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Dal 2 al 5 maggio è andato in scena in prima nazionale, al Teatro Spazio 18b di Roma, “Signorotte”, la tragicommedia scritta e diretta da Massimo Odierna, e intepretata da Viviana Altieri, Elisabetta Mandalari e Sara Putignano della compagnia Bluteatro. Terzo episodio di Disalogy - la trilogia del disagio, quella di “Signorotte” è una drammaturgia pop, accessibile tanto agli addetti ai lavori come a chi non frequenta abitualmente i teatri: tre amiche ultracinquantenni si incontrano dopo anni in occasione del funerale del marito di una di loro.
Ci siamo fatti una chiacchierata con Massimo Odierna sul disagio della nostra generazione, sull'importanza di sapere chi siamo per capire dove andiamo e sulle contraddizioni che danno motore alla vita e alle sue storie.

Signorotte è uno spettacolo tragico ma anche molto divertente. È un po' la tua marca stilistica raccontare la crisi in maniera grottesca.

Fin dalle mie prime operazioni drammaturgiche ho sempre cercato di restituire qualcosa di estremamente ironico ma mai comico fine a sé stesso. La tristezza e la paura possono tradursi in ironia e cinismo, fino all'eccesso. Cerco di raccontare due facce della stessa medaglia allo stesso tempo. Quando l'operazione riesce è gratificante, vuol dire che la strada è quella giusta.

Signorotte fa parte della Trilogia del Disagio. Qual è la tua definizione di disagio?

Per me il disagio è la contraddizione, tutto ciò che ha a che fare con l'imprevedibilità della vita (certe cose estremamente poetiche possono nascondere il marcio, altre estremamente basse possono celare qualcosa di poetico, alto, o spensierato) e il non risolto della psicologia umana (tutto ciò che presenta crepe: le ossessioni, le nevrosi, le nostre paure). Oltre a questo, è anche un modo per raccontare una cifra stilistica e drammaturgica: all'interno delle mie storie inserisco tutto ciò che ha a che fare col disagio dei giorni nostri, le contraddizioni dei nostri tempi, senza mai però cadere nel teatro sociale. Non mi piace parlare del problema sociale fine a sé stesso. Nel disagio c'è la vera benzina per raccontare qualcosa: quando tutto è lineare, risolto c'è poco da raccontare. Non ho la pretesa di dare risposte né punti di vista definitivi, le mie storie non hanno moralismi né interpretazioni univoche. Mi piace mettere insieme degli elementi contraddittori e vedere l'effetto che fa.

In effetti abbiamo tanto da raccontare oggi. Anche se ogni epoca è contraddittoria a suo modo, forse la nostra è particolarmente contraddittoria, come è proprio di tutte le epoche di transizione.

È vero che ogni epoca non è mai risolta, mai serena. Noi siamo bravissimi a dire che oggi è sempre peggio di ieri. In realtà il peggio c'è sempre stato, e per fortuna anche il meglio. Ovviamente noi viviamo questo tempo e rispondiamo ai problemi di questo periodo storico, di questa generazione. I tempi che stiamo vivendo sono molto spaesanti al punto che non riusciamo a vedere cosa c'è al di là del nostro presente. Il presente oggi non è più soltanto una filosofia di vita – “vivi il momento, perché oggi siamo vivi e domani chissà”, ma è diventato una condanna. Il futuro lo possiamo immaginare, costruire, però non è così facile proiettarsi in un futuro. Prima, in qualche modo, il futuro poteva darti una certa “tutela”.

Il disagio della nostra generazione sta nel non avere la certezza che, dopo anni di fatica, quell'accumulo di impegno in qualche modo verrà ripagato.

Esatto, oggi investiamo tante energie nel nostro lavoro ma non sempre ogni mattoncino ti aiuterà a costruire il prossimo. Oggi più che mai dobbiamo avere tanta forza di volontà e tanta fiducia in noi stessi: dobbiamo accettare questo presente caotico, prendere il bello che questo caos ci offre e cercare di trasformarlo, senza proiettarci troppo nel futuro né farci mangiare dai fantasmi del passato. Dobbiamo giungere a un compromesso con questo disagio.

SignorotteIn che modo le tre Signorotte incarnano questo bisogno/difficoltà di trovare un posto nel mondo? Perché la scelta di tre personaggi femminili?

