanti uomini (bambini che non vivono sotto il suo stesso tetto), sempre alterata e fuori misura mentre, all'interno della coppia più giovane, disegna il ragazzo come un “drogato” quindi come se lo scusasse e lo discolpasse delle sue azioni perché, appunto, alterato dall'uso di sostanze e psicotico: la violenza diventa posticcia, manierata.

Questi sono casi limite, certamente non riesce a fotografare la realtà, la “normalità” delle violenze domestiche subite da migliaia di donne quotidianamente. Tutto questo fino alla confessione finale, al messaggio conclusivo delle due donne (vengono fuori altri elementi come un “ferro da calza infilato in un orecchio” e degli “scarafaggi”: cosa c'entra buttare sul piatto altri cip lanciati senza analisi?) che sa molto di ramanzina, di rimprovero, di sgridata. Fintamente emotivo, tanto che risulta freddo e asettico. E' la deriva del teatro “civile”: non basta parlare di argomenti toccanti per riuscire a toccare gli spettatori e le loro menti, non basta parlare di femminicidio per fare un buon servizio alla società; a teatro ci vuole altro.

Tommaso Chimenti 22/01/2020

Foto: Manuela Giusto e Ruggero Lerda

MILANO – E' recente la notizia di una rivalutazione e rivisitazione delle fino a poco tempo fa obsolete cassette musicali. Dopo la riesumazione dello scomparso vinile adesso è l'ora di cassette, da girare con un lapis o una penna quando il nastro fuoriusciva, e dei mangianastri. La cassetta, con i suoi tasti play o rev, è l'oggetto feticcio (come nel beckettiano “L'ultimo nastro di Krapp”), lo spartiacque e l'apriscatole di “Letizia Forever” (prod. ACTI – Teatri Indipendenti Torino, Teatrino Controverso e T22; visto al Teatro Libero di Milano all'interno della rassegna Palco Off – Storie di Sicilia, diretta da Francesca Vitale), da quattro anni in giro e oltre 120 repliche in tutta Italia (longevità sintomo di qualità, durata che significa potenza della scrittura quanto dell'interpretazione), testo a forte componente siciliana ma ampliabile ad un universo di frustrazione e disperazione comune a qualsiasi latitudine. Questa Letizia, nel suo abitino misero a pois che fanno rima con i pallini della luce stroboscopica che le zampillano intorno, parla la lingua sporca e sgrammaticata messa a punto da Rosario Palazzolo, regista, attore di teatro e al cinema (sarà nella prossima pellicola di Marco Bellocchio), scrittore di prosa, drammaturgo palermitano che ha affondato le mani e affinato questa terminologia che ha nell'onomatopeico come nell'erroneo, nel grossolano come nella sintassi sconclusionata quel che di tenerezza e ingenuità fanciullesca che accolgono, avvicinano, abbracciano.whatsapp-image-2018-03-08-at-18-33-02-1-600x336.jpeg

Dicevamo le cassette, anzi questa playlist di “genere d'amore italiano”, che fa da sottofondo ma ha anche una forte valenza drammaturgica perché accompagna e sottolinea i vari momenti di questa “intervista” che intervista poi non è. Il personaggio Letizia è un Giano bifronte, interpretato non semplicemente en travestì ma da un uomo corpulento ma anche con una grande, lunga e profonda barba. Di uomini che a teatro hanno impersonato donne ne sono pieni i palcoscenici, da Franco Scaldati a Emma Dante, da Saverio La Ruina alle Nina's Drag Queens, da Paolo Poli o Filippo Timi fino ad Annibale Ruccello ma in questo caso la vista e l'estetica cozzano e confliggono talmente tanto con il significato intrinseco di cui è portatore che, paradossalmente, Salvatore Nocera (frontman del gruppo musicale di Caltanissetta Pupi di Sùrfaro) risulta altamente credibile per la forza compressa espressa nel suo phisique du role da rugbista, per questa leggerezza mista a rassegnazione, per questa dolcezza mischiata alla speranza marcita, per quei piccoli docili gesti che ne tratteggiano l'interiorità violata e la carne percossa di privazioni.

Sulla sua sedia, che è divenuta il suo trono fragile, ogni giorno Letizia è costretta a ritornare sui passi che l'hanno condotta lì, è forzata nel ricordare i dettagli delle sue azioni, a spiegare nuovamente ciò che ha già detto (quel “forever” del titolo che magicamente ci riporta a “Mary per sempre” per assonanze linguistiche regionali e ambientali), a tirare fuori gli scheletri dall'armadio. Tutto questo le fa un male cane, le procura lacerazioni indicibili che possono essere alleviate soltanto con la musica, la colonna sonora dei “fabulosi anni '80”,Salvatore-Nocera-in-Letizia-Forever-di-Rosario-Palazzolo.jpg decade spensierata che finisce con l'ingresso nell'età adulta, prima la fuitina a Milano, poi la vita coniugale, monotona, ripetitiva, senza amore, senza passione, senza gioia, senza alcun gesto di vicinanza, indulgenza, solidarietà, costellata di silenzi, di assenze, di vuoti. E il testo è anche infarcito di piccoli segnali per una sorta di “caccia al tesoro” con il pubblico, con il quale Letizia dialoga nel suo monologo in cerca di comprensione: il suo nome è proprio il contrario di ciò che ha vissuto, l'evento scatenante che connota la sua situazione attuale è avvenuto il 9 marzo, appunto il giorno dopo l'abusata Festa della Donna, il marito si chiama Salvatore, di nome ma non di fatto visto che non è riuscito né a salvare se stesso né tanto meno Letizia dalla miseria, dalla povertà, dall'aridità di prospettive, dalla tristezza infinita che li ha assaliti e divorati, così come la strada dove hanno abitato, “via dell'ortica”, che ci ricorda fastidiosi e pungenti pruriti.

