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FAENZA – L'Accademia non si è affatto Perduta o almeno, certamente se lo è stata si è ampiamente ritrovata. “Colpi di Scena” è un format consolidato nel teatro per le giovani generazioni e da biennale lo scorso anno si è trasformato in annuale alternando la visione di spettacoli per adulti, negli anni dispari (la prossima edizione sarà a settembre '23), a quelli per ragazzi, negli anni pari. E i colpi teatrali dell'AP (in collaborazione con ATER) sono stati ben assestati anche quest'anno, dislocati tra Faenza e Forlì tra i tanti teatri che compongono la costellazione degli spazi romagnoli: il San Luigi e il Testori, Il Piccolo, il Diego Fabbri e il Felix Guattari tutti a Forlì, la Casa del Teatro e il Masini a Faenza. Un solido spargimento teatrale che fa storia e tradizione come comunità e passione. In Romagna non manca mai la voglia di allegria, sorrisi e piadina. In quattro giorni una piccola, faticosa ma soddisfacente, maratona, con diciotto piece e otto debutti, colma di visioni e approdi, di parole e colori. Sale calde, temperature hot.

Un giovane performer che riprende l'antica tradizione, quasi scomparsa, del ventriloquo ne “Il Gran Ventriloquini” della compagnia Madame Rebiné: Max Pederzoli alto, dinoccolato Il Gran ventriloquini.jpgin giallo, a metà strada tra Adrien Brody e Adam Driver, immerso in una pseudo situazione circense. Si sente che sono freschi, che hanno sensibilità ed entusiasmo. E' la classica, ma sempre affascinante storia, degli oggetti che si ribellano al suo creatore, del figlio che deve “uccidere” il padre per staccarsi dal cordone ombelicale e camminare con le proprie gambe. Il tagliare i fili della marionetta, Pinocchio e Frankenstein. Qui il nostro mago discute e litiga con “Klaus il Clown” che se ne sta dentro una botola e non ne vuol sentire di uscire per esibirsi ed anzi entra in sciopero. Intanto il mago, per riempire l'attesa, mitraglia le sue barzellette: “Perché le renne vivono in Antartide? Perché lì c'è la neve perenne”. Altro personaggio che si ribella a colui che gli presta la voce non riconoscendone l'autorità è il calzino a mano, una sorta di serpente con la lisca. Klaus e Calzino si rifiutano di dire le barzellette del ventriloquo considerandole squallide. A bocca chiusa rappa e scretcha, suona la base di Billie Jean, parla fuori sincrono, parla con l'eco. E' la lotta infinita tra l'uomo e gli oggetti inanimati che però un'anima ce l'hanno eccome. Intanto: “Vorrei una camicia” “La taglia?” “No, la porto via intera”. Questo è un piccolo circo di periferia “che cade a pezzi”, le cose si rompono, le luci si spengono, i pannelli cadono, le tende si staccano. Il concetto del padre-padrone non regge più e gli oggetti di lavoro si sono fatti consapevoli e vogliono ottenere la libertà per finalmente formare un trio di artisti con pari dignità. “Cosa ordina un riccio al bar? Una birra alla spina”.

Dai Cipì.jpgcolori al buio tetro degli Zaches che sono sempre cupi e neri, certo raffinati, fini tecnicamente e formalmente eleganti ma anche molto foschi e scuri, impaurenti, intimorenti. Stavolta affrontano la fiaba di “Cipì” e fin dalla prima bellissima scena, quella della tempesta, si ha la sensazione di uno spettacolo noir con i fogli che svolazzano addosso al Maestro in maniera aggressiva quasi cani alla catena che attaccano. La musica coinvolgente e avvolgente crea una sensazione di pathos e ansia prima di giungere al nodo della storia, il nostro Cipì, uccellino curioso che vuole andare a scoprire il mondo mentre il Nonno-Maestro non vuole lasciarlo libero perché là fuori, dice, è molto pericoloso. Come quei genitori che fanno crescere i figli sotto una campana di vetro. E questa versione è anche molto cruda con l'arrivo dei cacciatori e della falciatrice. Una favola ambientalista alla quale avrebbe giovato un po' di leggerezza, un pizzico di allegria e una lievità maggiore.

Abbiamo avuto Ferdinando.jpgriserve, di altro tipo però, anche per quanto riguarda “Ferdinando, il toro” con Danilo Conti impegnato in una storia atavica di pacifismo raccontata attraverso grandi cartonati non così efficaci. Mancava di ritmo e i pannelli e la grande testa di toro come quella da torero, pur nella bellezza dell'oggetto artigianale, non sono riusciti a far decollare la storia che si è appiattita diventando monocorde, senza slancio. Una favola sulla diversità ma dove al suo interno oggi possiamo leggere anche una metafora tra il torero-Putin e il toro-l'Ucraina. Sappiamo chi vince nella realtà ma sappiamo anche chi vince nelle fiabe.

Dire che “CideCide.jpeg di Maurizio Bercini (prod. Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti), colonna storica del teatro per i ragazzi e dei burattini, sarebbe limitativo. Bercini ha toccato, con semplicità, le corde dell'emozione, della poesia, del pathos, della nostalgia, del ricordo, della commozione. Cide è Alcide Cervi, al quale i fascisti hanno ucciso sette figli. Una roba da uccidere un toro, invece gli oggetti che compongono questo mosaico sulla scena stanno a testimoniare che la verità non si ferma e che la memoria rende gli uomini liberi. Oggetti carichi di significati, doni di chi ha visto in Alcide la costanza e la forza di non abbattersi, di non mollare, di non cedere alle sventure e alle ingiustizie della vita che gli aveva tolto tutto. E Bercini fa sua quella rabbia atavica, è un fuoco, si percepisce che prova ancora quello sdegno e sgomento ogni volta che la rievoca, non si risparmia, è generoso tocca la Bibbia e il Mappamondo, le Bocce e la Falce, unendo i vari punti di questa sorta di cartina sensoriale, di questo quadro che a poco a poco si dipana nel racconto coinvolgendo la platea, andando sempre più a fondo. Un teatro d'oggetti antico e sempre verde, tattile, concreto, materiale, ricco di onestà, un teatro formativo, pedagogico ma mai pedante, per i bambini di ogni età: “Faccio teatro da quando ho diciassette anni, sono passato dai soldatini ai burattini. Non sono mai cresciuto”, dice. Una fortuna. Assolutamente da vedere: applausi di vicinanza e occhi lucidi; la verità non vincerà sempre ma esistono degli eroi pronti a raccontarla.

Il tema degli hikikomori sembra essere un problema molto sentito tra i giovani. “C'è nessuno” indaga, attraverso l'uso di video e chat, il complesso meccanismo sociale e psicologico che si nasconde dietro i nostri portatili, i nostri smartphone, questa possibilità di poter raggiungere tutti che ci appaga e soddisfa e non ci lascia la curiosità dell'incontro fisico. La compagnia Mandara Ke mette in scena due giovani, uno sul palco e l'altro online a distanza ed è al tempo stesso divertente e tenero, preoccupante e allarmante il rapporto degli adolescenti con le tecnologie da una parte, con gli altri esseri umani dall'altra. Una fase questa acuita dalla pandemia e dalla forzata separazione fisica dei ragazzi che si sono presto abituati a questa dinamica dell'esserci senza esserci in un mondo virtuale fatto di videogiochi e chat tutto irreale, volatile, fumoso. Le chat senza il vis a vis non può che portare ad un game over fatto di sempre più persone isolate, lontane ma con l'intima convinzione di essere felici perché dal divano o dalla cameretta di casa possono, fintamente, raggiungere e fare tutto. Fanno paura le frasi: “Non vorrei crescere” di ventenni senza speranza, preoccupati costantemente del domani, affidandosi ai guru del web, ai tutorial che portano in dono soluzioni (come il Gatto e la Volpe): “Mi avete illuso che sono libero e che posso fare tutto quello che voglio”.

La pulizia dei tratti e la raffinatezza delle scene ben costruite di “Cassandra”, del Teatro Gioco Vita (50 anni di attività, da Piacenza), ci fanno sobbalzare insieme a temi ben architettati ed a Cassandra.jpgtesi di fondo condivisibili, precise, lucide e puntuali. In una sorta di braciere greco due ancelle performano il loro rituale di ombre da rimanerne esterrefatti. La modalità registica invece di modulare le ombre nel retro del telo e successivamente arrivare sul boccascena a spiegarci, didascalicamente, il quadro appena visto l'abbiamo trovato molto scolastico. Ma il tema è veramente importante: qui Cassandra, che parla ma non viene creduta, è una Greta dei giorni nostri che ci informa e allerta sui pericoli del cambiamento climatico ma ai quali non crediamo per ignoranza, disinformazione ad hoc, paura del futuro e di prendere delle decisioni che in qualche modo possano cambiare, peggiorandola, la nostra piccola esistenza. Abbiamo perso l'età dell'innocenza e il futuro dell'uomo è segnato. Si sentono le sirene di nuovi lockdown, le temperature che aumentano vertiginosamente portando la Terra al collasso, le coltivazioni, le città invivibili, l'emergenza idrica, l'inquinamento, gli incendi. “Cassandra” è uno schiaffo apocalittico con la tropicalizzazione e la saharizzazione del Globo. Lo spettacolo per noi si conclude (troppi finali uno dopo l'altro) con la potente immagine di migranti che nella fuliggine di un deserto camminano verso non si sa quale meta. Da lì in avanti è un cercare di dire le stesse cose precedentemente esposte con altri mezzi rendendo il tutto pesante e inutilmente sottolineante, dalle immagini di cortei e proteste (quando il teatro insegue la tv o il cinema inevitabilmente soccombe). Chi dice la verità è un nemico del Popolo.

