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FIRENZE – In questo mondo di estetica, fatto d'immagine, dove conta più la quantità che la qualità viene considerato e ricordato chi lascia il segno, chi appone la sua firma, e che sia riconoscibile appunto come Zorro. Il nostro spadaccino contemporaneo però passa inosservato, senza nome, se ne sta agli angoli, ai margini, nell'ombra, conta i treni, gira nei suoi pensieri, per giorni non apre neanche bocca, nessun suono esce dal suo corpo. Ma “Zorro” (prod. Prima International Company, visto al Teatro Puccini) non è nemmeno una persona, è un cane, anzi due, o identifica proprio una vita da randagio, zingaro, mendicante d'amore. Dopo vent'anni ritorna in scena il monologo che Margaret Mazzantini scrisse per il suo compagno di vita, Sergio Castellitto che dimostra padronanza, prontezza, centratura nel delineare un carattere nelle sue sbandature scomposte dell'esistenza, un antieroe sporco e tenero, una discesa fino al budello delle fogne dell'anima. C_Marco_Caselli_Nirmal_Teatro_Comunale_Ferrara_YC017_2348-1500x1214.jpgIn scena fumo, nebbia e una panchina, il suo letto, giaciglio, casa e un oggetto-feticcio con il quale dialogherà e toccherà e cercherà un contatto per tutta la piece (1h15'): una coperta isotermica (un po' come quella di Linus), di quelle che quando le tocchi friggono, che paradossalmente ha un lato dorato e il rovescio argentato per una vita che al contrario il podio e le medaglie non le ha mai viste.

Il racconto è cadenzato dalla musica che chiude i quadri in questo blu di fondo che tutto ammanta e dove Castellitto sparisce, un blu che rappresenta il sogno-incubo, quel torpore che ha contorni d'irrealtà, che sfugge alla logiche, quel tangibile che si sfa, che si annacqua, che si scioglie tra annebbiamenti, mostri, paure, desideri ormai fuori controllo e fuori portata. “Starry Night” di Don McLean, ballata dedicata alla parabola di Vincent Van Gogh, apre e chiude questa parentesi, questo occhio di bue su uno sconfitto dei nostri giorni, un reietto della società, un rifiuto, un perdente, un fallito, epiteti visti dalla prospettiva di quelli che lui chiama “cormorani” cioè tutti noi, borghesi in platea, con i nostri vestiti buoni e le nostre certezze che altro non sono che castelli di sabbia che un dolore qualsiasi può spazzare via in un attimo perché non siamo temprati alla sofferenza ma soltanto ai consumi, alle comodità, agli agi, al voglio, pago, pretendo. Il cormorano è molto pigro ma è anche un buon volatore e nuotatore ma per questo tipo di uccello è il decollo dall'acqua la parte più difficoltosa e dove appare impacciato. Quindi il borghese sta e armeggia al meglio con i suoi strumenti nel suo habitat ma il complicato arriva quando deve spiccare il volo.

Ma Sergio_Castellito-004.jpgil nostro Zorro è un cane nella metafora e nel parallelismo tra randagismo e vagabondaggio; un cane è l'impossibilità delle carezze e della tenerezza, un cane che è il quid e la molla che scatta, il filo della presa che improvvisamente stacca la corrente, il crack che “incrina il vetro” anche se ancora non si è spezzato. Senza orologio, “la mia testa galleggia in un ricordo di anni fa” e quel cane trovato per strada del quale la madre, seppur amata, se ne era liberato. Una crepa che non farà altro che allargarsi, un tarlo che si mangerà dall'interno il ramo, la corteccia e l'albero intero. Che la mazzata non arriva all'improvviso, tutta insieme, è invece una goccia cinese di accadimenti ed eventi che si sommano, si accatastano ai quali non fai neanche caso fin quando non ti accorgi del muro che è issato attorno a te, della terra bruciata, dei solchi tra te e gli altri. In questo mondo C_Marco_Caselli_Nirmal_Teatro_Comunale_Ferrara_YC017_2348-1500x1214.jpgse sei goffo perdi terreno, inciampi nella dislessia dei sentimenti, travolto da un sistema tanto fragile quanto cattivo.

E allora il nostro (potrebbe capitare a tutti di scivolare nel gorgo della depressione) dopo essere stato privato da adolescente dell'unico essere che lo ascoltava, il cane, dopo la scomparsa della madre, un incidente che gli cambierà la vita (omicidio colposo stradale, può davvero capitare ad ognuno di noi; vengono in mente tragedie accidentali simili legate a volti noti), smette di andare a lavoro e inevitabilmente si separa dalla moglie: la frittata è irreparabile e non rimane che la strada fredda e buia ad accoglierti, la notte sdentata e senza sorrisi a morderti. Ha disceso tutti i gradini, adesso c'è soltanto il granito, la risalita è troppo faticosa, le energie scarseggiano, l'autostima è sotto il livello del mare, non rimane che tenere, stare, resistere e abituarsi ad una nuova condizione di cittadino di scarto, di scorta, di serie C. Ormai la sostituzione tra il cane Zorro e lui è completata, lui è diventato il “cane alluvionato”. Zorro era contro il potere e contro le ingiustizie, alcune vite però sfuggono nel fango e slittano nella miseria, senza reti, senza protezioni, senza salvagenti, senza pelle.

Tommaso Chimenti 18/01/2023

MILANO – C'era una volta “Quel che resta del giorno”. Qui invece, in questo viaggio, la luce è in fondo al tunnel, va cercata, trovata, tenuta, stretta. E' un cammino a ritroso terapeutico questo “Quanto resta della notte” (prod. Manachuma Teatro, visto al Pacta all'interno della rassegna Palco Off diretta da Francesca Vitale), un percorso di Pollicino dentro il bosco andando a becchettare tutte quelle briciole lasciate sepolte dal tempo, un andare a vedere che cosa si è voluto nascondere sotto il tappeto, un cercare consapevolezza eliminando i falsi ricordi giustificatori di un'esistenza traumatica. C'è molto di autobiografico, con le dovute distanze e differenze, in questo testo di Salvatore Arena (regia condivisa con Massimo Barilla) che in scena, come sempre, si dona, si dà, si danna, come bloccato, forzato sulla sua sedia d'ordinanza, mai comodo, sempre appoggiato in punta, pronto a scattare, ad alzarsi ma qualcosa (la storia che sta raccontando) lo tiene legato a terra, a quel passato da rievocare, da far trasudare come Sindone, da far emergere come tossine, scorie, sudore per nuovamente tornare a respirare senza filtri, senza barriere, senza oppressioni. massimo barilla salvatore arena 1024x686

E' una storia che arriva da lontano: un uomo che per lavoro si è spostato in Sicilia e sua madre morente in un letto nella sua casa di Reggio Emilia. Nella realtà Arena è vissuto in un paese nel messinese e si è trasferito, per amore molti anni fa, proprio nella città emiliana. E' un transfert che sboccia e sblocca, che addolcisce e scambia, che sposta le caselle, che mischia la tastiera, che mixa le pedine sulla scacchiera, che crea rimandi psicologici ed eco immaginifiche, apre porte misteriose, spalanca riflessioni. Un piccolo viaggio, di tre giorni come quelli che servirono a Gesù per la sua rinascita e resurrezione, per ripulirsi da un passato ingombrante e martellante e tartassante che non aveva saputo affrontare né accogliere né tanto meno perdonarsi ma che, attraverso un continuo gioco di vita e morte, di salvezze e perdite irreparabili, porta ad una nuova accettazione di sé, una nuova concezione, una nuova idea, forse meno granitica, più imperfetta ma più vera, più fragile e sbagliata, con tutti i limiti dell'essere umano che cade e si rialza, che inciampa ma non per questo molla la presa.