È la prima volta che ho scritto un testo pensando da subito a chi lo avrebbe interpretato. Per Posso lasciare il mio spazzolino da te?, Toy Boy [gli altri due spettacoli della stessa Trilogia] e per altri testi sono partito da un'idea, ho cominciato a scrivere e poi ho pensato agli interpreti. Stavolta invece ho dedicato Signorotte a tre amiche e colleghe attrici che stimo tanto e conosco da anni, cucendogli addosso la drammaturgia. Viviana (Ida), Elisabetta (Beta) e Sara (Ada) sono amiche da anni anche nella vita, dunque il tema del ritrovo tra amiche era perfetto per loro. In più sentivo l'esigenza di raccontare il mondo femminile con dietro l'ombra del maschile. Stavo attraversando un periodo di “mal d'amore”, di “disagio amoroso”, appunto, in seguito alla fine di una storia importante. Avevo capito di aver sottovalutato questa relazione, di averla data per scontato. Mi sono dunque ritrovato a gettare su questo testo, inconsciamente, una sorta di espiazione di colpa, finendo a parlare del femminile, sì, ma dal punto di vista di una persona ferita, ovviamente traslandolo in chiave creativa. Così è nata questa tragicommedia, in cui le protagoniste sono donne ma dietro di loro c'è la mano maschile, l'ombra del maschio.

Cosa intendi per “ombra del maschio”?

Intendo “i danni” che l'uomo commette nei confronti della donna. Ho preso tutto il bagaglio emotivo che stavo vivendo in quel momento, trasformando la mia esperienza in una storia il più possibile oggettiva, universale – non credo sia interessante portare in scena le storie personali così come sono.

Come autore, non hai la pretesa di insegnare nulla. Racconti le tue storie e spetterà poi allo spettatore scegliere se identificarsi nei tuoi personaggi, emozionarsi o ridere di loro. Ciononostante, la messa in scena richiede responsabilità.

Quando crei un mondo, una storia e dirigi degli attori, quello che dicono dipende da te, il che è molto adrenalinico, mi diverte. Quando il pubblico assiste a qualcosa che tu hai creato, per me è commovente, è un grandissimo atto d'amore. Al tempo stesso comporta anche una grandissima responsabilità. Mai pensare che il pubblico si beva tutto o che voglia semplicemente staccare il cervello per due ore: il pubblico è fondamentale, per questo pretendo molto dal mio lavoro e da quello dei miei attori. Devi lavorare in maniera onesta, essere sempre rigoroso, attento e professionale anche nelle cose più piccole. La necessità di comunicare è importantissima, non puoi cercare di vendere “fuffa”. In ogni caso sono ancora alla ricerca. Per chi ha visto più di un mio spettacolo, il mio stile è già chiaramente riconoscibile, ma io non so ancora cosa sia in realtà. Diventare troppo padrone della mia creatività forse sarebbe anche noioso. Mi piace invece quando le storie iniziano a prendere il sopravvento, quando i dialoghi prendono vie tutte loro. È una specie di piccolo dono che io devo ascoltare, e non mi devo imporre su quello che devo fare, mi devo lasciar sorprendere.

Qual è secondo te il compito dell'artista oggi? Cos'ha da dire al pubblico?

Io non mi definisco un artista. Sono un attore che scrive delle cose, le mette insieme e cerca di renderle il più possibile comunicative. Posso reputarmi un giovane drammaturgo che dà vita a delle scritture di scena. Non so qual è il compito dell'artista. Sicuramente se qualcuno ha qualcosa da dire è giusto che si esponga. Se non hai nulla da dire, diventa pura vanità, narcisismo, che pure ci può stare, la vanità è interessante come motore. Se hai un'urgenza, una necessità, un impulso, un daimon che ti guida e ti induce a fare delle cose, vai. Ma se non si ha nulla da dire è giusto che ci si raccolga nel silenzio. A me piace anche starmene in silenzio. Quando non avrò più nulla da dire non dirò nulla.

RonconiCosa ne pensi dell'ambiente teatrale romano? Quali difficoltà hai incontrato e quanto bisogna scendere a compromessi per starci dentro?

Si deve sempre scendere a compromessi, la vita stessa è un compromesso. Questo settore ti mette di fronte a tante possibilità, che puoi scegliere in base alla tua indole. Ci sono attori che puntano alla notorietà, e se hanno questa urgenza va bene, è giusto. Ci sono quelli a cui non importa immischiarsi nella vita mondana dello spettacolo, intrattenendo relazioni e cercando ingaggi lavorativi, ma preferiscono mandare avanti una ricerca individuale, a discapito della stabilità economica o del successo. Io sono a Roma da diversi anni, ho studiato all'Accademia Silvio d'Amico, ho lavorato con Ronconi... ho fatto un certo tipo di teatro abbastanza “alto”, che mi ha dato tanto. Essendo un ragazzo di periferia di Napoli, senza velleità artistiche di un certo livello, mi sono ritrovato invece all'interno di un ambiente istituzionale riconosciuto. Poi la mia natura mi porta a stare anche nei sottoscala, a contatto con l'”artigianato quotidiano”. La comunità romana è molto contaminata e frammentaria: c'è di tutto e devi saperti confrontare con tutto. Sto per dire una frase alla Osho [ride], ma se sai chi sei, cosa vuoi fare e cosa vuoi dare come attore, regista, performer, autore, puoi aiutarti a orientarti all'interno di un panorama molto vasto e variegato. Se sei centrato, radicato, se hai un minimo di “struttura” e sai cosa ti piace fare, cosa puoi dare e che direzione vuoi seguire, se conosci il tuo “richiamo” puoi evitare di perderti, in un mondo in cui puoi facilmente andare a finire dove ti sbattono gli altri in base a quello che cercano in quel momento.

