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MILANO – “Riferiscono le cronache che quando è giunta in tribunale la notizia dell'assassinio di Walter Tobagi, il brigatista Corrado Alunni l'ha accolta con una sghignazzata di tripudio. Abbiamo sempre combattuto la pena di morte sul presupposto che l'uomo non ha il diritto di uccidere l'uomo. Il presupposto lo confermiamo. Ciò di cui cominciamo a dubitare è che gli Alunni e quelli come lui siano uomini. Sui cadaveri sghignazzano le iene” (Indro Montanelli).LIFE 17.jpg

Sono passati cinquant'anni dai cosiddetti “anni di piombo”, dalle stagioni del terrorismo che hanno infangato e impaurito l'Italia, ma è ancora difficile parlarne, complicato non giudicare, non schierarsi, impossibile rimanere, per chi li ha vissuti, impassibile e neutrale. Li abbiamo voluti rimuovere con l'euforia degli anni '80, la musica dance, gli elettrodomestici presi a rate del boom economico, i Campionati del Mondo di Pertini. Non ci siamo riusciti. I '70 stanno ancora lì imperterriti, impettiti, ognuno con le sue ragioni mentre il mondo intorno è cambiato, rivoltato, mutato, sventrato e quelle teorie e dogmi ci sembrano oggi così assurdi, così lontani, così distanti da poter essere capiti fino in fondo. Che cosa spingeva un giovane universitario a seguire l'influsso dei Cattivi Maestri, cosa portava un operaio ad abbracciare la lotta armata? Prendere una pistola e fare occhio per occhio, dente per dente?

E' per questo che l'operazione di Emiliano Brioschi (suoi testo e regia) risulta complessa e sfaccettata, dinamica e senza soluzioni: “Life”, un titolo di speranza, positivo, vita, una parola che sembra rifulgere, splendere, un termine che si getta a capofitto nel futuro. Invece, simbolicamente e ossimoricamente e paradossalmente, la sua scrittura parla costantemente di morte mettendo di fronte (anzi di lato senza mai guardarsi o sfiorarsi né toccarsi, storie parallele che non si incontreranno nemmeno all'infinito), a confronto il carcere di Ulrike Meinhof (interpretata da Cinzia Spanò, sempre dentro le parole), terrorista tedesca, con la prigionia di Roberto Peci, giustiziato dalle Brigate Rosse dopo 54 giorni (come Aldo Moro, raLIFE 2.jpgccontato così bene da Daniele Timpano in “Aldo Morto”) di processo proletario illegittimo. Il campo è e resta scivoloso.

Un lavoro raffinato e diretto, schietto, che non cade mai nel banale, che non cede al sentimentalismo, duro in molti passaggi, violento, essenziale. Un lavoro nato dentro i giorni del lockdown: è proprio questo il tema che fa da sfondo a quegli anni, a quelle tensioni. La segregazione, la costrizione fisica, la prima (morta suicida nel '79) per mano dello Stato tedesco dopo aver perpetrato omicidi e altri reati gravi, il secondo, innocente, ucciso (nell'81 dalle BR) solo perché fratello del brigatista pentito Patrizio. Già nel mettere in parallelo queste due storie Brioschi ha dimostrato coraggio artistico, riabilitando la figura di Peci che per molti decenni è stato considerato un terrorista senza avere invece alcuna colpa, e dall'altro umanizzando (troppo) la figura della Meinhof che tribunali e leggi tedesche stavano facendo marcire in galera. Ecco è in questa parte, la più corposa mentre Peci-Brioschi rimane incappucciato e silente (parla per lui un video rimontato uguale alle riprese che le BR effettuarono processandolo), che abbiamo sentito uno stridore quasi di apologia non tanto delle gesta criminose quanto degli ideali professati e una critica forte, decisa, netta, energica allo Stato “fascista” che chiude, segrega, umilia, schiavizza, priva i cittadini anche se colpevoli. “Il riciclaggio presuppone che il danaro provenga dal delitto. E' sporco per la sua provenienza. Nel terrorismo è sporco per la sua finalità” (Pierluigi Vigna, magistrato).

