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ROMA – La scena è scarna, delimitata da una parete nera. Sul palco ci sono già gli attori, i corpi fissi in posizioni statiche. Daria Deflorian, appoggiata a un termosifone, segue con lo sguardo gli spettatori che prendono posto in sala. Antonio Tagliarini, performer e coreografo, è sulla sua stessa traiettoria. Dal 2008 hanno incrociato i rispettivi percorsi artistici cominciando un assiduo sodalizio (tra i più interessanti della scena contemporanea degli anni dieci) che nel teatro ha trovato la sua quadra per un comune terreno di ricerca, già costellato in Italia e all’estero di importanti riconoscimenti. “In alcuni momenti vi chiederemo di chiudere gli occhi. Naturalmente, vi diremo quando riaprirli”, sono le parole che aprono ‘Il cielo non è un fondale’, progetto del 2016 (già vincitore del Premio Ubu 2017 per Luci e Allestimento Scenico, di Gianni Staropoli), con cui l’atteso duo teatrale ritorna a Roma in scena dal 6 al 10 marzo al Teatro India insieme agli attori Francesco Alberici e Monica Demuru.

Sulle note di una canzone di Dalla, apostrofata a cappella dalle qualità vocali di Monica, si dice “La terra finisce e lì comincia il cielo”. Qui, specularmente, il sogno finisce e comincia il ricordo: è il meccanismo da cui parte la riflessione autogestita dai quattro personaggi coinvolti per loro volontà d’intromissione nel monologo di Antonio. Questi racconta dal principio di aver fatto un sogno in cui Daria è diventata una senzatetto a cui – confessa onestamente – non avrebbe mai fatto l’elemosina. “Io nel sogno non mi sono fermato. Perché?”. Perché c’è chi nella vita “non si sente responsabile del dolore degli altri”. Anzi, sarebbe troppo impegnativo occuparsene. Daria, dall’aria stranita, reagisce raccontando di quando le capita di proiettarsi in una vita simile, di quando un giorno – passeggiando nei pressi del Teatro Argentina – nei giardini in via Arenula a Roma si è rivista nella barbona seduta a una panchina poco distante. Eppure, il racconto di Antonio non è mai stato vero. Piombano allora nella conversazione Monica e Francesco completando la geometria di un discorso, dapprima intimo, con l’intento di mettere a nudo nel tramite onirico i fantasmi di un’identità in continuo divenire che scava negli abissi interiori, sul fondale di turbamenti rimossi.

Quattro coscienze che s’incrociano simmetricamente nel dialogo, raccontando tutti a turno eventi che hanno segnato il proprio quotidiano, di cicatrici mai sanate e malinconie di smarrimento nella città vuota. E, immersi nella cornice del sogno quale altro labirinto della mente, si ascoltano, trovano il coraggio di rivelare ossessioni quotidiane, bisogni taciuti, l’umana paura di fallire. Con le domande – per esempio, “quando siamo dentro casa e fuori piove, cosa pensiamo dell’uomo che fuori è rimasto sotto la pioggia?” – il racconto accelera, indietreggia, si insinua nelle pieghe nascoste della memoria collettiva: Antonio parla dell’incidente che ha messo in standby la sua carriera da danzatore, Daria evoca con nostalgia le letture giovanili appostata al termosifone dove era solita farsi una birretta, Francesco s’immerge nella Milano dei reietti, venditori di rose e amici pakistani, Monica inscena (rimarchevole anche nell’arte rumorista) voci e brusii da supermercato. Un teatro minimale fondato su un flusso prettamente verbale, parlato spontaneamente, perché tutto si regge sulla forza comunicativa della partitura e, come in poesia, sull’emozione che si deposita nelle pause tra il detto e il silenzio.

def/tag1Se casa è il proprio posto nel mondo e il termosifone in ghisa un elemento tipico dell’abitazione domestica, scegliere di trapiantare quell’oggetto in un contesto teatrale – e in un teatro scarsamente provvisto di azione scenica – vuol dire trasformare la base astratta e concettuale del lavoro in un’analisi concreta che, sbarazzatasi rapidamente dagli equivoci del metateatro, dilata il senso della parola nello spazio, accompagnandosi di tanto in tanto al movimento del fondale che, dominando il retroscena, pone in risalto la presenza degli attori e trasforma in materia le voci. Curioso come l’inusuale drammaturgia del duo, che quasi mai proviene da un patchwork convenzionalmente classificabile in quanto letterario, ma costruita a partire da immagini, suoni e sollecitazioni varie, in questo caso sia un continuum fluido di singoli flash sul tema dell’infelicità urbana (associazione presa a prestito dal pensiero di Camus, citato una volta, sul destino irrazionale dell’uomo) su cui aprire e chiudere gli occhi. Un montaggio testuale intelligente, ultraframmentario nelle molteplici sequenze accumulate, zeppo di intervalli comicamente brillanti (soprattutto quando è la Deflorian a raccontare delle disavventure alle prese con cavi elettrici e chiodi da fissare al muro), che si chiude nel cerchio di un refrain musicale: ‘La domenica’ di Giovanni Truppi, amplificata dal microfono, e dall’immagine che il quartetto compone dislocando i sei termosifoni nella scena buia, come a voler consustanziare un dato di fatto: che il teatro necessiti di calore umano.