Dall'incubo al sogno con “I sognatori” (Teatro delle Briciole Solares) che fin da subito ci ricorda e ci riporta alle suggestioni felliniane de “La voce della Luna”. In una sortai sognatori.jpeg di futuro apocalittico, certamente post atomico, un futuro prossimo possibile, si incrociano Gigante e Cico e Pallina (due danzatori), una sgangherata compagnia di giro, cialtrona e vagamente circense. Si vorrebbe far ricorso alla visionarietà come all'immaginazione ma il testo pecca di voler essere filosofeggiante e poetico senza riuscire nell'intento, cadendo in scontatezze e risultando leggermente superficiale. Toccando Fellini è facile cadere nello stereotipo, nella forma più che nella profondità: manca della verità teatrale.

Conosciamo Michele Di Giacomo da anni avendolo visto, e apprezzato, in molti spettacoli di prosa per adulti. Anche qui tiene la barra dritta, tiene il pubblico, incuriosisce con questa narrazione supportata dai video sul fondale che cambiano ambientazione, un video mapping che cambia forma risultando un vero e proprio coprotagonista con il quale interagire. “Sono solo favole” (Alchemico Tre) inizia kafkiano e prosegue sul filo, mai banale, della ricerca della memoria, di un passato, nell'intreccio tra la realtà e l'immaginazione. Un ragazzo che ha perduto la madre si ritrova nella casa d'infanzia e, attraverso un gioco-caccia al tesoro organizzaSono solo favole.jpgta proprio dalla genitrice, riesce a risalire a chi è, a scoprire lati importanti del suo carattere, a ritrovare anche se parzialmente la mamma, a capire meglio il suo passato e proiettarsi con più fiducia, ora che ha sconfitto i demoni dell'infanzia, verso il domani. I ricordi fanno paura perché spesso fanno male, non possono essere cambiati. In questa casa virtuale sullo schermo, il ragazzo si fa detective in un giallo a caccia di indizi, una sorta di Alice dentro un mondo parallelo che sono le storie della madre scrittrice (tra la Rowling e Agatha Christie) i cui personaggi si materializzano sullo schermo. La mamma sognatrice e il figlio concreto che alla fine imparerà che le favole, la letteratura, l'arte in generale possono cambiare e migliorare la realtà: “Le fiabe non raccontano che esistono i draghi ma che possono essere sconfitti”. Interessante anche la parte interattiva con il pubblico.

E finiamo con Il messaggero delle stelle.jpgil miglior spettacolo visto in questa edizione di “Colpi di scena”: “Il messaggero delle stelle”, scritto mirabilmente da Francesco Niccolini, con il funambolico Flavio Albanese sul palco abbigliato tra cavaliere errante e astronauta. E' Astolfo paladino dalla pronuncia inglesizzata che, con il suo ippogrifo, ha raggiunto la Luna per recuperare il senno di Orlando. Ma è qui che esplode tutta l'arte di Albanese, vero mattatore, che ci delizia ed esalta la scrittura di Niccolini, tutta in rima, quando Astolfo incontra filosofi e scienziati in questo limbo nell'Aldilà: Galileo con cadenza toscana, Giordano Bruno napoletano, e poi Tolomeo e Copernico lanciandosi in dialoghi surreali e patafisici sulla conoscenza, l'Universo, l'esistenza, Dio, i corpi celesti. Albanese, davvero un grande attore, riesce a rendere l'astronomia leggibile e semplice, esaltando l'ironia felice e profonda di Niccolini (suoi cavalli di battaglia sia i Paladini che Galileo). Da veri, sentiti, pieni applausi.

Tommaso Chimenti 07/07/2022

FORLI' – Senza voler essere necessariamente esterofili, le due proposte provenienti dall'Olanda, all'interno del fitto e corposo cartellone della rassegna “Colpi di Scena” (organizzato da Accademia Perduta/Romagna Teatri e Ater Fondazione), festival di teatro per ragazzi e giovani tra Forlì e Faenza, sono state le più incisive, sicuramente le più moderne e contemporanee, con linguaggi aperti a riflessioni stratificate, interessantissime suggestioni piene di senso e contenuti adatti ad ogni età e non chiusi nella scatola-definizione-dicitura-didascalia “teatro ragazzi” che alle nostre latitudini limita la visuale e semplifica l'immaginazione.

Per primi ci siamo trovati davanti ad “Hermit” (significa “Eremita”) del gruppo Simone De Jong Company, mezz'ora di purezza, trenta minuti da vivere, respirare, capire, assaporare. Tutto si svolge dentro, a fianco, attorno ad un cubo. Facile il primo aggancio semiotico e sentimentale al Cubo di Rubik o, al limite, ai bozzoli di Cocoon; infatti siamo davanti ad un rompicapo, ad un bivio esistenziale, ad un passaggio in perenne contraddizione tra la voglia di stare e quella di scappare, tra il desiderio di abitarlo e quello di cercare la libertà trovandosi di volta in volta insoddisfatti e delusi da una CairoHermitIMG-20200307-WA0000.jpgdelle due condizioni. Dentro il cubo-bara una lucina ne illumina le pareti e subito ci appaiono i classici segni semicircolari di una ecografia: nasciamo da un luogo claustrofobico ma caldo, costrittivo ma comodo e, durante l'esistenza, ci muoviamo come trottole per ricercare e ritrovare quella sensazione di pace e di benessere. Sembra un lavoro scritto durante la pandemia, o almeno sembra calato in questi nostri tempi dove più che l'andare fisico sembra che ci basti viaggiare sepolti e impigriti dai nostri divani, sprofondati nei letti o nelle poltrone delle scrivanie con l'illusoria convinzione, malsana e ipocrita, che ci vendono i nostri smartphone facendoci credere che tutto sia a portata di click quando sullo schermo la realtà che vediamo è soltanto bidimensionale mancando la profondità, mancando appunto noi dentro quel panorama. Il nostro protagonista (sembra un astronauta nella sua navicella, sembra un giapponese nel suo loculo) se ne sta rannicchiato dentro, compresso, è come impaurito; ai tanti campanelli che installa all'esterno delle pareti protettive del suo guscio, sonagli che evidentemente dovrebbero logicamente servire per essere trovato, risponde perennemente con “Non sono in casa” non volendo entrare in nessuna relazione con gli altri, affetto da una forma di patologica misantropia accelerata all'ennesima potenza. Quando la sua voglia di uscire si fa esondante e finalmente riesce a prendere coraggio per esplorare gli intorni del suo spazio e prendere consapevolezza del proprio corpo al di là dei confini imposti dalla sua pelle, esce dall'oblò e comincia una furiosa e forsennata corsa felice e liberatoria e di risate a bocca piena, gambe in spalle che sanno di gioia e soprattutto libertà. Ma, come kleur-_dadodans_foto-ben-van-duin-12.jpgsi dice, se non puoi uscire dal tuo tunnel allora arredalo. Una volta resosi conto della presenza di tanti sconosciuti, di molti occhi a fissarlo, la paura e il timore del contatto (forse del contagio) lo assale ferocemente facendolo ritirare dentro la sua sicurezza e fortezza. Con il lockdown è cambiata radicalmente l'idea di casa; adesso l'abitazione è una propaggine di sé, come la chitarra per Jimi Hendrix, ci deve assomigliare perché lì dentro ci passiamo, ci passeremo molto tempo. E la riflessione prende una piega drammatica: se possiamo stare tranquillamente in casa e lì lavorare non abbiamo più bisogno di uscire per raggiungere il posto di lavoro, non ho più bisogno del cinema perché ho Netflix e Prime Amazon, non ho bisogno di andare a fare la spesa perché me la porta direttamente un deliveroo, non ho più bisogno di relazioni perché parlo con Alexa, posso chattare con sconosciuti e tutto risulta essere anche più asettico e pulito. Quando non vado d'accordo con qualcuno posso bannarlo o bloccarlo e cancellarlo così che il problema viene estirpato alla radice. La paura dell'altro ci fa rinchiudere nel nostro guscio di chiocciola, come un paguro nella conchiglia, come una tartaruga all'interno del carapace. Questo chiudersi al mondo, illudendosi di lasciare fuori di casa i problemi, crea nuovi hikikomori: il futuro è grigio, bisogna per questo aprire le finestre per cambiare l'aria e respirare a pieni polmoni. Gli altri non sono un problema, il problema siamo noi stessi.

Anche il secondo “Kleur+” (significa “Colore”) della compagnia Dadodans è una performance senza preclusioni, per tutti i tipi di pubblico. Kleur-DadoDans-82-scaled.jpgUn gioco di una performer (concept e coreografia di Gaia Gonnelli) immersa in una scena dove la fanno da padroni visivamente palle argentate di varie dimensioni. E qui scattano due illuminazioni, due direzioni che sembrano opposte anche se entrambe hanno a che vedere con la creazione, con la nascita. La prima è che l'attrice potrebbe essere la metafora di Dio, o per esso la Natura, che gioca a dadi con gli uomini in questo sistema solare che sposta a piacimento, muove, fa rotolare galileianamente. Facendo tintinnare e barcollare le sfere qualcuna si apre e si rompe facendo fuoriuscire della polvere rossa, allegoria della saharizzazione del mondo come del tanto sangue versato dall'uomo, sua creatura principale fatto a sua immagine e somiglianza, come se giocasse con il sangue, calpestandolo, e con le continue guerre degli uomini stolti. Quelle strisce rossastre ricordano il sangue rimasto nell'arena, nella Plaza de Toros dopo che il bovino imbufalito è stato trascinato, ormai morto, fuori dalla corrida con il carro dei cavalli. Il rosso che imbratta la scena, che alla fine sarà di pollockiana memoria (ma potremmo andare anche a Kandinsky o Rothko) apre alla seconda immagine forte esplicita che balena quando la grossa goccia, che è appesa come un gigantesco punchingball pugilistico a mezz'aria, anch'essa si apre e lascia colare (come la rottura delle acque) liquido di vernici impastanti appiccicose. Potremmo essere all'interno di un utero e la maxigoccia essere l'ovulo: certamente un'immagine potente. Due proposte che ci fanno capire in quale direzione stia andando non soltanto il teatro ma anche il teatro ragazzi nel mondo dove non esistono distinzioni e non esistono categorie, perché fondamentalmente ci sono solamente due tipi di teatro: quello fatto bene e quello fatto male. L'arancione rimane un bel colore.