Hai già in serbo qualche nuovo progetto cui dedicarti dopo il debutto di Signorotte?

Ho intenzione di programmare altre date per i tre spettacoli di Disalogy, sia come trilogia completa che singolarmente. Continuerò a collaborare con la Scuola del Teatro dell'Orologio, in veste di docente di improvvisazione e scrittura creativa e dirigo anche un corso serale di recitazione presso il teatro Agorà e sto lavorando al saggio finale.  Con la compagnia Bluteatro, composta dai miei amici della d'Amico, ci occuperemodurante l'estate del corso propedeutico ai provini delle Accademie. Come attore, quest'anno ho partecipato a diversi spettacoli – Il Colore del Sole, tratto dall'opera di Andrea Camilleri e diretto da Cristian Taraborrelli, e Fram(m)enti, frutto di un progetto su Kurtág per l'opera kafka-fragmente, diretto anche questo da Taraborrelli – che mi piacerebbe riportare in scena. Cercherò poi di dedicarmi a nuove scritture, a nuove storie.

Sara Marrone, 08/05/2019

Nel Manuale minimo dell’attore, si legge: “Ogni volta che mi trovo davanti a dei giovani che mi chiedono di dar loro consigli su come impossessarsi del mestiere, ripeto: «La prima regola, nel teatro, è che non esistono regole»”. Il che non vuol dire affatto agire senza discernimento e ragione, bensì affrancarsi nella messa in scena da uno schema di categorie precostituite, purché – attenzione – il metodo e lo stile scelti siano corrisposti da un fortissimo bisogno di creare arte. Ed è questa necessità di mettersi in gioco e parlare allo spettatore che affiora continuamente nella mia conversazione con l’attrice-autrice sarda Elisa Pistis, che approderà il 30 e 31 marzo sul palcoscenico del Teatro Abarico di Roma con una versione al femminile del grande capolavoro di Dario Fo. Sì, esatto: “Una donna, tutta da sola, che fa Mistero Buffo”, esordisce lei, cagliaritana nata a Elmas, 33 anni a giugno, occhi e capelli di un intenso castano scuro. Diplomatasi nel 2013 alla ‘Nico Pepe’ di Udine, dopo una laurea in Beni Culturali, frequenta attualmente il Master in Drammaturgia e Sceneggiatura presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica ‘Silvio d’Amico’. Nel 2015 è finalista al Premio Candoni per monologhi originali con Il mio paese è donna, da lei scritto e interpretato. Viene selezionata da Marco Baliani per il progetto Human, spettacolo che girerà tutta l’Italia tra il 2016 e 2017 con Baliani e Lella Costa. Ha appena debuttato alPISTIS1.jpg Teatro Massimo di Cagliari il suo ultimo testo, Ai miei tempi-I° studio, prodotto da Sardegna Teatro. Il 5 maggio arriverà nello spazio della Corte dei Miracoli di Milano con, come lei lo chiama, la sua ‘Mistera buffa’, prima di presentarlo il 12 aprile in Giappone, dove sarà ospite presso l’Istituto Italiano di Cultura a Osaka. “Anche quando sarà dura, tu continua e segui la tua strada”: bussola per una teatrante a tutto tondo i preziosi consigli del Nobel che Elisa, racconterà, ha avuto la fortuna di conoscere nel 2015. È la premessa di un’intervista che comincia nel segno delle autentiche parole del Maestro e che continuamente guarda agli attualissimi temi presenti nella sua giullarata popolare composta nel 1969 (e che proprio quest’anno compie mezzo secolo), ma senza farne una copia, perché “in teatro parto da me stessa, dalla mia sensibilità. E nel mio cuore quel ‘gigante’ di Fo è sempre con me”.

Potresti raccontare la genesi del progetto? Quand’è che ti sei avvicinata per la prima volta al testo?

“Già quando ero in Accademia a Udine ho iniziato a lavorare sul monologo di ‘Maria sotto la croce’ (che interpretava Franca Rame) e ho potuto recitarlo durante un’esperienza al Festival di Avignone. Ma ho da subito impresso una nota molto personale, traducendolo in sardo. Uscita dall’Accademia, dovevo ottenere il permesso dall’agenzia di Dario Fo per i diritti. Così ho scritto un progetto per partecipare a un bando che prevedeva tra gli ospiti delle serate il Maestro. Sono riuscita ad avvicinarmi a uno dei suoi assistenti e da lì, dopo un annetto di telefonate, a farmi ricevere nella sua casa a Cesenatico. È stato allora che ho finalmente ottenuto i diritti e debuttato il 31 marzo 2018”.

