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PALERMO – L'operazione è senz'altro curiosa ma chiamarla “operazione” non rende giustizia e merito ad un connubio di arti dove, palese e tangibile, si respira poesia, vicinanza, apertura dentro mondi reconditi, nascosti tra lo sterno e il cuore e ben ovattati, fragili, esposti, terreni senza pelle, senza protezione, senza paracadute né scudo. E' una confessione a cielo aperto, la botola che si apre, i fantasmi (che tutti ci portiamo appresso e che ci affaticano e appesantiscono) che lambiscono tutte le nostre esistenze, nessuno escluso. 186434700_10215142210867021_4675561433605609139_n.jpgE' per questo che “Tempo inFausto” (prod. Contemplazioni) è una piccola piece intimista e “universale” costruita in tandem tra Toscana e Sicilia, opera senza tempo appunto, che riesce a cogliere sfumature lontane, un retrogusto amaro ma anche rilanciare i dadi sul piatto della meraviglia. Toscana e Sicilia terre di biciclette tra Alfredo Martini e Gino Bartali, Paolo Bettini e Franco Bitossi, solo per citarne alcuni, da una parte e Nibali dall'altra. Siamo, dopotutto, in tempo di Giro d'Italia. Quell'infausto, aggettivo che ci racconta di lutti e dolori, diventa qui, omaggio e pretesto al grande Fausto Coppi sulla sua bicicletta a scalare, a conquistare, a combattere, eroe e gigante delle due ruote, amato e ammirato e poi deceduto banalmente. Le ruote del grande ciclista diventano il tempo, una giostra che gira senza fermarsi, che tutto trancia, tracima, forgia, pota, incessantemente, senza sosta né posa.

inzerillo.jpgMa la curiosità della quale parlavamo in sede iniziale sta nell'agglomerato, quasi assembramento, che sul palco (siamo nello spazio palermitano de “La Vicaria” di Emma Dante, nel quartiere Zisa, presente alla replica e molto colpita dall'operetta) prende forma, si anima e agita: tre attori (puntuale e metronomo Iris Barone, “la Scaccina” che manda via le presenze negative), di cui uno muto, una gallina, nella doppia versione statua e successivamente reale, due biciclette, quattro “mummie”, un terzetto jazz che suona dal vivo. Ecco l'ingranaggio, il perno, il fulcro di tutta la vicenda attorno al quale si spana e dipana questo “Tempo inFausto”: queste sculture, vere opere d'arte fabbricate dalla manualità e dal pensiero di Cesare Inzerillo (qualche anno fa ci siamo imbattuti in una sua folgorante installazione dentro un container a Lari), costruttore, falegname, artigiano, artista (ha esposto alla Biennale di Venezia come al Vittoriale di D'Annunzio) ma anche curatore di mostre (da anni lavora a fianco di Vittorio Sgarbi), cineasta (con Franco Maresco), uomo dalle mille risorse, uomo rinascimentale di Cinisi. Queste creature, in questo mondo-bolla in apnea dietro il velatino che porta già con sé nostalgia e il trasporto sentimentale di un passato perduto, illuminate prendono vita: due donne appese, un nano con delle ali che ricorda gli studi leonardeschi sul volo e appunto Fausto Coppi. Un Coppi che si sdoppia, da una parte l'attore Eros Carpita (pedala e recita, in questo ci ha ricordato l'attore Emanuele Arrigazzi nel suo sfolgorante monologo “Tempi maturi” tutto in sella) che regge bene la scena e il ruolo, mentre diametralmente gli fa da contraltare la sua “controfigura” costruita dalle sapienti mani di Inzerillo dafe-0b48-439f-875b-682e822b9ffd.png(ispiratosi alle mummie nelle Catacombe del convento dei Cappuccini nel quartiere Cuba), come un Giano bifronte, come guardarsi allo specchio.