Tommaso Chimenti 02/07/2022

Sabato, 14 Maggio 2022 17:09

"Kassandra": interpretazione capolavoro

BOLOGNA – Ci sono alcuni testi che hanno necessariamente bisogno di alcune messe in scena per esaltarsi e ci sono alcuni modi di usare il corpo e la voce e lo spazio e il palco che rendono alcuni testi memorabili. Quando questo avviene, quando siamo di fronte non soltanto all'attore, non soltanto alla recitazione ma ad un qualcosa di più ampio e compiuto, di totalizzante, elettrizzante, assoluto, allora, solo allora, si può parlare a pieno titolo di performance. La “Kassandra” di Sergio Blanco (in questo momento nel mondo ne esistono ventisette diverse versioni; qui, prod. Ert/Teatro Nazionale, per la regia di Maria Vittoria Bellingeri, che DSC3220-scaled.jpgcura anche scene e costumi) diventa uno show vissuto, sudato, traslato, solcato dall'anima di Roberta Lidia De Stefano che ha riempito con ogni suo centimetro, con ogni suo stilla di fatica, con ogni sua cellula il senso più profondo della drammaturgia senza dimenticare l'edonismo, l'estetica, l'estasi della raffigurazione, quel sottile strato magico che si crea, osmotico e di trasporto, tra la platea folgorata e la scena che frigge, che frange, che sprizza, che spiazza, che sfrigola. Ci siamo trovati davanti ad un insieme di qualità, attoriali e artistiche, che difficilmente convergono nello stesso corpo, un corpo che si fa sensuale e meccanico, che ha al suo interno tutto il metallo del Futurismo fuso ora con la dolcezza adesso con la durezza e rudezza che soltanto la strada forgia. In mezzo alla nebbia, una piccola macchina a DSC3890-scaled.jpgfari accesi e una figura (“Non sono né un uomo né una donna”) con il suo inglese maccheronico e schematico, scandito e primordiale attende i possibili clienti in una sorta di “Nella solitudine dei campi di cotone” in solitaria.

Blanco prende il Mito greco e lo trasporta in una contemporaneità nostrana occidentale dove le donne sfruttate in mezzo ad una strada con i loro corpi sono la testimonianza viva e diretta delle guerre, delle lotte, delle sopraffazioni, della povertà in altre parti del mondo: la prostituzione è soltanto la punta dell'iceberg di fenomeni più ampi e profondi che l'uomo moderno del Primo Mondo vuole rimuovere cercando di sfruttare questi corpi e farne soltanto oggetti per usarli e violentarli e umiliarli per un po' di sesso a buon mercato senza sentirsi complici di quel sistema che ha strappato queste donne alle loro case, ai loro affetti. Ci è subito venuto in mente un parallelismo con il toccante “Medea per strada” del Teatro dei Borgia dove il pubblico viaggia insieme ad una donna dell'Est su un pulmino mentre si sta preparando per cercare i clienti tra la periferia e l'asfalto.

La De Stefano (dove è stata finora? Chissà quante gemme attoriali sono nascoste e non vengono notate e non hanno possibilità di emergere né alcuna opportunità per mettersi in mostra né grandi palcoscenici dove mostrarsi?) è vulcanica, spaventosamente energica, potente e poderosa, straripante e calibrata, lontanissima da qualsiasi stereotipo; è tutto quello che il pubblico vorrebbe vedere ogni volta che varca la soglia del teatro: quell'eccessivo ma mai smodato, quella foga che trova il suo equilibrio nel talento, quella potenza che non fa sbandare ma trattiene tutte le particelle dell'atomo, quella tensione che non cede, quel tremore che fa gridare gli occhi, quell'esaltazione difficile da contenere, quel brivido che non diventa mai manieristico. Il suo stare in scena ci ha ricordato DSC3962-scaled.jpgl'altrettanto abbagliante “Sei”, di Roberto Latini, con il clamoroso e stupefacente Piergiuseppe Di Tanno, anche lui fulmine a ciel sereno. Viene in mente l'iconica scena di “Tutto su mia madre” quando la telecamera si sposta dal campo, dove le prostitute attendono tra i fuochi dei bidoni, e si apre l'immagine sulla vallata, sulla distesa di luci di Barcellona mentre parte la devastante e straziante e dilaniante “Tajabone” con l'armonica a bocca che farebbe piangere anche un nazista.

Questa DSC4249-scaled.jpgKassandra (una sorta di “Pretty woman”, in stivaloni e latex), nel suo “bad english”, racconta la sua storia, ricordando Ecuba e Andromaca, Paride e Achille, Menelao e Patroclo: è un'amazzone giunonica lanciata in una esibizione fascinosa e affascinante, accattivante , accecante; parla in inglese, in francese, in greco antico, suona il piano, canta meravigliosamente. Adesso ci riferisce di Elena e Clitennestra, di Medea o Antigone. L'attrice è un'artista totale che catalizza ogni sguardo, anche in una tuta adamitica da catwoman, è eccezionale, straordinariamente in forma, confezionando un vero e proprio dj set, un concerto techno-house, per una prova di stampo europeo (ci ha ricordato le messinscene di Jan Lauwers), un'interpretazione “berlinese” graffiante e ironica, profonda, tragica ed eccentrica, gigantesca, illuminante, straordinaria (ovvero oltre l'ordinario al quale siamo abituati), super, dimostrando una maturità e una consapevolezza lirica e debordante, dolorosa (come Gabriella Ferri) e generosa, versatile, un fuoco che travolge come una valanga, un turbinio carnale, una slavina sanguigna che sconvolge. Un frullatore di emozioni ci trascina, ci investe, ci rovescia, ci abbatte. “Kassandra” è rara potenza aulica e poesia delicata urbana, gratta come smog in gola, scartavetra come guance sul cemento.

Tommaso Chimenti 14/05/2022

CERVIA – E' buio e fosco in questa sorta di scantinato che pian piano perde la sua connotazione reale finendo per diventare metafora del groviglio esistenziale e nero che alberga ed è cresciuto come tumore dentro le menti, i ricordi, i traumi, gli incubi dei tre personaggi sulla scena. Un classico triangolo dove ai due lati più lineari e banali, gli uomini, tradizionalisti e maschilisti manovali che si punzecchiano e sfottono e attaccano infantilmente, poco soddisfatti delle loro vite sempre uguali, si aggiunge improvvisamente il terzo, la donna (Margareth), che cambia i connotati, che toglie la polvere, che fa saltare tutti i piani, che rimescola il destino, elettrizza l'ambiente. L'elemento di rottura femminile fa da ago della bilancia in questo noir dove, fin dall'inizio, si sente che qualcosa si sta per incrinare, che la crepa sta per cedere, che le fondamenta di quel castello di carte faticosamente costruito, o meglio che ognuno a suo modo aveva tentato di rimuovere e nascondere tn_il-bacio-della-vedova-2_1000x0_1b8227d57b5388c88ea829ef451f701e.jpgper vergogna negli anfratti della psiche, sta per crollare miseramente come un colosso dai piedi di argilla. In una cittadina di provincia (nel testo di Israel Horovitz, l'America più rurale e ignorante e analfabeta e senza prospettive) due giovani uomini, si presuppone tentenni o giù di lì, si raccontano in modo goffo e sguaiato conquiste amorose colorite da dettagli e particolari camerateschi giocando adolescenzialmente con tabù sessuali, timidezze confuse con spacconerie, arroganze e impacci, prepotenze e imbarazzi.

Sono Archie e George, due superstiti, due che sono restati, due che non ce l'hanno fatta, che sono rimasti impigliati e invischiati e impantanati nelle morse calde di pseudo comfort zone del paesello che li ha risucchiati in un vortice dalle giornate tutte uguali. C'è una provincia che se non la lasci a poco a poco ti inghiotte come sabbie mobili, senza che tu te ne accorga, c'è una provincia che serve per farti nascere e dalla quale devi avere la forza per andartene, per salvarti, per essere felice, non senza fatica, in un altrove distante da lì. Ma come si dice “puoi togliere il ragazzo dal ghetto ma mai il ghetto dal ragazzo”, e le dinamiche con le quali sei cresciuto, le regole imparate per strada, quell'imprinting feroce e brutale di alcune 617c197af0cdf942870115.jpgperiferie, ecco quelle non te le puoi sradicare e scardinare di dosso, sono tatuaggi dolorosi non rimovibili. “Il bacio della vedova” (visto al Teatro Walter Chiari di Cervia, messo in scena con pulizia e ardore dalla regista Teresa Ludovico, produzione Teatro Kismet di Bari) ha in sé componenti psicologiche e investigative, esistenziali e sociologiche, antropologiche.

