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ROMA – “Spaccami il cuore ridi e sorridi, spaccami il cuore non ascoltare false e teatrali le mie parole, segui un pensiero dolce e feroce con me” (“Spaccami il cuore”, Paolo Conte, cantata da Mia Martini).

Forse tutto può essere riassunto nella frase che campeggia sui cartelloni della stagione del Teatro Basilicata: “Si prega di non recitare nella vita reale”, monito e ossimoro nel percorso attoriale nella complicata biunivocità sopra e sotto al palco. Non recitare da mestierante ma metterci sempre l'anima. Niente di tutto ciò ha toccato le due interpreti che, tra DSC_1730.jpgi mattoni carichi di Storia proprio accanto alla Scala Santa, si sono messe a nudo e hanno aperto il “Cuore” (prod. Gruppo della Creta; interessante la nuova stagione Frammenti) mostrando le crepe, i chiaroscuri, lo sporco, i difetti, i non-detti, i segreti di una vita. Le cose che di solito ti dicono di non dire, per non esporti troppo, per non essere ancora più fragili e delicati di quanto un attore su un palco possa già normalmente sentirsi: senza scudo, senza difese, senza pelle, vulnerabile ai respiri. E' stato un bel connubio questo tra la danzatrice Daniela Giovannetti e l'attrice Alvia Reale (anche in veste di regista), strade e carriere differenti ma un unico comune denominatore: per ricominciare a calcare la scena dopo tutto questo prolungato e forzato stop, a sondare il pubblico, hanno voluto mettere la loro carne sulla bilancia della vita, hanno voluto soppesare quanto la pandemia, la distanza, l'impossibilità lavorativa avesse cambiato le loro prerogative e priorità. E' mutato infatti il loro rapporto con la scena (qui netta di Francesco Calcagnini)DSC_1788.jpg e ne è scaturito un lavoro intimo, riflessivo, che apre e spazia, che prende e getta, che ti colpisce alla pancia, un vomito costruttivo costruito e calibrato per arrivare là fin dove si sono spinte, in questa materia bollente e lavica che è la vita con le sue rughe, le sue disfatte, i drammi, le cadute. Uno spettacolo che è una piccola rivincita. Le due donne (prima che attrici sono donne) si sono lasciate attraversare dalla vita, vissuta a pieno, ne hanno colto le conseguenze, non sono fuggite alle proprie responsabilità e a noi si sono donate per riconoscere nella zoomata all'interno del loro tempo quella universalità che pervade, come elettricità, quelle di tutti, per non sentirsi soli né abbandonati, per ritrovarsi come comunità in un abbraccio ideale. “L’uomo è dove è il suo cuore, non dove è il suo corpo” (Mahatma Gandhi).

Un racconto a doppia mandata, alternandosi come su un'altalena, passandosi il testimone, oscillando un proiettore, dentro le pieghe delle loro autobiografie. E ci tengono nel sottolineare la totale autenticità e veridicità dei fatti che hanno immesso nell'agorà, a volte stupendoci, altre sorprendendo, altre ancora scioccando, spesso commuovendo. Non hanno avuto timori, remore o tremori, in ogni sceDSC_1506.jpgna (la drammaturgia tesa alla pulizia linguistica di Angela Di Maso) si sono lanciate, non hanno gettato il “Cuore” oltre l'ostacolo ma se lo sono tenuto lì, vicino a loro, stretto, perché non fuggisse, perché non si rintanasse dietro una di queste solide colonne che reggono l'edificio, come se l'anima che ci hanno messo, la linfa, il sudore nel vivere e nel recitare, fosse e rimanesse pilastro e radici imprescindibili al di là di qualsiasi avvenimento accaduto, di qualsiasi evento che le ha ferite, offese, tradite. I capitoli da una parte fanno salire l'intensità, mentre dall'altra scendono in profondità emozionale, l'asticella si alza, i respiri friggono sotto le mascherine, i cuori pompano. “Tutto nel cuore. E tutto il cuore in tutto” (Patrizia Valduga).

L'inizio con la sega elettrica (vera anche quella) sembra il preludio ad uno sfogo contro qualcosa o qualcuno, un tagliare i rami secchi, un eliminare quello che cDSC_1272.jpgi ha fatto male nel corso degli anni; invece scopriamo che le due protagoniste non hanno nessuna voglia di cancellare, anzi, hanno fatto pace con il proprio passato e, proprio perché ne hanno preso coscienza e adesso sono consapevoli che tutto il vissuto ha fatto sì che divenissero le donne che sono oggi, lo hanno accolto. “Non togliermi neppure una ruga – diceva la grande Anna Magnani alle truccatrici – le ho pagate tutte care”. E' un racconto che ha una forma leggera intriso però di forza dura, senza sconti, passando dal rapporto acre con qualche collega o grande regista che spesso trattano gli attori come esecutori e non come persone. Alvia Reale ha la dirompenza di un Montag in Fahrenheit 451, guerresca e guerreggiante, Daniela Giovannetti, in rosa tenue, sommessa sorseggia l'aria come libellula. “I drammi più commoventi non si svolgono nei teatri ma nel cuore degli uomini” (Carl Gustav Jung).

