Grotesk!: una risata vi libererà
Vi è stato un tempo in cui anche un paese come la Germania, ancora scossa dall’onda di morte e dagli ingenti indebitamenti post-Prima Guerra Mondiale, si lasciava inebriare dallo spirito di ribellione ed estremo ottimismo di quelli passati alla storia come gli Anni Ruggenti. Era un paese che rideva, che amava correre sul filo dell’irriverenza, e perché no, dare anche un po’ di scandalo. Era uno spirito allegro e provocatore quello che si insidiava in ogni vicolo delle città tedesche e che passo dopo passo, finiva sempre per nascondersi nel tempio sacro del Kabarett berlinese. Un barlume di ottimismo e di democrazia, dove a essere re della notte erano loro, i comici ebrei, prima che il mantello del nazismo avanzasse ricoprendo di odio e terrore l’intera Germania. Sono anni spesso dimenticati questi. Anni sconosciuti o poco narrati, ma che oggi, grazie a "Grotesk!" spettacolo di e con Bruno Maccallini tornano come per magia a rivivere sul palco del Teatro della Cometa di Roma. Sera dopo sera, le risate degli spettatori che animavano quell’universo ubriaco di sarcasmo, whisky e gambe di donne seducenti, si mescolano a quelli del pubblico contemporaneo divertiti e stupiti dinnanzi a un portento del teatro come Grotesk.
Grotesk è la personificazione in salsa tedesca del pirandelliano “uno, nessuno e centomila”. Nel suo essere ibrido, egli è insieme fantasma di un sogno pronto a sfumare, uomo a tutti gli effetti, maschera irriverente, ghigno satirico, prestigiatore e ventriloquo, ma soprattutto “conferenziere – presentatore” di uno spettacolo da lui ideato col solo intento di far rivivere tempi andati e personaggi dimenticati. Eccola allora la magia del teatro, quella di trasformarsi in macchina del tempo e riportarci ad anni dicotomici in cui alle risate subentrano le grida di terrore e l’odio razziale prende il sopravvento sugli applausi a scena aperta. Perché la Berlino di Grotesk è una città in cui «tutto è accaduto, o sta per accadere». Una magia qui potenziata da una moltiplicazione visuale, dove lo spettacolo teatrale si alterna alla proiezione di filmati d’epoca, e a inserti musicali. Una perfetta commistione di cinema documentaristico e musicale, che fa di “Grotesk” un’opera difficile da confinare entro i limiti di un singolo genere; è un’opera dalla natura eterogenea, doppio perfetto del suo omonimo protagonista. Bruno Maccallini è ineccepibile nel ruolo di conferenziere; un imbonitore di folle pronto a guidare uno show raffinato, elegante e, allo stesso tempo, sublimemente disturbante. Le sfumature di una storia come quella della Germania, che dagli sfavillanti anni Venti vira verso la catastrofe bellica, trovano la propria voce grazie a Oskar Grotesk e al suo interprete. Oltre alla differenziazione mediale - con la voce narrante della pellicola cinematografica che lascia spazio a quella di Maccallini intento ora a cantare, ora a declamare barzellette o divertenti aneddoti - il vero punto di forza dell’intera opera è l’alternanza di diversi registri linguistici in base ai sentimenti dominanti in un dato momento. E così il Grotesk imbroglione inizia a parlare napoletano, mentre quello impegnato a dar voce ai comici ebrei che, rinchiusi nei lager, cercavano una via d’uscita attraverso la nascita di una risata, recita le proprie battute adesso con fare squillante, adesso in un rispettoso tono commosso e sospirato.
Maccallini, one-man-show di uno spettacolo teatrale che è anche pagina di storia, tiene desta l’attenzione del pubblico nonostante si trovi a calcare da solo il palcoscenico. A fargli da spalla un’orchestra di tre musicisti nascosti da una tenda semi-trasparente che li rende spiriti musicanti di un mondo ormai perduto. L’attore-autore-regista passa con estrema facilità da un linguaggio all’altro; i suoi sono salti che lo portano in alto, mutandone la propria natura, da semplice interprete a cantante, per ritornare a vestire i panni del comico, o dell’inarrestabile provocatore. La semplicità dello spazio teatrale e della scenografia minimale è compensata non solo dalla personalità esuberante di Maccallini, ma anche dai significati nascosti dietro ogni gioco di ombre, o dei numerosi cambi d’abito compiuti a vista: il rosso acceso della giacca indossata durante il mini spettacolo di magia è ben presto sostituito da quello blu acceso nei momenti più allegri, e, infine, dal nero funereo segnalante l'avvento del Terzo Reich.
“Grotesk” si può dunque definire un esperimento ampiamente riuscito, dove ogni ingranaggio è stato inserito meticolosamente. Eppure dietro a tale studio qualcosa sembra comunque stridere. Nonostante la scelta di arricchire l’opera con numerosi pezzi musicati risulti funzionale al genere teatrale qui proposto, vi è come la sensazione che a lungo andare il susseguirsi a breve distanza tra loro di diversi brani li faccia apparire ridondanti e noiosi. La stessa reiterazione di un medesimo stesso brano fa sì che i 100 minuti totali della performance vengano percepiti come il loro doppio. Non si esime da qualche critica l’ultimo, straziante, numero finale. Esso condensa in pochi attimi e in una manciata di minuti, pensieri e testimonianze che meritavano ben più spazio all’interno dell’opera. Vi poteva sussistere, cioè, un migliore bilanciamento tra la prima parte e la seconda, tra la risata e la lacrima. Perché se è vero che ridere rende liberi, altrettanto indispensabile è ricordare da che cosa si vuole rifuggire, cercando di mantenere comunque il sorriso sulle labbra.
Elisa Torsiello 06/05/2018
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