Si percepisce che quel cupo esterno rifletta le ombre spesse e solide che i tre nascondono dentro, nel loro animo più profondo. E' una resa dei conti da Far West, si sente il clima da ultima spiaggia, un incontro che sarà finale e fatale, una vicenda che cambierà i destini dei tre in campo, un momento topico che i tre sapevano che prima o poi sarebbe arrivato per tentare di riequilibrare il passato, per cercare di mettere una pezza ad errori grossolani e giganteschi come macigni che li hanno travolti, distrutti, azzerati. E c'è una metafora strisciante che li “abbassa” a bestie da zoo: Archie era soprannominato La Capra, George era invece Il Rospo, mentre Margy era La Coniglietta. In questa “fattoria degli Animali” orwelliana è una guerriglia di accuse, è una sfida continua di allusioni e pudori, confronti e violenze, un Guernica di attacchi e fuoco incrociato il tutto ammantato da un'inquietudine incancrenita dal tempo che, in questi casi, mai è galantuomo, anzi ingigantisce e cerca solo vendette. Sono schermaglie ammiccanti e gelosie diffuse: si scontrano due mondi, lei se n'è andata, ha studiato, si è sposata, ha fatto due figli, mentre gli altri due sono rimasti ragazzotti non cresciuti “che pensano male, parlano male e quindi vivono male”, per dirla con le parole di Nanni Moretti in “Palombella Rossa”.

Avevano sempre rifuggito questo Processo, questo faccia a faccia perché intimamente sapevano che sarebbe stato doloroso quanto necessario, che dopo non stn_il-bacio-della-vedova-3_1000x0_c7364403fca9969af894767c236f2007.jpgarebbe più stata la stessa cosa, che indelebilmente niente sarebbe stato come prima, che il mondo sarebbe cambiato ai loro occhi e che il mondo là fuori, quello che hanno fatto scorrere senza pensare più a quell'evento così catastrofico ma che allo stesso tempo li ha consumati e mangiati dall'interno, li avrebbe finalmente visti e condannati o forse perdonati come vittime e carnefici, come boia e agnelli sacrificali, come bestie da macellare. Un tavolo solo a dividerli come ad avvicinarli, un tavolo a separare le dinamiche da Risiko dove la giovane donna si sposta come pendolo facendo pendere la forza e la condanna verso il terzo di turno inchiodandolo in un gioco al massacro brutale e calibrato, perché molto più intelligente dei due più robusti balordi grezzi e dai ragionamenti meno fini, per far emergere finalmente i fatti, le confessioni, i pentimenti, le lacrime.

Dilettatn_il-bacio-della-vedova-6_1000x0_4670d711200ee76ff67d60c40d4db2c2.jpg Acquaviva (potrebbe fare tranquillamente la controfigura a Luisa Ranieri) tiene le redini del play con disinvoltura e caparbietà (è cresciuta molto con i lavori di Michele Sinisi), una capacità innata di fermezza e piglio, una presenza fisica che si fa notare e dirige in scena gli altri due attori che, come satelliti, sono illuminati dai suoi movimenti, dalle sue didascalie invisibili, dalle direzioni impercettibili di sguardi e accenti. Mario Cangiano e Michele Schiano Di Cola hanno phisique du role per interpretare la violenza strisciante barbara machista, si inseguono braccati dai propri errori del passato senza potervi mettere un freno né cancellarli e, non sapendo come affrontarli, diventano rabbiosi e arroganti e iracondi facendo emergere la vera natura dei loro personaggi duri, bassi e peterpaneschi. “Il bacio della vedova” ci chiede da che parte stiamo, ci induce a interrogarci quale sia il nostro concetto di giustizia, ci chiede responsabilmente di soppesare le attenuanti, di controllare i dettagli e misurare gli eventi, ci chiede di schierarci, di difendere gli offesi, di colpire gli aggressori, anche se alla fine non ci sarà nessun vincitore ma saranno tutti sconfitti dal Male che hanno fatto o che hanno subito: vite distrutte dalla provincia che anche se lasci ti segue come un'ombra per martellarti e non lasciarti in pace.

Tommaso Chimenti 26/03/2022

BOLOGNA – Identificazione, empatia, sentirsi dentro una storia, dentro un corpo anche se quella storia, quel corpo ti sono distanti sideralmente, per cultura, per latitudine, per storia, per nascita. Identificazione e identità, stessa radice, diversa propagazione semantica. Comincia lenta questa nuova produzione del Teatro dell'Argine, freschi vincitori dell'importante “Premio Rete Critica” a Padova, come un diesel sembra che non ingrani. L'apparenza inganna. La storia appare lontana, lontanissima, l'Africa nera, purtroppo una narrazione già sentita, di fame, miseria, superstizioni, sofferenze, dolori. Sulla scena una incredibile, meravigliosa Micaela Casalboni che, a piccoli passi, ci conduce, a sorsi millimetrici, dentro questa vita che ad un primo ascolto ci è sembrata distante, talmente separata dal nostro vissuto quotidiano da sentire una scissione, una separazione, una frontiera. La scena, che successivamente prende corpo e si fa viva (grandi lavori di intaglio evocativi quelli di Giovanni Dispenza), ad un primo sguardo ha la forma e le fattezze caratteristiche ed usuali del teatro ragazzi: statuette di legno sul boccascena, cornici vuote, manichini, sculture automatizzate, pupazzi da muovere in questi microsipari. Il racconto pare non ingranare: che cosa mi stanno raccontando le parole scritte da Nicola Bonazzi (appena vincitore del “Premio Malerba” di narrativa)? Non riesco a trovare il gancio, l'appiglio, la connessione.045_Harperstudio__S4_0092.jpg

Poi, come un fulmine, una vera e propria illuminazione, si attua il miracolo, si accende lo storytelling. La Casalboni tocca le corde invisibili del parallelismo, della vicinanza umana non tanto come compassione per le vite altrui ma quanto come identificazione dentro le vite degli altri, trovare i punti 122_Harperstudio__S4_0316.jpgdi contatto (che ci sono sempre) anche con le esistenze più disparate e apparentemente discordanti dal nostro piccolo e misero intorno. In definitiva, non giudicare nessuno da sopra un piedistallo ma mettersi allo stesso piano, sullo stesso livello perché ogni vita ha uguale dignità in qualsiasi tempo e luogo e spazio sia stata respirata. L'attrice monologante (in vero stato di grazia, palpabile e tangibile), con la forza, la passione, la convinzione che la contraddistingue, attua uno switch tanto interessante quanto funzionale: da una storia da vedere con il cannocchiale, da dover zoomare per poterne vedere i contorni comunque sgranati e sfocati, si passa repentinamente alla sua autobiografia, dall'Africa alla Romagna e tutto ci appare improvvisamente così vicino e comprensibile e la vicenda di sofferenza e tragedia vissuta dal ragazzo africano adesso è nostra, è sulla nostra cute, non la vediamo più da uomini europei “buoni” con i dirimpettai del continente nero ma la sentiamo sottopelle perché qualcuno ci ha mostrato la via per parteciparla, per comprenderla finalmente.

Non si tratta di compassione ma di, finalmente, vedere chi si ha di fronte non come un disperato ma come il nostro specchio che ci proietta la nostra immagine. E tutto cambia. Radicalmente. E “La luce intorno” davvero si anima e prende davvero campo e si libra e tutto avvolge e si spande ed è folgorante come le parole si aprano e la commozione inizi a scorrere in un vortice di ferite che ora sentiamo 153_Harperstudio_RHS_0301.jpgaddosso. Stanno parlando a me, stanno parlando con me, stanno parlando di me. Quella che ci stanno raccontando dal palco non è più la storia di uno sfortunato ragazzo africano al quale viene negata per ben due volte la famiglia e che, per grette e pericolose superstizioni e credenze animiste, viene definito e considerato “maledetto”, non è più la storia di barconi e prigionia in Libia, ma diventa la nostra storia perché l'attrice palleggia la vicenda del Benin e del Togo in alternanza con la Romagna prima e con Bologna poi ma soprattutto il parallelismo più forte e viscerale e ancestrale è tra le madri, non certo perché siano uguali le mamme africane che ripudiano il nostro protagonista e la mamma della Casalboni, ma perché il “chi sei” e il “da dove vieni”, da “quale famiglia vieni”, il “cosa fai nella vita”, le incomprensioni, diventano le domande pressanti ad ogni latitudine e rimbombano e fanno rumore e se a queste domande non riesci a 159_Harperstudio__S4_0404.jpgdare risposte il castello di sabbia cade e tutto si frantuma e sembra inutile e senza fondamenta.

Come è esplosiva la simmetria tra il figlio non voluto e ceduto e allontanato che è stato il nostro antieroe e il figlio mai nato dell'attrice, voluto con tutte le forze ma mai arrivato. Ci sono madri e ci sarebbero state madri. Ci sono storie fortunate in esistenze devastanti come ci sono vicende sfortunate dentro vite fortunate. E' il riconoscere quel dettaglio, quell'irrazionale minimo pensiero che passa, quel “sarei potuto essere io”, fermarlo e farci i conti. Non è commiserazione né compatimento né pietà, è identificazione. Che passa inevitabilmente dall'identità. Toccante fino alla pancia, al cuore, allo stomaco, al fegato, all'anima. Se non sai da dove vieni non puoi decidere dove vuoi andare. Ognuno di noi ha una “Luce intorno”, molte volte è difficile scorgerla nel buio che spesso avvolge molte esistenze.

