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PARMA – Stiamo aspettando che la meteora ci arrivi sulla testa. E staremo lì a filmarla per poi postarla. Siamo quegli uomini e donne della pellicola “Don't look up” che guardano al cielo, avendo avuto in precedenza tutto il tempo per prendere delle decisioni sensate e che invece si sono interrogati, divisi, lacerati, litigando furiosamente in fazioni ideologiche per, infine, non arrivare a nessuna soluzione, disuniti (e anche qui potremmo proporre una citdownload (1).jpgazione sorrentiniana dell'ultimo “E' stata la mano di Dio”), disarticolati, scaramantici, primitivi, riducendosi a pregare quando ormai non c'è più niente da fare invece che fare qualcosa quando ancora il tempo glielo consentiva. E' riduttivo definire “Saluti dalla Terra” (a cura del Teatro dell'Orsa di Reggio Emilia, visto a Europa Teatri a Parma) un testo ambientalista o ecologista: è uno spettacolo d'amore, per noi stessi, per il pianeta dove viviamo, che ci accoglie, che ci sfama, amore per il prossimo che verrà che troverà macerie e distruzione, un clima impazzito di tornado e caldo atroce, specie animali estinte e fotografie sbiadite di un mondo che è stato e che, come miraggio, non sarà più. Si saluta quando si arriva e lo si fa quando ce ne stiamo andando, nel caso tra l'uomo e la Terra siamo, purtroppo, nella seconda ipotesi. Venticinque quadri come fossero una lunga lettera dispiaciuta, un chiedere perdono per i danni che abbiamo arrecato, per la morte che abbiamo portato, per l'arroganza, la presunzione e l'ignoranza delle quali siamo stati capaci avendo avuto il desiderio di manipolare tutti gli esseri viventi ai nostri voleri, vendendo la nostra salute (stessa radice di “saluti”) per il soldo, l'economia, questa tanto celeberrima e chiacchierata crescita.

Aveva ragione Teatro dell'Orsa, Saluti dalla Terra - foto di Gaetano Nenna (1).jpgToro seduto quando diceva “Quando avranno inquinato l'ultimo fiume, abbattuto l'ultimo albero, preso l'ultimo bisonte, pescato l'ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro”. Il nostro è un momento storico che dovrebbe essere fatto di consapevolezza e di scelte epocali invece stiamo solo attendendo, perché pigri, la fine che inesorabilmente sta arrivando, si sta avvicinando a passi da gigante. Ma, ignavi e fintamente ignari, facciamo finta di niente, andiamo avanti fin quando l'aria sarà irrespirabile, il mare totalmente di plastica, la pioggia chimica, la terra piena di scorie nucleari, solo allora, forse, ci metteremo le mani nei capelli incolpando, ovviamente, le generazioni e i governi precedenti, bestemmiando Dio o pregandolo a seconda dei casi, attaccando la sfortuna, accusando il karma, invocando il destino. Stiamo aspettando un intervento esterno (“Extraterrestre portami via” cantava Eugenio Finardi), ma nessuno verrà a salvarci: “Se hai bisogno di una mano, guarda in fondo al tuo braccio”, diceva Confucio. Dobbiamo prenderci le responsabilità quotidiane delle nostre azioni, del nostro vivere, del nostro stare su questa terra che “non abbiamo ereditato dai nostri padri ma lo abbiamo preso in prestito dai nostri figli”. Siamo molto più bravi a lamentarci e ad indignarci con un post sui social o un pollice contro verso qualche istanza o raccolta firme per poi, nella vita reale, continuare con il nostro stile di vita che, evidentemente, crea disuguaglianze sociali e deforestamento, squilibri, povertà, miseria, guerre. Nessuno vuole rinunciare ai Teatro dell'Orsa, Saluti dalla Terra (2).jpgsuoi diritti acquisiti, al suo piccolo lusso ferocemente conquistato, nessuno vuole fare un passo indietro e siamo disposti a crepare tutti insieme invece di cercare di cedere qualcosa all'altro: “Less is more”.