Esattamente, un anno fa. Cosa ti è rimasto impresso dell’incontro con Fo?

“La sua lucidità, il rigore e la generosità. Aveva 89 anni e lavorava più di dieci ore al giorno. Era molto colpito dal monologo in sardo, che è uno dei pochi pezzi drammatici dello spettacolo. ‘Maria sotto la croce’ funziona molto in lingua sarda, perché è una storia pilastro della nostra cultura (che uno sia credente o meno) e il sardo gli conferisce ritmi e sonorità arcaiche, senza ostacolarne la comprensione. Ciò che ho conservato dei consigli di Fo: proprio l’idea di un teatro inclusivo, non elitario, che possa scavalcare le differenze linguistiche e annullare le distanze tra attore e spettatore”.

Mistero buffo è un testo ‘aperto’ e si presta a varie rivisitazioni. Secondo te, perché?

“Perché la drammaturgia, diversamente dai testi di Cechov o di Shakespeare, si regge su altri princìpi: un narratore in scena che fa tutti i personaggi ma senza mai diventare personaggio se non nel momento in cui lo recita per scivolare subito dopo nelle vesti di un altro ancora. È particolare anche nello stile, a metà tra narrazione e recitazione, incrociando il teatro della Commedia dell’arte e la tradizione dei giullari medievali”.

Cosa vediamo, quindi, nel tuo allestimento?

“Non ci sono costumi, scenografie, musiche o altri espedienti scenici. Soltanto io e gli spettatori, perciò si può fare in diversi contesti, persino nelle piazze o per strada, e arrivare nelle periferie più inaccessibili. Oltre alla componente dell’ascolto, c’è molto fisico, io mi muovo tantissimo e uso un linguaggio gestuale. C’è da dire anche che mi diverto tanto a interpretare tutti i personaggi e il pubblico questo lo avverte subito”.

In che modo hai lavorato a una messa in scena così articolata?

“Nel Mistero thumbnail_Elisa P1.jpgci sarebbe materiale per fare quattro ore di spettacolo, io ho scelto il filo rosso dei Vangeli apocrifi. In verità, non ho avuto un’educazione cattolica, forse per questo mi attirava far combaciare il discorso religioso col mio retaggio culturale per parlare di storie umane universali. Ho iniziato a provare nel salotto di casa, avvalendomi in seguito della collaborazione registica Giuliano Bonanni, mio maestro all’Accademia di Udine”.

 Perché un testo come Mistero buffo torna a parlarci nel presente?

“Per l’attualità dei temi come il lavoro, l’ingiustizia sociale e l’abuso del potere. Il merito di Fo è stato seminare attraverso la risata riflessioni profonde, ma sono diversi i tempi in cui ci muoviamo, per cui non aveva più senso far leva sull’attacco ecclesiastico, negli anni Sessanta quasi al limite della blasfemia e oggi completamente sdoganato. M’interessava riferirmi piuttosto a dinamiche della nostra società e soffermarmi sull’umanità di certi personaggi, raccontando di una famiglia che deve intraprendere un duro viaggio, da Betlemme attraverso il deserto fino in Egitto, per approdare in terra straniera, proprio come i migranti. O, per esempio, di un bambino escluso nei giochi dai suoi coetanei o della disperazione di una madre in lutto per la morte del figlio”.

Che operazioni hai compiuto dal punto di vista linguistico? E da dove nasce il bisogno di tradurre una parte nella tua lingua madre?

“All’inizio recito nella lingua di Fo e ricorro al grammelot, in un miscuglio di suoni dialettali del Nord Italia, quali il lombardo, il veneto, il friulano e il piemontese. Il monologo di Maria, invece, l’ho tradotto quasi alla lettera nella mia lingua. Sono sarda al 100%: vivere su un’isola crea un legame fortissimo con la terra, le sue tradizioni ancestrali e i riti folklorici. L’invito che io rivolgo allo spettatore, però, è di non fossilizzarsi sulla singola parola quanto abbandonarsi all’ascolto di una melodia”.

Quale fase sta vivendo, a tuo parere, la ricerca teatrale negli ultimi anni?Elisa2.png

“È, sicuramente, falso che la gente non abbia voglia di andare a teatro. Credo che spetti a noi offrire una programmazione motivata da un senso e agire nell’ottica di una funzione sociale. Perché se il teatro è in piedi dalla notte dei tempi, ed è sopravvissuto a guerre, dittature e carestie, una ragione ci sarà: l’arte può veramente cambiare il mondo, ma bisogna essere bravi a comunicarla. Qualunque allestimento deve sì partire da un sostrato culturale ma garantire sempre diversi livelli di fruizione”.

Attrice, drammaturga, ora anche regista. Cosa rappresenta il teatro per te?

“È il lavoro della mia vita. Non avverto troppo la distinzione tra le categorie professionali, perché il teatro lo vivo a 360 gradi. Il mio sogno, infatti, sarebbe un giorno far parte di una compagnia e confrontarmi con altri per tirare fuori nuove creazioni”.