Tommaso Chimenti 10/12/2021

FORLI' – In Romagna il teatro è una cosa seria. Basti pensare al Teatro delle Albe, alla Societas Raffaello Sanzio, all'Arboreto di Mondaino, al Festival Santarcangelo dei Teatri, ai Motus o ai Fanny Alexander. Solo per citarne alcuni. E Forlì non è da meno con i suoi 110.000 abitanti e ben cinque spazi. La direzione artistica di Accademia Perduta (Ruggero Sintoni e Claudio Casadio) ha messo in piedi la prima edizione di “Colpi di scena” che se nelle annate precedenti era dedicato al teatro per ragazzi quest'anno era rivolto ad uno sguardo sul teatro contemporaneo per adulti. Tre giorni fitti di appuntamenti divisi tra il Teatro San Luigi, il Testori, il Piccolo e il Diego Fabbri, tutti a Forlì, e il Goldoni a Bagnacavallo e il Socjale a Piangipane. Colpi di sole, colpi di testa, colpi di Claudio Casadio e Ruggero Sintoni con il Premio Enriquez-2.jpgfortuna, colpi d'arma, colpi di remi, colpi di sonno, colpi di genio, colpi da biliardo. Colpi e corpi.
Due i lavori che ci hanno intrigato maggiormente che hanno riflettuto sulla diversità. Se il banale politicamente corretto ha trasformato qualsiasi sostantivo in contorte ed ipocrite perifrasi (il cieco è diventato non vedente, lo spazzino è ora un operatore ecologico, il sordo è un audioleso), per le persone affette da nanismo non si è trovato un nuovo espediente linguistico. Ed è curioso che ne “L'ombra lunga del nano” (prod. Società per Attori, Accademia Perduta), della compagnia Les Moustaches, Claudio Gaetani, un nano, interpretasse proprio un nano anche se il teatro è lo spazio della finzione. Già questa identificazione fisica tra persona e personaggio ha rotto le regole della scena dove tutto è possibile soltanto mimandolo, nominandolo o accennandolo. Sta di fatto che “L'ombra lunga” (un titolo ossimorico vista l'altezza del protagonista) parla di accettazione anche con risvolti amari. Lui è Olo, come i suffissi dei famosi nani della fiaba per eccellenza a loro dedicata (Brontolo, Pisolo,...), Lei è ovviamente 3070_small_moustaches news.jpgNeve. Insomma lui è quello dei sette che è riuscito a farla innamorare ed a portarla all'altare. Ma l'amore è una cosa, il matrimonio un'altra. E così sono sopraggiunti la noia, la routine, la scontatezza. Un bell'intro, con la voce infinita di Maria Paiato, ci apre le porte del letto nuziale un tempo fulcro di passione e oggi di dinieghi. Il boccascena è arredato di mele come fossero le lampadine dei teatri di varietà. Non si capiscono più, non si sopportano. Ma capita che un giorno il nano passi davanti ad una lampada e la sua ombra risulti immensa, sovrumana come quella di un gigante, il suo opposto. Inizia un corteggiamento serrato tra il gigante e Neve (Ludovica D'Auria convincente e conturbante) che sembra rinnegare gli anni con Olo e che adesso vorrebbe accanto a sé un uomo forte e poderoso. Non profuma molto di inclusione, anzi, la nostra eroina, eccitata, ci fa capire che non solo il sentimento è finito ma che, proprio fisicamente, avrebbe bisogno di novità rifiutando l'aspetto esteriore del marito per cercare l'antitetico che evidentemente le è mancato. Il nano si sente un fallito e solo con l'escamotage dell'ombra riesce ad avere un rapporto con la moglie che ormai fantastica sulle proporzioni del gigante inesistente. Sembra la scena dietro la siepe con Cyrano che presta la sua poesia a Cristiano per far cadere tra le sue braccia Rossana. Potrebbe essere un buon spettacolo di teatro ragazzi se “ripulito” da qualche parola e scena “hot”, per il resto rimane a metà strada tra una leggerezza fiabesca e contenuti che si fanno drammatici soprattutto sul finale che potrebbe essere letto come un tragico triste addio anticipato (Romeo e Giulietta) scioccante visto il climax tenue dell'intera piece.

Da anni in molti ci parlavano dell'Amleto di Massimiliano Burini, “Un principe”, e della sua compagnia Occhisulmondo che non siamo riusciti a vedere. E adesso abbiamo capito il perché. Questo nuovo “Il nero” (prod. Fontemaggiore, Corte Ospitale, Teatro delle Briciole) che miscela arditamente, e ad una prima occhiata forzatamente, il Bataclan e la situazione degli islamici in FranIl nero.jpgcia e in particolare a Parigi con l'Otello shakespeariano, trasuda di un rigore estetico che diventa estatico, di una coerenza spietata senza perdersi in rigidità, raffinato e delicato, preciso e tagliente. I sei personaggi, non pirandelliani, con maschere ad addobbare e trasformare i loro volti, stanno nascosti dietro un grande telo (che ci ha ricordato l'arazzo di Polonio). C'è una ricerca spasmodica sul fronte ombre e le luci (inconfondibili di Gianni Staropoli), sui suoni e le musiche, su questi grandi fari latelliani accecanti da Inquisizione. Un grande lavoro minimalista che riavvicina la magia eterna del teatro con l'essenza più intima della scena, semplici artifici artigianali che riescono a respirare e dialogare insieme agli attori. Un'opera estremamente elegante, dalle linee pulite, rarefatta e rara, lieve, fragile e feroce, netta e violenta.

Eccoci invece ai comizi teatrali (da non confondere con quelli d'amore pasoliniani), alle tesi preconfezionate e portate su un palco per convincere, indottrinare. Il teatro dovrebbe lasciare domande e dubbi, punti interrogativi non certezze scolpite nella pietra e verità inossidabili. “Black dick” (prod. Casavuota, Gender Bender Festival) di Alessandro Berti (intelligente e arguto performer) gioca, volendo combattere i pregiudizi, sul pregiudizio che la colpa di qualsiasi danno nel mondo moderno sia da attribuire, senza possibilità di smentita, all'uomo bianco, meglio se etero e cattolico. Per argomentare la sua riflessione (e lo fa anche sciorinando canzoni a cappella e un inglese fluido) utilizza e sfrutta un approccio discutibile, strumentalizzandolo, un fatto delittuoso che ha scioccato l'Italia, lo stupro della ragazza polacca sulla spiaggia di Rimini (sett. '17) da parte di quattro delinquenti di origine africana. Da qui (la percezione è che questa sia proprio un'uscita infelice) parte la sua digressione sull'idea che l'uomo bianco (evidentemente per la teoria spiccia e popolana dell'invidia del pene con l'uomo afro) ha apposto sull'uomo nero. Uno spettacolo che ci dice (anzi ci vuole insegnare, ma forse lo sappiamo già) che non ci sono differenze tra gli uomini e che poi, per tutta la sua durata, identifica l'uno con “uomo bianco” (nemmeno caucasico) e l'altro con “uomo nero” (come quello delle filastrocche che veniva a rapire i bambini). L'indagine si sposta sul mondo del porno che, da quanto si evince in “Black dick”, è fruito soltanto da uomini e donne bianche. Ne viene fuori un'accusa martellante, una piece per chi ha continui sensi di colpa e rimorsi di coscienza con la propria identità culturale e vuole farsi perdonare chissà quali peccati commessi dai propri antenati.

Altra conferenza squisitamente politica è “Gli Altri” della compagnia Kepler 452 (prod. ERT, L'Arboreto, La Corte Ospitale) che, come “Black dick”, prende spunto e attacco e incipit da un evento delittuoso; stavolta la vicenda della tedesca Carola Rackete che nel giugno '19 su nave battente bandiera olandese, la Sea Watch 3, aveva speronato un'imbarcazione della Guardia Costiera italiana forzandGli altri.jpgo il blocco navale e per questo arrestata. E rilasciata dopo pochi giorni con tanto di nostre scuse, prostrati ai diktat europei. Ovviamente sappiamo da che parte stanno Nicola Borghesi e soci, la distinzione tra buoni e cattivi è netta fin dall'inizio. Ma il loro ragionamento si sposta dalla Rackete (nel frattempo l'esterofilia italica l'ha elevata a eroina e paladina) a qualche povero cristo che sulla banchina di Lampedusa (esasperato, ma certo non per questo giustificato, dai continui sbarchi di migranti clandestini) offese la tedesca. E qui entra in gioco la grandezza di questa argomentazione scenica: per raccontare l'odio e la rabbia, per dire che dobbiamo volerci tutti più bene e darci più amore, per compattare un pubblico progressista e aperto e illuminato già unito di fondo sulle stesse tesi, per un'ora viene preso come bersaglio un cittadino lampedusano, per farne carne da cannone, simbolo e fantoccio di scherno, viene irriso, dileggiato, canzonato. Soprattutto uno in particolare, Mario Lombardino, che si sfogò con frasi gravi nei confronti della capitana. Però si sente un'acredine camuffata da sfottò, un astio culturale nascosto dietro piccole ipocrisie. La vita di Lombardino (avrà visto lo spettacolo? Avrà dato il suo consenso ad essere pubblicamente deriso?) viene messa sotto il riflettore di un'indagine al limite dell'ossessione senza alcun imbarazzo: il suo profilo Facebook scandagliato, la figlia, la pizzeria, la separazione, la disoccupazione, lo spostamento a Milano, sbeffeggiandone anche i suoi gusti musicali e disprezzando con ironia tagliente il suo unico svago sull'isola: girare di notte con la macchina.