Quanto Resta Della Notte 5 2Arena è su una sediola impagliata e il nero tutt'attorno, il buio dietro, la pece ai lati, l'oscuro sopra la testa, le tenebre che fanno scenografia, il tetro che diventa costume di scena. Un uomo solo nel nulla, fuori la nebbia che tutto cancella, ammanta, patina, lecca come pennellata grigia. La triangolazione è tra Pietro, il protagonista, la madre (se vogliamo continuare con i parallelismi con l'autobiografia di Arena qui potremmo inserire al posto della genitrice il padre per un nuovo miscuglio di senso tra realtà e finzione) e il fratello Antenore. Niente a che vedere con Caino e Abele né con il film “Incompreso” di Luigi Comencini che in alcuni momenti però fa capolino. Un fratello che c'è pur non essendoci più, che è ancora più pressante e presente proprio perché la sua assenza è così pulsante e palpitante. E il racconto si snoda e si incunea in questo passato doloroso fino ad un evento che ha cambiato la storia di tutte e tre le componenti in pista, che li ha mutati, stravolti per sempre. E' una rincorsa questa verso l'abisso per uscire finalmente a rivedere le stelle, è un guardarsi dentro e vedere l'angoscia, la solitudine e, con forza e determinazione, con sofferenza chirurgica, riuscire a risollevarsi facendo tabula rasa, digerendo colpe, ripulendosi l'anima. E si sente Dante e il suo travaglio negli Inferi, come si ha percezione di qualche tocco proveniente dalla pellicola “Una pura formalità” di Tornatore.

Un ritorno necessario alle origini, un perdersi per ritrovarsi, un Ulisse che torna nella sua Itaca e la trova cambiata perché capisce come i suoi ricordi siano frutto di rimozioni, di spostamenti che la sua menteMC 07339 copia ha messo in atto per salvarlo dal senso di colpa che lo avrebbe distrutto, schiacciato, portato a fondo. Ma adesso è arrivato il tempo di fare i conti con se stesso e, grazie alla morte della madre che diventa salvifica proprio perché ha il gusto e il prezzo del sacrificio, riesce finalmente a darsi pace, ad abbracciare quel se stesso bambino che non è riuscito a salvarsi. Il figliol prodigo torna su quegli stessi luoghi che ha voluto abbandonare, lasciare, dimenticare proprio per abbandonare, lasciare e dimenticare una parte di sé, quella che gli faceva più male, quella che lo tormentava, che non lo lasciava dormire. Un linguaggio poetico che si intreccia ad una sintassi quotidiana. E anche il nome del protagonista, Pietro, sa di masso inscalfibile, di montagna dura da scolpire e sconfiggere ma che invece alla fine implode e, come nei Non finiti imperfetti di Michelangelo, i suoi incompiuti, gli “Schiavi” o “Prigionieri”, riesce, con estrema fatica, a rinascere, tirarsi fuori da quelle sabbie mobili granitiche che lo tenevano bloccato a terra e gli attanagliavano le caviglie come un anaconda tra le mangrovie per annegarlo, per togliergli ossigeno. Il passato torna prepotente e, anche grazie a figure catartiche che sembrano uscite da una “Spoon River” della Bassa, angeli o demoni o anime vaganti che siano, che riescono a togliere la polvere dal passato e a portarlo a vedere meglio, a riconoscersi, a darsi una seconda chance di vita. Perché c'è sempre tempo per perdonarsi, c'è sempre tempo per avere un nuovo tempo.

Tommasco Chimenti 10/01/2021

MONTEVEGLIO – “La casa è il vostro corpo più grande. Vive nel sole e si addormenta nella quiete della notte; e non è senza sogni”. (Khalil Gibran)

Venire una volta l'anno su queste colline, tra queste pendici è un balsamo, un ricostituente, un correttivo alle nostre velocità, alle nostre piccole meschine competizioni, è unCasa Teatro delle Ariette.jpg toccasana che riequilibra cuore e testa, è un respiro profondo dopo tanta apnea. Qui i corpi non sono soltanto volumi da spostare per riempire i vuoti, ma sono occhi e mani e bocche, per ridere e parlarsi, qui non siamo numeri, non facciamo ingorghi o code. Le Ariette, inteso sia come il podere e che la compagnia (sono fuse in un unico concetto inscindibile), sono la magia delle piccole cose, il segreto filosofico è la semplicità, l'apertura al nuovo, il saper sempre sorprendersi, il sapersi dare sempre nuove possibilità, non chiudersi sul poco conosciuto ma spalancare le braccia oltre i “Muri” che ci chiudono, delimitano, sezionano, dividono, muri fuori e dentro di noi, fisici e materiali come metaforici e concettuali. Ci vuole tanta fatica per essere semplici, per ripulirsi del tanto, troppo, che questo mondo ci vuole appiccicare addosso: etichette, categorie, fazioni. In cinque alla volta davanti a Paola Berselli sentiamo ancora più il rito laico, la liturgia pagana, il ritrovarsi carbonari in mezzo al verde, nel centro del tramonto a scioglierci, nel divenire un tutt'uno con questi boschi mistici, su questo cucuzzolo che abbiamo, anche noi cittadini di asfalto, cemento e smog, in questi anni imparato a conoscere, apprezzare, amare. Bisogna venire minimo una volta l'anno alle Ariette altrimenti si va in crisi d'astinenza, il fiato si fa corto, la memoria della felicità perde colpi.

MURI 2 ph. S.Pasquini.jpg“La felicità non è un posto in cui arrivare ma una casa in cui tornare” (Proverbio arabo).

Sembra teatro d'appartamento ma, come vedremo, ne ha soltanto la parvenza. Qui tutto, da sempre, è teatrale e vero, romanzato ma con i piedi ben piantati nel tempo, nelle loro storie personali, nella loro autobiografia, reale, tangibile. C'è una verità che sprizza dalle parola concatenate e dette e scritte, si percepisce un legame indissolubile tra la voglia di raccontarsi e di aprirsi ad estranei che sono lì, con il cuore aperto, per cogliere, prendere e restituire in un continuo gioco di scambio emotivo di sguardi, osmosi di sentimenti. E' un riconoscersi nelle parole di Paola, un ritrovarsi in quelle stesse dinamiche di crescita, di desiderio, di avventura, di cambiamento. In cinque ospiti nei meandri della loro casa, la casa del Teatro delle Ariette MURI 5 ph. S.Pasquini.jpgabitata da due umani, una quindicina di gatti, due cani e galline e cavallini e oche. Fuori una pergola fresca e questo muro rosso che ricorda Cnosso. Paola è il nostro Cicerone, ci conduce nelle stanze, ci racconta. Ma ogni vano non è soltanto quelle quattro mura lì ma gli incontri che ci sono stati, i pensieri pensati e i sogni sognati, le persone che sono passate o anche quelle immaginate; non soltanto, ogni stanza diventa simbolo e passaggio, raccordo e ponte verso altre stanze simili vissute e calpestate negli anni. “Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l’inquilino”, sosteneva Victor Hugo: la casa come la chiocciola della lumaca che dentro cresce, aumenta fino a lasciarla per trovarne un'altra. In questo percorso immaginifico vediamo Paola in tutte le sue età, nei vari spostamenti di casa in casa che corrispondono a periodi diversi della sua vita.

“La casa è un luogo che quando cresci vuoi lasciare, e quando invecchi ci vuoi tornare” (John Ed Pearce). Come sempre è uno squarciarsi con il sorriso, è un andare a fondo, anche nel fango e nel torbido perché il racconto ha necessariamente bisogno di tutte le sfaccettature, di tutti i cromatismi anche dei più bui e nascosti. Non c'è censura, non c'è ripulitura dei ricordi. Il tono è candido, noi cinque saliamo nelle varie stanze in punta di piedi. Siamo invitati ad entrare nel loro intimo, ci aprono le porte, le braccia, i ricordi. E' una responsabilità l'ascolto delle biografie altrui, ci vuole silenzio e rispetto. E la casa, dove abitano MURI_immagine.jpgdall'89 che hanno rimesso a posto e dove hanno fatto prima un agriturismo e poi un ristorante e adesso la base organizzativa della compagnia teatrale, è un pretesto per entrare nella memoria e nelle viscere delle loro famiglie, ascoltando un altro pezzo, sempre più profondo, delle loro esistenze, per aggiungere al puzzle che ci hanno donato in questi anni attraverso il loro teatro, altre tessere mancanti.

“La luce è ciò che vi guida a casa, il calore è quello che vi tiene lì” (Ellie Rodriguez).