La musica è l'unica cosa che allevia le sofferenze di questa donna che mai è stata libera, passando dalle frustrazioni di una famiglia tradizionale siciliana alle castrazioni di un marito anaffettivo, la musica è il grimaldello e piede di porco che alzano la botola del dolore e scoperchiano l'abisso, aprono il Vaso di Pandora di una memoria volontariamente messa a tacere e sepolta sotto il tappeto del tempo che non può tornare indietro. Come per magia però Viola Valentino e Pupo, Gianni Togni e Franco Simone, Giuni Russo e Nada così come Alberto Camerini e Alan Sorrenti riescono a riportarla ai rari momenti di spensieratezza, quando aveva davanti tutta la vita, quando era ragazza. Il trauma ha LETIZIA-FOREVER-FOTO-PER-RECENSIONE.jpgfermato il tempo, bloccandolo e congelandolo e Letizia è rimasta sospesa, attaccata con le unghie a quelle rime facili, a quelle strofe demodé, a quegli amori impossibili, a quei sentimenti totalizzanti e strazianti. Non si può non volerle bene, non si può non restare avvinghiati a questa donna piccola davanti alle “purcherie” di un mondo a matrice maschilista che non ha saputo mantenere le attese prospettate di “Sorrisi e Canzoni” (la sua bibbia) e le promesse patinate di “Grand Hotel” (il suo romanzo di formazione).

Letizia 44516086_10218298675124528_4281776669749936128_n.jpgè la vittima di questo sistema che l'ha usata e trattata come uno straccio insignificante, che l'ha resa marginale e abbandonata, che non le ha regalato niente di bello ma solo indifferenza. Anche adesso in questi istanti dove, come cavia da laboratorio, viene fatta confessare ogni giorno (ricorda il mito di Prometeo e l'aquila che gli mangia il fegato quotidianamente), istigata e obbligata da altri maschi oppressori che la deridono, la puniscono con un'inutile rievocazione del già ammesso. Palazzolo, come Scimone e Sframeli, come Ciprì e Maresco, come Moscato, riesce a ricreare scenicamente atmosfere di spazi angusti soffocanti nei quali esplodono l'asfissia degli affetti, l'anoressia dei sentimenti, l'afasia dei rapporti umani, il soffocamento della felicità, la claustrofobia dell'essere umano ormai annientato senza futuro. Un pungo al cuore e uno allo stomaco. Senza carezze.

Tommaso Chimenti 26/01/2019

MILANO – “L'uomo e la donna sono le persone meno adatte a stare insieme” (Massimo Troisi).

Il periodo è buio. Sta tornando il Medioevo e l'Oscurantismo? Soprattutto la Caccia alle Streghe. Il caso Weinstein, sollevato per prima da Asia Argento, quello di Kevin Spacey, quello che ha riguardato, effetto boomerang, la stessa figlia del regista horror, quello che ha toccato Cristiano Ronaldo a Las Vegas, quello che ha investito il regista Fausto Brizzi (proprio suo il film dal titolo “Maschi contro femmine”) poi scagionato, quello che ha toccato Giuseppe Tornatore (accusato da Miriana Trevisan). Negli Stati Uniti già da anni gli uomini non entrano in un'ascensore dove è presente una donna sola per timore di poter essere accusati di comportamenti inappropriati. Al netto del #metoo (nessuno critica il movimento in sé quanto le modalità da pubblica gogna) non sempre e non per forza il lupo cattivo deve essere l'uomo e Cappuccetto Rosso la donna, ed è pur vero che può accadere che le accuse siano prive di fondamento per mettere in difficoltà o alla berlina la persona in questione, per motivi di interesse, di screditamento professionale, per competere nella carriera, per invidia, per farsi pubblicità, per vendetta, per avere puntati addosso i riflettori. Il punto è che i processi la prova© Laila Pozzo-2.jpgdiventano mediatici molto prima che giuridici, sono i media a decretare la sparizione di un personaggio, se conosciuto, il suo accantonamento (per il film “Tutti i soldi del mondo” il regista Ridley Scott ha sostituito Spacey, a riprese ultimate, con Christopher Plummer rifacendogli rigirare tutte le scene dove era presente il protagonista de “I soliti sospetti”; al Premio Oscar è stata anche cancellata la partecipazione nella pellicola “Gore”), l'emarginazione sociale e il marchio a fuoco come appestato, se comune mortale. E' di queste ore la notizia che Lady Gaga abbia autocensurato il suo duetto con il rapper R. Kelly per le accuse nei confronti del cantante da parte di diverse donne.