Ne esce fuori uno scontro tra Davide-Mario e Golia-Borghesi, e la platea sentendosi evidentemente superiore per censo, classe, istruzione, ride di “quella gente là” che “non avrà letto nemmeno la Pimpa”, sicuramente “analfabeta” e “la cosa peggiore è che questa gente vota” e bisognerebbe “togliergli i diritti civili”. Il povero Mario (il confronto è impari e la satira dovrebbe sempre scagliarsi contro i potenti e non contro gli ultimi) viene registrato telefonicamente (qui ha dato il suo assenso verbalmente) e le sue parole immesse nell'agorà teatrale senza contraddittorio né difesa quasi fosse un processo (che comunque non dovrebbero fare né i giornalisti né gli attori). Alla fine però, dopo un'ora di giudizi burleschi con le lame della dialettica (contro le quali Mario non può niente, ce lo dice proprio Borghesi che purtroppo il pizzaiolo non ha potuto studiare), il frontman dei Kepler ci spiega che non dobbiamo giudicare. Due pesi e due misure.
Dovremmo avere più cura degli “Altri” anche se non la pensano come noi. L'importanza dell'I care.

Tommaso Chimenti 04/10/2021

BOLOGNA – Arrivi alle Ariette, dopo Monteveglio in questo spicchio tra Bologna e Modena, passeggi nel bosco, scruti le nuvole, tocchi l'erba, noti il verde e ti sembra impossibile associare la quarantena, o lockdown per i più esterofili, ad un tale stato di grazia, ad una tale apertura, ad un tale respiro. Qui dove tutto è ampio, lontano a perdita d'occhio e non riesci a contenere tutto il panorama con lo sguardo. Nessun senso di chiusura, di costrizione, di clausura, di recinto. Qui la quarantena, in Valsamoggia, la volontaria reclusione rispetto ad altri nostri stessi simili, è una condizione normale, consueta per il contadino che si sveglia all'alba e va a letto al tramonto e che ne ha di cose da fare, consueta per l'attore che prova e scrive e annota pensieri e parole che diventeranno il prossimo spettacolo. Appunto, attori e contadini, le due anime paritarie delle Ariette, gruppo che prende il nome dall'appezzamento, dalla terra sulla quale poggiano le mura del deposito degli attrezzi, trasformato in teatro, della loro abitazione, dei loro piedi e di quelli dei loro animali. Già, gli animali, la parte più vera e onesta, incapaci di fare il male per80191300_3097519597036384_8408984730230381835_o-890x500.jpg il male, più puri e ingenui, gli animali che sono i grandi protagonisti in questa inquieta fiaba noir, ultimo loro progetto che pare proprio scritto dalle loro sapienti mani e che invece arriva dalla penna della scrittrice francese Catherine Zambon, il testo-riflessione “E riapparvero gli animali” letto in uno dei tanti incontri zoom. Una volta letto se ne sono innamorati perché parlava di loro, a loro, e sembrava proprio essere uscito dalle loro dinamiche, dal loro stare in mezzo al mondo grazie al teatro, in mezzo alla natura e alla solitudine grazie all'amore per la natura e tutti gli esseri viventi.

Prima che si accendano le lucine, tra sagra di paese e Festa de L'Unità, a rischiarare la notte e il racconto, si cammina per i campi, per queste dolci colline, una passeggiata che è sempre salutare alla scoperta della fatica del coltivare, dell'impegno e dell'amore che ci vuole, quotidianamente e costantemente, senza pause, per far crescere verdura e frutta, curare e prendersi cura e finalmente essere ricompensati con la fioritura, la germinazione, i frutti. E' tutto un gioco di tensione tra il lavoro dell'uomo e la forza delle cose naturali, le intemperie e tutto quello che l'uomo non può controllare. Passiamo vicini ai pomodori come alle patate, alle zucche e zucchine ma sentire raccontare da Stefano Pasquini, nelle vesti di Cicerone, di coltivazione e arature rende tutto più concreto, tattile e allo stesso tempo poetico e sognante. C'è la fatica ma anche la soddisfazione,download.jpg c'è la gioia ma anche la durezza del lavoro manuale. E ancora un campo di asparagi e un pergolato di nocciole. E ci narra di cinghiali e ghiri, istrici e caprioli che apprezzano (come gli spettatori quando alla fine delle loro piece ci rifocillano sempre con preziose pietanze preparate, cucinate e coltivate dalle e con le loro mani) i loro campi e coltivazioni in un continuo equilibrio, sempre da rimodellare, tra l'uomo e la natura che non è sempre bella bucolica da cartolina ma a tratti è selvaggia e ruspante e rustica e ruvida.

Un inciso doveroso sulla compagnia Teatro delle Ariette: pare scandaloso che nei loro 25 anni di storia (hanno preso il podere nell'89, si sono formati come gruppo teatrale nel '96) non abbiano mai ricevuto o conseguito un premio, né l'Ubu, nemmeno quello “Speciale” (negli ultimi anni lo vincono in cinque ogni edizione), né l'ANCT, né Hystrio, né Rete Critica, né Le Maschere né l'Enriquez, un vero sacrilegio da colmare. Ritornano gli animali negli spettacoli delle Ariette da quel “Bestie” del 2006 visto a Volterra. Attorniati da un tramonto arcaico di nuvole rosa, l'odore forte d'erba medica, un barbagianni impagliato così come una volpe e uno struzzo recuperati in una scuola molti anni fa a fare da contorno.

La riflessione (in scena Paola Berselli) che nasce dalle parole della Zambon è tosta: in un futuro prossimo distopico, altre infezioni e virus si sono propagati soprattutto dagli animali che da allora sono considerati contagiosi, da denunciarne la presenza, fino all'eliminazione. In una sorta di Chernobyl, prima si è distrutta quasi completamente la fauna per poi riorganizzarla con le regole settarie ed asettiche dell'uomo che eliminando gli animali ha perso la sua componente vitale, il suo guizzo, la sua verve. Gli animali concepiti solo come carne da macello. Le persone che avevano abbandonato le città e che vivevano distanziate e lontane le une dalle altre in campagna. Una vita non vita. I randagi tutti abbattuti, sterminati. Non si potevano prendere aerei, né passare da una regione all'altra, né abbracciarsi, bisognava sempre essere rintracciabili e tracciabili. Insomma, il lockdown che abbiamo vissuto ma ancora più estremo e spalmato nel tempo. Questa pulizia radicale (ricorda la “soluzione finale” dei nazisti nei confronti degli ebrei) fa sì che la vita diventi sinonimo di paura, non più gioiosa, nell'abbattimento di qualsiasi forma vivente per timore che possa infettarci, passarci virus.

Quindi da una parte la quarantena, simbolo dei nostri giorni, dall'altra si apre invece il dibattito sulla presa di coscienza personale, al di là di quella civile e collettiva, su che cosa come individuo sia giusto fare, se rispettare alla lettera qualsiasi regola impostaci dall'alto oppure se pensare con la propria testa.E riapparvero gli animali.jpg La protagonista infatti parlando di sé ci dice che lei era silenziosa, stava nella massa silente, accettava senza prendere parte, senza protestare o alzare la voce, cittadina non attiva che si nascondeva dietro e dentro le regole. E qui viene in mente la poesia di Brecht “Prima vennero a prendere gli zingari...”. In questo mondo del futuro gli uomini erano contro le bestie, gli uomini contro gli uomini che volevano salvare gli animali, e infine le bestie si stavano ribellando contro gli umani. L'odio produce sempre frutti avvelenati. Un regime totalitario che vuole vietare, come pretesto la salute pubblica, assemblee, comitati, convegni, cortei, manifestazioni. Una favola metaforica che ci mette con le spalle al muro chiedendoci: “Tu da che parte stai?” e che cosa fai per affermare la tua idea. Un finale terribile e ancora più nero (da Fratelli Grimm) nel quale si evince che gli animali non sono fuori di noi ma sono una componente essenziale della Terra, insieme al mondo vegetale, e che gli uomini sono solo una parte del tutto e nemmeno la più importante.

Quell'uunnamed (2).jpgomo che si prende la briga di decidere (crede di essere Dio), regolamentare le altre forme viventi ad uso e consumo proprio. Gli animali sono la nostra parte più irrazionale e fresca, quella rimasta del fanciullo, della bellezza, del gioco, della vita per la vita e non del cemento e degli appuntamenti, dell'asfalto e delle macchine, dei telefoni e della tv, tutte cose inventate dall'uomo essenzialmente per ritenersi immortale. “E riapparvero gli animali” (tutti i mercoledì di luglio, replica speciale aggiuntiva giovedì 30) apre la discussione sul nostro futuro, sulla paura che ci divide, sulla militanza, sugli animali che sono la gioia vitale senza tutte le sovrastrutture che ci affaticano quotidianamente. L'animale non perde tutto il tempo che lascia per strada l'uomo moderno a preoccuparsi delle inutilità, delle futilità (è l'uomo che ha inventato non a caso l'orologio, per avere l'illusione di poterlo soggiogare dentro quadranti, lancette e agende e calendari) disperdendo il tempo nelle briciole. L'animale vive, mangia e tenta di scappare dai predatori, sentendo dentro di sé ogni attimo che gli scorre sotto pelle, non dando per scontata la vita perché sa che è dura e feroce. E' per questo che, mediamente, vivono meno degli umani, perché ogni secondo è pieno, non annacquato. Se, e quando, l'uomo si autodistruggerà, gli animali certamente torneranno, faranno tranquillamente a meno di noi.