Ancora non abbiamo capito che siamo tutti, tutti i popoli, tutte le nazioni, una cosa sola e, come diceva Jim Morrison “da qui nessuno uscirà vivo”. L'egoismo è la miglior qualità e pregio dell'uomo. Non ci sarà la classica “fine del mondo” ma il globo sta già lentamente morendo e perdendo i suoi pezzi, la sua biodiversità, le foreste che scompaiono, gli animali che si estinguono, i cambiamenti climatici estremi ma non siamo disposti ad intervenire sulle nostre piccole esistenze, aspettiamo leggi e decreti per poi lamentarci che lo Stato è “fascista” e limita le nostre libertà di inquinamento. Quando ci sarà la fine del mondo preferiremo guardarla su uno schermo, in streaming, in diretta con la cena portata da un deliveroo perché non ci vorremo certo perdere lo show. Perché ormai tutto è diventato uno spettacolo da mostrare e se non c'è un “video virale” allora non esiste e se ci preoccupiamo sarà soltanto in mezzo ad un like per un gattino, un apprezzamento per il panda, un cane abbandonato, un bambino con la faccia buffa, qualche guerra sparsa qua e là. Tutto sullo stesso piano.

Il Teatro Teatro dell'Orsa, Saluti dalla Terra (7).jpgdell'Orsa (in scena i compatti e affiatati Monica Morini, Bernardino Bonzani, Lucia Donadio, Elia Bonzani) fa un teatro civile comprensibile e aperto a tutte le generazioni (questa la loro forza: essere intimi e vicini), il loro modo di stare in scena è un abbraccio, è un prenderti per mano senza darti soluzioni o indicarti con il dito come peccatore. Non giudicano ma ci dicono “Siamo insieme, siamo sulla stessa barca”. Ecco infatti la metafora, che ci accoglie e ci saluta alla fine (amaramente), dell'Arca di Noè, perché l'idea più semplice che l'uomo vorrebbe applicare sarebbe quella di, dopo aver lordato tutto un pianeta, abbandonarlo a se stesso, invece che tentare di ripulirlo proprio perché lo deve abitare. Il musicista (Gaetano Nenna, musiche originali composte insieme ad Antonella Talamonti) ha il casco da apicoltore e sulla scena si alternano ruoli tristemente ironici (si ride molto ma subito dopo averlo fatto ci sentiamo in colpa di aver sorriso delle nostre quotidiane stupidità). Il refrain di fondo è che dobbiamo salvarci da noi stessi, dalla nostra ingordigia, dalla nostra fame di conquista, dalla nostra volontà di sottomettere le altre specie, gli altri esseri umani. Il dolore causato ad altri esseri viventi non porta mai gioia e ormai dovremmo averlo capito che la politica e l'economia globale sono fortemente connesse con l'ambiente. Il miglior dissenso però che le nostre menti illuminate e progressiste possono mettere in atto è allargare le braccia sconsolate e dire “E' molto difficile cambiare sistema di vita”, oppure perdersi dentro “Ormai” consunti e “purtroppo” sbiaditi.

Impossibile non parlare di Greta e della biosfera, e arrivano i due affaristi “brechtiani” imprenditori con la maschera con il nasone aquilino (che ricorda Zanni della Commedia dell'Arte) quelli che godono e soprattutto guadagnano con le catastrofi, e tanti animali in miniatura, e viene citato Chico Mendes, il sindacalista della Foresta Amazzonica ucciso dai latifondisti. Preferiamo parlarne e discuterne più che mettere in atto politiche, sociali, personali, quotidiane, per la salvaguardia del nostro pianeta anche perché, come dice uno slogal semplice ed efficace: “No Planet B”. Siamo come “la gatta sul tetto che scotta”, come quegli animali che, anche mentre la casa sta andando a fuoco, decidono di rimanere, preferendo morirci che scegliere altre soluzioni alternative, certamente più faticose e destabilizzanti, da attuare. Stiamo scegliendo di lasciarci morire perché non siamo minimamente disposti a rinunciare alle nostre comodità acquisite. Stiamo scegliendo di non scegliere e alla fine ci sarà presentato il conto della nostra stupidità.