Il testo, di Loris Seghizzi (che a Lari ha costituito la sua compagnia Scenica Frammenti e il festival Collinarea), ha carica e potenza evocativa, è un candelotto pronto ad esplodere di lirica, è onirico come il canto delle sirene, metafisico, suadente, è affascinante quanto può incutere paura nelle sue digressioni sull'anagrafe che cammina, sul nostro presente che sarà spazzato via come polvere. Una drammaturgia a capitoli di cupa bellezza, buia e lucida, una bellezza vissuta minuto per minuto senza lasciar cadere nemmeno una goccia, a meno che non sia di sudore. Qui il dolore è tangibile ma nessuna lacrima deve essere versata nel ciclo delle vita, nella normalità di nascita, crescita e abbandono. E' la giostra appunto che ruota al suono di un carillon mefistofelico e filosofico che ci culla in questa dimensione altra e ci conduce in un'ampia riflessione che ci ha riportato alle sonorità grammaticali e sintattiche di “Samarcanda”, la ballata di Roberto Vecchioni: “Una vita intera per comporsi e poche ore per decomporsi” ti taglia, ti squassa, ti ferisce nella sua verità. Più che una piece è un rito, religioso nel senso più alto del termine: “Mi fa più paura il tempo passato di quello che sarà”, perché il passato è incancellabile e immodificabile. La mummificazione però arriva salvifica per eternizzare il corpo, fissarlo nella sua posa, renderlo immortale. Un testo misterioso, cosparso di botole e trabocchetti, tranelli e ostacoli, dolcezze tiepide e il gelo della nostra caducità che scorre sottopelle.

Tommaso Chimenti 16/05/2021

BOLOGNA – “La cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili” (William Burroughs).

“La vita è come andare in bicicletta. Per mantenere l'equilibrio devi muoverti” (Albert Einstein).

Il rumore delle ruote che scivolano sui cilindri, rimanendo in perfetto equilibrio dinamico, è il metronomo che fa rima con il battito del cuore, sono le virgole a questo flusso di coscienza che non conoscearrigazzi pause, è il misuratore di fatica e sudore che scansiona l'aria, che rimette in circolo endorfine, è la cadenza dei passi sempre più affrettati dentro il bosco della nostra esistenza, dentro la conoscenza di noi stessi. “Tempi maturi” (prod. Casa degli Alfieri, visto al Teatro delle Moline dell'Ert Fondazione a Bologna) ha una grande scrittura alle spalle e un grande interprete sul palco. Palcoscenico in questo caso è un eufemismo: Emanuele Arrigazzi, ottimo attore (qui performer per un'ora di pedalata sostenuta senza flessioni né cedimenti), è stato anche un buon ciclista dilettante, le sue gambe tradiscono questa sua prima passione, il quadricipite e il vasto mediale non mentono, gonfi, pompano, spingono senza sosta verso un traguardo che si sposta sempre un po' più in là, ad ogni passo.

E' una corsa contro se stessi quella di Arrigazzi (corpose e piene le ombre create sul muro che sembrano altri sé che corrono al suo fianco, superandosi; le luci sono di Fabrizio Visconti) nei panni di un attore-ciclista che ha affrontato la vita per vincerla, per batterla, per combatterla, ma in fondo, e lui lo sa, non ha spinto fino al limite, non ha raschiato il barile, poteva dare di più e l'insoddisfazione, la frustrazione, il malessere deriva anche da questo, da quel quasi, dai tanti forse, dalla mancanza di decisione nei momenti che contavano come uno sprinter in volata sul traguardo.

arrigazzi2Come ne “La Maratona di NY” di Edoardo Erba, dove lì i due protagonisti corrono su un tapis roulant, come ne “Le regola del giuoco del tennis” di Mario Gelardi lo sport è il sottofondo, è l'azione mantra che mordicchia senza essere protagonista, è contesto e pretesto, cornice dentro la quale muoversi in gesti ripetitivi che creano un tappeto dentro il quale accordarsi, accomodarsi scomodi, movimenti che ritornano, che incantano, che trattengono.