Tommaso Chimenti 13/07/2020

MONTEVEGLIO – Pane, Petrolio e Pasolini, inevitabilmente PPP. Da lì non si scappa, da lì non si può fuggire, da lì tutto nasce, tutto torna, tutto muore, tutto resuscita. Il teatro riesce ad unire l’Emilia e la Romagna e gruppi storici come le Ariette, il pane, la terra, il rurale, e le Albe, Ravenna con le sue raffinerie e le piattaforme, le ciminiere e i suoi fumi velenosi. A ferro di cavallo, nel deposito degli attrezzi, qua tra Bologna e Modena guardando Zocca e la Valsamoggia, dopo le repliche romagnole, siamo immersi in una seduta spiritica, di quelle nelle quali, senza nostalgia, si rievocano fatti e situazioni passate ed andate per capire meglio, spiegarselo, il proprio presente. È un’accettazione di ciò che è stato, senz’acredine, senz’astio, senz’odio. È un incontro tra tempi diversi, che poi il tempo, si sa, non è progressivo ma subisce accelerazioni e frenate brusche, è un elastico che adesso si piega e ora si allunga.pane2.jpg

La cucina è al centro per questo nuovo lavoro, il primo condiviso con un’altra compagnia, o, come in questo caso, con un membro storico di un altro gruppo storico (Luigi Dadina): nella definizione-titolo-didascalia “Pane e Petrolio” c’è tutto, è una fotografia perfetta, non manca niente, è un affresco magnetico e immediatamente riconoscibile e comprensibile. Quaranta persone a replica per questa ennesima cena rituale, questa preghiera laica, questa cerimonia religiosamente atea di condivisione, di passaggi, di scambi. Le tre Ariette più Dadina formano un quadrilatero di racconti che si perdono pane7.jpgnelle loro autobiografie, momenti e parole d’infanzia mentre muovono grembiuli e mattarelli, fornelli e tegami, la sfoglia da tirare e taglieri da riempire, tra pentole che sbuffano fumi profumati e nostalgie tenui che ti viene da stringerti. Non ci si sente soli, non ci si sente persi né perduti. Le biografie dei quattro sono lontanissime e diversissime da quelle di tutti noi ma di fondo c’è un qualcosa che ci unisce: c’è la crescita, c’è un mondo che si rimpicciolisce mentre noi cresciamo prima ed invecchiamo dopo, c’è il cambiamento, c’è il tempo che tutto trafuga, modella, cesella, toglie, morde, mangia, storpia. Stefano ci immerge nella sua visuale di una Bologna stretta tra un vivaio e il cimitero, il padre salumiere e comunista come il nonno, la mamma pia.

Le loro biografie si muovono, scorrazzano e aleggiano in quest’arena rettangolare creata all’interno dei tavoli mentre Pasolini è un leggio fermo e statico al centro assieme ad un’edicola votiva, una Madonna ingenua e fiori rossi. Un’Ave Maria (arriveranno anche Battisti e “Il mondo” di Jimmy Fontana) riecheggia a più riprese scandendo le parti dello spettacolo, i gradini più dolorosi, sottolineando i pane3.jpgpassaggi di consegna. Vedi le Ariette e pensi che sia sempre lo stesso spettacolo, sempre lo stesso format e, in qualche modo, sai già cosa aspettarti. Poi, una volta davanti al loro universo dolce e intenso, ti trovi gentilmente travolto dalle loro parole che parlano di campagna e animali, di genitori e ricordi minimi che qui esplodono e riverberano con i nostri e vanno a braccetto con le nostre vite, trovano rifugio e diritto di cittadinanza e ci estrapolano pezzi nascosti dentro, cose che volevamo seppellire, parti che non volevamo raccontarci né riesumare.
Il loro tirare la pasta (alla fine mangeremo dei tortelli di farina di castagne, triangolari come fanno a Ravenna) è un tirare le fila, un rimettere insieme esperienze e tempi, miscelare tutto in un’unica pasta perché siamo tutti, attori e spettatori, nella stessa pasta, della stessa pasta, facciamo parte indissolubilmente del medesimo magma, ci muoviamo, volenti o nolenti, tutti insieme: nessuno si salva da solo. I gesti sono arcaici, di una bellezza limpida, pura, eterna, pacifica e pacificata, sacri, da contemplare nella giusta lentezza, come quando Stefano e Maurizio spadellano sembrano chierichetti che spargono l’incenso in una navata.

Che cos’è il teatro se non condivisione? Luigi ci apre le porte della sua famiglia fatta di lavoro, di fatica, di sudare. Le donne di casa fumavano e bevevano caffè, il padre operaio-paracadutista; Paola ci spiega di sua madre intenta e occupata nella pulizia della casa e suo padre Tommaso. E ci fanno entrare nei loro meandri più profondi e sinceri mentre tagliano il pane e ognuno si sente a casa propria, tra i propri cari, immerso nei propri sogni. pane5.jpgNel momento dei “dialoghi impossibili” di Luigi con la madre e di Paola con il padre ci sono le parole che non sono riusciti a dirsi (ognuno di noi ha chilometri di dialoghi che avrebbe voluto fare ma che sono rimasti inghiottiti, abortiti nell’esofago, deglutiti tra rabbia e lacrime), tutto il non detto sedimentato e raggrumato che è diventato pietra, mattone, muro. Maurizio ci porta alla sua pompa di benzina, il fratellino morto, lui che diventa “il sopravvissuto”. Tutto è delicato e violento, docile e brusco, mite e brutale. La forma è rasserenata, il contenuto spesso ancestrale, di sopraffazioni e poca giustizia. È stato un ritrovarsi antico e un sempre nuovo abbraccio. È importante il loro lavoro, è paneepetrolio1.jpgimportante che ci siano, è importante essere qua. È sempre un gran bel viaggio su chi siamo, su dove viviamo. Menomale che le Ariette ci sono. Se non li avete mai visti è l’ora di venire a trovarli per trovarvi, se li avete già visti tornare è sempre un nuovo inizio. È una veglia, aspettando l’ombra dell’alba di domani. “Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’avere amato, non l’aver conosciuto”, sta tutto qui.

Tommaso Chimenti 02/11/2019

BOLOGNA - “Per la ragione degli altri” fin dal titolo sembra posizionarsi e schierarsi e portarci sulla strada della morale accertata sociale che fa da muro e spartiacque verso gli atteggiamenti e le scelte personali. E ci fuorvia, ci manda fuori rotta. Perché, nella rivisitazione pirandelliana di Michele Di Giacomo e Riccardo Spagnulo, non si parla di rottura tra l'individuo e la società alla quale appartiene né, tanto meno, di famiglia, deriva e forzatura tra gli anacronismi del Nobel siciliano (ne è passata d'acqua sotto i ponti da quel 1895, anno di pubblicazione del testo) e i contemporanismi abbastanza discutibili. La trasposizione dei due autori (prod. Alchemico Tre e ATER, con il sostegno di ERT, visto in anteprima al Teatro delle Moline bolognese) ricrea un interno con tre televisori e altrettanti personaggi, asciugando il dramma familiare in un triangolo composto dal Marito (lo stesso Di Giacomo, sempre convincente, qui un filo remissivo) la Moglie e l'Amante.Per la ragioni degli altri foto 5.jpg

Molte infelicità messe sul piatto della bilancia, il Marito in grigio, la Moglie in bianco, l'Amante in rosso, rispettivamente l'appiattimento banale, la candidezza, il peccato. Tutto un po' stereotipato. Un matrimonio ormai finito o al limite fortemente compromesso per il tradimento dell'uomo, una Moglie sterile, il Marito che ha avuto, per debolezza più che per passione, per pietà più che per lussuria e appetiti sessuali, una figlia con una donna, l'Amante, che non ha mai amato. Il poveretto (lo salviamo, è travolto dagli eventi senza soluzione al rebus inestricabile) vorrebbe fare il romanziere ma la nascita della figlia, che sente più come una zavorra che come amore, lo costringe a riciclarsi come giornalista per un piccolo giornale di provincia. L'atmosfera è cupa e dannatamente pesante. Servono soldi per pagare casa e vitto all'Amante e alla figlia, la situazione con la Moglie è ai minimi storici.

PER LA RAGIONE DEGLI ALTRI.jpgPiù che altro è il dramma personale dell'Uomo contemporaneo, schiacciato, compresso tra più pulsioni e non in grado di soddisfare, soprattutto, le aspettative delle donne al suo fianco, non tanto per flebilità di polso e carattere, quanto per le condizioni che, al netto di insoddisfazione personale, precariato e post adolescenza diffusa e perpetrata, gli remano contro e lo naufragheggiano. Chiedersi, dopo questo spettacolo, che cos'è la famiglia, è fuori luogo. Non è la domanda giusta. Come portano su terreni impervi e scoscesi, soprattutto politicamente, le interviste (sembrano quelle pasoliniane sull'Amore) che ruotano attorno al concetto di Famiglia che sembrano essere state messe per confermare o consolidare la tesi conclusiva della piece (la deviazione Genitore 1 e Genitore 2?).

Se il testo ultracentenario pirandelliano non poteva, per i tempi nel quale è stato dato alla luce, tener conto della legge sull'aborto (alla quale poteva affidarsi l'Amante in altri momenti storici), sulla legge sul divorzio (della quale poteva approfittare la Moglie), dell'inseminazione artificiale (sempre la Moglie), dell'adozione (sempre la Moglie), del femminismo post anni '70 con un'altra consapevolezza e indipendenza, soprattutto economico-lavorativa, trovarcelo oggi come un emblema e un baluardo a favore delle coppie di fatto, delle unioni civili, dei matrimoni tra esponenti dello stesso sesso sembra quantomeno, come anticipato poc'anzi, forzato e tirato per i capelli. Non si avverte oggi tutto questo giudizio sociale “degli altri” in queste nostre attuali metropoli d'asfalto e indifferenza dove la morale, a volte purtroppo altre per fortuna, è una parola svuotata dai suoi significati. Qui forse, oltre al dramma del maschio contemporaneo, si sottolinea il potere, ovvero la possibilità di poter arrivare a soddisfare i propri bisogni attraverso il mercimonio: la Moglie infatti alla fine “comprerà” la bambina (che qui tutti trattano come una cosa da spostare e un oggetto sul quale far leva) che il marito ha avuto con l'Amante per ricreare quella Famiglia che non avevano potuto avere, causa la Natura matrigna.