La prima ci racconta come la gravidanza l'abbia eliminata dal mondo del teatro, l'altra del grave incidente alleDSC_1570.jpg gambe che le ha distrutto un sogno che era partito scoppiettante direttamente dalle trasmissioni della Carrà. Fare i bilanci, invece che mettere la polvere sotto il tappeto, è sintomo di grande onestà, soprattutto con se stessi, fare pulizia e lasciare spazio per affrontare e ricevere e ospitare il futuro. La Reale (canta divinamente, da “Pensiero stupendo” fino a una Mina rivisitata) srotola con lentezza e calma placida i centrini tessuti dalla madre da poco scomparsa; crea una sorta di tappeto dove si riconoscono i disegni ma anche la storia, la trama, l'arte di vite ricamate da una madre che aveva lasciato l'uomo che l'aveva messa incinta perché la voleva fare abortire. Vite difficili, vite riscattate con la fatica, con l'impegno, con il talento, con il coltello tra i denti tra sensi di colpa, senso di inadeguatezza, insicurezze ma sempre coerenti e oneste. E' una resa dei conti (“Non, rien de rien, non, je ne regrette rien” potremmo aggiungere) che passa anche attraverso errori che non si rimarginano e che sfocia nel capitolo conclusivo che scuote: mentre la Giovannetti veniva “salvata” da un gatto quando aveva smesso di nutrirsi, la Reale, dopo la separazione, non avendo spazio, decise di lasciare il proprio cane al canile con l'intenzione, dopo qualche mese, quando avesse trovato un'altra sistemazione, di riprenderlo; quando tornerà per riabbracciarlo il cane nel frattempo si era lasciato morire. E' una scarica di adrenalina alla quale non hanno voluto rinunciare, non hanno voluto nascondere niente, “niente trucco per me, perché non sia il gioco di un'ora. Sai che ho anch'io ho la mia storia, sia la vita, la scena”.

Tommaso Chimenti 08/10/2021

Foto: Francesco Calcagnini

ARSOLI – Ci vuole sensibilità, intelligenza e tatto artistico per poter parlare di temi caldi, purtroppo ancora contemporanei, come la questione della donna all'interno della società attuale occidentale. Con il lavoro “La moglie perfetta”, Giulia Trippetta, partendo da un reale decalogo, un volantino che veniva distribuito nel dopoguerra, è riuscita a creare un parallelo, tra parodia e profondità d'indagine, con ironia e in maniera diretta, tra gli anni '50 (favolosi fino ad un certo punto) e questi primi decenni del Terzo Millennio. Sembra che sia cambiata la facciata e la forma, nella sostanza poco. Avevamo visto dieci minuti di questo spettacolo all'interno Gloria-Sapio-e-Maurizio-Repetto-e1466842986182.jpgdel “Premio Giovani Realtà”, a dicembre scorso, dell'Accademia Nico Pepe di Udine dove l'attrice umbra (nei prossimi mesi sarà in scena nella ripresa di “Orgoglio e pregiudizio” di Arturo Cirillo, a cura di Marche Teatro) aveva vinto la Residenza Artistica all'interno del Teatro La Fenice di Arsoli (al confine tra la provincia di Roma e l'Abruzzo) diretta da Gloria Sapio e Maurizio Repetto fondatori della compagnia Settimo Cielo. Qui, per due settimane, l'attrice, che ha studiato all'Accademia Silvio D'Amico di Roma, ha affinato il testo creando una messinscena solida, d'impatto, che mai scade, che fa riflettere, che pone domande, che mette in discussione sia le donne che gli uomini, che non ci lascia comodi sulle poltroncine del teatro, che pungola ognuno nel suo privato.

gabriele-caucci-sindaco-arsoli-al-teatro-la-fenice.jpgQuesta residenza fa parte di un progetto più ampio della Regione Lazio, composto appunto da Settimo Cielo con Twain, Vera Stasi e Ondadurto Teatro, e che interessa sette spazi teatrali. Le residenze sono fondamentali per far crescere le piece, per far lavorare le giovani compagnie a fianco di tecnici e professionisti della scena, per provare le parole e i gesti sul palco e tastarne e testarne la validità nella restituzione con il territorio: il rapporto con il palcoscenico è essenziale e necessario, qui la drammaturgia respira e prende corpo e oggi sempre meno gruppi riescono ad avere spazi per poter provare, immaginare, realizzare le loro idee. I Settimo Cielo inoltre dirigono anche un interessante festival, “Portraits on stage”, quest'anno tra settembre e ottobre, realizzato in un luogo magico, il santuario di Ercole vincitore a Tivoli.