Quelli dell'Orsa hanno carisma e padronanza della scena e dei linguaggi teatrali (dopotutto gli adulti sono soltanto bambini cresciuti) per far passare alti concetti e renderli malleabili, fruibili, Teatro-dellOrsa-Saluti-dalla-Terra-foto-di-Gaetano-Nenna-1280x720.jpgedibili, digeribili da una parte con dati scientifici a supporto, dall'altra con scene che folgorano come fulmini, affreschi che impattano, ci scuotono dal nostro torpore, ci smuovono, ci danno la scossa, ci schiaffeggiano, ci risvegliano. E quando ci raccontano che le montagne più alte, quelle dalle nevi che erano considerate perenni, si stanno sciogliendo, e le foreste bruciano e l'Artico sparisce e gli iceberg collassano e il livello del mare sta salendo allora non può far altro che prenderci la paura. Ma la consapevolezza non basta più. Un mappamondo illuminato ci fa vedere la bellezza della nostra Terra ma anche che l'abbiamo sempre trattata come un giocattolo. Il pianeta Terra senza l'uomo vivrebbe meglio, se noi sparissimo rifiorirebbe. Però preferiamo fare gli struzzi e dire “Andrà tutto bene, il problema non esiste” proseguendo per una strada che si fa sempre più piccola e spinosa e tortuosa e in salita, continuando a spingere sull'acceleratore sperando in un miracolo che, sappiamo già, non accadrà. La frase iconica che ci lascia storditi di “Saluti dalla Terra” è: “Se fai l'ambientalista senza fare la lotta al capitalismo fai solo giardinaggio”.

È la fine del mondo sopra la rovina sono una regina. Questa terra sparirà nel silenzio della crisi generale ti saluto con amore. Con le mani, con i piedi, e con la testa, con il petto, con il cuore, e con le gambe, con il culo, coi miei occhi. Questa è l'ora della fine, romperemo tutte le vetrine, tocca a noi, non lo senti, come un'onda arriverà, me lo sento esploderà, esploderà. La fine del mondo è una giostra perfetta, mi scoppia nel cuore la voglia di festa. La fine del mondo, che dolce disdetta mi vien da star male, mi scoppia la testa” (La Rappresentante di Lista, “Ciao, Ciao”).

Tommaso Chimenti 28/03/2022

Foto: Gaetano Nenna, Alessandro Scillitani

REGGIO EMILIA – Sono le storie i fili che ci tengono legati, come gli aquiloni, alla terra, quel suolo che ci sarà lieve, un giorno, e che altre volte ci fa sentire pesanti, al netto della forza di gravità. Sono le parole che ci fanno uomini, ci rendono passaggi fondamentali di sapere e portatori sani di sapienza, trasmettitori di memoria, connettori di sguardi. E questo lo ha capito bene “Reggionarra” in un susseguirsi di tre giorni dove la città del Tricolore ribolle di piccole grandi, semplici e genuine, mai naif, iniziative che hanno al centro due capisaldi: l'uomo e le sue narrazioni. Che cosa siamo in definitiva senza la parola, quella stessa che si fa essere incarnazione di valori e parabole, leggende e fiabe, arcani e nostalgie ma anche di insegnamenti e conoscenza. C'è chi racconta, mai spiegI lettini delle storie (4).jpga pedantemente, ma c'è, e ci deve essere, chi ascolta in uno scambio continuo, in osmosi, di pensiero e attesa, agognando il passaggio successivo. Le parole, quelle buone che non danno soluzioni precostituite e preconfigurate, ma quelle che scardinano, che spostano, che spingono un po' più in là, che aiutano, che sostengono, che fanno riflettere, che aprono porte e finestre, che mai chiudono, parole che accolgono e includono, che abbracciano e scaldano, che riempiono, che pongono domande, pungolano. Feticcio e iconografia per le storie è quel “C'era una volta” candido da nonna e lenzuolo, quel rimboccare le coperte verso l'età adulta per insegnare non che i draghi non esistono ma che i draghi, quotidianamente, grandi o piccoli che siano, si possono sconfiggere, con la tenacia, la coerenza, la costanza. Il drago è la nostra paura e si può battere soltanto affrontandolo: la fiaba è il primo passo verso la consapevolezza di quel bambino che un giorno sarà adulto. O forse gli adulti non smettono mai di essere bambini.