E il pubblico delle Ariette (si trasformano sempre in amici) non è né curioso né morboso. L'ascoltarli fa risuonare dentro ognuno di noi piccoli campanelli che fanno eco nelle nostre esistenze, ci imbattiamo negli stessi momenti, catartici o drammatici, sentiamo all'unisono, ci riconosciamo, sentiamo di non essere soli, ci rivediamo in quelle situazioni. Noi siamo Paola, Paola è noi. La sua crescita è la nostra, è quella di una bambina che diventa ragazza che diventa donna che vuole sperimentare, vedere, andare, piena di voglia di scoprire e vivere. Ogni oggetto che tocca ha una storia, apre delle finestre, ci fa immergere in mondi lontani. Una casa quasi museo in un percorso che in ogni stanza ci fa sentire sempre più collante, gruppo unito fortunato nel poter abbeverarci e respirare storie millenarie e nuove, vite secolari, semplici e lucenti, piccole e meravigliose. Come se gli spettatori fossero Dante e Paola fosse Virgilio e le varie stanze della casa i diversi Gironi per arrivare alla purificazione salvifica. Questi “Muri” non chiudono, ma uniscono. Lo stretto rapporto d'amore con la madre, quello più burrascoso e silenzioso con il padre, il Partito e la politica, il bisogno d'affetto: “Mi sembra di aver vissuto tante vite. Mi sembra di avere dei buchi neri”. Un grande lavoro su se stessi è stato quello di mettere su carta i momenti, gli attimi, gli anni, i passaggi; ci vuole coraggio nel guardarsi dentro e metterlo nero su bianco, esorcizzarlo attraverso la scrittura, ferirsi per far uscire il veleno, la rabbia rappresa. La casa è come la mamma, che è la nostra prima abitazione.MURI_ph. S.Pasquini.jpg

“La casa è l’epidermide del corpo umano” (Frederick Kiesler). Adesso lei è a sedere sul letto, sul loro letto, e noi cinque siamo lì seduti ai piedi del materasso: c'è un'aria da focolare, una vicinanza umana che va oltre lo spettacolo, oltre il motivo per il quale siamo lì in quel preciso momento. Si sente altro e quest'altro non è altro che il teatro, il teatro che tocca corde che altrimenti sarebbero sempre tenute in disparte, sotto cumuli di macerie quotidiane. Adesso siamo un tutt'uno e camminiamo alla scoperta di altre stanze metaforiche che ci riportano indietro nel tempo di Paola ma anche nel nostro, a ritroso nella sua famiglia d'origine, nella nostra famiglia, nella nostra storia personale. Perché i topos sono gli archetipi ai quali ognuno sostituisce i propri volti familiari alle facce universali del racconto, è per quello che il percorso esistenziale di Paola (che la avvicina agli ultimi spettacoli di Roberta dei Cuocolo/Bosetti) diventa anche il nostro, ed è facile riconoscersi nelle sconfitte, nelle scelte, nelle debolezze, nelle paure, nell'entusiasmo, nel cambiamento, nelle consapevolezze raggiunte con fatica. L'empatia è difficile da far sbocciare (con le Ariette accade sempre) e quando scatta cementifica le persone che in quel momento storico della loro vita abitano lo stesso spazio nel medesimo tempo. Spettacoli che diventano esperienze che rimangono ancorate nella memoria intima di ognuno dei partecipanti. Immancabili, dopo un'ora di comunione, le tagliatelle di Stefano, stavolta condite con limone e salvia: “La cucina è come il teatro: tutto si fa perché tutto si distrugga”. Come la vita. “Lontano da casa un uomo è stimato per come appare, in casa è stimato per ciò che è” (Proverbio cinese).

Tommaso Chimenti 07/06/2021

Foto: Stefano Pasquini

Giovedì, 03 Giugno 2021 10:40

Festen: la verità tragica e la rimozione

TORINO – Nessuno in Italia lo aveva ancora messo in scena mentre in Francia, Germania, Londra, e soprattutto Scandinavia, è diventato un cult, un classico, sebbene la pellicola sia del 1998, quindi relativamente vicina nel tempo. “Festen” (vincitore a Cannes) incute timore solo al pensarlo, timore nella trasposizione dalla celluloide al palco, timore nel riproporlo troppo simile al film, timore nel cercare il naturalismo che la macchina da presa può produrre e Festen_photo_Giuseppe_Distefano0172.JPGche il teatro, necessariamente, deve cercare di declinare nel metaforico, nel simbolismo, nel non-detto. Se vogliamo tutta la violenza psicologica espressa dal testo è una miniera d'oro per chi, come il regista di questa versione (targata Tpe, Elsinor, TS Friuli Venezia Giulia, Solares) Marco Lorenzi (sempre più raffinato, consapevole e maturo), sa maneggiare la macchina teatrale e si pone in quelle ferite-crepe di senso che solo la parola e lo spettacolo dal vivo, se si riescono a toccare le giuste corde interiori, sanno creare e far sbocciare, fiorire ed eruttare. Il regista del film iconico, Thomas Vinterberg, che ha appena vinto l'Oscar come miglior film straniero con “Un altro giro” (durante la lavorazione della pellicola sua figlia è deceduta in un incidente stradale), è uno dei fondatori del movimento-manifesto-decalogo Dogma 95 (del quale fa parte anche Lars von Trier): niente luci artificiali, nessuna scenografia, assenza di colonna sonora, camera a mano, anche i costumi devono essere di proprietà degli attori e mai abiti di scena. Un ritorno al passato, la negazione degli effetti speciali. Quindi, sia per il tema proposto (una festa per il sessantesimo compleanno del padre-padrone di questa famiglia aristocratica che violentava la coppia di figli gemelli), sia per il bagaglio di aura che aleggia(va) attorno a questo “peso massimo” del cinema contemporaneo, la responsabilità era alta, la pressione in ebollizione.

Festen ©AndreaMacchia.jpgNon tutti gli spettacoli sono uguali, questo aveva una carica diversa, una patina, un forte richiamo. Come rappresentarlo? Il regista Marco Lorenzi ha avuto, durante la stesura della drammaturgia, un fitto scambio epistolare direttamente con Vinterberg che leggeva, faceva appunti e approvava le varie scene; un lungo lavoro di smussare, togliere, medicare. Possiamo dire che l'intuizione di Lorenzi, e del suo Il Mulino di Amleto, ha fatto centro: non riuscendo, non volendo, riproporre freddamente la pellicola (la cosa più semplice sarebbe stata quella di mettere tavolo e sedie al centro della scena), si è deciso per un escamotage da un lato tecnologico (quindi contravvenendo alle regole ferree del Dogma), dall'altro ricercando, proprio attraverso l'uso di strumentazioni, quell'artigianalità, quella semplicità, quel concreto che solo il teatro può regalare. Il telo, non un velatino, davanti al boccascena, sipario da proiezione, ci tagliava la visuale da quello che succedeva alle sue spalle. Due mondi divisi, come quello che è accaduto e quello che abbiamo visto, la verità dietro, con le sue storture e sporcature, e quello che ci fanno vedere, possiamo vedere, vogliamo credere, davanti a noi. Dietro questo telone-velo di Maya che scinde il Vero dal Falso, le scene erano costruite in presa diretta da una telecamera come fossimo su un set cinematografico e assistessimo alla realizzazione, Festen_photo_Giuseppe_Distefano31.JPGancora gretta e impura, di alcune scene poi da montare. E' un film nel film, è un teatro filmico, è quella giusta misura, la terza via tra palco e camera. Tra palco e realtà, cantava Ligabue. Nell'aria si annusa molto Ibsen, soprattutto “Spettri”. Una telecamera che riprendeva momenti e volti e sguardi e primi piani e li riproiettava sul grande schermo creando questa doppia e duplice visione possibile: dietro, illuminata dalla luce del cameraman, la scena per come veniva architettata, con i cavi, le imperfezioni, gli oggetti di scena, le falsità del cinema, davanti la ripulitura del tutto, la scelta dei dettagli da evidenziare ed esaltare, lo zoom intenso, il particolare da suggellare, il passaggio da sottolineare. Eppure era la stessa realtà ma presa da angolazioni differenti, piccola e naturale dietro, gigantesca e artificiale davanti. A quale credere? A quale donare la nostra fiducia?