Tra questo verde abbondante, tra queste salite e colline dove i paesi stanno arroccati e un castello spunta sempre con i suoi merli a tratteggiare il panorama, a ricordarci che qui la Storia è pesante come pietre, squadrata come torri, possente come ponti levatoi, Arsoli, (per accedere alla sala teatrale si entra dal Municipio) con i suoi 1500 abitanti, annusa l'Aniene che taglia la zona tra Ciociaria da una parte e Sabina dall'altra. Siamo anche vicini al confine con l'Abruzzo, incerti se scegliere la carbonara di tradizione romana o l'arrosticino di matrice aquilana e dintorni. Vicino ad Arsoli, sorge il curioso caso di Anticoli Corrado (900 abitanti) paese di pittori e modelle: nell'Ottocento contadini ma soprattutto contadine del posto andavano a vendere la loro frutta e verdura a Roma al mercato di Campo dei Fiori. Lì i pittori abbondavano e li ritraevano mentre mettevano a posto la mercanzia, intenti a lavorare con i muscoli guizzanti. Quando si sparse la voce che questi ragazzi provenivano tutti da questo piccolo comune (qui nel tempo si erano mischiati gli Svevi con i soldati Mori, e l'andare alle fonti per svariate volte al giorno in discesa e in salita rendeva i loro corpi tonici ed atletici e le sorgenti sulfuree terapeutiche levigavano la loro pelle) gli artisti cominciarono d'estate a soggiornare ad Anticoli. Anche perché qui le ragazze non avevano nessun problema a farsi ritrarre nude. Si era così creata una comunità di pittori e artisti e intellettuali, un vero Arsoli-_-testata.jpge proprio circolo, da Fausto Pirandello, figlio di Luigi (qui sorge la Villa La Scalogna, fondale de “I giganti della montagna”) a Oskar Kokoschka, il poeta Rafael Alberti, lo scultore Arturo Martini e Caporossi e Selva, Gaudenzi e Ponzi. Passarono di qui anche Picasso o Neruda. In tutto c'erano 65 studi pittorici anche per via di una particolare luce, perfetta per dipingere, mai così diretta. Rimangono a testimonianza i grandi finestroni che ogni tanto si scorgono alzando gli occhi a ricordarci quegli anni.

Tra le tante opere d'arte ci ha colpito anche il decalogo de “La moglie perfetta” dove, con sarcasmo pungente, Giulia Trippetta, sua la drammaturgia, è riuscita ad arrivare in profondità e toccare corde nascoste, smuovere preconcetti dati per scontato, scardinare comportamenti “naturali” e spontanei che arrivano come bagaglio culturale da retaggi secolari direttamente fino a noi. Partendo da questo volantino realmente circolato per decenni in Europa, l'attrice ha costruito un incastro e un meccanismo di personaggi femminili sconfitti, a tratti esilaranti, ora commoventi, sempre amari e amareggiati, miscelando alcune interviste con la figura cardine dell'intera piece, questa donna intenta ad instradare le giovani future mogli verso la loro missione, la loro gabbia neanche così dorata, la loro costrizione, il loro ruolo scritto e immutabile. Siamo negli anni '50 e la tesi di fondo è che, purtroppo, non molto sia cambiato, a distanza di settanta anni, per quanto riguarda la condizione femminile nonostante le tante battaglie vinte e i tanti traguardi per la parità raggiunti.

Ben scritto, cadenzato, fluido, (il jingle che ritorna, quello de “Il pranzo è servito”, è una nenia casalinga consolatoria, tranquillizzante e inquietante come le quattro mura che affossano, atterriscono, chiudono come recinti) leggero come una carezza e ruvido come uno schiaffo all'improvviso, la Trippetta adesso è timida ora è sfrontata, desperate housewife consapevolmente lucida, ha in sé il trasformismo unnamed.jpgdi Virginia Raffaele e l'elasticità da caratterista di Paola Cortellesi (a tratti è una Verdone al femminile), una presenza tra Valentina Lodovini e Monica Bellucci, la verve di Sabina Guzzanti, l'impatto di Nancy Brilli, lo sprint della Marchesini, lo sguardo a metà tra Jasmine Trinca e la Kathleen Turner ne “La Guerra dei Roses”, ora Sora Lella adesso Sabrina Ferilli.

Chiama le sue adepte frustrate “giovani costole d'Adamo” e lo sciorinamento delle regole è talmente divertente da risultare preoccupante: “Sii bella”: “la storia della bellezza interiore è stata inventata dai brutti”. Si ride, come in uno specchio che riflette le nefandezze della nostra società che inevitabilmente ci sono rimaste appiccicate addosso. “La cucina” e “Sii dolce e comprensiva” fino a tutte le sfumature dei vari tipi di risata, capitoli dove ci si sente in colpa di aver riso ma non se ne può fare a meno. Ci si sente piccoli e miseri, impotenti e meschini. Si arriva alla violenza di genere che fa ancora più male perché raccontata con un sorriso beffardo, giustificatorio: “Parlare è importante, parlate ma zitte”. Una delle parti più up è “Le sentinelle del Patriarcato” dove la Trippetta dà sfogo alla sua gamma di qualità, al suo registro di voci e personaggi in un cortocircuito scoppiettante, frizzante, effervescente, spumeggiante: è elettrica, è imprendibile, unstoppable. Viene anche coinvolto il pubblico, perché, come diceva Martin Luther King “Non mi preoccupo della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti”. Siamo tutti sul banco degli imputati. In questo caso, una risata non ci salverà.