Da questo “sogno” nasce l'ideazione curata, sempre con attenzione e delicatezza, dal Teatro dell'Orsa (i reggiani Bernardino Bonzani e Monica Morini), i leggeri ed eterei, trasognanti come pan di zucchero e spirituali come lievito, “Lettini delle storie”. Si entra nel loro mondo incantato, in punta di piedi, silenziosi, rispettosi, nel loro immaginario fiabesco, religiosamente laico e profano, che, in un attimo, ti riporta indietro nel tempo quando la nonna o la mamma ti raccontavano una favola, forse sempre la stessa e che volevi ascoltare, per consolidarla, per consuetudine ma anche in maniera consolatoria, ogni sera per provare il piacere della paura e il timore che potesse cambiare il finale. I lettini sanno sempre un po' Monica Morini e Bernardino Bonzani.JPGdi Freud e psicanalisi, di racconto intimo e parole personali, incantate e chiuse in una parentesi, un dialogo profondo tra il narratore e l'ascoltatore. All'interno dell'inquietante Galleria Parmeggiani, tra bauli e armature, vasi e lance da collezionisti che rimbalzano nelle epoche e nei secoli, dove la Storia la senti presente, pressante e pesante, ecco gli angeli in bianco (i tanti giovani narratori che arrivano per l'occasione da tutta Italia formati dall'Orsa e da Antonietta Talamonti), cadaverico o celestiale, che ti conducono per mano, con leggerezza infinita e sfioramenti che abbattono la quarta parete, alla tua postazione, al tuo incontro uno ad uno, occhi negli occhi. E' un rito con le sue formule e i suoi dogmi: ti devi lasciare andare. Si ritorna indietro nel tempo, a ritroso, piacevolmente, ci si lascia cullare, coccolare accoccolati tra queste parole soffuse e lievi che incantano dolci, che scendono quasi a coprire le palpebre o le lacrime.Monica Morini e Bernardino Bonzani (2).JPG

Importante e fondamentale è l'incrocio degli occhi, saldo che non si abbassa mai, e il tatto e contatto, le mani, le dita, i polpastrelli, nei piccoli gesti che fanno casa e rifugio, salvezza e famiglia, forse placenta e posizione fetale, sicuramente riparo. Qui non può succedenti niente, sei al sicuro. Il tuo lettino, vicino ma non troppo ad altri lettini, è lì che ti aspetta. Ti devi togliere le scarpe, lasciare la tua anagrafe fuori da quelle lenzuola immacolate di latte, abbandonare la tua biografia e fare un salto carpiato al te bambino, quello che voleva succhiare ogni parola distillata per rincuorarsi, rinfrancarsi, crescere faticosamente un po' di più ogni sera. Le parole cadono come fiocchi di neve, il tono è basso, tutto è confortevole sdraiati sotto la zanzariera del lettuccio a baldacchino: la coperta è bianca, il cuscino è bianco, l'abito leggero della vestale è bianco. Sei invaso dall'abbacinante bagliore di tutta questa purezza che cozza con la penombra intorno, quella Storia che, attraverso gli oggetti in esposizione tra teche e vetrine, esprime guerra e sangue, battaglie e morte.

I lettini delle storie.jpgHanno costruito un piccolo universo fragile fatto di carezze e sorrisi, di lievità, friabile e amorevole. Sei immerso, per mezz'ora, in un sogno fanciullo e puro, in un'aurea sospesa: è una fortuna esserci. E senti la tua storia (“La Bella e la bestia” uguale per tutti) e ne percepisci pezzi e parti che arrivano e provengono dai lettini vicini, come echi precedenti, il passato che ci accomuna, come riverberi di ciò che stiamo per vivere, il futuro che ci attende. E' una lezione da imparare la gentilezza, la calma, la pazienza, una lezione mai da dimenticare, sempre da alimentare, sempre da foraggiare non tanto a parole quanto con l'esempio. Il Teatro dell'Orsa, come la sua stella di riferimento, indica la strada maestra, la luce da seguire per non perdersi, senza forzature, senza pressioni: la dolcezza dell'incanto, la grazia del sussurro possono salvare il mondo.