Tutti e tre i personaggi sono perdonabili, sembrano con le spalle al muro, senza una reale scelta se non quella che alla fine prenderanno, senza vincitori né vinti. L'errore, la bambina, la pietra delloPer la ragione degli altri foto 1.jpg scandalo che non si può più nascondere, è l'ingranaggio che fa inceppare tutto il meccanismo borghese, il sistema di convenzioni (quale è inevitabilmente la Famiglia) ed è lo squilibrio che, paradossalmente, riaccende la miccia dell'unione, rinsaldando la Vera famiglia, i coniugi, e allontanando la scheggia impazzita, l'Amante, che aveva solo portato scompiglio e sconquasso nel loro menage. Interessante, ma non reale, Per la ragione degli altri foto 2.jpginvece la scelta registica di affidare il ruolo dell'Amante all'attrice meno avvenente e più matura delle due, uscendo così dallo stereotipo (ma confortato dalla pratica dell'oggi) dell'Amante che va a rimpiazzare la moglie anziana. Qui invece la Moglie sembra avere tutte le caratteristiche positive, bellezza, giovinezza, innamorata e soldi, mentre all'Amante non rimane che la miseria. Nello scontro-confronto il vincitore salta agli occhi dalla fase primordiale nell'impari lotta. Manca qualcosa, un gusto, un sapore, una ventata, una spolverata di realtà.

Tommaso Chimenti 27/12/2018

BORGOTARO - “Che preferisci rimanere qua nella provincia denuclearizzata a sei chilometri di curve dalla vita”, cantava qualche anno fa in “Coccodrilli” il Bersani cantante. Qui invece siamo a dodici chilometri dalla civiltà, da Borgotaro, immersi nel bosco, tra La Spezia e Parma, in quel cuneo che fa intersezione tra Toscana, Emilia e Liguria. Lassù sorge Granara o meglio il Villaggio Ecologico, un pugno di case in pietra e legno rimesse a posto da un gruppo di pionieri, per lo più milanesi, che cercavano all'inizio degli anni '90 un terreno vergine all'aria aperta, in campagna, in una zona incontaminata per vivere, abitare per lunghi periodi, staccare dalla città, dalla metropoli d'asfalto, smog e cemento. Qui, a fianco delle numerose attività che costellano l'esperienza di Granara (tutti fannogranara1.jpg tutto, tutti si prestano, fanno volontariato, aiutano, collaborano), è nato sedici anni fa anche un festival di teatro con laboratori annessi. Non è la classica rassegna estiva mordi e fuggi, qui si sposa l'idea di fondo, la condivisione, l'unione, la vicinanza a certe idee. Spuntano le prime trecce rasta, il falò a chiudere le serate, la colazione, il pranzo e la cena tutti insieme, i tanti bambini che giocano scalzi e polverosi e fuligginosi e dickensiani ma felici e sorridenti. Non può mancare il campo da calcio, le tende posizionate nel grande pratone pasoliniano, il tendone da circo bianco e rosso e l'insegna che la notte s'illumina.

Il villaggio è autosufficiente, c'è addirittura un biolago, una sorta di piscina, più a valle il Taro forma delle conche, delle grandi pozze dove potersi rinfrescare. Infinite farfalle bianche a perdita d'occhio svolazzano. Ad una prima occhiata potremmo definire gli strani abitanti di questa comunità “figli dei fiori” o hippie. Le cicale nel pomeriggio ammazzano qualsiasi forma dialettica umana. L'inquinamento luminoso qui non ha cittadinanza. Senza scarpe comode (meglio se hai le Birkenstock) e una torcia sei un uomo perduto, e soprattutto perso. Le querce segnano la via, il cibo è strettamente vegetariano, mentre l'acqua gassata è stata bandita. Luoghi da elfi e streghe, da lupi e fate. Dopo svariati tornanti sullo sterrato, da lasciarci la coppa dell'olio, si arriva ad un dosso dal quale si ha la panoramica del campo verde (dove nascono speranze) con lo chapiteau sul fondale di questa fotografia che riempie le retine. Granara è un'utopia che si è fatta realtà, un manipolo di persone che è cresciuto numericamente e che adesso è consolidato.

granara2.jpgIl titolo di quest'anno (dal 30 luglio al 5 agosto) è “Esposti”. Interessanti, per differenti motivi, le due pièce che siamo riusciti ad intercettare. Da una parte “Todi is a small town in the centre of Italy” di Liv Ferracchiati, lavoro ospitato anche nella scorsa Biennale Teatro, che discute e ragiona, con l'abusato metodo delle interviste a comuni cittadini per sostenere la tesi fondante del pezzo, sulla provincia, sulla grettezza del provincialismo, sul borghesume delle nostre città d'arte. Si parte dalla tesi, è palpabile, concreta, tangibile, che Todi, ma potremmo sostituire la cittadina umbra con un altro splendido paese del Belpaese, sia chiusa, bigotta, curiosa, morbosa, intellettualmente arida, culturalmente bassa, rimasta ancorata alle sue bellezze del territorio senza essersi evoluta. Esterofilia pura che, con l'andare avanti dello spettacolo, mira a picconare alla base la tradizione in nome di un'imprecisata libertà di costumi. I quattro performer, su un fondale bianco come fossero gli inquisiti de I Soliti Sospetti, raccontano la loro normalità noiosa, squallida e monotona mentre in video passano interviste a passanti che si dichiarano soddisfatti, che non abiterebbero mai da nessun'altra parte del mondo, che Todi sia unica, insostituibile, affascinante, a misura d'uomo, perfetta per le loro scarpe. E invece che cosa si vuole dimostrare? Che questa sia la patina, la carta velina mentre sotto cova il dissenso o almeno si vuol far credere che gli abitanti della città (ma è termine di paragone e metafora per l'Italia intera), a proposito si chiamano “tuderti”, siano vagamente ignoranti, che non riescano a vedere oltre la punta del proprio naso, che soprattutto si accontentino. E' il classico gioco al massacro, il vedere l'erba del vicino sempre più verde, abbattendo qualsiasi patriottismo e campanilismo, volendo che sia la globalizzazione a pareggiare le differenze e uniformare le città e i suoi abitanti. Il fatto che “tutti si conoscono” è qui visto come un punto sfavorevole e deleterio mentre viene lodatagranara3.jpg l'indifferenza delle grandi metropoli dove il silenzio e la solitudine inglobano tutto e tutti. Todi, ma ripeto l'Italia cattolica e tradizionalista, viene tacciata di pesantezza e arretratezza chiosando con “Se fosse disabitata sarebbe un Paradiso”. Un brutto affresco italico.

Originale lo spunto che è scaturito dalla penna di Emanuele Aldrovandi, che si è solidificato nella regia di Serena Sinigaglia e ha trovato la carne di Maria Pilar Perez Aspa, del quale già vedemmo un soddisfacente estratto in occasione del “Next” del novembre scorso. Un flusso di coscienza joyciano senza filtri, senza limiti, di quest'attrice, “Isabel Green” che dà il titolo alla drammaturgia, che finalmente riesce nel sogno massimo di ogni attore: vincere l'ambito Oscar, la statuetta magica dorata che ti impone nell'Olimpo delle star. E' un doppio filo, un doppio binario, da una parte la realtà, con i ringraziamenti, dall'altra i pensieri, i dubbi, le amnesie, le titubanze non più dell'attrice ma della donna, della granara4.jpgpersona Isabel. Escono fuori le debolezze, le apparenze perfette che nascondono crepe, i rapporti non idilliaci con il figlio, le dipendenze da pillole per essere sempre perfetta e sorridente, diva irraggiungibile tra un impegno e l'altro, macchina da soldi senza tempo libero, senza interessi, senza sapere in definitiva chi è veramente. Proprio il momento che dovrebbe essere di massima felicità ed emozione è quel crack che rompe gli argini, è la goccia che fa venir giù la diga eretti in anni di duro addestramento al successo, quel successo che ti mangia, che si divora la persona in nome del personaggio pubblico. Ha le visioni e le allucinazioni e vede la se stessa piccola che sognava quella carriera, quel finale. Adesso lì sopra a quel palco è sola con le proprie paure, asserragliata e assediata su quest'isoletta deserta, immobilizzata, paralizzata dalla consapevolezza che tutto quello che aveva inseguito era finto, falso, un cartonato, una parvenza da dare in pasto ai fotografi, ai fan. La Perez Aspa dosa e calibra l'ironia con il dramma feroce, la simpatia depressa con una tristezza esistenziale profonda e atroce senza commiserazione, senza facili miserie fino al soliloquio finale, tutto interiore, confessione fatale contro gli obbiettivi da raggiungere, gli standard da rispettare, le etichette da soddisfare, i tempi assassini imposti dal tritacarne del produci, consuma, crepa, contro il consumismo del tempo, contro la ricerca del successo sociale ad ogni costo barattando la felicità con il denaro o il potere: “Siate sazi, non siate folli” ci urla, ci tocca: “Come ho fatto ad odiare così tanto la cosa che amavo di più?”. Un monito, un insegnamento a misura di Granara. Si viene qua perché i piccoli sogni diventino veri, reali, ecosostenibili, soprattutto non materiali. I sogni materiali si sciupano e non ne resta che l'amaro.

Tommaso Chimenti

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