La la prova© Laila Pozzo-30.jpgcondanna però non può avvenire attraverso la voce del volgo né talk show o interviste televisive. Bisognerebbe che realmente, e non solo sulla carta, esistesse l'innocenza fino a prova contraria. Ecco le parole esemplificative post bufera di Tornatore: “Una mattina ti svegli, apri il giornale o il computer e scopri di essere un mostro, un molestatore, un violentatore. Poi siccome si fa un uso abbastanza sciolto delle parole, diventi uno stupratore. E scopri tutto questo grazie a certi metodi di certi organi di stampa, non tutti fortunatamente, che non seguono delle regole ortodosse. Perché scrivono che sei un assassino senza ricorrere al contraddittorio, poi tu ti difenderai, se vorrai come vorrai, ma intanto il danno è fatto. Questo è un sistema veramente mostruoso ed è inaccettabile”. Alcune accuse infamanti distruggono delle vite e il risarcimento, nei rari casi in cui avviene, non riporta mai indietro il tempo, le energie e la reputazione perdute.
Proprio su queste basi, perché i Filodrammatici milanesi sono sempre sul pezzo dell'attualità e del contemporaneo e non hanno paura a sporcarsi le mani, nasce il nuovo testo di Bruno Fornasari, “La Prova” che tenta di scardinare le modalità, di far emergere e di portare alla luce le crepe e le criticità del nostro mondo che improvvisamente si è risvegliato impaurito delle relazioni umane, bloccato, timoroso, pieno di dubbi e punti interrogativi verso l'altro o altra. Se, come nel caso dello spettacolo in questione, ci sono un uomo e una donna soli in una stanza, può accadere che la parola di lei, che abbia ragione o meno, possa vere più peso di quella dell'uomo. La soluzione non è quella di cercare il colpevole tra le fila degli uomini, in quanto maschi, etero, (se caucasici, meglio) proprio per la loro carica interiore storicizzata di predominio, violenza, sottomissione, colonizzazione, aggressione. E' da combattere la generalizzazione che ci dice che i buoni stanno da una sola parte e i cattivi, necessariamente, dall'altra. E' più facile l'idea dell'orco che una riflessione della nostra società più ampia.la prova© Laila Pozzo-3.jpg

Fornasari ribalta la faccenda, facendo diventare la pièce un thriller, un'indagine psicologica; sulla scena non siamo in presenza di nessun giudice o avvocato ma una donna, una collaboratrice di questa agenzia pubblicitaria, accusa il capo che la sera precedente ha avuto un comportamento non consono, una “microviolenza”, nello specifico una mano su una spalla, nuda per via della scollatura dell'abito da sera. Se da una parte le rimostranze della donna sembrano eccessive, o pretestuose è l'uomo messo alle strette e schiacciato alle corde, dal socio come dalla nuova compagna che vacillano nel credergli, ed è lui a dover mettere sul tavolo la “Prova”, che ovviamente, la sua parola contro quella della donna, non può produrre né fornire. La donna si trincera dietro al velo “che motivo ho io di mentire” accusandolo senza sconti di misoginia e sessismo. Ma è il ricorso, come in una vera e propria inchiesta d'investigazione della quale la platea diventa “persona informata sui fatti”, all'uso del flash back che ci portano ad altre situazioni e quadri precedenti temporalmente dove sono implicati i quattro personaggi a mostrarci non certo la soluzione ma un altro modo di riflettere sull'accaduto. Il filo tra verità e diffamazione è sottile: “Sentirsi offesi non vuol dire aver ragione”, dice l'accusato.

Se la prova© Laila Pozzo-32.jpgne viene fuori, come pubblico, frastornati perché il tema tocca potenzialmente tutti, al netto di bigottismi e moralismi, se ne esce con più domande di quando siamo entrati. Perché il tema è scottante ed è semplicistico accusare l'uomo in quanto portatore sano di generi violenti e muscolari, machisti e virili. In questo caso il genere conta, le pari opportunità si fanno da parte: “Cerchiamo sempre la conferma da quello che vogliamo sentirci dire”. L'ironia e l'intelligenza di Fornasari, alla scrittura e in regia, coadiuvato dai determinati, energici e affiatati, esplosivi e graffianti Tommaso Amadio, Emanuele Arrigazzi, Orsetta Borghero ed Eleonora Giovanardi (artistica, illuminante ed estetizzante la scena dello yogurt; che nessuno si offenda se i nomi degli attori sono stati scritti prima di quelli delle attrici, è soltanto il rigoroso elenco alfabetico) sta proprio nel riuscire a creare un percorso di pensiero che ci conduce a posizioni e convinzioni opposte, lontanissime, per poi farcene pentire e azzerare tutto, sconvolgere tesi appena costruire, mandare al tappeto certezze e opinioni sui diversi personaggi-topos. Fornasari mischia le carte in tavola senza trovare (non li cerca neppure) colpevoli mostrando quanto sia facile cadere in trappola, quanto sia semplice essere non solo accusati ma anche condannati moralmente e socialmente senza possibilità di difendersi.la prova© Laila Pozzo-9.jpg
Purtroppo la violenza sulle donne non si combatte, come auspicava qualcuno qualche tempo fa in Parlamento, cambiando il genere delle parole che si usano; chiamare una donna ingegnera o assessora non farà calare il numero devastante del fenomeno femminicidio. E nemmeno le “quote rosa” hanno azzerato le differenze, e neanche la dicitura “Genitore 1” e “Genitore 2” ci salverà. Sarà che forse il problema non sta lì?