Tommaso Chimenti 21/05/2018

REGGIO EMILIA – Dopo aver visto, dopo essere stati immersi nella fiumana di centinaia di persone che seguivano il corteo teatrale degli “Argonauti” a cura della compagnia reggiana Teatro dell'Orsa, è inevitabile chiedersi dove stia andando il teatro, quali strade stia prendendo e soprattutto che cosa oggi, e sempre più, stia cercando il pubblico. C'è sempre una crescente fame da parte della platea di recuperare gli spazi cittadini, di riappropriarsene attraverso marce non politicizzate e pacifiche, di riconquistare, attraverso la cultura e la parola, terreni e territori, strapparli all'indifferenza e, perché no, anche al degrado, toglierli alle periferie di asfalto e cemento, renderli colorati e vivi. La gente ha sempre più bisogno di unirli, toccarsi, sentirsi parte di un qualcosa più grande del singolo che da solo si perde, cade, Teatro dellOrsa Argonauti foto miprendoemiportovia 4finisce nell'ombra e nell'oblio. Ma è, come tentavamo di spiegarci e di trovare logiche e dinamiche, un ritorno al passato (basti pensare al Living Theatre o all'Odin Teatret), mai tramontato, ad una modalità che da fuori, dalle strade e dalle piazze, è divenuto borghese al chiuso dei tanti teatri e spazi e che adesso sta progressivamente ritornando ad una dimensione corale cittadina dove tutti insieme si va, idealmente abbracciati e mano nella mano, a sentire, discutere in silenzio, prendere parte, dare il nostro appoggio a drammaturgie millenarie ma sempre attuali, sostenere con il corpo, con il numero, con le mani, con il passaggio affollato per una cerimonia tutta laica, per un rito che non ha tempo né fine.
Monica Morini e Bernardino BonzaniCome topolini a sciamare seguendo pifferai magici moderni (simile ad alcune processioni nelle pellicole di Ciprì e Maresco ma anche al “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo) ma imbevuti di parole antiche e arcaiche tra le vie e i parchi di Reggio Emilia dentro una grande avventura, un'esperienza da vivere e sentire, toccare. Così, l'arcano viaggio degli “Argonauti” (curioso come in questo stesso periodo un altro gruppo, il Teatro delle Albe, per giunta della stessa fervida regione, l'Emilia Romagna, abbia deciso di lavorare sullo stesso testo della mitologia greca) diviene, anche con segni facili, ben riconoscibili e semplici, metafora e simbologia degli sbarchi dei migranti, di chi cerca un luogo senza guerra, di chi insegue il suo “vello d'oro”. La compagnia Teatro dell'Orsa (ci hanno ricordato le piece itineranti al Cimitero Monumentale della Futa dell'Archivio Zeta) infatti, capitanata da Bernardino Bonzani e Monica Morini, vincitrice negli anni, tra gli altri, del Premio Scenario Ustica, I Teatri del Sacro e del Premio Cervi, lavora a tempo pieno, con grande lena ed energie, sul sociale attraverso l'arte e il teatro. La loro è una vocazione, una missione e una spinta verso l'altro. Il lavorare nel disagio, cercando di coglierne positività ed opportunità ed occasioni, è la loro colonna portante.
Ecco che in questo “Argonauti”, tra i venti giovani in scena, tutti in bianco candido antico, nove ragazzi provengono dall'Africa con il loro carico diTeatro dellOrsa Argonauti preparativi 2 storie e racconti e ricordi declinati però attraverso i parallelismi con questi versi millenari. Hanno bastoni e lance in mano per battere il tempo e condurci in questa Via Crucis che li/ci porterà alla salvezza, alla Terra Promessa, che diventano cartelli dove affiorano le sagome di navi e barche. Ai dialetti africani si sommano, in un incrocio musicale impastato di contemporaneità, i nostri idiomi del Sud: i nuovi italiani con gli emiliani di seconda generazione in un gramelot caldo che profuma di vita e occhi. E' un esercito, questo, di guerrieri sereni che si fermano davanti a te chiedendoti, e spiazzandoti: “Chi ti ha insegnato che cosa?” e la memoria torna all'infanzia, alla famiglia, a ciò che eravamo in un ponte nostalgico alle nostre origini. Il coro intanto canta a cappella (il contributo di Antonella Talamonti, storica collaboratrice di Giovanna Marini, prosegue felice a vele spiegate), batte i ritmi, coinvolge la platea che, seppur sotto una lieve pioggerella rinfrescante, partecipa di gusto, ci mette del proprio, insegue le vicende di Giasone e Medea, Pelia e la Colchide. I bastoni si fanno remi di natanti a solcare le strade di questo viaggio in stile Mario Perrotta (ricordando le megaperformance dell'autore-attore salentino “Bassa Continua” a Gualtieri e “Versoterra” in Puglia), i carrelli della spesa (e qui la memoria teatrale ci conduce ai Ricci/Forte) si trasformano in cavalli all'attacco con lanci di carta igienica e gli scontri sono partite a ping pong. La grande Festa popolare si conclude con il matrimonio tra Giasone e Medea in un clima di balli e felicità. L'Orsa però si ferma un attimo prima della tragedia che investirà la nipote di Circe e i suoi due figli. Ma questa è un'altra storia. Per adesso teniamoci il buono, i sorrisi, i calici alzati. L'Orsa splende in alto e ci consiglia la rotta.