Tommaso Chimenti 28/09/2020

Il 3 maggio, al Teatro Vittoria di Roma, Aldo Cazzullo ha inaugurato “Le donne erediteranno la terra”, rassegna che trae spunto proprio dal saggio omonimo dell'editorialista; un progetto ideato dalla direttrice artistica Viviana Toniolo che si concluderà il 16 maggio e che vanta un ricco calendario di eventi.
Il giornalista del Corriere della Sera ha così avuto la funzione di padrino d’eccezione per l’apertura di una rassegna in cui la figura della donna viene messa in risalto attraverso un’indagine sociologica, culturale, filosofica e storica sul suo ruolo e sulla sua importanza nel passato, nel presente e nel futuro che ci attenderà. Il libro, edito da Mondadori, diventa uno spettacolo teatrale, in cui all’autore si affianca l’attrice Beatrice Luzzi, la quale ha interpretato più figure femminili che, in un modo o nell’altro, sono state determinanti nella storia dell’umanità.

La consapevolezza della forza e della grandezza delle donne non viene meno, nell’immaginario di Cazzullo, anzi: "Voi donne siete meglio di noi. Non pensiate che gli uomini non lo sappiano; lo sappiamo benissimo, e sono millenni che ci organizziamo per sottomettervi, spesso con il vostro aiuto. Ma quel tempo sta finendo. È finito, comincia il tempo in cui le donne prenderanno il potere".

Dunque erediteranno la terra in quanto conoscono il significato profondo del sacrificio e sanno gestire fantasmi e paure, ma soprattutto perché sono in grado di mettere sempre in atto uno spirito esclusivo, quello materno; così potranno prendersi cura del destino di tutto ciò che le circonda.
Nel saggio, il giornalista marca la forza e la temperanza al femminile, a cui gli uomini al giorno d’oggi non danno così spazio nelle decisioni quotidiane. In questo gioco delle parti, la donna sa quale sia stato ed è il suo ruolo nella società e non le serve rivendicare un proprio spazio vitale in cui coltivare ideali; inoltre conosce esattamente l’umanità che le gira intorno e soprattutto sente bene ciò che gli uomini non potranno mai percepire, ovvero la bellezza nell’essere vita che dà alla luce la vita.
“Le donne erediteranno la terra” non vuole essere l’esaltazione fine a se stessa dell’universo femminile: è la prova di sensibilità e di ricerca che un intellettuale fine come Aldo Cazzullo, lontano dall’attività del semplice giudizio, scrive per raccontare storie in cui poter cogliere una filosofia basata su ammirazione ed amore e dove ricordare, pagina dopo pagina, aneddoti e vicissitudini di donne esemplari, coraggiose, determinate e determinanti per la storia.
Le donne erediteranno la terra, come lo faranno Lisistrata, Marie Curie, Franca Valeri; e ancora, Ilaria Cucchi, Giovanna D’Arco, Valeria Solesin e molte altre.
Tutte, in un modo sempre autentico, avranno cura nei confronti della loro porzione di mondo.