Insomma, perché venire a vedere il tuo Mistero buffo?

“Per condividere un rituale in cui vi prenderò per mano, attraversando momenti di gioia e commozione, perché il teatro è respirare insieme”.

Sabrina Sabatino 25/03/2019

ROMA – La scena è scarna, delimitata da una parete nera. Sul palco ci sono già gli attori, i corpi fissi in posizioni statiche. Daria Deflorian, appoggiata a un termosifone, segue con lo sguardo gli spettatori che prendono posto in sala. Antonio Tagliarini, performer e coreografo, è sulla sua stessa traiettoria. Dal 2008 hanno incrociato i rispettivi percorsi artistici cominciando un assiduo sodalizio (tra i più interessanti della scena contemporanea degli anni dieci) che nel teatro ha trovato la sua quadra per un comune terreno di ricerca, già costellato in Italia e all’estero di importanti riconoscimenti. “In alcuni momenti vi chiederemo di chiudere gli occhi. Naturalmente, vi diremo quando riaprirli”, sono le parole che aprono ‘Il cielo non è un fondale’, progetto del 2016 (già vincitore del Premio Ubu 2017 per Luci e Allestimento Scenico, di Gianni Staropoli), con cui l’atteso duo teatrale ritorna a Roma in scena dal 6 al 10 marzo al Teatro India insieme agli attori Francesco Alberici e Monica Demuru.

Sulle note di una canzone di Dalla, apostrofata a cappella dalle qualità vocali di Monica, si dice “La terra finisce e lì comincia il cielo”. Qui, specularmente, il sogno finisce e comincia il ricordo: è il meccanismo da cui parte la riflessione autogestita dai quattro personaggi coinvolti per loro volontà d’intromissione nel monologo di Antonio. Questi racconta dal principio di aver fatto un sogno in cui Daria è diventata una senzatetto a cui – confessa onestamente – non avrebbe mai fatto l’elemosina. “Io nel sogno non mi sono fermato. Perché?”. Perché c’è chi nella vita “non si sente responsabile del dolore degli altri”. Anzi, sarebbe troppo impegnativo occuparsene. Daria, dall’aria stranita, reagisce raccontando di quando le capita di proiettarsi in una vita simile, di quando un giorno – passeggiando nei pressi del Teatro Argentina – nei giardini in via Arenula a Roma si è rivista nella barbona seduta a una panchina poco distante. Eppure, il racconto di Antonio non è mai stato vero. Piombano allora nella conversazione Monica e Francesco completando la geometria di un discorso, dapprima intimo, con l’intento di mettere a nudo nel tramite onirico i fantasmi di un’identità in continuo divenire che scava negli abissi interiori, sul fondale di turbamenti rimossi.

Quattro coscienze che s’incrociano simmetricamente nel dialogo, raccontando tutti a turno eventi che hanno segnato il proprio quotidiano, di cicatrici mai sanate e malinconie di smarrimento nella città vuota. E, immersi nella cornice del sogno quale altro labirinto della mente, si ascoltano, trovano il coraggio di rivelare ossessioni quotidiane, bisogni taciuti, l’umana paura di fallire. Con le domande – per esempio, “quando siamo dentro casa e fuori piove, cosa pensiamo dell’uomo che fuori è rimasto sotto la pioggia?” – il racconto accelera, indietreggia, si insinua nelle pieghe nascoste della memoria collettiva: Antonio parla dell’incidente che ha messo in standby la sua carriera da danzatore, Daria evoca con nostalgia le letture giovanili appostata al termosifone dove era solita farsi una birretta, Francesco s’immerge nella Milano dei reietti, venditori di rose e amici pakistani, Monica inscena (rimarchevole anche nell’arte rumorista) voci e brusii da supermercato. Un teatro minimale fondato su un flusso prettamente verbale, parlato spontaneamente, perché tutto si regge sulla forza comunicativa della partitura e, come in poesia, sull’emozione che si deposita nelle pause tra il detto e il silenzio.

def/tag1Se casa è il proprio posto nel mondo e il termosifone in ghisa un elemento tipico dell’abitazione domestica, scegliere di trapiantare quell’oggetto in un contesto teatrale – e in un teatro scarsamente provvisto di azione scenica – vuol dire trasformare la base astratta e concettuale del lavoro in un’analisi concreta che, sbarazzatasi rapidamente dagli equivoci del metateatro, dilata il senso della parola nello spazio, accompagnandosi di tanto in tanto al movimento del fondale che, dominando il retroscena, pone in risalto la presenza degli attori e trasforma in materia le voci. Curioso come l’inusuale drammaturgia del duo, che quasi mai proviene da un patchwork convenzionalmente classificabile in quanto letterario, ma costruita a partire da immagini, suoni e sollecitazioni varie, in questo caso sia un continuum fluido di singoli flash sul tema dell’infelicità urbana (associazione presa a prestito dal pensiero di Camus, citato una volta, sul destino irrazionale dell’uomo) su cui aprire e chiudere gli occhi. Un montaggio testuale intelligente, ultraframmentario nelle molteplici sequenze accumulate, zeppo di intervalli comicamente brillanti (soprattutto quando è la Deflorian a raccontare delle disavventure alle prese con cavi elettrici e chiodi da fissare al muro), che si chiude nel cerchio di un refrain musicale: ‘La domenica’ di Giovanni Truppi, amplificata dal microfono, e dall’immagine che il quartetto compone dislocando i sei termosifoni nella scena buia, come a voler consustanziare un dato di fatto: che il teatro necessiti di calore umano.