Una casa in miniatura davanti alla scena ci porta in un mondo infantile, di giochi, di costruzioni, così come la favola noir di Hansel e Gretel ci introduce in questo mondo che di fiabesco ha soltanto i contorni inquietanti. Al centro del palco, aperto e svuotato del Teatro Astra torinese, due cerchi concentrici, un mirino per colpire meglio, per stoccare il colpo fatale, o anche il labirinto di Cnosso dove il nostro Padre-Minotauro (un Danilo Nigrelli grande anche in questo ruolo odioso e irritante, placido e calmo mentre tutt'attorno la rabbia sale) fa scempio di vergini innocenti, il nostro Padre-Barbablù che toglie e succhia la vita dai suoi stessi figli, un Padre-Ciclope che, a valanga, a cascata, ha distrutto le vite dei quattro figli e della consorte, costringendoli ad una vita di facciata. Centrale è anche la figura di Christian, il figlio accusatore del padre pedofilo, che con i suoi brindisi (alzandosi e battendo una posata Festen_photo_Giuseppe_Distefano0063 (1).JPGsul bicchiere attirando l'attenzione dei numerosi invitati) denuncia quello che il genitore faceva a lui e alla sorella Linda che si è suicidata da poco perché, anche a distanza di decine di anni, non riusciva a superare l'accaduto. Elio D'Alessandro, sofferente e tormentato, dilaniato, è appunto Christian e riesce a dare al personaggio vita dolente e disperata forza, tratteggiata anche nella veste musicale grattugiata, affranta e angosciata in sonorità straziate che ci hanno fatto pensare a Manuel Agnelli degli Afterhours o a Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP o ancora, per rimanere alla scena torinese, a Mauro Ermanno Giovanardi dei La Crus. Da sottolineare tutto il cast, unito e partecipe: Roberta Calia (la compagna incinta del figlio più problematico), Yuri D'Agostino (il cerimoniere dai mille coriandoli), Barbara Mazzi (la sorella psicologa che sta insieme ad una donna ma non FESTEN 1_phAndreaMacchia.jpgha il coraggio di dirlo alla famiglia), Angelo Tronca (il nonno con il trucco volutamente “storto” proprio per mostrare in maniera lampante l'imperfezione, l'errore, la non ricerca della precisione), Raffaele Musella (energico e vitale nel ruolo del figlio scapestrato), Roberta Lanave (la cameriera).

Da evidenziare anche la figura della Madre (Irene Ivaldi eccezionale, straniante nei panni freddi, glaciali, algidi, indifferenti) che tutto sapeva e conosceva e niente ha fatto per interrompere la mattanza né per salvare i propri figli-cuccioli dagli artigli del Drago tra le quattro mura domestiche. La Madre racchiude in sé il Male, quel male che non se ne andrà nemmeno quando il Mostro sarà allontanato; diceva Martin Luther King “non ho paura dei malvagi ma del silenzio degli onesti”. E' un compleanno che si miscela con un funerale, la chiusura del cerchio, la chiusura del baratro su questa famiglia vissuta nell'ipocrisia dei buoni sentimenti, nella falsità di sorrisi fasulli e contraffatti. Il sottotitolo è “Il gioco della verità” che ci porta diretti alle atmosfere e suggestioni pirandelliane del cosa è vero e che cosa è falso, e se la verità altro non sia che la realtà accettata e non quella accertata, la credenza collettiva che, a forza di dirla, supera e fa slittare i fatti, creando psicologicamente una rimozione da un lato e una sostituzione dall'altro, spostando eventi, una rimozione che è anche una esorcizzazione del Male, una salvezza, un rifiuto di responsabilità di fronte a momenti ingestibili o drammaticamente troppo esposti. Il pubblico è chiamato non solo ad assistere ma ad intervenire (con il suo silenzio-assenso) fin dall'inizio quando gli viene chiesto che busta vorrà aprire, la gialla o la verde, per alzata di mano. Era l'espediente che usava il padre per far scegliere, e quindi negare una propria responsabilità in ciò che sarebbe da lì a poco accaduto, il supplizio ai suoi bambini. La platea quindi (come il popolo tedesco di fronte ai campi di concentramento nazisti) diviene complice e sente il fiato sul collo di tutto quello che si dipana davanti ai suoi occhi e non può più dire di essere vergine ma ha, e si sente, le mani metaforicamente “insanguinate”. Il pubblico sono gli invitati alla Festa che non prendono posizione, che ascoltano e non supportano il ragazzo che denuncia ma, rispettando la forma e la buona creanza della società altolocata, le paillette e i lustrini, il galateo e la parvenza e i buoni costumi, annuisce e silenziosamente sostiene la tesi del padre che scredita il figlio con una violenza che ferisce e lacrima, una violenza sottile e soffice, una violenza dalla quale è difficile difendersi perché ha il sapore di una carezza calda e solo dopo averla accolta ti accorgi dell'emorragia interna.

Padre: “E' colpa mia se mi sono capitati figli così incapaci?”

Christian: “Perché lo hai fatto?"

Padre: “Eravate buoni solo a quello”.

Repliche giugno: fino al 6 Teatro Astra, Torino; 8-13 Teatro Rossetti, Trieste; 15-16 Teatro al Parco, Parma; dal 18 al 27 Teatro Fontana, Milano.

Tommaso Chimenti 03/06/2021

Foto: Giuseppe Distefano, Andrea Macchia

TORINO - Curioso che nella stessa città, Torino, ci siano contemporaneamente due spettacoli che hanno per oggetto cardine e feticcio delle sedie, il primo addirittura nel titolo e il secondo questo “Sorelle” (prod. TPE, Triennale Milano). Sedie che, in questo caso, non aiutano a placare, a calmare, non servono per sedersi ma creano un labirinto colorato e inestricabile dove sentirsi ingabbiati, intrappolati. Pascal Rambert ha costruito uno spazio vuoto lucente e bianco, ampio, dilatato (sarà dilaniato), un’arena dove far scontrare due sorelle che mettono sul piatto antiche nostalgie, vecchie ruggini e tutto un passato fatto di accuse, risentimenti, rivisitazioni di eventi familiari, divise in fazioni, lontane anni luce, recriminazioni patite. Partono subito in quarta, le strepitose Anna Della Rosa e Sara Bertelà, fenomenali nel dare corpo e pasta, dolore e sofferenza alle parole di Rambert, e non tolgono mai il piede dall’acceleratore. I decibel sono alti e non seguono un’armonia di rincorsa, scoppio, ricarica, addolcimento, nuovo attacco. Due donne fragili che si imputano qualsiasi nefandezza, sensi di colpa a cascata nell’impossibilità di una diversità così acre, inaccettabilità amara e acida del non poter stare né insieme né vicine.Pwl8apBA.jpeg

Rimangono in diagonale senza mai toccarsi, fanno un passo verso l’altra ma subito recedono, retrocedono, come bamboline di un carillon legate a dei fili impercettibili, a degli elastici che respingono ogni loro slancio verso l’altra. L’una è per l’altra alibi e insoddisfazione e il vedersi una davanti all’altra, come in uno specchio, altera e deforma la visuale, i lineamenti, aumenta le distanze e i dissapori come guardandosi dentro le superfici deformanti dei Luna Park. Senza allegria, senza gioia, l’una è l’abisso dell’altra, il buco nero dove si perdono l’infanzia e i giochi, il magma fangoso dove si sono impantanate tanto tempo fa pur proseguendo l’esistenza apparentemente piena e soddisfacente, una è giornalista l’altra è terzomondista, tra apparenti successi e flebili appagamenti. Dentro sono rimaste le bambine irrisolte che erano, consumate dall’astio, erose dalla violenza inespressa e taciuta e frustrata e rappresa, distrutte da quella voglia di emergere, nella ricerca della perfezione come forma d’accettazione. Senza leggerezza, senza autoironia tutto diventa tremendamente pesante.