Tommaso Chimenti 18/09/2017

REGGIO EMILIA – Tre cosine interessanti, al di là della formula della Relatività, abusata, le ha pur dette Albert Einstein: una era quella di Dio e dei dadi, ma il gioco d'azzardo non fa per noi, la seconda, fuochino fuochino, è quella del calabrone che non dovrebbe volare perché troppo panciuto e le sue ali così piccole e deboli; la terza è quella che ci interessa e che cade come il parmigiano sui tortelli verdi (dopotutto siamo in terra emiliana): “Quando le api scompariranno dalla faccia della terra, agli uomini non resteranno che pochi anni di vita”. Siamo legati a doppio filo a questi piccoli insetti laboriosi, simbolo dell'alacrità e dell'operosità, ma anche di quel sentimento che mette davanti all'individualismo e al personalismo il concetto di collettività. Come a dire, se estrapoliamo e riportiamo l'esempio all'umanità, che l'uomo terminerà la sua corsa sul binario morto dell'esistenza quando finiranno le storie, il passaggio orale, il racconto, la parola, le leggende, la fiaba, la comunicazione fatta di frasi e sillabe e occhi che brillano ad articolarle ed altri che s'illuminano ad ascoltarle. “Noi siamo le api dell’Universo. Raccogliamo senza sosta il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’invisibile” (Rainer Maria Rilke).1alv
L'Alveare delle Storie”, ideato dai tipi del Teatro dell'Orsa (gli instancabili Monica Morini e Bernardino Bonzani), costruttori e inventori di “Reggionarra” (per dieci giorni Reggio Emilia diventa la città per eccellenza dell'affabulazione e dei canta e cuntastorie) è un gioco semplice, un impianto lineare, un impatto artistico che miscela un grande teatro all'italiana (in questo caso il Valli) infarcendolo di piccoli gruppi che si annidano, scavano e scovano, sgattaiolano alla ricerca, palchetto dopo palchetto, dei loro narratori ai quali sono stati assegnati. Come carbonari. Un format che potrebbe essere ripreso (il successo è assicurato) in ogni città o comune; entrare nella pancia di un teatro vuoto, nella sua penombra pensosa mentre, si crede, che non sia in scena e in atto uno spettacolo, o almeno non nella versione classica, nella divisione platea-palcoscenico. “L’uomo non è destinato a far parte di un gregge come un animale domestico, ma di un alveare come le api” (Emmanuel Kant).
Si entra in un mondo altro, in una dimensione parallela dove i suoni sono ovattati e le parole hanno un'anima, un sentire, anche un odore e un profumo, una cantilena e una musicalità, una nenia e un'armonia di fondo ci guidano. Trentacinque angeli bianchi, colombi o fantasmi, spiriti o accompagnatori incorporei aleggiano tra gli stucchi dorati e i velluti rossi, i lampadari accesi con la luce bassa, i chiaroscuri che producono ombre magiche o terribilmente paurose. Delle domande vengono gettate nell'agorà; sono interrogativi esistenziali che vanno a scardinare la quarta parete dell'attore e del pubblico. Qui stiamo a contatto di gomiti e ginocchia. Te le dicono piano, passando, senza soffermarsi, quasi fosse una casualità, una fortuita coincidenza (e in questo il play somiglia alle architetture sceniche di Enrique Vargas e del suo Teatros de los Sentidos): 2alvQuante scarpe hai consumato per arrivare fin qua?”, sussurrano lasciando le porte della percezione aperte, quasi spalancate, “Ti fidi della tua storia?”, mormorano ponendoti davanti ad un bilancio, ad un bivio interiore. Siamo nelle mani di tanti Virgilio candidi, di altrettanti Cicerone immacolati e lattei. Ci affidiamo. Le voci di questi guerrieri di pace sono soffuse, leggere, si appoggiano fresche. Potrebbero essere vestali dai passi teneri e soffici come pazienti manicomiali nei loro canti a formare una patina densa, una cappa che spalma e plasma, attorniati dalle loro campanelle come imbonitori o domatori di serpenti, pifferai magici. “Sono una piccola ape furibonda” (Alda Merini).