“Si cerca la pace e si va verso gli altri perché ce la diano. Ma è chiaro che possono darci soltanto follia e confusione. Bisogna dunque cercarla altrove, ma il cielo è muto”, scriveva Albert Camus nelle pagine dei Taccuni che compilò fino alla morte interrogandosi sulla condizione di chi, scaraventato nel mondo, deve rassegnarsi a vivere straniero in società. Chi siamo noi negli altri? Quesito che tirerebbe fuori un lungo trattato esistenzialista. Per rispondervi Deflorian/Tagliarini scardinano in ogni sua logica convenzionale il dispositivo base della sintassi teatrale, spostando la linea di confine tra persone e personaggi, perché nella messinscena gli attori conservano il proprio nome reale. Durante le loro improvvisazioni in prova si appuntano – così come lo scrittore francese fece nei suoi diari – note a margine, fatti esterni al teatro, frammenti immaginati, aneddoti personali innescando il motore di una rappresentazione che, negando se stessa, si compie nella sua costruzione definitiva.

Anche se sembra apparentemente mancare di una drammaturgia precostituita in forma unitaria o uno stile formalizzato di recitazione, ecco che la fattura compositiva di Deflorian/Tagliarini si colloca per la sua natura anti-drammatica al tempo prima dell’ingresso in scena. Perché quando il pubblico vi assiste, il lavoro è già concluso. Perché se il cielo non è (che) un fondale – titolo ispirato a un passo delle Disumane lettere di Carla Benedetti – il teatro deve sottrarsi alla funzione di replicare l’autenticità del reale, di per sé inimitabile, e recuperare invece l’input che ha attivato il processo creativo per avvicinarsi, lontano da ogni artificio, all’essenza della verità e dare vita ai paesaggi dell’anima. Resta, tuttavia, la porta aperta: un nodo irrisolto per cui se il teatro, per farsi, deve dall’esterno intrappolare la vita in una forma visibile, non può fare a meno di scontrarsi col limite di poter “esistere solo attraverso il dire”, nel qui e ora della rappresentazione.

Sabrina Sabatino 08/03/2019

MODENA – La scena è sgombra, pulita, larga. Ha già in sé i codici interiori di questa narrazione rarefatta, sbocconcellata, addentata e poi attesa sul bordo, tra il dietro il velatino (che si colora tenue) e davanti alla platea che rimane lì complice ed esclusa, vorrebbe ma non può. La nuova creazione ad orologeria di Deflorian-Tagliarini prende le mosse, l'incipit, la cornice, soprattutto è un pretesto (c'è chi dice che il pretesto sia già testo) da “Deserto rosso”, pellicola di Michelangelo Antonioni. A differenza degli ultimi loro lavori visti, “Reality”, tratto dalla notizia di cronaca della signora che annotava ogni suo più minimo gesto e azione quotidiana su dei diari, o “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”, dalla crisi greca passando per un suicidio di anziani che non ce la facevano più a (sopra)vivere, qui in “Quasi niente” (prod. Teatro di Roma, Metastasio, ERT) è la finzione il motore trainante, e non la realtà, è la celluloide l'innesto e la miccia. E questo, soprattutto all'inizio, tiene più QUASI-NIENTE_ph-Claudia-Pajewski_LR-6099.jpglontani, più distanti, sicuramente meno coinvolti emotivamente. Ma è questo “niente”, per nulla sollevato o addolcito da quel “quasi” che paradossalmente peggiora la situazione facendo cadere il sostantivo nello stallo tremendo immutabile, che lentamente entra di sottecchi, come sotterfugio, strisciante si fa strada nelle pieghe dell'ascolto e tutto ammanta, conquista inarrestabile, attanaglia caviglie e stomaco, ci fa sentire impotenti, soprattutto vicini a quella depressione che aumenta ma mai fino alla disperazione devastante ma rimanendo in quel limbo fastidioso come un sibilo, insopportabile come un acufene che non permette la definitiva discesa agli inferi e quindi la risalita e la rivoluzione.