“Si cerca la pace e si va verso gli altri perché ce la diano. Ma è chiaro che possono darci soltanto follia e confusione. Bisogna dunque cercarla altrove, ma il cielo è muto”, scriveva Albert Camus nelle pagine dei Taccuni che compilò fino alla morte interrogandosi sulla condizione di chi, scaraventato nel mondo, deve rassegnarsi a vivere straniero in società. Chi siamo noi negli altri? Quesito che tirerebbe fuori un lungo trattato esistenzialista. Per rispondervi Deflorian/Tagliarini scardinano in ogni sua logica convenzionale il dispositivo base della sintassi teatrale, spostando la linea di confine tra persone e personaggi, perché nella messinscena gli attori conservano il proprio nome reale. Durante le loro improvvisazioni in prova si appuntano – così come lo scrittore francese fece nei suoi diari – note a margine, fatti esterni al teatro, frammenti immaginati, aneddoti personali innescando il motore di una rappresentazione che, negando se stessa, si compie nella sua costruzione definitiva.

Anche se sembra apparentemente mancare di una drammaturgia precostituita in forma unitaria o uno stile formalizzato di recitazione, ecco che la fattura compositiva di Deflorian/Tagliarini si colloca per la sua natura anti-drammatica al tempo prima dell’ingresso in scena. Perché quando il pubblico vi assiste, il lavoro è già concluso. Perché se il cielo non è (che) un fondale – titolo ispirato a un passo delle Disumane lettere di Carla Benedetti – il teatro deve sottrarsi alla funzione di replicare l’autenticità del reale, di per sé inimitabile, e recuperare invece l’input che ha attivato il processo creativo per avvicinarsi, lontano da ogni artificio, all’essenza della verità e dare vita ai paesaggi dell’anima. Resta, tuttavia, la porta aperta: un nodo irrisolto per cui se il teatro, per farsi, deve dall’esterno intrappolare la vita in una forma visibile, non può fare a meno di scontrarsi col limite di poter “esistere solo attraverso il dire”, nel qui e ora della rappresentazione.