Una ventina di palchetti sono illuminati al chiarore di un faro fioco, quasi lampara in mezzo al mare. Ovviamente i pesci, con la bocca aperta, siamo noi. Come su una zattera in mezzo a questo mare placido, navighiamo a vista. Se gettiamo l'occhio oltre il nostro porto sicuro, affacciandoci vediamo altre luci fiammeggiare da altri palchi, altre voci che raccontano altre fiabe millenarie, altre api che tessono storie, altre api che hanno assolutamente bisogno di quelle stesse parole che parlano di principesse e incantesimi, di Mito e profezie. È un cicaleggio continuo (la drammaturgia sonora è a cura di Antonella Talamonti), un chiacchiericcio come tappeto sonoro, a volte una parola rimbomba, si sentono rime in questo formicaio. Siamo Hansel e Gretel dentro la casa della strega, siamo Jona dentro la balena, siamo Pinocchio dentro il pescecane: felicemente indifesi. Ogni palco è una sospensione temporale, una parentesi dove aedi cerei e spirituali snocciolano storie come fossero piselli sgranati, le sbucciano come fave fresche, le pelano come patate spugnose. Queste voci calde e corroboranti ti entrano dentro, sbattono nelle orecchie, ciottolano sotto lo sterno. Suoni ed emozioni. Storie di vita e di3alv morte. Gentilezza e memoria. Saggezza e pazienza, rispetto e attesa. Scintillanti come piccoli fuochi in loop. Tra le ombre si racconta di sogni e di forza di volontà. Siamo dentro un grande carillon tra questi gironi celestiali, ci aggiriamo tra questi budelli, in questo intestino che ci dona intimità e profondità. Siamo talpe a scavare fino al cuore della terra, fin dentro le viscere del discorso immateriale e immortale che ha intrapreso l'Uomo fin dai suoi primi bagliori e barlumi. “Vola come una farfalla, pungi come un'ape” (Muhammad Alì).
4alvNe usciamo, sputati come l'omonimo protagonista di “Essere John Malkovich”, con alcuni grandi e semplici insegnamenti: quello di guardare con estrema curiosità dietro le cose e le persone, il non fermarsi alla prima occhiata o alla prima impressione, il cercare strade non battute, l'aspirare ad altri punti di vista. Dai palchetti muoviamo la nostra transumanza al palco in un serpeggiare; adesso guardiamo l'alveare illuminato con altre storie che prendono possesso, che scivolano dalle bocche, che s'intrufolano in altre orecchie. Sentiamo stralci delle favole che abbiamo sentito. In questo ribaltamento, nel vedere nel buio quelli che eravamo e che siamo stati fino a pochi minuti prima, ci viene in soccorso un'altalena che pende vuota, la fanciullezza, la spensieratezza, l'infanzia quando anche i sogni sono reali, ma anche lo slancio e il dondolarsi, il guardarsi ora i piedi e la terra, il vedere adesso il cielo sopra di noi. L'altalena è un ponte, un arco per fare un salto da ciò che eravamo a ciò che vogliamo essere. L'“Alveare” è il bisbiglio della placenta della mamma, è la poesia di una carezza di mani familiari, è il fiore che nasce in uno sguardo profondo. Ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne sogni la tua filosofia. Parole sante. Parole come miele. “C’è un'ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va...Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa” (Trilussa, “Felicità”).

Tommaso Chimenti 21/05/2017

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