Tommaso Chimenti 15/01/2018

Foto: Laila Pozzo

TORINO – “La violenza è l'ultimo rifugio degli incapaci” (Isaac Asimov).

“Nessuno, di fronte alle donne, è più arrogante, aggressivo e sdegnoso dell’uomo malsicuro della propria virilità” (Simone de Beauvoir).

La donna è ancora oggi fatta schiava, resa prigioniera, dalla famiglia, dalle regole sociali, da chi dovrebbe e dice di amarla, è usata e abusata, fatta merce di scambio, moneta di baratto, rapita, violentata, messa in condizioni di non potersi difendere, schiacciata, relegata ai margini, sottopagata, sfruttata come macchina sessuale o contenitore per sfornare figli. Sembra che poco sia cambiato dai tempi della pietra e della clava. E tutto questo lo si può raccontare con i dati, tristi e crudi, della realtà oggettiva e raccapricciante che ogni giorno ci sgomenta a qualsiasi latitudine, oppure attraverso la g_1513079307.jpgmetafora, l'ossimoro, il paradosso grottesco della critica sotto forma di patina che, paradossalmente, arriva in maniera molto più potente e sconvolge in profondità. A questo secondo ramo intellettuale, che strisciante si fa strada e serpeggia fino ad esplodere dentro le teste di chi ascolta, fa sicuramente riferimento l'acume, la puntualità e la precisione della penna di Alan Bennett che aveva vergato una serie di monologhi per la televisione inglese (in Italia qualcosa aveva riportato Anna Marchesini) e che qui con “Talking Heads”, (in prima assoluta, prod. Teatro di Dioniso, Progetto Goldstein, Pierfrancesco Pisani; niente a che vedere con la band di David Byrne, in italiano “Le logorroiche”, donne costrette a parlare da sole per mancanza di dialogo), sono stati tradotti e forgiati dalla lingua e dallo sguardo registico di Valter Malosti tagliati su misura per le movenze misurate e composte di una superba, camaleontica, intensa Michela Cescon (carriera divisa tra teatro, Premio Duse, Ubu, ANCT, Le Maschere, e cinema, David di Donatello, Nastro d'argento, Globo d'oro) che li ha fatti propri, se li è cuciti addosso.

Michela Cescon 01.jpgDue i monologhi che insieme compongono questo dittico in solitaria che si svolge dentro una casa stramba, impossibile e stralunata, una struttura lisergica sghemba come fosse una visione sotto LSD, o ancora un'abitazione distorta e deformata dall'acido o dai funghi allucinogeni. Alle sue spalle una porta (ci ha ricordato il settimo piano e mezzo di “Essere John Malkovich”), che in prospettiva diventa tunnel angusto e claustrofobico, cupo e agghiacciante, tra saliscendi alla Escher, che pare il buco di Alice che qui, dopo la caduta, si è ritrovata nell'Incubo senza Meraviglie. Una casa (senza bambole) scomoda (tiriamo in ballo anche De Chirico e l'inquietudine di Bosch, per la scena di Nicolas Bovey) come i matrimoni e le relazioni nelle quali queste donne sono prigioniere, legate a doppia mandata senza possibilità di liberazione, intristite, costrette, braccate come fa il cacciatore con la preda. In questa stanza (funzionali e drammaturgicamente essenziali e necessarie le luci che trasformano l'atmosfera emotiva e la carica sentimentale del quadro, di Alessandro Barbieri) la Cescon sui tacchi sembra scivolare sul pavimento obliquo e storto, rimanendo in un equilibrio precario, fisico e metaforico, sul filo dello schianto, attenta come ogni donna deve essere in questo mondo di sguardi e inseguitori.