Come questo dialogo a due voci, o meglio come questi due monologhi che si vomitano addosso senza limiti, senza riserve, senza freni. Come la diga del Vajont che ha rotto gli argini e tutto ormai è irrecuperabile, come l’alluvione di Firenze che tutto trancia e porta con sé a valle, risucchiando, smembrando, riducendo in poltiglia i pochi grammi rimasti di sentimento. Si vogliono ferire con le parole, e ci riescono, provano disgusto per la sorella e non si contengono, ormai si scambiano tutti colpi sotto la cintura in questa anatomia di una famiglia ridotta all’osso. cXqdowOA.jpegNell’incapacità di abbracciarsi riescono soltanto ad azzannarsi, a sputarsi rancore e morte. Ma l’una è inevitabilmente anche parte della vita dell’altra, come tumore che cresce al proprio interno inestirpabile. Si infliggono sofferenza che è l’unico modo che hanno imparato cronicizzato di stare assieme. Sono ognuna una faccia della stessa medaglia arida accusandosi vicendevolmente delle stesse invidie, delle stesse gelosie. Scarpe e pantaloni neri, maglia bianca entrambe. Sono in chiaroscuro, sono in bianco e nero in un mondo a colori, tutte queste sedie (quaranta come gli scacchi in questo scontro che finirà in uno stallo da “Finale di Partita”) cromatiche e variopinte. Un Far West senza vincitori che lascerà due corpi a terra, svuotati, prosciugati senza più linfa. Un processo però necessario, di ripulitura, per poter, forse un giorno, andare avanti, ricominciare. Senza empatia né vicinanza, senza solidarietà né condivisione. Sull’orlo di una crisi di nervi rimescolano le carte delle loro esistenze lontano una dall’altra minacciandosi, aggredendosi, offendendosi, ansiose, iraconde, agitandosi, detestandosi.

Faticoso però reggere 1h 40’ di fossa dei leoni dove ci si grida, ci si morde senza tregua, guerriglia senza esclusione di colpi. Come un terremoto che non conosce attimo di respiro, la platea viene inondata da questo sfogo con il lanciafiamme volto ad annientarsi, a distruggersi. Un testo che fibrilla, che scardina, alto e intenso, pungente e sempre velenoso, appuntito come una grattugia che però si impantana nella lunghezza e nella scelta appiattente sonora e vocale delle due protagoniste (la loro prova rimane comunque superba, in apnea), -6qzRDDw.jpegsenza scarto, senza sottolineature proprio perché tutto è gridato con forza in uno stato quasi di insonorizzazione che, paradossalmente, non permette di cogliere sfumature e rilievi, contrasti e passaggi. Monocorde e urlato, dall’inizio alla fine, tra sciabolate da combattimento, all’ombra di questo padre e questa madre ingombranti anche se non invadenti, un odio declinato in tutte le forme possibili che, raggiunto il punto di rottura, il punto di non ritorno di una qualsiasi discussione, con freddezza diventa assuefazione e non crea più scompiglio in chi ascolta. Come iniziano a sbranarsi così terminano in una fine irrisolta che chiude ma non conclude questa lotta serrata, senza vincitori né vinti, senza perdoni, senza abbracci, senza futuro, senza speranza. Colpevoli entrambe ed entrambe portatrici di energie negative, manipolatrici si rincorrono e criticano per abbattersi e non per costruire un terreno comune di dialogo. Si vogliono lordare e sporcare in questa grande competizione cinica, contestandosi l’essenza stessa di essere appunto “Sorelle”: l’aver diviso lo stesso tetto, gli stessi genitori. Dilaniate da vertigini, sventrate in quest’odio condensato che non può chiamarsi famiglia. Senz'Amore.

Tommaso Chimenti

PADOVA – Tenerezza e frustrazione, impotenza e pietà sono i sentimenti che si alternano tra le righe, tra le scene, tra le battute e le parole, calde e ciniche, vicine e così gelide, di “Morte di un commesso viaggiatore”. Grandi registi e grandi interpreti hanno affrontato, fin dal 1949 (fu Premio Pulitzer per la drammaturgia), data del debutto, questo grande affresco americano portatore di valori e carico di riflessioni, antropologiche, sociali e politiche: da Elia Kazan, primo regista, a, in Italia, Luchino Visconti, così come grandi attori hanno condiviso corpo e voce con quella del protagonista, Willy Loman, da Paolo Stoppa a Tino Buazzelli, da Enrico Maria Salerno a Umberto Orsini, da Eros Pagni fino a questo miracoloso Alessandro Haber.51va5-Aw.jpeg

Da Arthur Miller, qui tradotto da Masolino D'Amico, per la regia hopperiana di Leo Muscato (prod. Teatro Stabile del Veneto, Goldenart, Teatro Stabile Bolzano), “Morte di un commesso” è una continua ferita aperta che non accenna a rimarginarsi, imputridita, calcificata, sedimentata ma ancora capace di aprire tagli e squarci nella carne corrosa dal sale sparso sopra come zucchero a velo su una torta della domenica. E' la famiglia l'alveolo, l'antro che ci forma, ci piega e ci piaga, che ci modella e plasma, che ci tiene su dritti ma che ci schiaccia, che ci eleva ma che può anche comprimerci tra i tanti scheletri nell'armadio, metterci nel buio, confinarci a ruoli e personaggi e non comprenderci come persone. Nella famiglia sta l'incipit e la conclusione, la potenzialità dell'individuo e il suo ripiegamento in carcassa, l'afflosciarsi su se stesso, l'implodere tra sensi di colpa e impossibilità ad essere quello che altri avrebbero voluto che fossimo. E' in questo solco, potente e lancinante, abrasivo e ferente, in questa bolla di sapone acida e porosa, che si sviluppa questo canto tragico esposto all'esplosione dei sentimenti più acuti ed accesi, passando dalla gioia sconfinata alla tristezza più iraconda, dall'esaltazione più effimera e acerba alla depressione più arcigna. E' un'altalena dai grandi sbalzi, montagne russe che destabilizzano e non lasciano appigli né punti di riferimento per potersi salvare dai graffi, dalle lacrime.

Un d0TnZwKw.jpeguomo e la sua famiglia, tutto quello che ha e tutto quello che ha fatto, che è riuscito a mettere al mondo. Il sogno americano che si sfalda e si sfascia sotto ai suoi occhi, il volere è potere che si sgretola, si macera, si tritura diventando polvere, parole e chiacchiere, slogan buoni per colpire ma che non hanno solidità. Il vecchio venditore (un Haber gigantesco che riesce a far passare, in un incredibile stato di grazia, quell'irraccontabile senso di spaesamento) che non riesce più a vendere, deluso, colpito, affranto, distrutto, disfatto, stanco con il mondo là fuori che è cambiato senza che se ne accorgesse, quel mondo che non lo riconosce più, quel mondo che gli ha tolto la dignità di un ruolo sociale. E come in uno specchio questa condizione verso gli altri intorno viene rispecchiata anche all'interno del suo nucleo, quel suo nido che ha sempre creduto potesse essere ovatta e paracadute ai drammi che accadevano fuori dalla porta di casa. Un uomo annullato, arreso e sconfitto, frustrato e insoddisfatto, che ha riposto le sue speranze di grandezza nei due figli, uno donnaiolo, l'altro “fallito” girovago irrequieto in una società getimage.jpgdove per avere successo ed essere felice come persona devi necessariamente fare soldi, primeggiare, comandare. Sono gli anni '50 americani, quelli di Happy Days, quelli della casetta con il giardino e la macchina parcheggiata fuori, quelli del boom dopo le Grandi Guerre Mondiali ma che, come contrappasso e come girandola, tornano come metafora a susseguirsi nei decenni di costruzione di un modello e di disgregamento nelle generazioni successive. Viene in mente anche, con i dovuti distinguo, anche “Pastorale americana” di Philip Roth: una generazione che vuole passare i suoi valori acquisiti con fatica ad una prole che protesta per avere una sua identità ed autonomia.