La bicicletta qui (grande lo sforzo fisico e la precisione, la dedizione e l'impegno di Arrigazzi) è sia compagno che aguzzino, sia confidente che avvoltoio, amico e sanguisuga che gli toglie le energie migliori. La bicicletta ha l'unica catena che ti rende libero. E' uno spettacolo non tanto sul ciclismo, nemmeno sullo sport, ma è un monologo sulla necessità di fare fatica, fatica come azione quotidiana per ripulirsi dai pensieri, fatica dosata per reggere meglio l'urto con l'oggi, fatica per essere più forti e più stanchi, più pronti e più tenaci. Ipnotizzano i raggi delle ruote che corrono come scorre il tempo sulle nostre rughe. Che poi i tempi non sono mai maturi oppure lo sono quando noi decidiamo di mettere un punto e cominciare a far sì che lo siano realmente invece di trascinarci tra mancate aspirazioni, cocenti delusioni, ambizioni fallite, chili di alibi, sensi di colpa senza prendersi le giuste responsabilità. Siamo noi stessi i primi grandi nostri nemici, ci freniamo, ci mettiamo i bastoni tra le ruote (appunto), ci fermiamo, ci facciamo paura.

“Tempi maturi” ci parla del cambiamento (dall'essere figlio a mettere al mondo un figlio, ad esempio), dei momenti di passaggio che vanno colti come papaveri di campo, di quegli attimi che è importantearrigazzi3 segnalare e selezionare, sottolineare e salvare nella nostra memoria, di tutti quegli scarti dove si percepisce chiaramente che gli ingranaggi hanno scattato all'unisono, di tutti quei crack che dentro di noi prima ci rompono per ricomporci più consapevoli. Ed il testo (scritto con abilità e cura, scelta delle parole e attenzione da Allegra de Mandato) è maschile e mascolino, muscolare e diretto che pare vergato da un uomo e allo stesso tempo presenta quella sensibilità delle cose perdute, dei margini sfuggiti, della non messa a fuoco, dell'impossibilità, della manchevolezza.

Mentre il protagonista corre, ininterrottamente in questo equilibrio precario, nel flusso del racconto di Arrigazzi (attore di razza, sempre concentrato e coriaceo ma anche permeabile alle emozioni che passano dalle parole sudate alle ruote e da queste al nostro ascolto sempre più partecipato: siamo tutti in bici con lui, tifiamo per lui, il nostro antieroe) si inseriscono dei piccoli sottocapitoli, capoversi illuminanti dove è percepibile il cambio di registro, la crescita dell'uomo anche grazie alle sconfitte, sempre mal digerite, alle cadute, mai accettate, ai lutti: si passa dai “Tempi Felici” di un passato recente, e ci sovvengono i giorni di Beckett, che diventano “Tempi Duri”, ci si impantana nei “Tempi Fermi” si arrigazzi4crede che i “Tempi stanno per cambiare”, si passa dagli agognati “Tempi di Guadagni” ai “Tempi Superficiali”, si incrociano i “Tempi d'attesa” pensando che siano ancora “Tempi Acerbi”, ed ancora i “Tempi Difficili” che lasciano il posto ai “Tempi di Confusione”, fin quando, finalmente, i “Tempi sono Maturi”. In questa grande galoppata, in questa cavalcata su quest'asfalto virtuale, passando dal lavoro dell'attore, gli amori leggeri, le piccole grandi prove che la vita ci pone davanti, la bicicletta (potremmo sostituirla con lo sport, la fatica, che è comunque prendersi cura, volersi bene, non lasciarsi scivolare nel torpore dell'oblio, dell'indifferenza) c'è sempre, come confronto con gli altri, termine di paragone, droga sana, palliativo, esigenza, tormento, necessità. Lo sport ti dice chi sei e a che punto sei, ti dice che se hai fatto molto non hai ancora fatto niente perché domani si ricomincia, ti dice che se molli non perdi contro gli altri ma perdi il rispetto di te stesso, ti dice che vincere o perdere vale ma vale di più dare tutto e sentirsi beatamente stanco e soddisfatto perché hai fatto il massimo. “Tempi maturi” è una dose di coraggio, è una spinta a non abbattersi, è un incentivo a pedalare anche quando non ce la fai più, anche quando, soprattutto, la salita si fa più ripida. I tempi sono maturi per vincersi, per battersi, per respirare: commovente.

Tommaso Chimenti 13/02/2019

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