Composte, concentrate, stabili, fisse, i due personaggi della Cescon vivono in quelle periferie ordinate con giardino e steccato, fatte di chiusure e censure, basate su rapporti pieni di formalità e maldicenze, di finzione e invidia, di tutta quella melassa ipocrita sparsa, di vocine stridule e pseudo bon ton freddo. La carta da parati e la poltrona, in stile vintage, con i fiori sbiaditi (parallelo con le donne che si sono lasciate inaridire e ingrigire dalla pochezza maschile) fanno da contraltare e frizione e grattugia alle luci sparate accecanti e trasognanti, i gesti educatamente affettati e gentilmente manierati e pastellati entrano in conflitto con storie viziose e vagamente perverse. Il borghesume perbenista, il tè come imprescindibile costume a scandire la giornata, prende il sopravvento, il conformismo dilagante ammanta tutti gli occhi giudicanti e si spande a macchia d'olio lasciando liberi soltanto nella menzogna, nell'estrema riservatezza, nel segreto, nel tabù da non svelare nemmeno a se stessi, nel vaso di Pandora personale.Michela-Cescon.jpg

Ogni famiglia è infelice a modo suo”, potremmo dire prendendo in prestito Tolstoj. La prima donna ha un fratello a casa colpito da ictus e comincia ad intrattenere una relazione, fatta di scarpe e massaggi ai piedi (cosa ritenuta feticista, sporca, allusiva, conturbante, pruriginosa dalle persone intorno), col podologo. Sono storie di liberazione, di catene che si rompono, di argini che tracimano, di ribellione e rivoluzione. Se nel primo caso la nostra protagonista portava addosso i segni di una vita piatta e sfortunata, l'aver dovuto lasciare il lavoro per la malattia del fratello e la conseguente reclusione e frustrazione, nel secondo invece tutto, all'apparenza, sembra andare a gonfie vele in una cornice dall'esterno soddisfacente: una bella casa in un quartiere residenziale, nessun problema economico tanto che i due coniugi hanno deciso di svernare a Marbella in Spagna, un'unione d'intenti e comunanza di prospettive. Tutto questo quadro cristallino a poco a poco si sfalda e va in frantumi, il mondo perfetto nel quale la seconda protagonista si è convinta di vivere è basato su piedistalli molto fragili, di infelicità diffuse, di mancanza di attenzioni e cure.

TORINO ASTRA1.jpgE' sempre l'ironia l'arma migliore di Bennett per arrivare a pungere cuore e cervello e la Cescon, quasi dentro lo scafandro dei sentimenti negati, riesce, come scultura dentro il blocco di marmo vergine, a far passare malinconie e debolezze, desolate disperazioni di una provincia statica di siepi ordinate che implode (basti pensare alle nostre Erba, Cogne, Novi Ligure, Brembate), mondi bidimensionali glaciali e ingannevoli senza sentimenti né profondità, di queste case benestanti dove nessuno sa, né si immagina nel più completo menefreghismo, che cosa possa accadere dentro le quattro mura dei dirimpettai. Il racconto si tinge di thriller ma è la scoperta che farà questa moglie sul proprio compagno (impegnato a giocare a golf) la cosa più dilaniante e imbarazzante da poter sopportare, impossibile da digerire. La Cescon regge perfettamente i cambi di registro, dallo svampito al dolce, monta, cova sotto la cenere pronta all'esplosione, sembra tenere, anche fisicamente impostata, tutto dentro, dal rassegnato fino al monologo finale pasionario commovente: “Le donne sono come le piante, hanno bisogno di luce per sbocciare e fiorire, non di ombra”. La casa rimane il posto meno sicuro per le donne.

Tommaso Chimenti 24/11/2018

SAN CASCIANO – “Intanto sul monte del Calvario smontavano le Croci, e ci nasceva un centro commerciale e due fiori che gridavano feroci” (Mannarino, “L'ultimo giorno dell'umanità”).

Adriano Miliani non ha scelto un giorno casuale per mettere in scena il suo nuovo esperimento “La Giostra dell'Umanità”. L'11 settembre si porta dietro sentimenti e sensazioni ormai radicate in noi miliani4.jpgoccidentali, pensieri, rabbia, sconforto, paura certamente. Homo homini lupus. L'uomo è l'unica razza animale sul pianeta Terra in grado di autodistruggersi, di disintegrarsi, nessun altra specie avrebbe questo ardire, questa voglia e volontà. Lo sosteneva anche Albert Einstein: “L'uomo ha scoperto la bomba atomica, però nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi”.

E questa “Giostra” itinerante è una Via crucis, non a caso ha dieci stazioni di penitenza, passione e riflessione, per un viaggio intimo dentro i budelli del teatro e dentro noi stessi, per dieci spettatori alla volta. La parola giostra richiama la fiera, il luna park, i colori, i suoni della festa, le luci che abbagliano i sorrisi dei bambini, quella girandola di grida e schiamazzi alla ricerca di un nuovo gioco da provare. Qui è l'ossimoro della deriva dell'uomo, è il veleno, è il contrasto, la frizione, la rottura, quello che avrebbe potuto essere e che invece l'uomo ha intossicato, sporcato, fatto marcire.

milliani1.jpgEra Bukowski a dire che “La gente è il grande spettacolo del mondo. E non si paga neanche il biglietto”. A volte è uno show comico, altre tragico, molto spesso tragicomico. Ed è in questo solco che Miliani persegue la sua poetica, colorata e frizzante, sciogliendoti con un sorriso e raggelandoti subito dopo, in una continua altalena, un otto volante di emozioni, ora il caldo, il rassicurante, il familiare e immediatamente dopo il freddo della morte, dell'indifferenza, della mancanza di empatia. L'umanità che non ha umanità. Gli uomini non più umani ma calcolatori, aguzzini, boia, assassini per un pezzo di pane. La compagnia Jack and Joe mette sul piatto tutta la fragilità dell'essere umano, i suoi vizi, le sue contraddizioni, le sue debolezze, la sua ricerca di salvezza in un sistema che non ha vie d'uscita; è questa sua condizione di sconfitto che ne fa un potenziale killer del suo simile.