Quel star male ma mai così male da poter prendere in mano la propria vita e ribaltarla ma anzi trascinarsi nelle cose che ci conoscono, nelle azioni abitudinarie, come se ci potessero salvare dall'oblio, nelle ripetitività del consolatorio, nel chiuso delle nostre quattro mura senza la voglia di scambiarsi (l'altro fa sempre paura e crea disordine nel meticoloso castello di carta innalzato a barriera), di misurarsi, di confondersi, di prendersi responsabilità, di instillarci nuovi dubbi. In questo piano, come detto diviso in due, tutto è delicato e raffinato, delicato e pastello, hopperiano per costruzione, lineare per definizione, dove tutto sta al suo posto ma è e rimane e non vive, non muta, non prende forme. Al massimo viene spostato, che siano mobili o persone.

QUASI-NIENTE_ph-Claudia-Pajewski_LR-6407.jpgCinque persone, cinque personaggi, che poi in definitiva sono cinque momenti di vita, visti dalla sponda maschile come da quella femminile (la depressione non ha generi, la depressione non è classista né sessista né razzista), cinque età, la trentenne, la quarantenne, il quarantenne, il cinquantenne, la sessantenne, cinque specchi e caleidoscopi di quella che fu la Giuliana del film, la grande Monica Vitti. Ma il cinema si confonde con le persone e con le personalità degli attori creando e modellando questa lingua d'asfalto calda, pare immobile, di silenzi che aggrediscono e staticità irrevocabili, di pause strazianti che tolgono il respiro. “Non ce la faccio più” è il refrain ma non si sa bene di che cosa non ce la facciamo più queste cinque figure e soprattutto non hanno armi per difendersi, non hanno più linfa da mettere in campo per deviare i colpi, per incassare o per offendere e rispondere a loro volta (“Se sia più nobile tollerare le percosse di una sorte oltraggiosa, o levarci a combattere tutte le nostre pene e risolutamente finirle? Morire, dormire, null’altro. E con il sonno dar termine agli affanni dell’animo e alle altre infinite miserie che sono l’eredità della carne”, Amleto docet).

Monica Piseddu, non la accomuna soltanto il nome con la Vitti, è, come al solito, strepitosa nel suo essere misurata, nel dare voce alla marginalità con quella levità soave per niente bonaria, mentre abbiamo finito gli aggettivi per il duo Deflorian – Tagliarini, artisti che plasmano la materia (sempre più “francesi”), ma anche i silenzi, i non detti flebili e tutto quello che sta, invisibile intangibile muto, in cielo e terra (ritorniamo a Shakespeare). Complementari i due innesti, Benno Steinegger che dà fisicità e presenza, e Francesca Cuttica, voce di velluto appuntito traQUASI-NIENTE_ph-Claudia-Pajewski_LR-6421.jpg Nada, Cristina Donà e Mara Redeghieri degli Ustmamò. Questo non è un dramma ma è molto drammatico, è un Purgatorio di melassa che, nella sua fissità e fermezza, non permette alcun passaggio al livello superiore, al Paradiso, alla serenità. E' l'ansia (tra Francis Bacon e Pollock ma al rallentatore) la protagonista principale, è il sentirsi sempre fuorigioco, incapaci di affrontare le piccole sfide della vita, di riuscire ad avere un pensiero lucido sull'oggi, su se stessi e sul posto che occupiamo nel mondo, sulle priorità.

“Quasi niente” mette a nudo il fango che t'impasta e ti tira a fondo e quando te ne sei accorto ormai sei troppo immerso nel tunnel, hai perduto la strada, non vedi più la luce e tutto è lontanissimo, tutto inafferrabile, desolatamente distante e la fatica si fa sentire e ti rassegni ad un altro giorno ancora così, un altro e poi un altro ancora. Niente soddisfa più, niente ha un senso: “Se potessimo vivere la vita come le sequenze al cinema” si dicono, per avere una direzione certa, una guida in questo mare sconfinato di scelte che poi ti lascia immobile, stranito, straniato, debole, inerme, disarmato, senza filtri, senza pelle (D'Alatri), in mezzo al Deserto, che sia Rosso o di altre sfumature. Il vuoto avanza e non lo puoi fermare perché è un nemico che sa come seminarti tra ossessioni e disagi vari, sogni di disastri e distruzioni.

QUASI-NIENTE_ph-Claudia-Pajewski_LR-6478.jpgE' un soffio amaro, una carezza ruvida e sottile, una richiesta d'aiuto muta, un abbraccio senza forza, è “Quasi niente” che sembra meglio del niente ma che invece rimane alibi all'isolamento: “Quando non sono malata mi sento poco interessante, non mi percepisco”. La serenità vista come una tregua: “Ho solo sotterrato tutto sotto un grande Fare”. Come sventolare una bandiera bianca ad un nemico che però porti e curi e culli dentro. Sono tutti Giuliana, siamo tutti Giuliana. Prima o poi, a flash, a strascichi, a lampi, ad intermittenza o quotidianamente. Non riusciamo ad abituarci all'idea di noi, all'idea del troppo tempo a disposizione, all'idea della fine. Tutto questo ci uccide.

Tommaso Chimenti 29/11/2018

Foto: Claudia Pajewski

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