Sabrina Sabatino 08/03/2019

MILANO – Edimburgo, teatralmente parlando, è a Milano. La Fabbrica del Vapore ha in sé l'anima dell'artigianato, l'odore di mattone e ferro, quel piglio di mani e idee, quel fare che nasce nella testa e si sviluppa grazie a uomini e donne di buona volontà. La fucina è IT, il vulcano è IT, la fornace è IT (utilissimo e ben fatto il libretto per orientarsi nel mare magnum delle proposte) dove nascono gli attori e le compagnie, i testi e le messinscene di domani. Futuro presente. Il colore è il giallo: grano, sole, birra. Venti minuti, piccoli morsi per capire dove stiamo andando, i temi dei giovani, quello che si muove nel sottobosco delle proposte, delle promesse. Fiori che nascono sull'asfalto e nel deserto e che sbocceranno. Sono maratone, si entra e si esce, fuori il itbannersole cocente, dentro il buio tra queste volte ampie, i soffitti alti che danno respiro e possibilità di movimento ai sogni, alle speranze. E ne abbiamo trovata di fertilità, di novità, di guizzi, di lampi, di ponti, di gesti da ricordare, sottolineare, sottoscrivere, esaltare. Dieci ne abbiamo visti, di quattro parleremo. Già il manifesto evidenzia un animale ibrido e mitologico, sorta di Chimera, dal carattere roccioso del rinoceronte, caterpillar che non si ferma davanti alle difficoltà nella savana, e dalla spinta leggera e al contempo potente della balena. Un animale impossibile, come fare teatro in questo Paese. Ma c'è qualcuno che lo fa e con buoni risultati. Come il calabrone nel motto di Einstein.
itheartCi siamo affacciati alla stanza dove gli Snaporaz hanno allestito l'inquietante “Heartbreak Hotel”, per uno spettatore alla volta, dal sapore kubrickiano, con tocchi di Lynch, spruzzate di Hitchcook, e un fondo che ci ha ricordato “A sangue freddo” di Truman Capote. Un racconto che viene sciorinato attraverso il muro in cartongesso verso il quale siamo, come da piccoli in castigo, con la faccia rivolta. Siamo all'angolo, dietro è possibile che si muova qualcosa nell'ombra, nel buio. La narrazione-cronaca è quella di un serial killer; la psicologia del superstite sfora dalla radio, esce dal telefono. A terra ci sono tarocchi sparsi e la sensazione è quella di essere proprio sulla scena di un crimine, dentro le pieghe del male descritto, in quell'angolo di normalità, da carta da parati floreale e borghesuccia con i suoi ghirigori da seguire con il dito, in rilievo e lisci, le medicine sul comò, e tu stai lì, imbambolato, immerso nella grande dicotomia tra perdono o vendetta. Sono l'assassino o la giuria? Il condannato o la vittima? Incuriosente.
Da seguire assolutamente nel suo sviluppo è “In.Ter.Nos” dei Carolina Reaper, progetto in tre fasi, autonome e correlate dove un filo sottileitinter di malessere malcelato e uno strato sottile di soffocamento, straniamento, spaesamento. Un'indagine, potremmo dire banalmente, ma è molto di più; è uno scavare dentro le nostre paure, dentro i meandri di quel possibile che cerchiamo di allontanare in ogni modo ma che sta lì, come gufo sulla spalla, come avvoltoio in attesa dell'ultimo volo in picchiata. Al centro una “principessa”, bionda come lo devono essere le altezze reali di bellezza. Una sorta di modella stile Madonna in evidente stato di shock. La drammaturgia di Livia Castiglioni riesce pian piano, docilmente, ad instradarci nel sentiero dei passi pericolosi dove l'innocenza si tramuta in colpa, l'ingenuità in dramma, la pulizia in marcio. Siamo fatti di doppifondi ai quali attingere come pozzo d'acqua limpida o fango imputridito. Bravi, abili ed efficaci i tre sulla scena: Silvia Giulia Mendola, la starlette ossessiva, Elena Scalet e Francesco Meola, agenti alla “X files”. Mettetelo nel paniere delle scelte per la prossima stagione.
italchemicoAltro piccolo stralcio che ci ha colpito è “Per le ragioni degli altri” (Alchemico Tre) dove risulta ancora più lucente l'interpretazione di Michele Di Giacomo (che qui firma anche regia e adattamento da Pirandello), sempre più in palla e in vena, ad ogni nuovo lavoro ancora più convincente. Il filo che morde il freno è l'insoddisfazione, la molla che punge arrugginita è la desolazione sentimentale, la mancanza di empatia, l'assenza di comprensione. In questo buco nero, in questa infelicità diffusa che prende alla bocca dello stomaco, un uomo è diviso tra la mogliettina carina ma acida (Giorgia Coco), le sue voglie di scrittore (ci ha ricordato la biografia di Kafka) e un figlio avuto da una prostituta (Federica Fabiani, qui molto Maria Nazionale, carattere e “tigna”). Gli obblighi si sommano alle responsabilità, la cattiveria scappa da tutti i pori, nella frustrazione, nell'accettazione passiva che lacera e brucia. Non esiste più amore, resiste solo recriminazione e voglia di vendetta, acidità in tutte le forme possibili e declinabili per cadere e sprofondare sempre più in fondo a questo vortice turbinoso senza vie d'uscita. Da seguirne gli sviluppi.
L'ansia da prestazione sembra che sia uno dei cardini fondamentali dell'essere giovani oggi. E le compagnie di IT lo hanno tirato fuori e fattoitamor2 presente. Anche se sul versante brillante gli Amor Vacui con il loro “Domani mi alzo presto” ci portano nelle pieghe piagate della burocrazia che uccide i buoni propositi, in quell'ammasso di carte bollate e certificati, password e timbri che ingolfano prima la mente, che tarpano ambizioni, che infarciscono la mente di tanti ragazzi lasciati tra cellulare e divano, abbandonati tra pc e tv a passare il tempo fin quando non sarà troppo tardi. Sembra quasi che il mondo fin qui costruito abbia riservato alle giovani generazioni degli asili nido perenni per una forma di controllo e instupidimento continuo, una bolla di sapone che calma e placa come un placebo, come un antidolorifico che toglie il sintomo ma non il tumore sottostante. E il bubbone sta esplodendo. In “Domani mi alzo presto” (Andrea Bellacicco sugli scudi) il bando post universitario, il provino d'attore come la tesi diventano dei mostri giganteschi, scogli insuperabili, paure che si autoalimentano mangiandosi i giorni, la freschezza, la vitalità per creare nuovi zombie insoddisfatti e senza futuro. Una finta allegria vuota. Complimenti.