Il buio del Teatro Niccolini ci affascina e ci accoglie, come utero materno ci ingloba, ci fa spazio dentro di sé in quest'inquietudine diffusa, in questo brivido che corre leggero. Dieci piccoli indiani alla scoperta, vagando nel buio dell'animo umano pece. Un interno familiare, lui che fa le bolle di sapone, lei che lo ama, i due si baciano, lui che la rassicura: “Andrà tutto bene”, poi si allontanano e nel buio lo sparo del femminicidio. L'insoddisfazione, la frustrazione, la depressione. Dalle carezze al colpo allo stomaco, e ti senti stordito dalla gentilezza prima, da tutto quel gelo che ti cola addosso poi e ti impantana. Ci consegnano delle bambole zuppe, infradiciate, gocciolanti (di lacrime), ci fanno muovere in fila indiana e dopo, nel buio, ci dicono di farle cadere. Quando una flebile luce si accende, in una piccola pozzanghera tanti bambolotti galleggiano ricordandoci Aylan, il bambino siriano con la maglietta rossa annegato sulla spiaggia di Bodrum. Ti senti carnefice, in prima linea, chiamato in causa, accusato, forse, additato. Ma siamo tutti colpevoli perché, come diceva Freud “l'umanità ha sempre barattato un po' di felicità per un po' di sicurezza”?miliani3.jpg

Ecco che appare la giostra che dà il titolo alla piece: sopra vi ruotano dei manichini, piccoli fantocci con un abito bianco. Non fatichiamo a capire che sono spose bambine (come avviene tutt'oggi dalla Turchia a tutto il Medio Oriente quotidianamente) in attesa del marito-padrone che letteralmente le compra tra abusi, pedofilia, violenze d'ogni tipo, umiliazioni d'ogni grado. Ci sentiamo sporchi, complici di un sistema che, giocoforza, anche resistendo o ribellandoci, avalliamo e foraggiamo, alimentiamo. Un obeso (del Primo Mondo) che continua a ingozzarsi (teatralmente la scena più cool tra luci e chiaroscuri con questo sacco che si gonfia a dismisura) e accanto, girato l'angolo, un uomo che, per pochi spiccioli, spaccherà, fino alla sua morte, pietre (sono salite alla mente le fotografie di Salgado sulla Sierra Pelada) ed al quale l'istruzione è stata negata. Il calvario prosegue, leggero da una parte, accogliente e lisciante con violinista e un presentatore sorridente, fustigante dall'altro. Adesso siamo noi i viandanti del mare, i migranti, tra schizzi d'acqua e vento in faccia, bonaccia e onde; seduti al buio, immersi nei suoni dello sciabordio della schiuma, appena una luce rischiara la nostra miliani2.jpgnotte, davanti a noi uno specchio ondeggia e ci rimanda le nostre facce stupite: siamo noi i migranti, i possibili futuri immigrati. Fino alla lettura finale della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, praticamente in decine di Paesi carta straccia e lettera morta scritta a tavolino, utopia aleatoria, interrotta bruscamente dalla realtà che entra a piedi uniti, urlando, spegnendo la recita, facendo calare il sipario, ammutolendo e zittendo l'uomo che voleva parlare dei diritti inalienabili dei suoi simili. E' l'Umanità, bellezza.

“A volte penso che Dio, nel creare l'umanità, abbia leggermente sopravvalutato le proprie capacità” (Oscar Wilde).

“La Giostra dell'Umanità”, ideazione e regia Adriano Miliani, con Adriano Miliani, Marco Borgheresi, Samuel Osman, Sergio Licatalosi e Mirella Lampertico, e l'amichevole partecipazione del clown di Sandro Picchianti, il violino di Roberto Cecchetti e l’oste Gianni Traversini. Visto al Teatro Niccolini, San Casciano, l'11 settembre 2018.

