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BOLOGNA – “La cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili” (William Burroughs).

“La vita è come andare in bicicletta. Per mantenere l'equilibrio devi muoverti” (Albert Einstein).

Il rumore delle ruote che scivolano sui cilindri, rimanendo in perfetto equilibrio dinamico, è il metronomo che fa rima con il battito del cuore, sono le virgole a questo flusso di coscienza che non conoscearrigazzi pause, è il misuratore di fatica e sudore che scansiona l'aria, che rimette in circolo endorfine, è la cadenza dei passi sempre più affrettati dentro il bosco della nostra esistenza, dentro la conoscenza di noi stessi. “Tempi maturi” (prod. Casa degli Alfieri, visto al Teatro delle Moline dell'Ert Fondazione a Bologna) ha una grande scrittura alle spalle e un grande interprete sul palco. Palcoscenico in questo caso è un eufemismo: Emanuele Arrigazzi, ottimo attore (qui performer per un'ora di pedalata sostenuta senza flessioni né cedimenti), è stato anche un buon ciclista dilettante, le sue gambe tradiscono questa sua prima passione, il quadricipite e il vasto mediale non mentono, gonfi, pompano, spingono senza sosta verso un traguardo che si sposta sempre un po' più in là, ad ogni passo.

E' una corsa contro se stessi quella di Arrigazzi (corpose e piene le ombre create sul muro che sembrano altri sé che corrono al suo fianco, superandosi; le luci sono di Fabrizio Visconti) nei panni di un attore-ciclista che ha affrontato la vita per vincerla, per batterla, per combatterla, ma in fondo, e lui lo sa, non ha spinto fino al limite, non ha raschiato il barile, poteva dare di più e l'insoddisfazione, la frustrazione, il malessere deriva anche da questo, da quel quasi, dai tanti forse, dalla mancanza di decisione nei momenti che contavano come uno sprinter in volata sul traguardo.

arrigazzi2Come ne “La Maratona di NY” di Edoardo Erba, dove lì i due protagonisti corrono su un tapis roulant, come ne “Le regola del giuoco del tennis” di Mario Gelardi lo sport è il sottofondo, è l'azione mantra che mordicchia senza essere protagonista, è contesto e pretesto, cornice dentro la quale muoversi in gesti ripetitivi che creano un tappeto dentro il quale accordarsi, accomodarsi scomodi, movimenti che ritornano, che incantano, che trattengono.

La bicicletta qui (grande lo sforzo fisico e la precisione, la dedizione e l'impegno di Arrigazzi) è sia compagno che aguzzino, sia confidente che avvoltoio, amico e sanguisuga che gli toglie le energie migliori. La bicicletta ha l'unica catena che ti rende libero. E' uno spettacolo non tanto sul ciclismo, nemmeno sullo sport, ma è un monologo sulla necessità di fare fatica, fatica come azione quotidiana per ripulirsi dai pensieri, fatica dosata per reggere meglio l'urto con l'oggi, fatica per essere più forti e più stanchi, più pronti e più tenaci. Ipnotizzano i raggi delle ruote che corrono come scorre il tempo sulle nostre rughe. Che poi i tempi non sono mai maturi oppure lo sono quando noi decidiamo di mettere un punto e cominciare a far sì che lo siano realmente invece di trascinarci tra mancate aspirazioni, cocenti delusioni, ambizioni fallite, chili di alibi, sensi di colpa senza prendersi le giuste responsabilità. Siamo noi stessi i primi grandi nostri nemici, ci freniamo, ci mettiamo i bastoni tra le ruote (appunto), ci fermiamo, ci facciamo paura.

“Tempi maturi” ci parla del cambiamento (dall'essere figlio a mettere al mondo un figlio, ad esempio), dei momenti di passaggio che vanno colti come papaveri di campo, di quegli attimi che è importantearrigazzi3 segnalare e selezionare, sottolineare e salvare nella nostra memoria, di tutti quegli scarti dove si percepisce chiaramente che gli ingranaggi hanno scattato all'unisono, di tutti quei crack che dentro di noi prima ci rompono per ricomporci più consapevoli. Ed il testo (scritto con abilità e cura, scelta delle parole e attenzione da Allegra de Mandato) è maschile e mascolino, muscolare e diretto che pare vergato da un uomo e allo stesso tempo presenta quella sensibilità delle cose perdute, dei margini sfuggiti, della non messa a fuoco, dell'impossibilità, della manchevolezza.