Tommaso Chimenti 10/06/2017

LASTRA A SIGNA – Si può racchiudere un'epoca in un paio di canzoni contratte. I favolosi anni '60 forse lo sono stati guardandoli a posteriori con la lente ingiallita e seppiata del ricordo, del “come eravamo” di robertredfordiana memoria, della nostalgia dell'infanzia, dell'adolescenza, della gioventù. Secondo passaggio della trilogia “Dopo Salò” nella storia italica di Massimo Sgorbani, dopo la fine del fascismo di “Arcitaliani”, questo “Mille brividi d'amore”, mentre il prossimo che si concentrerà su gli anni '80-'90 con l'impossibilità di evitare Berlusconi e il berlusconismo, a cura del regista Gianfranco Pedullà (e del suo Teatro Popolare d'Arte), scelta coraggiosa produttivamente ma importante che segna un'inversione di tendenza da sottolineare, tener d'occhio, sostenere e plaudire.0brividi
Gli anni sessanta sono sia “Le Mille bolle blu” di Mina sia i “brividi d'amore” contenuti in “Guarda come dondolo” di Edoardo Vianello, la spensieratezza e la gazzosità di questi anni dove tutto era possibile, dove avevi il cielo in una stanza e conquistavi la Luna, dove finalmente potevi ballare non impostato o impomatato né imbalsamato con le gambe ad angolo quasi schiacciando con un piede quella sigaretta simbolo di America, di fumo, di mistero, di emancipazione, di vita adulta che adesso non ha più freni, non ha più il morso ed è libera di correre al galoppo verso il futuro, verso il progresso. I '60 sono un misto contraddittorio tra provincialismo estremo (i citati “Comizi d'amore” di Pasolini) e la voglia spasmodica di raggiungere le stelle (Tito Stagno che litiga su quel fatidico passo tra i crateri lunari con Ruggero Orlando).
Ma le parole di Sgorbani (qui più contenute rispetto al fiume incontrollabile del primo episodio) si aprono e si chiudono con due sciagure, due tragedie che ancora segnano il nostro immaginario, di coscienza civile, sociale, politica: il Vajont come ouverture, Piazza Fontana a chiosare. Morti su morti, fango su fango: “Sangue su sangue precipita senza rumore; sangue su sangue non macchia va subito via; sangue su sangue leggero precipita piano”, ci diceva De Gregori quando eravamo tutti comunisti.
Inevitabilmente la trasposizione risulta anche un riassunto filtrato (non abbiamo ben capito, e ci è rimasta indigesta, la parte sulla “mammificazione” dell'Italia, troppo visionaria) attraverso il pop, quello che è passato al nostro presente, soprattutto tramite le canzoni, le rime facili. Un frullato liofilizzato e centrifugato dove trovano sponde e alibi, partendo proprio da uno sposalizio di quelli evocati e intervistati da P.P.P., l'inaugurazione, da parte di Aldo Moro (si leva il grido festante: “Lunga vita a Moro”, e sappiamo com'è finita la giostra) dell'Autostrada del Sole, l'arrivo della corrente elettrica e la deriva del suo uso con gli elettroshock (come non vederci Alda 1brividiMerini?), l'Uomo sulla Luna, gli elettrodomestici a disposizione di ogni famiglia, le pubblicità, con una Minni pinocchiesca e un Paperino incursori, cifre che ritornano nei lavori di Sgorbani, dopotutto siamo il prodotto dei fumetti americani.
Un grande jingle che un coro intona, sottolinea, profonde, liscia, asfalta, purifica i cortei e gli scioperi come la situazione femminile, la chiusura delle case chiuse. E allora passano, feroci e gaudenti, “Datemi un martello” della sempre piena di sé Rita Pavone e “Brava” dell'ineguagliabile Mina, da “Bella, dolce, cara mammina” del miele Ambrosoli, passando per gli spot del Moplen o dello Stock 84, fino a “Volare” di Modugno, vero inno italiano. In questo coro composito citiamo Marco Natalucci, sempre in bilico tra la sconfitta e la salvezza, Roberto Caccavo, che ben si muove nella parodia come nella crudeltà (il suo ruolo sfocia nel terrorismo con l'icona della Beretta), Rosanna Gentili, che dà i giusti tempi ad un personaggio fragile sempre un po' dolce Dori Ghezzi, Gianfranco Quero, nel primo episodio un Mussolini perfetto, nel secondo padre padrone, forse pedofilo, che illumina il buio (dell'anima) con la sua bicicletta, mellifluo che non riusciamo pienamente a condannare. Gli anni '60 sono “caldi come un bacio che ho perduto, sono pieni di un amore che è passato”, gli anni '60 sono “il tempo dei giorni che passano pigri e lasciano in bocca il gusto del sale”, gli anni '60 sono “il mondo (che) gira nello spazio senza fine con gli amori appena nati, con gli amori già finiti”, gli anni '60 sono “il nostro disco che suona”, negli anni '60 “luglio si veste di novembre”, negli anni '60 se scrivevi “t'amo sulla sabbia il vento a poco a poco se lo portava via con sé”. Proprio come oggi.

Tommaso Chimenti 15/12/2016

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