Frasi come “Il suicido è l'ultimo atto di ribellione”, “Appropriatevi di ciò che vi è negato”, “Bisogna incendiare tutto”, “Intaccare la società dei consumi, distruggere i centri commerciali” non creano nessuna empatia per il personaggio e certamente non ce l'ha umanizzata. “Poliziotti e agenti in divisa sono bestie” e ancora “Il male è il prezzo della libertà” fanno sobbalzare sulla poltroncina dell'Elfo milanese, fanno alzare le difese, fanno sobbollire di rabbia. Questi invasati e fanatici, questi folli razionali, deviati, imbevuti e radicalizzati hanno sparso odio e morte e se decidi coscientemente e consapevolmente di fare del male lo Stato, ovvero le regole condivise di un popolo e di una Nazione, ha il potere di toglierti i diritti personali. Se Peci è tratteggiato come un innocente schiacciato negli ingranaggi di un gioco molto più grande del singolo, per quanto riguarda la Meinhof si sente un minimo, non di giustificazione, ma almeno di comprensione, di vicinanza se non di ammirazione per la fierezza e la forza, l'abnegazione e la barra sempre dritta senza piegarsi, senza pentirsi. Sono l'uno la faccia doppia di quegli anni quando qualcuno si arrogava il diritto di essere giudice super partes o di perseguire la violenza sociale e la guerriglia civile per il bene del Popolo senza che quest'ultimo fosse stato messo al corrente, senza che avesse avuto modo di esprimere le proprie idee, personaggi che si erano autoproclamati, autoesaltati, autoinneggiati.LIFE 18.jpgIl terrorismo prosperò grazie a chi diceva: compagni che sbagliano” (Gianni Oliva, storico).

Un testo (e una tesi di fondo) e una messinscena dolorosi e rigorosi quelli di Brioschi, intellettuale prestato al teatro, che crea discussione e divisioni, che fa nascere il dibattito, che ci riporta dentro quei fatti sui quali abbiamo operato rimozioni psicologiche salvifiche. Soffriamo, anche fisicamente, per il cappuccio nero asfissiante, e respiriamo a fatica con lui sperando nel perdono che sappiamo con certezza che non arriverà. Spanò e Brioschi sono credibili e le storie che riportano in superficie sono importanti da strappare all'oblio. Il terrorismo è stata una pagina fosca e buia di persone che giocavano a fare la guerra sulle spalle delle vite della gente comune, perpetrando una lotta destinata inevitabilmente alla sconfitta. Forse LIFE 25.jpgerano soltanto ambiziosi di potere, riempiendosi la bocca di slogan come “Potere al popolo” quando del popolo non avevano una grande opinione (patriarcalmente lo volevano istruire e instradare), volevano soltanto arbitrariamente, e non come avviene in un processo democratico, sostituirsi al potere costituito: “Volevamo che il popolo ci seguisse, poi ci siamo voltati e non c'era nessuno dietro di noi”. “Uccisi perché? Per il sogno di un gruppo di esaltati che giocavano a fare la rivoluzione, si illudevano d'essere spiriti eletti, anime belle votate a una nobile utopia senza rendersi conto che i veri “figli del popolo”, come li chiamava Pasolini, stavano dall'altra parte, erano i bersagli della loro stupida follia” (Mario Calabresi).

Se parliamo dell'estrema sinistra, sui 4.000 inquisiti (1.300 solo nelle BR) per reati collegati a gruppi terroristi italiani, sono in carcere soltanto ventuno reduci degli anni di piombo, undici irriducibili con l'ergastolo ma che non hanno mai chiesto la possibilità d'uscire, che dopo ventisei anni consecutivi di detenzione sarebbe stata concessa. La maggior parte è stata scarcerata e adesso sono liberi, molti sono diventati scrittori o opinionisti politici chiamati da giornali o tv compiacenti. Ma davvero ne valeva la pena? Da far vedere agli studenti delle scuole. “Chiedere perdono richiede più coraggio che sparare, che azionare una bomba. Quelle sono cose che possono fare tutti. Basta essere giovane, ingenuo e avere il sangue caldo” (Fernando Aramburu, scrittore basco).

Tommaso Chimenti  22/06/2021

MILANO – “Il padre di oggi non sa dire qual è il senso ultimo della vita ma è capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso”. (Massimo Recalcati)