Si sente tangibile il peso rancido della sconfitta, esistenziale quanto lavorativa, di questa felicità scambiata per il conto in banca, della domanda se sia più nobile lavorare per vivere o vivere per lavorare. Il padre si racconta, per autoconvincersi, una storia fatta di successi e trionfi, soldi e soddisfazioni, un'autorappresentazione del reale che non trova fondamento nella realtà, purtroppo scalcinata e traballante. Un padre “bipolare” che passa dall'autocommiserazione all'autoesaltazione, che si dà forza attraverso le bugie che si è sempre detto. E' un uomo irrisolto, squallido, piccolo, misero e miserabile, una nullità, vuoto, arido, umiliato, triste, grigio come i suoi abiti, che non riesce a reagire, in cerca di perdono dopo una vita-Purgatorio fatta di impossibilità, di preoccupazioni, di agitazioni, di palpitazioni quotidiane, che confonde i piani miscelando verità e false illusioni, quello che è accaduto e quello che avrebbe voluto fosse accaduto.

In questo nucleo, padre, madre e due figli, c'è una guerriglia più lacerante e distruttiva, che è quella tra il capofamiglia e il primogenito (Alberto Onofrietti ha il phisique du role di Biff, ed esprime impotenza e rassegnazione, dannazione e consapevolezza, passione e compassione), quello che poteva rialzare le sorti della famiglia, farla balzare alle cronache, ambire all'agognato successo, al riconoscimento sociale, alla ricchezza, quello che avrebbe potuto, tramite lo sport nazionale, il football, far fare quello scatto e scarto in avanti raggiungendo quel sogno americano attraverso il merito e le qualità individuali. Ma i dettagli, spesso, dividono chi ce l'ha fatta e chi al limite può aggregarsi ad ingrassare le grandi fila degli scontenti, dei secondi, del quasi, del forse: in una certa realtà o sei leader o vieni hN-2LDGA.jpegschiacciato. Ed è come se il commesso viaggiatore, vivendo perennemente nel passato, nel ricordo di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, rinfacciasse al figlio le possibilità gettate al vento, le occasioni stracciate e buttate via, scartate come carta di caramella.

Fondamentale per tratteggiare la figura dei tre uomini, testosteronici e decisionisti, è il ruolo della madre (Alvia Reale toccante che gioca sui toni dei silenzi, dei non detti, sulla sottrazione, sul respiro in levare, sul togliere) che, in definitiva, tiene insieme i pezzi della famiglia, fa da collante, seppur sfiduciata e senza speranza, riesce sempre a tenere botta, a non lasciarsi cadere ed andare alla depressione, mantenendo la calma pur nell'ansia, senza mai dare o aggiungere altre preoccupazioni a quel gruppo che ha coltivato, condiviso, cresciuto, tirato su e che adesso non è bastone della vecchiaia, non è supporto o aiuto: vite bruciate e arenati nel pensiero di quello che sarebbe stato, caduti nelle sabbie mobili senza aver reagito.

Se Haber-Willy è Ulisse, ormai vecchio e improduttivo, Reale-Linda è Penelope che vuole tenere, faticosamenteocG35N3g.jpeg nell'apparente facciata di felicità finta dei sorrisi falsi, insieme tutti i pezzi di questa famiglia che si racconta bugie per sopravvivere a se stessa, nel postporre e rimandare i problemi senza mai affrontarli. Ma potremmo trovare anche una parabola-metafora legata a Collodi con Willy che potrebbe essere un Pinocchio ingenuo, Linda la Fatina, i due figli, Biff e Happy il Gatto e la Volpe. “Morte di un commesso viaggiatore” è un gorgo, una spirale, ed è come se ci dicesse che i nodi vengono al pettine, che tutto scorre ma tutto torna, che si raccolgono i frutti se si è ben seminato, che non bisogna pensare, con rancore straziante autopunendosi, ai treni persi, che le grandi aspettative generano grandi delusioni e fallimenti, che le domande inevase ritornano con ancora più forza dirompente, che i quesiti non affrontati nel passato torneranno, se non presi di petto, a rabbuiare il presente ed il futuro quando ormai sarà impossibile cambiare il corso ed il destino delle cose, che l'ipocrisia (“Non ci siamo mai detti la verità in questa casa”, “Sono anni che ci raccontiamo bugie”) distrugge e demolisce, che le colpe dei padri ricadono sui figli come quelle dei figli cadono sui genitori. Non c'è commiserazione.

Tommaso Chimenti

Venerdì, 24 Gennaio 2020 14:55

"Rusina": storia di donne calabresi di tempra

ROMA – Negli ultimi decenni c'è stata una riscoperta delle lingue del Sud Italia. Non chiamiamole semplicemente dialetti. Il Napoletano da Eduardo e Scarpetta passando per Ruccello e recentemente Mimmo Borrelli, il Siciliano con Emma Dante, Scimone e Sframeli, Vincenzo Pirrotta, Rosario Palazzolo e Davide Enia. Mancava all'appello la Calabria. Grazie a Primavera dei Teatri, festival ventennale di Castrovillari, da una parte, che ha fatto fiorire una generazione in loco, ed ai Krypton dei Fratelli Cauteruccio, cosentini ma di base a Firenze (memorabile il loro “Finale di partita” tradotto), molti artisti calabresi sono saliti alla ribalta e ci hanno mostrato questa lingua affascinante e misteriosa, appuntita e acuminata, difficile e incantatrice: ecco appunto Scena Verticale, Angelo Colosimo, Rosario Mastrota, Ernesto Orrico. Ecco che in questo elenco spunta anche Rossella Pugliese, tosta e intensa interprete, oltre che autrice, del monologo “Rusina” (prod. Teatro Segreto e Deneb) dove alla dolcezza 960X960.jpgdell'argomento trattato, sua nonna, fanno da contraltare le sue parole acide, sanguigne, acute, quasi acerbe. Ci vuole un po' per entrare dentro le parole ruvide del suo mondo, quel mondo che la Pugliese riesce a tratteggiare e delineare nel passaggio-sdoppiamento autobiografico con l'ava in un cortocircuito nel quale Rossella presta corpo e voce all'anziana parente e interloquisce, nella finzione scenica, con la se stessa bambina. Certamente non è una lingua che al primo ascolto ti accoglie, non ti coccola, non è melliflua né accomodante, ma anzi è diretta, colpisce sfrontata senza carezze inutili.

Un inciso: “Rusina” è andato in scena all'interno della rassegna “Lo spazio del racconto” al Teatro Brancaccino, il ridotto del Brancaccio. Qui, da ottobre a maggio, si alterneranno ben ventuno spettacoli per una proposta di monologhi o per due attori, che vede nomi importanti come Ninni Bruschetta o Anna Della Rosa, Galatea Ranzi, Rossana Casale.

La DSF7528.jpgPugliese (vista ultimamente nell'“Edipo a Colono” per la regia di Tuminas e in “Patrizio vs Oliva” affiancando il grande ex campione di boxe in scena) ci apre le porte della sua memoria in una confessione che trova nella struttura che l'accompagna un altro personaggio, flessibile e alchemicamente malleabile, che con pochi tocchi e aggiustamenti dona, insieme all'uso sapiente delle luci (di Nadia Baldi), nuove atmosfere e situazioni ai quadri affrontati. E' una sorta di teca dove l'attrice si appoggia, si arrampica plastica circense, quasi cabina telefonica londinese dalla quale far uscire, come in uno show di burlesque, sinuosamente ed eroticamente le gambe, diventa armadio delle meraviglie (ricorda quello della pellicola “Le Cronache di Narnia”) e sipario di marionette, porta, casa e finestra, mansarda, cella, adesso tirando fuori la testa alla maniera di Antonio Rezza, ora è televisione dove poter guardare le storie patinate di “Beautiful”, diventa bagno e spogliatoio, alcova fino ad impersonare suo marito e ballarci insieme volteggiando. E la lingua ora si fa musica, con inserti ilari, adesso è baionetta tragica e battaglia, ora è armonia ora è un corpo a corpo senza esclusione di colpi, senza fare prigionieri: qui le parole sono materia e carne, fortemente legate a doppio filo alla realtà, alle cose, parole concrete, consistenti, dense, sillabe solide, compatte, resistenti, robuste, inscalfibili, pesanti.RUSINA7.jpg

Ci racconta una famiglia del Sud di quelle matriarcali, i valori saldi, quel Piccolo Mondo antico arcaico che non c'è più, vite dure, difficoltose. Ed anche la RUSINA88.jpgsomiglianza, con l'uso del trucco, in qualche modo a Frida Kahlo, metaforicamente ci porta verso quelle figure, certamente lontane dal poter essere considerate “femministe”, che però hanno lottato perché le loro esistenze non fossero schiacciate dalle consuetudini, dalla famiglia di provenienza, dai maschi, dalla religione: una lotta continua, strenua, senza mai poter abbassare la guardia, sfiancante. Donne che hanno combattuto per quel briciolo di libertà che si sono faticosamente ritagliate. Già dal nome, non Rosa che sa di candido e delicato ma “Rusina” (spettacolo vincitore di “Martelive” e selezionato per il prossimo Torino Fringe) che gratta sul palato come un coltello arrugginito, che graffia, che stride, che punge onomatopeico. “Rusina” è il passaggio, naturale e familiare, di testimone tra una nonna che ci lascia e se ne va, e una nipote che parte dalla Calabria per inseguire i suoi sogni: in definitiva Rossella è il prolungamento di Rusina e in questo spettacolo vivono e convivono insieme.