Tommaso Chimenti 12/09/2018

CASCIANA TERME – “Il mondo sarebbe un posto di merda senza le donne. La donna è poesia. La donna è amore. La donna è vita. Ringraziale, coglione”. (Charles Bukowski)

Il punto non è essere “Uno, nessuno e centomila”, il problema è quando non vieni considerato, non sei valorizzato, non hai voce in capitolo proprio perché non ti mettono nel computo degli aventi diritto a dire la tua, ad esprimere la tua opinione in merito, non hai parola, non puoi dissentire, proporre, argomentare. E' la situazione, obbligata, coercitiva, chiusa, prigioniera, nella quale si trovano milioni di donne ad ogni latitudine, l'altra metà del cielo che, nel primo come nel quarto mondo, gli uomini continuano a sfruttare, usurpare, violentare, stuprare, uccidere, addirittura supportati dalla legge, dalla legalità, dalle costituzioni.03plati
L'accoppiata Grazia Di Michele e Mauro Coruzzi, in arte Platinette, colpisce duro al cuore della questione alternando musica e racconto, parole e battute, profondità e leggerezza per arrivare fino in fondo al nocciolo della materia. E Grazia e Mauro, chitarra l'una, lingua appuntita l'altro, carezzano e schiaffeggiano questi uomini che sono ancora, non tutti ovviamente, irrispettosi, violenti, retrogradi e che hanno paura dell'emancipazione della donna, delle loro madri, sorelle, mogli.
E' l'ambiguità il filo conduttore che lega le varie trame del tappeto sonoro di “Io non so mai chi sono” (merito ad Andrea Kaemmerle che li ha portati per due sere in Toscana, al Teatro delle Sfide di Bientina e al Teatro Verdi di Casciana Terme) cuciti a mosaico, come fosse una stuoia orientale calda e colorata, diventando ora una ragazza costretta dai parenti alla prostituzione che ogni volta incarna quell'amore che questi uomini non hanno mai avuto, adesso una madre anziana che non ricorda più i nomi dei componenti della sua famiglia, ora una coppia italiana di oggi, anni duemila, dove il marito è padre-padrone e la moglie cuoca-amante-schiava-sguattera, una donna costretta a vedere il mondo attraverso i quadratini offuscanti di un burqa.
La voce tenue e forte, mai aggressiva, della Di Michele, si sposa bene e fa da contraltare all'irruenza pacifica, alla mole di simpatia e freschezza spumeggiante di Platinette (che nascondono una malinconia seppiata e un velo di tristezza, una patina di lacrime) vero animale da palcoscenico che non solo illumina la scena, la riempie, cattura l'attenzione, la 00platicatalizza, se la mangia con le sue battute al vetriolo, i suoi ricordi sciantosi, i suoi virgolettati acidi (in tempi sanremesi è scatenato/a e inarrestabile, inarginabile dalla cantautrice romana) ma perdonabili su Valeria Marini come sulla moglie di Renzi, su Maria De Filippi come su Emma, su il trio Il Volo e Albano, non fa sconti a Tiziano Ferro come a Mina e Celentano. La parrucca che ha in testa, biondo platino appunto con striature rosa e ciuffo che le pende sugli occhi, gli/le fa da corazza, da armatura, proteggendo il Mauro che sta dentro, sotto il trucco, ma che non ha paura né timore di mostrarsi con le sue debolezze e fragilità. E' per questo che Mauro/Platinette (si autodefinisce in una strofa di una canzone “sono una bionda leggermente vistosa, sono una bomba completamente esplosa”) è travolgente ed è così amato/a, in egual modo da giovani e adulti, uomini e donne, perché, sotto il cerone e il rossettone eccessivo, sotto le smodatezze tutte dichiarate, è vero, frangibile, sensibile, colpibile, uno che, nonostante le botte e i colpi della vita, ce l'ha fatta, e non parlo di notorietà e successo, è riuscito ad essere se stesso, a farsi accettare proprio perché si è accettato. Cantano, duettano, si scambiano ruolo sempre senza abbassare la guardia nel segnalare ed evidenziare il disagio e l'emarginazione che molte donne provano ogni giorno della propria vita sulla loro pelle senza via di fuga o salvezza. La donna non è soltanto una musa passiva per suscitare versi e strofe vuote.

Per tutte le violenze consumate su di lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l'ignoranza in cui l'avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le sue ali che avete tarpato, per tutto questo: in piedi, signori, davanti ad una donna”. (William Shakespeare)

Tommaso Chimenti 09/01/2017

LUCCA – “Sei solo nato nel momento storico peggiore per essere un maschio bianco, eterosessuale e cristiano” (Chuck Palahniuk, “Red Sultan's Big Boy” in “Romance”)