Lucia Santarelli 07/05/2018

FIRENZE – “Mi sento responsabile appena un uomo posa il suo sguardo su di me (Fëdor Dostoevskij).
“Abbiate il coraggio di posare la vostra mano nel buio, per portare un’altra mano nella luce” (Norman B. Rice).
Esiste uno stato che è quello del restare, ed uno che è quello dell'andare. In mezzo una patina, un'ombra, un sottile ricamo, un imene leggerissimo e soffice, osmosi intangibile, come l'onda che giunge a riva e prima di tornare indietromigratori verso altri flutti e correnti, si ferma, soppesa, sta, in bilico. Come la punta massima, l'altezza dove arriva la bambina sull'altalena, immobili i suoi capelli senza gravità nel cielo, prima di scendere giù con le sue gambette e i calzettoni arrotolati. La penna di Francesco Lagi (gran bella realtà la compagnia Teatrodilina: “Zigulì”, “Banane”, “Le vacanze dei Signori Lagonia”) in questo “Gli uccelli migratori” fotografa e solca questo attimo, quel momento dove tutto lasciava supporre che le cose scivolassero verso la sua normalità, prosecuzione di un passato vicino e recente e consolatorio e conservatore, ed invece, inspiegabilmente, senza nessun cenno d'avviso, vira, si sposta, corre verso altre direzioni. Bloccare lo strappo, fare la slow motion del crack, il rallenty sulla caduta prima dell'atterraggio quando ancora il volto è disteso ma una ruga premonitrice precede la sbucciatura sulle ginocchia.
E c'è gioia mista a terrore, lo spavento del burrone, dell'ignoto, dello sconosciuto. Ed è un momento di passaggio anche quello che Lagi flasha con il suo obbiettivo con i suoi “Uccelli” (visto al Teatro delle Spiagge, spazio sempre pronto ad intercettare nuovi validi modi di fare drammaturgia contemporanea), storia (storie, anzi) sospesa e pennellata tra un surreale possibile e un irreale credibile. Storie di solitudini e ricerca di vicinanza, come se avessero confuso il positivo e il negativo alle calamite. Molti atomi (maschili) ruotano attorno al nucleo (femminile). E' la donna che dà la vita, che genera, che porta doni alla terra.
Sembra di stare in una casa nel bosco, quasi Heidi, Casa nella Prateria o Cappuccetto rosso, tutt'attorno una foresta (ci ha ricordato l'impianto metaforico sia del “Sentiero dei passi pericolosi” di Michel Marc Bouchard o “Una pura formalità”, pellicola di Giuseppe Tornatore) di salici piangenti, di garze di mummie a calare al suolo, di bende sporche di ferite mal cicatrizzate (e qui in sottofondo non ci starebbe male “Scar tissue” dei Red Hot Chili Peppers) tra le quali fare zig zag e slalom, come tra i problemi e gli ostacoli che la vita, che è un continuo bivio da prendere, da selezionare, ti pone davanti. Una scrittura fluida e ben articolata che va dalla concretezza della ragazza rimasta incinta (Anna Bellato, metronomo della migratori2scena), al nuvoloso e pannoso del fratello professore che sta scrivendo e correggendo lo stesso romanzo da dieci anni (Mariano Pirrello, tira fuori tutta la sua carica zen placida, tra le righe, tra il non detto), dal vacillante ingegnere che ha saputo solo il giorno prima di stare per diventare padre ma che vede la propria fine vicina (Francesco Colella, una certezza affidabile e generosa), al trasognante del cercatore di uccelli, un San Francesco moderno che parla ai volatili (bella scoperta Leonardo Maddalena). E i pennuti non sono altro che i sogni che si spostano, oppure l'essere umano che, se non sta più bene in una certa situazione, deve cambiare strada e rotta, invece di incaponirsi testardamente, incancrenirsi alla ricerca di una soluzione che nella maggior parte dei casi non esiste.
Tutto ruota attorno a questa nascita, né cercata né voluta, ma adesso benedetta. Questo “uovo” nella pancia della ragazza è la spinta per un nuovo inizio, per tutti, la prima pietra miliare di una nuova costruzione, linfa per queste vene chiuse dentro destini che sembravano inamovibili. E la vita è femmina, non ci sono dubbi. Gli uomini (“Tre uomini e una culla”, “Tre uomini e una gamba”) sono apprensivi, la assillano, le stanno attorno, la soffocano, vogliono prendere, succhiarle quella vita che loro non riusciranno mai a portare in grembo. L'equilibrio sta per rompersi, per andare in frantumi come il calcare del guscio alla schiusa. E il bambino (anzi, non poteva che essere una bambina) è quella crepa salvifica, quell'hurrà, quell'olè da gridare in aria, alle nuvole, agli stormi che passano e a volte oscurano, ma solo per un attimo, il sole: “La paura degli uccelli di buttarsi nel vuoto e imparare a volare”. E' un ricominciare, la nascita, un nuovo inizio per tutti, un brindisi alla vita.
“Migrano gli uccelli emigrano con il cambio di stagione giochi di aperture alari che nascondono segreti di questo sistema solare” (Franco Battiato, “Gli uccelli”).

Tommaso Chimenti 12/02/2017

CALENZANO - “Dove tra ingorghi di desideri alle mie natiche un maschio s'appende, nella mia carne tra le mie labbra un uomo scivola l'altro si arrende” (Fabrizio De Andrè, “Princesa”).