La famiglia è allo sfascio, le derive del femminismo hanno creato danni irreparabili ad un'istituzione già agonizzante ma della quale adesso se ne sente la mancanza, battuta fin dalle fondamenta e adesso colata a picco come un colosso dai piedi d'argilla. Ad essere messo in discussione è tutto l'impianto sul quale si basa la nostra società occidentale. Se mater certa est, non si può dire per il padre, l'uomo. Anzi adesso per venire al mondo, o per creare un nucleo familiare, la figura maschile non serve neanche. Prendiamo la maternità surrogata. Il padre diventa così, sempre più, mero strumento00xy sorpassato però dalla tecnologia e dagli studi scientifici. Il padre è stato retrocesso a spermatozoo prima, a fornitore di alimenti poi. Il padre si sente così, dopo la nascita del figlio, di troppo, di peso a questa nuova coppia formatasi, madre-figlio, in un triangolo pericoloso dove lui raffigura il lato debole, l'angolo minoritario. Si va a perdere la carica e la spinta paternalista, quella cioè del rifiuto, dei no (da contravvenire), dell'autorità con la quale confrontarsi e scontrarsi. Il padre diventa così un soprammobile, da sostituire, con poca voce in capitolo, estromissibile, emarginabile, fa arredamento finché può. Se però il padre non dà regole ai figli per non contraddirli (i genitori danno ragione ai figli anche nei casi di scontro con altri tipi di autorità, vedi i professori) quando sono in famiglia, e successivamente, se la coppia si sfascia, vengono rimpiazzati da un altro uomo che non potrà dare regole ferme e salde a figli non suoi.

Il tema è complesso perché negli ultimi anni si è sempre e solo guardato l'argomento dal punto di vista delle madri-mogli con il padre che, visto che “non partorisce con dolore”, ha meno appigli sui quali dibattere, meno punti a suo favore. Sembra che essere uomo e padre sia più una condanna, una condizione di serie b, rispetto alla madre che ti ha messo al mondo, nel sangue, che ti ha passato il cibo attraverso il cordone ombelicale, che ti ha fatto sentire, e per nove mesi, il respiro, la sua voce e il battito del cuore. L'uomo resterà sempre indietro di quei nove 000xymesi e la forbice si allargherà con il tempo, dall'allattamento in avanti, soprattutto nell'età infantile. Però non gli si può fare una colpa a questo pover'uomo, dimesso e dimenticato, di non poter procreare con il proprio utero mancante. Dopo Dio, è morto anche il Padre.

Detto questo, formulate le nostre ipotesi e ragionamenti ci viene in soccorso una bella e intensa operazione, meglio progetto, coordinato dal regista e attore monologante in scena Emiliano Brioschi, che ha ideato questo “XY” commissionando a tre talenti della nostra scrittura drammaturgica tre brevi testi, componendoli sul palco con potenza, sulla figura del padre e sulla paternità. XY sono appunto i cromosomi del maschio, mentre XX quelli della madre. I tre nomi sono Renata Ciaravino (milanese, della Bovisa ci tiene a specificare, abbiamo assistito qualche anno fa al suo edificante “Potevo essere io” con Arianna Scommegna), Giuseppe Massa (palermitano, corroboranti “Sutta scupa”, “Chi ha paura delle badanti?”) e Cristian Ceresoli (autore del noto “La Merda” che spopola da anni). Tre scritture differenti, tre pigli, tre affondi, tre angolature, tre visioni per un mosaico disperato e poco speranzoso, drammatico e ironico a tratti, dove si tocca con mano il terreno scivoloso e lo sconsolato tentativo di questi uomini di un riconoscimento sociale, di un ruolo, schiacciati all'ombra delle madri, in un angolo, quasi in castigo, come se dovessero scontare secoli o millenni di patriarcato. Brioschi dà voce e corpo alle tre istanze, è trasformista e densamente rock, un vero e proprio leader, front man viscerale e profondo, un uomo sdrucito messo alle strette, spalle al muro senza tanto orizzonte davanti da poter osservare. Tre testi autonomi ma cuciti osmoticamente tra ombrelli da set fotografico e manichini (e con uno straordinario uso delle luci a cementare, di Claudine Castay) con abilità ed empatia in un affresco che dipinge l'uomo, il maschio alfa, il padre come naufrago in un sistema che cambia troppo velocemente e con il quale, contro il quale non sa prendere le giuste contromisure lasciandosi travolgere. Ulisse non esiste più ma in giro ci sono tanti Telemaco alla ricerca disperata di questa figura che si è voluto, scientificamente e politicamente, abbattere, eliminare, mettere in cantina e data per superata, obsoleta.002