Tommaso Chimenti 24/01/2020

FIRENZE – Di solito la mosca non è il problema ma rappresenta il sintomo, quel campanello d'allarme. La mosca rotea, svolazza, s'accapiglia sulle carogne, sulla decomposizione, sul marcio. La mosca è l'ultimo baluardo di vita dove vita già non c'è più, è l'ultimo fremito, l'ultimo colpo d'ali alla ricerca della carcassa in putrefazione. E l'occhio, e la penna, clinico come fosse un'anatomia dei sentimenti, di Michel Marc Bouchard (più volte rappresentato all'interno di “Intercity” al Teatro della Limonaia, come “Il sentiero dei passi pericolosi”) mette a nudo e scoperchia tutta l'infezione e la corruzione morale all'interno di una famiglia (potremmo essere sospesi tra i Kamamazov e “Il Giardino dei ciliegi”), se così si può chiamare. “Sotto lo sguardo delle mosche”, per la regia di Simone Schinocca e della compagnia torinese Tedacà, sono storie claustrofobiche che s'aggrovigliano, storie psicologiche torve e losche, storie di dipendenze patologiche cupe, storie di vendette fredde, storie dove manca l'ossigeno, dove non ci sono finestre per vedere un panorama che sia un po' più lontano, per constatare una siepe da voler superare.bouchard-web.jpg

E' nell'incipit 1987.jpgche la narrazione si dipana come fossimo in un teatrino e si delineassero e si mettessero in campo e sul tavolo gli oggetti e gli argomenti, come le puntate sul tappeto verde del poker; tre sono gli elementi che guerreggeranno, che si alimenteranno, che entreranno in frizione o si supporteranno: la morte, la sopravvivenza, la noia. Questi sono i motori dell'uomo moderno, ai quali cercare di nascondersi, dai quali tentare di mimetizzarsi per non farsi colpire dal virus: si sopravvive alla morte e si cade nella noia e nella noia si cerca la morte per poi riuscire a ritrovare faticosamente l'equilibrio barcollante della vita che presto tornerà noiosa contribuendo a questo vortice di up & down, di stelle e Fossa delle Marianne che non fa altro che produrre mostri e fantasmi. Bouchard, che si autodefinisce “autore canadese e non soltanto quebecchese”, ci presenta questi spaccati analitici di rapporti raggelanti, dove non scorre sangue ma calcolo, dialoghi come lame glaciali, famiglie spezzate da un odio sotterraneo che prude, frizza come sale sulla ferita, senza sconti, senza salvezza, senza vincitori né vinti. Se ne esce affranti e svuotati, contagiati, senza commiserazione, senza pietà, senza linfa né energie.

C'è un sipario rosso sul fondale come se fossimo in un teatrino di provincia e la vita che da lì a poco sarà messa in campo, nell'agorà salottiera casalinga, nella tavola imbandita di menzogne e recriminazioni, sia soltanto finzione, di ruoli, di vicinanza, di parentela. Un figlio (Elio D'Alessandro) che ha lasciato la casa, dove è tenuto da sempre sotto una campana di vetro, e dove fa ritorno dopo tre giorni di assenza. La sua nuova fidanzata (Valentina Aicardi decisa, sua anche la traduzione) appena incontrata giù in città. La madre del ragazzo che ha nell'armadio lo scheletro dell'eutanasia concessa alla sorella morente e sofferente. Il cugino, vero Joker del play (Andrea Fazzari, il vero protagonista, ha il cinismo calcolatore e il piglio lucido da Iago, è il Diavolo de “Il Maestro e Margherita”) attorno al quale tutto ruota, cambia, prende forma, si anima, si sciupa, deperisce. La matassa sono fili labirintici di sovrastrutture annodate dal tempo che mai perdona ma che tutto ingigantisce, incancrenisce, satura. I torti si sommano, si amplificano cercando punizioni, colpe divenute capitali e mai più amnistiabili.

C'è un lascito biblico del Figliol Prodigo che l'epilogo dell'Ultima Cena, c'è una sorta di richiamo della foresta di Jack London attorno e dentro questa casa feticcio, questa costruzione nobiliare sorta e cresciuta accanto ad una popolazione di 14.000 maiali, allevatori arricchitisi con suini e prosciutti, con spalle e speck, con cotechini e zamponi. Le mosche intanto gravitano sopra attendendo il loro momento sotto-lo-sguardo-mosche-elio-d-alessandro-andrea-fazzari-ph-emanuele-basile.jpgda sciacalli in miniatura, da avvoltoio microscopici per calare come Unni sulle carni macilente e purulente. Si sono arricchiti con i maiali ma di fondo, nel dna, sono rimasti feroci, brutali, animaleschi. Del maiale si mangia tutto ma anche il maiale mangia qualsiasi cosa.74638436_10220603274857609_5134422412099584000_n.jpg

Sono tutti legati da un dolore straziante in una catena di vuoti e mancanze e assenze: il ragazzo (Amleto imprigionato nel castello di Elsinor?) non può stare lontano da quell'abitazione, il cugino non può vivere senza il ragazzo, la madre senza il ragazzo si sente persa, il ragazzo ha grandissimi mal di stomaco come crisi d'astinenza. E' il ricatto la base per le trattative in questa famiglia dove i ruoli sono saltati, dove tutto è labile, dove i contorni si sono sporcati fino a fare poltiglia delle regole sociali, fino a polverizzare convenzioni accertate. La violenza è il filo che li lega tra letame e larve, tra sangue ed escrementi, tra segreti e minacce. Loro sono i maiali, loro sono le mosche: un groppo che grattugia gravido, grave e gracidante.