Mentre il protagonista corre, ininterrottamente in questo equilibrio precario, nel flusso del racconto di Arrigazzi (attore di razza, sempre concentrato e coriaceo ma anche permeabile alle emozioni che passano dalle parole sudate alle ruote e da queste al nostro ascolto sempre più partecipato: siamo tutti in bici con lui, tifiamo per lui, il nostro antieroe) si inseriscono dei piccoli sottocapitoli, capoversi illuminanti dove è percepibile il cambio di registro, la crescita dell'uomo anche grazie alle sconfitte, sempre mal digerite, alle cadute, mai accettate, ai lutti: si passa dai “Tempi Felici” di un passato recente, e ci sovvengono i giorni di Beckett, che diventano “Tempi Duri”, ci si impantana nei “Tempi Fermi” si arrigazzi4crede che i “Tempi stanno per cambiare”, si passa dagli agognati “Tempi di Guadagni” ai “Tempi Superficiali”, si incrociano i “Tempi d'attesa” pensando che siano ancora “Tempi Acerbi”, ed ancora i “Tempi Difficili” che lasciano il posto ai “Tempi di Confusione”, fin quando, finalmente, i “Tempi sono Maturi”. In questa grande galoppata, in questa cavalcata su quest'asfalto virtuale, passando dal lavoro dell'attore, gli amori leggeri, le piccole grandi prove che la vita ci pone davanti, la bicicletta (potremmo sostituirla con lo sport, la fatica, che è comunque prendersi cura, volersi bene, non lasciarsi scivolare nel torpore dell'oblio, dell'indifferenza) c'è sempre, come confronto con gli altri, termine di paragone, droga sana, palliativo, esigenza, tormento, necessità. Lo sport ti dice chi sei e a che punto sei, ti dice che se hai fatto molto non hai ancora fatto niente perché domani si ricomincia, ti dice che se molli non perdi contro gli altri ma perdi il rispetto di te stesso, ti dice che vincere o perdere vale ma vale di più dare tutto e sentirsi beatamente stanco e soddisfatto perché hai fatto il massimo. “Tempi maturi” è una dose di coraggio, è una spinta a non abbattersi, è un incentivo a pedalare anche quando non ce la fai più, anche quando, soprattutto, la salita si fa più ripida. I tempi sono maturi per vincersi, per battersi, per respirare: commovente.