Nella parola “maschio” o “maschile” c'è quel “ma” iniziale che fa da incipit, un termine che parte dubbioso, febbricitante, ipotetico, contraddittorio, sospeso, in bilico, nell'incertezza di un prima che vacilla, traballa, si tende. Nella “fiammina” invece si sente il calore, la linfa che cresce, il fuoco, la fiamma attratta, con una forza contraria a quella di gravità, verso l'alto, le nuvole, il cielo, come un dito infuocato ad indicare le stelle. Maschio e femmina, uomo e donna, mondi lontani che, a volte, si riuniscono in un corpo solo.masculu1
Masculu e fiammina”: cosa rimane di un rapporto nel quale si sapeva ma non si parlava, si conoscevano fatti e dettagli ma si evitava di metterli sul piatto, di discuterne, scandagliarli? Una madre (echi di “Psycho”, ma senza thriller né splatter), che adesso sta distesa orizzontalmente, ferma, immobile, defunta, una lapide, una foto, una rosa, un piolo, distante ma vicino, che fa da contraltare, scomodo, dove il figlio, ormai anch'esso anziano, che la va a trovare al camposanto, si siede, quasi fosse una penitenza, per raccontare quello che già la madre intuiva, aveva notato, sospettava: la sua omosessualità.
Saverio La Ruina è attore sensibile e fa della gentilezza e dell'armonia i tratti fondamentali della sua ricerca e della sua progressione nella drammaturgia italiana. Affronta temi difficili, ampi, scivolosi, ma lo fa con la leggerezza della strada, del paese, con l'utile riparo di un dialetto che è sempre aspro ma che nella sua bocca, tra i suoi denti, dalle sue labbra esce come sibilo arrossito e timido, sillabe dolci. La denuncia La Ruina la fa, l'ha fatta, la farà, passando da “Dissonorata” a “La Borto”, fino alla violenza casalinga sulle donne di 000masculuPolvere”, con l'impegno e il puntiglio, con la volontà di non dare mai lezioni né aprire le porte della conoscenza ma con quel tocco soffice, una carezza potremmo dire, che ci conduce dentro storie che già conosciamo, lette distrattamente nella cronaca senza soffermarci, sentite in uno dei tanti tg arrotolando un nuovo giro di spaghetti. La sua narrazione è semplice, e qui esplode la sua forza, una piccola cascata di parole che mai travolge con prepotenza ma che, con guanto di velluto, sfiora, passa sulle cose, come una pennellata, un canto, una mano nella mano.
Parla con lei”, potremmo dirla alla Almodovar. Le voci lontano che gracchiano di sottofondo ci portano in un abitacolo ristretto, giardini chiusi nell'ombra, piazze assolate, cortili interni, portici e archi di periferia, una voce che fa ricordo e famiglia, infanzia e poi adolescenza e infine gioventù e maturità, quella voce che ti chiama quando giochi, quella voce che riecheggia nella testa, quella voce che è filo che ti lega, boa di salvezza, casa dove tornare, quella voce che è mamma, che è madre, che somiglia al parlato dell'attacco di “Diamante” di Zucchero Fornaciari, poche parole in dialetto strascicato che già fanno tempo che passa e brividi. Il figlio racconta, si confessa a questa madre che ormai con il suo silenzio (qui non è omertà: “Grazie per tutto quello che non mi hai detto e per quello che non mi hai chiesto”) può solo annuire e acconsentire a questo sfogo, finalmente, lieve, emancipato, pulito, risolto. La neve tutt'attorno è simbolo di quiete, di cappa morbida, anche se somiglia a una spruzzata di cenere vulcanica, caduta per ammantare nel segreto, proteggere in una bolla sospesa nel tempo (forse il dialogo-monologo è immaginario), queste parole che hanno percorso tanto tempo prima di essere partorite.masculu2
È un'esistenza piccola e fragile, fatta di poche cose quella del “nostro”, tra zie da accudire, gli amori del passato, la panchina posizione privilegiata dalla quale guardare lo scorrere immobile del piccolo centro cittadino del Sud impantanato nei pregiudizi e in quel bullismo denigratorio, composta da offese e sberleffi, vergogne ed emarginazione, verso i “masculi a cui piacciono i masculi”. Alla madre (a se stesso, in definitiva) riporta le angherie, ma senza lamentazione, gli epiteti, ma anche con autoironia, gli sgarbi fino alle minacce e alle percosse fino alla morte pasoliniana del compagno aggredito e ucciso con l'unica colpa d'essere omosessuale.
Una vita a subire, gli occhi addosso, una normalità dei sentimenti mai potuta vivere fino in fondo, sempre “braccato”, nascosto, nell'ombra. E tra i santi Cosma e Damiano, la prima coppia di fatto della cristianità sempre accorpati e associati, la Riccione degli anni '70 e “Ti amo” di Umberto Tozzi, tra un ricordo di commozione e una ventata pop, l'affresco che ne esce è una protesta civile, senza rivendicazioni né astio combattivo aggressivo, una richiesta al mondo di più ascolto e meno giudizio, guardare e considerare l'altro che ci si para davanti, sia che tu sia “masculu” sia che tu sia “fiammina”, soltanto per quello che è: una persona.