In “Buddy Love” della Ciaravino, il figlio è visto come la zavorra ai sogni di quest'uomo, stanco, disilluso, sfibrato, insoddisfatto, il figlio come scudo e alibi da una parte, come problema, incaglio alla felicità dall'altro, limite invalicabile, muro che non permette di raggiungere i propri desideri, la propria affermazione. Buddy è un tastierista e il bambino (in tutti e tre il bimbo-figlio non ha voce, è silente ma è come se ogni suo respiro s'amplificasse assordante, despota nelle scelte di questi due adulti che “tiene in ostaggio” nella sua dittatura naturale che tutto vuole e tutto prosciuga) dorme dietro in macchina che, come in un road movie, nella grande avventura della vita, accompagna il padre, evidentemente contro la sua volontà, come bagaglio pesante che rallenta e fa inciampare. Non è colpa del figlio, non è colpa del padre. Si sentono, quasi si potrebbe mordere da quanto è spessa questa coltre, devastazione e abbattimento, depressione e sconforto, dell'essere triturati in un sistema senza più vie di fuga, senza più scappatoie o uscite: cane alla catena. Una volta che si è padri lo si è per sempre. E molti non sono pronti, e non è un fatto di essere responsabili o essere adolescenziali o essere afflitti dalla Sindrome di Peter Pan, e non lo saranno mai. Forse anche poco aiutati dalle donne al loro fianco o dalle avversità sociali, in primis la carenza di lavoro e il precariato, che certamente non aiutano la serenità. La Ciaravino ha il grande dono di un'ironia secca che ti culla fino al cambio di registro che ti coglie sempre impreparato e intontito, perché ridi e dopo averlo fatto ti trovi a vergognarti dell'aver sorriso in una sorta di continuo senso di colpa. Questo padre è, come tutti noi, un uomo medio, un gregario, uno sparring partner, certamente non un supereroe e come tale si muove tra mille difficoltà, sentendosi sempre in difetto, sempre in deficit e per questo si lacera dentro e muore sempre un po' di più perdendo autostima e quella del figlio che in lui non riesce a vedere un esempio da seguire ma solo un uomo che non ha avuto il coraggio di prendere la vita per le corna, un rammollito pieno di rimpianti che ha messo i sogni in una discarica, morendo ogni giorno di più tra la periferia frustrata dell'anima e il provincialismo del cuore.

003Nell'avvolgente “Valentina” di Massa è il gran snocciolamento di nomi (per il futuro nascituro) a farci cadere nella cantilena, in quella patina di allegria e spensieratezza pre-parto che coglie tutte le coppie in attesa. Man mano che si scivola nel testo ci si rende conto che c'è un'unica voce a dichiarare, a sentenziare nella sua finta felicità, a spiegare e articolare. E' la voce della madre; il padre, trattato alla stregua di un inseminatore, è un qualcosa che deve solo asserire e acconsentire, il suo silenzio è preso per assenso e non per perplessità o dubbio. A lui viene chiesto di fare la sua parte primordiale, quella primitiva e di essere, anche, contento e felice. Ma nessuno chiede mai ai padri se sia arrivato il loro momento biologico, se sia scattato il loro tic tac interiore. Quando questo padre mangia, divora letteralmente avidamente quasi fagocitandola animalescamente, un'arancia, con il succo che esplode e si spande, sembra di vedere una bocca di bestia che dilania una pancia di mamma, estinguendola. Ci sono donne che arrivano alla gravidanza per riempire dei vuoti esistenziali mentre l'uomo pare implodere come schiacciato da questa nuova vita che lo annienta, lo soffoca.

Altamente angosciante è il terzo (ma non ci sono stacchi violenti, è un continuum che scivola senza fratture), “La pratica del dolore” di Ceresoli, che vira (troppo) allo splatter e al crime, con un medico che ha perso il figlio e che, per rivalsa e vendetta, pratica e induce aborti non richiesti a pazienti in visita di controllo provocando lo stesso dolore da lui provato. “Se un figlio senza padre si chiama orfano, come si chiama un padre che non ha più il figlio”?004

Una donna non potrà mai assorbire in sé la figura femminile e quella maschile, la femmina e il maschio, la madre e il padre. La biologia e millenni di evoluzione stanno lì a certificarlo. Il padre è utile e fondamentale prima nel concepimento e durante tutta la crescita del nuovo individuo. Brioschi è un fuoco adrenalinico in un corpo a corpo con il pubblico, è completo, convinto e convincente nel tratteggiare quest'umanità colma di debolezze, incerta, indecisa, frammentata, senza aiuti, nel disegnare questi padri abbandonati a se stessi, alle loro miserie quotidiane. Una bella intenzione originale, tre penne attente, un attore solido per un tema tutto da scartavetrare. Senza paure, senza buonismi.

“La funzione simbolica del padre è appunto nell’unire il desiderio alla Legge attraverso un processo di conciliazione. Questa unione avviene non solamente attraverso la coercizione autoritaria, ma soprattutto offrendo una sponda al desiderio debordante. Il compito del padre è trasmettere il desiderio da una generazione all'altra, è permettere l'eredità”. (Massimo Recalcati)

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