Tommaso Chimenti 13/02/2019

LASTRA A SIGNA – Ci sono spettacoli che vanno a rompere degli equilibri. Come l'eschimese che provoca la crepa rotonda sul pack. Sotto la buccia ancora c'è qualcosa che si muove, veloce come un salmone, scaltro come una faina, zigzagante come rally. Sotto il parafulmine di una storia da raccontare e di un attore su di un palco rialzato si può ancora riuscire a sentire, a scavare, lasciandosi cullare, spigolosamente, in un'armonia scomoda dentro l'orgasmo dialettico sparato alto, potente e fragoroso. Come il frontman punk con la pistola in pugno in “Sid e Nancy” mentre una “My way” smodata, distorta e sguaiata snocciola e gocciola nelle casse gracchianti. E la lingua che fa risuonare Emanuele Arrigazzi, sulla partitura stilistica e alta penna di Tiziano Scarpa (Einaudi, 2005), è un guanto che si appoggia adamitico al suo corpo ballerino. Un gramelot che ci riporta il gusto della sagra e della festa sconclusionata e dalle groppicoprisa grasse di vino rosso, zero impomatature, tanti sorrisi sdentati.
Tra un cilindro e il cialtronesco “Groppi d'amore nella scuraglia” (visto al Teatro delle Arti di Lastra a Signa) scende giù nell'ugola frizzante, ricordando certe pellicole, e soprattutto certi personaggi, a metà tra il cinema neorealista e le coloriture felliniane con uno spruzzo pasoliniano. Ora Arrigazzi ha le movenze di un Gaber giovanile, adesso spazia fino alla carnalità di Vinicio Capossela, ora inciampa dentro le scarpe di Iannacci, riempie il palco in un corpo a corpo denso e materico, sudato e appiccicoso, colloso e calorico; il suo è un grumo di grida sgrammaticate che prende in prestito le schiettezze della realtà contadina, storpia nel rurale stuprato, sfocia nel grottesco parabolico, avvampa nell'iperbole, in un dialetto arcaico (tracce, così a naso, di sano umbro, di stridente marchigiano, lapilli di pugliese, indizi che portano ad Abatantuono, stille di Nino Frassica, frammenti di Albanese) impiastricciato, impiallacciato, calloso, corroso e corroborato, gioco infarcito di onomatopeiche e mescolanze, di sonorità provinciali lontane a perdersi nei campi, nelle radure. Impossibile non far sobbalzare rimandi da una parte di Dario Fo e dall'altra testoriani, come echi da Flaiano o Zavattini.
E torna sempre, come mantra simbolico, come chiavistello, passe-partout e parola d'ordine, come spartitraffico e spartiacque, come boa dove girarci intorno e prendere nuovamente la rincorsa, il termine “scuraglia” che è sì il buio reale della notte ma anche il nero interiore, il marcio degli uomini, i pensieri nascosti, la boscaglia della psiche.
L'aedo Arrigazzi (al suo fianco il pianista Andrea Negruzzo; suona anche vasi di terracotta da fiori) è leggero nella sua danza rappata surfando in punta di piedi su un testo pieno di onde che salgono e poi si buttano in picchiata, in discesa furibonda a valanga, creando slavine di senso dai movimenti pelvici. Ora è Elvis che sfoga di pancia i suoi verbi groppiscardinati, le sue sillabe come punzecchiature di vespe, le sue perifrasi contorte come mulattiere per passare la montagna feroce della metafora. È un Fred Astaire sensuale immerso in questa lingua carnale, vorticosa e retrò, una pastura viva e arricciolata come le salsicce con il finocchietto di Cisternino, come i “turcinelli”, gli involtini di interiora d'agnello alla brace, è il pangrattato sulle melanzane al forno che fa la crosta croccante.
La senti che ti si incastra sfrontata, impigliata tra le dita, sotto le unghie molesta, gutturale e stomacale. Da una parte il sindaco di un piccolo comune della nostra scalcinata Italia da Peppone e don Camillo, un primo cittadino colluso (ricorda il politico arruffone di “Qualunquemente”) che vuol far costruire una discarica nella cittadina per far contenti i poteri forti (la Terra dei fuochi campana?), dall'altra Cicerchio, povero Masaniello (sembra un attuale esponente del Movimento Cinque Stelle) che si batte per la legalità e la trasparenza.
Ma la “scuraglia” è anche malessere e malaffare, ignoranza e menefreghismo. Una lingua poetica e popolare, alla Belli, che fa rima con il suo cantore sgualcito e spiegazzato, che swinga e fa lo slalom divenendo ora arcobaleno luminescente adesso trasformandosi in una diga pronta a erompere, ora la sua vena è cascata violenta e schiumosa, adesso la sua verve è un albero sfrondato dalla bora, brilla come un vetro sfondato da una pallonata, eccede nell'effluvio che travolge di zampilli incandescenti vulcanici che ruttano ed eruttano,groppi2 gorgogliano e sbuffano, bluffano. Come non pensare a Totò e Peppino? La storia passa in secondo piano, cresce tra le righe come gramigna in mezzo al frumento, sottopelle avanza. Ma l'onda che ci porta lontano, al largo, in acque burrascose e sonoramente felici e feconde, è la musicalità di questo andamento lessicale letterario sfiancato, slabbrato, decostruito, esploso, sezionato, sganasciato, smargiasso, estroso, tosto, crudo, ruvido come il vino rosso di certe campagne bevuto ad un tavolino assolato davanti a una piazza vuota e solo i grilli a far festa. Sentori di Ammanniti o il grottesco di Amurri.
Il cantore Arrigazzi è un fumetto clownesco che sguazza sciolto nel pantano di quest'idioma sfatto e grasso, è il cavallo scosso del Palio, sputa parole sporche e unte da far accapponare la pelle ai tipi compunti dell'Accademia della Crusca. È un funambolo-furetto che ci fa il prurito e il solletico con questo gergo macchiato di slang informale e sapido che è bastone senza carota, ipotetico e melmoso, caciara fangosa e fumosa, maleducata e spiccia, fogna e ascelle, torva e torbida, biascicata e “ingroppata”; un lessico che è zoccolo di muflone e ruggine, ma è anche volo di colibrì panciuto e ragnatela, colpi di tosse rauca e tango e urina dopo un'abbuffata d'asparagi, cacio e pepe, matto e disperatissimo, è giungla vietnamita, è scostumanza e rimasuglio, spugnosa e medievale. Arrigazzi è Bertoldo, è Bertoldino e soprattutto Cacasenno, è l'Armata Brancaleone spremuta e concentrata dentro un corpo solo, è Fast and Furious, è leggero ed eversivo, tellurico di scorribande sintattiche, è “Paisà” ma anche “Sciuscià”, “Ciociaro” ma pure “Accattone”. Pura, semplice felicità per i timpani. Scarpa è grande e Arrigazzi è il suo Profeta.

Tommaso Chimenti 19/02/2017

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