In bilico tra l'inno e la ridicolizzazione, come è nelle corde sarcastiche e pungenti di Roberto Castello, veleggia questo maschio “Alfa” da più parti, negli ultimi decenni, demonizzato, irriso, vilipeso come uno straccio vecchio, come un corpo appartenente a una antica mentalità, a una condizione e concezione vintage dell'evoluzione. Eppure il maschio alfa è la prosecuzione della specie, è il dominante capobranco testosteronico che regge il peso di una comunità. E, sia in natura che nella società civile, è un efficace ed essenziale momento di consolidamento e raccordo di speranze e intuiti, di sintesi di un pensiero, di una semplice linearità salvifica. Un'altalena di aspettative e ricorsi, un'oscillazione tra la protezione, verso l'esterno, e la pericolosità, interna tra le quattro mura, rendono il maschio alfa potenziale danno e presenza energetica e salda in una elettricità, in un elastico a doppio filo che eccita e impaurisce, che esalta e incute rispetto, che attrae e allontana, che difende, preserva e ripara ma che non è addomesticabile. “Superuomini si nasce, grandi uomini si diventa” (Roberto Gervaso).alfa1
“Alfa” si inserisce perfettamente, e a pieno titolo, all'interno della stagione dedicata al “Genere” della Tenuta Dello Scompiglio, a pochi passi da Lucca (una riflessione sull'area teatrale tirrenica sul versante contemporaneo andrebbe fatta: oltre a Spam a Porcari, il Grattacielo e il Teatro delle Commedie a Livorno, il Sant'Andrea e i Sacchi di Sabbia a Pisa poco altro si muove sul litorale), in un contesto bucolico di vigne e fienili ma allo stesso tempo funzionale, attento ai passaggi, ai cambiamenti, che annusa l'aria di quel che sarà. Castello, qui regista e non coreografo, crea un ensemble di momenti, un mosaico di scatti nei quali emergono ad intermittenze luminose, quasi flash back nella memoria ancestrale, impressi nella nostra corteccia cerebrale, lampanti visioni su questo uomo chiamato ad assumersi responsabilità e a caricarsi sulle spalle il futuro e il domani del suo clan e della sua specie, in conflitto con un mondo circostante che lo vuole b(l)andire, boldrinianamente, dal ventaglio delle possibilità, eliminare dall'album di famiglia, estromettere perché ritenuto portatore di valori negativi, bollato come primordiale, non evoluto, pericoloso. “Il superuomo è il senso della terra” (Friedrich Nietsche).
Come ogni uomo alfa che si rispetti, questo nostro (Mariano Nieddu ha forza interpretativa impattante e quella catarsi che gli permette di calarsi totalmente, sempre convincente senza strafare mai: sicurezza e certezza), immerso in quest'aia colorata e solida di blocchi di cemento da periferia urbana, è attorniato dal suo harem, dalle sue groupie (Alessandra Moretti, Ilenia Romano, Francesca Zaccaria ai microfoni come coro da concerto) di compagne e amanti o dal gineceo familiare che vede in lui un punto di riferimento. Scudi di asfalto verticale, come posati a barriera, a difendere privilegi acquisiti ma anche argini valoriali dietro i quali nascondersi e ripararsi di fronte all'ondata di perbenismo manicheo che avanza, quasi una Stonehenge moderna, un abitacolo-ricettacolo delle peggiori ansie della pancia del Paese, accerchiati da lettere grondanti odio e razzismo, sesso e fascismo. In questo brodo primordiale, fatto anche di distruzione e prevaricazione, l'uomo alfa sperimenta e assorbe grazie alfa2anche al maschilismo delle donne che gli gravitano attorno e addosso che lo spingono a indossare i panni, a tratti consunti e già ampiamente sfruttati, dell'uomo forte, dell'uomo solo al comando, della punta dell'iceberg, del cavaliere senza macchia, del capitano coraggioso e temerario.
Il maschio alfa diviene quindi anche condizione non scelta ma assegnata, non volontà ma costrizione per “sopravvivere e moltiplicarsi”, “in competizione per l'immortalità”, “freccia che punta all'infinito”, “memoria imperitura”. È la Natura non la società pulita e asettica che vogliono costruire azzerando le differenze, appiattendo, a colpi di leggi ed emendamenti, milioni di anni di trasformazione, crescita, progresso, sviluppo, perfezionamento. In fondo siamo, anche, animali. Lo vogliono silenziare, mettere in un angolo, non dargli più voce in capitolo, mettere a tacere, alla porta, emarginarlo, metterlo alla catena come Melampo. Si stanno impegnando per mettere al bando e alla berlina peli e muscoli, per costruire, a tavolino, come in un laboratorio, un mondo senza linfa, senza nerbo, senza spina dorsale, senza ossatura né colonna vertebrale, impaurito e molle che frana al primo colpo di vento, che cede al primo colpo di Stato, acconsentendo passivo e prono. “L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, un cavo al di sopra di un abisso” (Friedrich Nietsche).
Se da una parte viene anche esaltata la sfera decisionale, dall'altra, come contraltare, l'alfa è tratteggiato e disegnato, meglio fotografato (come nella locandina della piece) e raffigurato come Ken, l'eterno ragazzo impostato di Barbie, belloccio ma finto, di plastica. Dopo tanto teatro omosessuale, con istanze (anche giuste) omosessuali e questioni omosessuali, problemi della comunità omosessuale e nudi e strusciamenti e ammiccamenti omosessuali, gay e lgbt (e qui potremmo fare un cospicuo e corposo elenco di esempi che dal palcoscenico scivolano spesso nel comizio), ecco un teatro eterosessuale. Che piaccia o meno il maschio alfa è necessario, imprescindibile. Chi ha paura del maschio alfa?

Tommaso Chimenti 06/12/2016

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