Tommaso Chimenti 29/01/2017

CASCIANA TERME – “Il mondo sarebbe un posto di merda senza le donne. La donna è poesia. La donna è amore. La donna è vita. Ringraziale, coglione”. (Charles Bukowski)

Il punto non è essere “Uno, nessuno e centomila”, il problema è quando non vieni considerato, non sei valorizzato, non hai voce in capitolo proprio perché non ti mettono nel computo degli aventi diritto a dire la tua, ad esprimere la tua opinione in merito, non hai parola, non puoi dissentire, proporre, argomentare. E' la situazione, obbligata, coercitiva, chiusa, prigioniera, nella quale si trovano milioni di donne ad ogni latitudine, l'altra metà del cielo che, nel primo come nel quarto mondo, gli uomini continuano a sfruttare, usurpare, violentare, stuprare, uccidere, addirittura supportati dalla legge, dalla legalità, dalle costituzioni.03plati
L'accoppiata Grazia Di Michele e Mauro Coruzzi, in arte Platinette, colpisce duro al cuore della questione alternando musica e racconto, parole e battute, profondità e leggerezza per arrivare fino in fondo al nocciolo della materia. E Grazia e Mauro, chitarra l'una, lingua appuntita l'altro, carezzano e schiaffeggiano questi uomini che sono ancora, non tutti ovviamente, irrispettosi, violenti, retrogradi e che hanno paura dell'emancipazione della donna, delle loro madri, sorelle, mogli.
E' l'ambiguità il filo conduttore che lega le varie trame del tappeto sonoro di “Io non so mai chi sono” (merito ad Andrea Kaemmerle che li ha portati per due sere in Toscana, al Teatro delle Sfide di Bientina e al Teatro Verdi di Casciana Terme) cuciti a mosaico, come fosse una stuoia orientale calda e colorata, diventando ora una ragazza costretta dai parenti alla prostituzione che ogni volta incarna quell'amore che questi uomini non hanno mai avuto, adesso una madre anziana che non ricorda più i nomi dei componenti della sua famiglia, ora una coppia italiana di oggi, anni duemila, dove il marito è padre-padrone e la moglie cuoca-amante-schiava-sguattera, una donna costretta a vedere il mondo attraverso i quadratini offuscanti di un burqa.
La voce tenue e forte, mai aggressiva, della Di Michele, si sposa bene e fa da contraltare all'irruenza pacifica, alla mole di simpatia e freschezza spumeggiante di Platinette (che nascondono una malinconia seppiata e un velo di tristezza, una patina di lacrime) vero animale da palcoscenico che non solo illumina la scena, la riempie, cattura l'attenzione, la 00platicatalizza, se la mangia con le sue battute al vetriolo, i suoi ricordi sciantosi, i suoi virgolettati acidi (in tempi sanremesi è scatenato/a e inarrestabile, inarginabile dalla cantautrice romana) ma perdonabili su Valeria Marini come sulla moglie di Renzi, su Maria De Filippi come su Emma, su il trio Il Volo e Albano, non fa sconti a Tiziano Ferro come a Mina e Celentano. La parrucca che ha in testa, biondo platino appunto con striature rosa e ciuffo che le pende sugli occhi, gli/le fa da corazza, da armatura, proteggendo il Mauro che sta dentro, sotto il trucco, ma che non ha paura né timore di mostrarsi con le sue debolezze e fragilità. E' per questo che Mauro/Platinette (si autodefinisce in una strofa di una canzone “sono una bionda leggermente vistosa, sono una bomba completamente esplosa”) è travolgente ed è così amato/a, in egual modo da giovani e adulti, uomini e donne, perché, sotto il cerone e il rossettone eccessivo, sotto le smodatezze tutte dichiarate, è vero, frangibile, sensibile, colpibile, uno che, nonostante le botte e i colpi della vita, ce l'ha fatta, e non parlo di notorietà e successo, è riuscito ad essere se stesso, a farsi accettare proprio perché si è accettato. Cantano, duettano, si scambiano ruolo sempre senza abbassare la guardia nel segnalare ed evidenziare il disagio e l'emarginazione che molte donne provano ogni giorno della propria vita sulla loro pelle senza via di fuga o salvezza. La donna non è soltanto una musa passiva per suscitare versi e strofe vuote.

Per tutte le violenze consumate su di lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l'ignoranza in cui l'avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le sue ali che avete tarpato, per tutto questo: in piedi, signori, davanti ad una donna”. (William Shakespeare)

Tommaso Chimenti 09/01/2017

LUCCA – “Sei solo nato nel momento storico peggiore per essere un maschio bianco, eterosessuale e cristiano” (Chuck Palahniuk, “Red Sultan's Big Boy” in “Romance”)