Tommaso Chimenti 28/10/2019

La sensazione è quella di varcare la porta di ingresso di un appartamento, quando ti accomodi sulle poltrone del teatro Off/Off che ospita, fino al 19 maggio, Modern Family 1.0, spettacolo sulle famiglie arcobaleno, monocolore et similia. Sul palcoscenico sono stipati scatoloni e oggetti casalinghi, che suggeriscono un trasloco ancora in corso. Tra il palco e la platea, le attrici Annagaia Marchioro e Giulia Maulucci si danno un gran da fare per accogliere gli spettatori. L’atmosfera è caotica ma calda, accogliente, e lo spettacolo inizia quasi senza accorgercene, presi dalla simpatia delle due interpreti.
Modern Family 1.0 tratta l’argomento familiare molto da vicino, presentando attraverso una serie di diapositive la famiglia di Annagaia Marchioro, attrice che con il suo Fame mia ha ottenuto un grande successo a Roma e che ritorna nella capitale con questa commedia scritta da lei, Giovanna Donini e Virginia Zini. Anna è un’attrice, alle prese con i problemi della professione (scarsa comprensione da parte del prossimo quando si tratta di lavorare in casa, soldi contati, crisi artistiche e divertenti ossessioni), che ci racconta la storia d’amore dei suoi genitori, camperisti incalliti, innamorati da 40 anni, veneti pragmatici e rigorosi. Le interruzioni continue di Giulia, la sua compagna, consentono di delineare il quadro familiare in cui ci troviamo: due donne innamorate, un gatto scostante, un divano costato 300 euro più iva, una certa disparità di trattamento per quanto riguarda gli spazi personali (a Giulia un armadio, ad Anna un cassetto).
Insomma, una famiglia come ce ne sono tante, in Italia, che potremmo definire arcobaleno se non tenessimo conto di ciò che dice Anna, riferendosi alla messa al bando del libro “Piccolo giallo e piccolo blu”: due gay quando cominciano a uscire insieme non cambiano mica colore. Tra comici litigi, ricordi commoventi di cosa voleva dire essere gay appena una generazione fa, battute esilaranti, la storia di Giulia e Anna, alle prese con una quotidianità per niente diversa da quella di milioni di altre coppie, le porterà a scontrarsi con l’unica cosa che, nel nostro Paese, le differenzia ancora da milioni di coppie: la possibilità di avere un figlio.
Modern Family 1.0 è uno spettacolo divertente e delicato ma anche molto politico. La questione sollevata con arguzia e ironia è cruciale nel nostro Paese, e non è stata affrontata adeguatamente dalle istituzioni. Basti pensare che Annagaia Marchioro e la sua compagnia Le Brugole stanno incontrando non poche difficoltà a portare lo spettacolo in Veneto, da sempre ostile alla cosiddetta “ideologia gender”. Di ideologico, in questo spettacolo, non c’è un bel niente: ci sono due donne che sanno far ridere, brave al punto da saper trascinare la quotidianità sul palcoscenico e viceversa, che parlano di una storia che appartiene a loro come appartiene a tutti noi. Il punto di forza dello spettacolo, oltre all’incontenibile verve comica di Annagaia Marchioro e alla pragmatica e surreale Giulia Maulucci, è la naturalezza con cui le due attrici coinvolgono il pubblico nella storia. Una storia raccontata con un linguaggio dinamico e istantanee quasi cinematografiche, che ci fa conoscere meglio il mondo omosessuale attraverso una coppia che vuole disperatamente una normalità a volte monotona a volte eccitante, in due parole una famiglia.

Giulia Zennaro, 16/05/2019

FIRENZE – “Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande I care. E' il motto intraducibile dei giovani americani migliori: Me ne importa, mi sta a cuore. E' il contrario esatto del motto fascista Me ne frego”. (Lorenzo Milani)

Le prime parole che escono, meglio sgorgano, spontanee sono “leggerezza” e “delicatezza”. Non c'è mezzo migliore, la carezza, il soffio, l'appoggiarsi, per far passare, per far arrivare temi grandi e ingombranti come macigni, la memoria, la famiglia, l'amore, la malattia, la vita e la morte, la perdita, argomenti che ci hanno toccato o che, lo sappiamo in anticipo, ci toccheranno, inevitabilmente nel prossimo futuro, ma che preferiamo, come struzzi con la testa sotto la sabbia, rimandare a data da destinarsi, prorogare, spostare nel tempo l'affrontare la caducità del nostro stare, minimale, infinitesimale, marginale, su questa terra, in questo mondo, in questa forma.kulkuna03
E dire che le maschere dei Kulunka Teatro non possono far altro, soprattutto all'inizio, che ricordarci i berlinesi della Familie Floz (altra scoperta per quello che riguarda l'occhio attento e allenato dei Pupi e Fresedde). Anche in Italia altri gruppi, pensiamo ai fiorentini Zaches o al giovane duo torinese Dispensa Barzotti, hanno proposto e stanno usando con particolare efficacia queste maschere spaurite, errabonde, impaurite, dai nasi adunchi e gli occhi cavi. Sono ferme, impassibili ma dentro ci puoi vedere il sorriso come la disperazione, l'allegria o lo sconforto, la maschera è soltanto lo specchio di chi in quel momento la sta osservando, è il riflesso dei nostri occhi che la stiamo guardando.
Siamo affetti da una malattia con prognosi riservata: l’esistenza” (Carlo Gragnani).
Parlavamo di delicatezza. Non esiste parola migliore per raccogliere il groppo e il grumo che provoca “Andrè e Dorine” del collettivo basco Kulunka. La storia è semplice, come qualsiasi esistenza, la parabola annunciata da nascita, crescita, morte. Non è il quando ma il come, non è l'inizio o la fine, che sono certi, ma lo svolgimento a rendere l'esistenza quel mistero da accettare e salvare, da indagare incuriositi e, perché no, anche divertiti. Siamo burattini legati ai fili del destino, o Dio o della Natura, che dir si voglia, ma abbiamo tutta la libertà sia di sbagliare sia di emozionarci, di dare e ricevere amore, di cadere e rialzarci con e grazie agli altri attorno a noi. Sale il pathos, la carica monta lentamente, ma inarrestabile, 01kulkunamostrandoci la vita di questa famiglia, appunto i due ormai anziani (un po' Sandra e Raimondo) che compongono il titolo della pièce muta, e il figlio ormai adulto che non vive più con loro, come ce ne sono tante, con i piccoli dissapori quotidiani, le lotte domestiche, i dispettucci che nel tempo sono diventati imprescindibili e segni distintivi del rapporto, piccole manie che sono divenute folclore caratteristico delle quattro mura casalinghe e che, se un giorno non ci fossero più, ci mancherebbero e ne sentiremmo profondamente il bisogno e l'assenza.
Una coppia, come quelle di una volta, unita da anni di piccole, continue, quotidiane azioni che ne denotano l'attaccamento vitale e feroce: lui, l'anziano con la faccia da Marco Pannella, autore di romanzi ma perennemente disturbato dal violoncello di lei, da giovane con il volto da Nina Moric dopo le varie “tirature” e da anziana simile a Moira Orfei, il ticchettio dei tasti di lui e l'archetto che oscilla orizzontalmente di lei. I pomeriggi sono mini battaglie di lievi prevaricazioni. Lei è il primo lettore del marito che non pubblica niente senza il consenso della moglie. Tutto sembra scivolare via tranquillo, giorno dopo giorno, violoncello dopo pagine scritte a macchina in un'armonia ovattata e leggermente noiosa, banale nella sua routine delle ore uguali alle altre. Ma la vita dà e la vita toglie. E allora è la malattia che arriva di soppiatto, non la senti, silenziosa non bussa nemmeno alla porta, si intrufola nelle stanze, nella mente e pian piano distrugge, si prende tutto, annulla i ricordi, azzera i contorni delle facce, cancella le fotografie, abbuia il passato, opacizza il presente, fa diventare tutto nebuloso, oscuro, svuota, smembra, rende l'intorno irriconoscibile.
La vecchiaia. E’ la sola malattia dalla quale non si può sperare di guarire”. (Orson Welles).02kulkuna
I salti temporali, i flashback, hanno molto di cinematografico; i piani sequenza si sovrappongono in un continuo rimando ad un “com'eravamo”, al prima, a quell'amore nato e sbocciato e coronato fino all'epilogo finale. La moglie, affetta da demenza senile o alzheimer, ci ha ricordato il padre de “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio” di Romeo Castellucci. Una canzoncina allegra e dolce, nostalgica e amara (echi che sembrano usciti da una colonna sonora di un film di Almodovar) fa da refrain a chiudere le scene, con una fisarmonica che tranquillizza e insieme inquieta, torna e ritorna come le nenie degli horror e ci dice che qualcosa di funesto e inarrestabile sta per accadere senza prepararci al peggio, incute timori e cattivi presagi senza dare soluzioni o paracaduti al dolore. Spariscono i volti, spariscono le parole, si confondono i gesti semplici nella perdita impietrita, nel vuoto incolmabile di chi resta menomato senza più memoria e chi rimane accanto impotente in questo limbo degenerativo senza salvezza. Ma il ciclo dell'esistenza si perpetra ancora incurante e la vita vince sempre e comunque, per istinto o per incoscienza. Siamo criceti sulla ruota con il destino segnato ma nel mezzo, tra una nascita non richiesta e la morte mai voluta, abbiamo tutto il tempo e la possibilità di dire, fare, baciare, lettera e testamento. E allora scrivete libri e suonate violoncelli. E amate. E' tutto qua. “A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure”. (Italo Svevo)

Tommaso Chimenti 10/02/2017

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