In bilico tra l'inno e la ridicolizzazione, come è nelle corde sarcastiche e pungenti di Roberto Castello, veleggia questo maschio “Alfa” da più parti, negli ultimi decenni, demonizzato, irriso, vilipeso come uno straccio vecchio, come un corpo appartenente a una antica mentalità, a una condizione e concezione vintage dell'evoluzione. Eppure il maschio alfa è la prosecuzione della specie, è il dominante capobranco testosteronico che regge il peso di una comunità. E, sia in natura che nella società civile, è un efficace ed essenziale momento di consolidamento e raccordo di speranze e intuiti, di sintesi di un pensiero, di una semplice linearità salvifica. Un'altalena di aspettative e ricorsi, un'oscillazione tra la protezione, verso l'esterno, e la pericolosità, interna tra le quattro mura, rendono il maschio alfa potenziale danno e presenza energetica e salda in una elettricità, in un elastico a doppio filo che eccita e impaurisce, che esalta e incute rispetto, che attrae e allontana, che difende, preserva e ripara ma che non è addomesticabile. “Superuomini si nasce, grandi uomini si diventa” (Roberto Gervaso).alfa1
“Alfa” si inserisce perfettamente, e a pieno titolo, all'interno della stagione dedicata al “Genere” della Tenuta Dello Scompiglio, a pochi passi da Lucca (una riflessione sull'area teatrale tirrenica sul versante contemporaneo andrebbe fatta: oltre a Spam a Porcari, il Grattacielo e il Teatro delle Commedie a Livorno, il Sant'Andrea e i Sacchi di Sabbia a Pisa poco altro si muove sul litorale), in un contesto bucolico di vigne e fienili ma allo stesso tempo funzionale, attento ai passaggi, ai cambiamenti, che annusa l'aria di quel che sarà. Castello, qui regista e non coreografo, crea un ensemble di momenti, un mosaico di scatti nei quali emergono ad intermittenze luminose, quasi flash back nella memoria ancestrale, impressi nella nostra corteccia cerebrale, lampanti visioni su questo uomo chiamato ad assumersi responsabilità e a caricarsi sulle spalle il futuro e il domani del suo clan e della sua specie, in conflitto con un mondo circostante che lo vuole b(l)andire, boldrinianamente, dal ventaglio delle possibilità, eliminare dall'album di famiglia, estromettere perché ritenuto portatore di valori negativi, bollato come primordiale, non evoluto, pericoloso. “Il superuomo è il senso della terra” (Friedrich Nietsche).
Come ogni uomo alfa che si rispetti, questo nostro (Mariano Nieddu ha forza interpretativa impattante e quella catarsi che gli permette di calarsi totalmente, sempre convincente senza strafare mai: sicurezza e certezza), immerso in quest'aia colorata e solida di blocchi di cemento da periferia urbana, è attorniato dal suo harem, dalle sue groupie (Alessandra Moretti, Ilenia Romano, Francesca Zaccaria ai microfoni come coro da concerto) di compagne e amanti o dal gineceo familiare che vede in lui un punto di riferimento. Scudi di asfalto verticale, come posati a barriera, a difendere privilegi acquisiti ma anche argini valoriali dietro i quali nascondersi e ripararsi di fronte all'ondata di perbenismo manicheo che avanza, quasi una Stonehenge moderna, un abitacolo-ricettacolo delle peggiori ansie della pancia del Paese, accerchiati da lettere grondanti odio e razzismo, sesso e fascismo. In questo brodo primordiale, fatto anche di distruzione e prevaricazione, l'uomo alfa sperimenta e assorbe grazie alfa2anche al maschilismo delle donne che gli gravitano attorno e addosso che lo spingono a indossare i panni, a tratti consunti e già ampiamente sfruttati, dell'uomo forte, dell'uomo solo al comando, della punta dell'iceberg, del cavaliere senza macchia, del capitano coraggioso e temerario.
Il maschio alfa diviene quindi anche condizione non scelta ma assegnata, non volontà ma costrizione per “sopravvivere e moltiplicarsi”, “in competizione per l'immortalità”, “freccia che punta all'infinito”, “memoria imperitura”. È la Natura non la società pulita e asettica che vogliono costruire azzerando le differenze, appiattendo, a colpi di leggi ed emendamenti, milioni di anni di trasformazione, crescita, progresso, sviluppo, perfezionamento. In fondo siamo, anche, animali. Lo vogliono silenziare, mettere in un angolo, non dargli più voce in capitolo, mettere a tacere, alla porta, emarginarlo, metterlo alla catena come Melampo. Si stanno impegnando per mettere al bando e alla berlina peli e muscoli, per costruire, a tavolino, come in un laboratorio, un mondo senza linfa, senza nerbo, senza spina dorsale, senza ossatura né colonna vertebrale, impaurito e molle che frana al primo colpo di vento, che cede al primo colpo di Stato, acconsentendo passivo e prono. “L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, un cavo al di sopra di un abisso” (Friedrich Nietsche).
Se da una parte viene anche esaltata la sfera decisionale, dall'altra, come contraltare, l'alfa è tratteggiato e disegnato, meglio fotografato (come nella locandina della piece) e raffigurato come Ken, l'eterno ragazzo impostato di Barbie, belloccio ma finto, di plastica. Dopo tanto teatro omosessuale, con istanze (anche giuste) omosessuali e questioni omosessuali, problemi della comunità omosessuale e nudi e strusciamenti e ammiccamenti omosessuali, gay e lgbt (e qui potremmo fare un cospicuo e corposo elenco di esempi che dal palcoscenico scivolano spesso nel comizio), ecco un teatro eterosessuale. Che piaccia o meno il maschio alfa è necessario, imprescindibile. Chi ha paura del maschio alfa?

Tommaso Chimenti 06/12/2016

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