Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

CASTROVILLARI – Ci sono dei bambini che corrono a perdifiato, a rotta di collo, giù per una duna di sabbia. Lavora, come sempre, sull'ambiguità e sull'ambivalenza dell'intelligenza la locandina della diciannovesima “Primavera dei Teatri”: se da un lato c'è il gioco, la corsa, la velocità, dall'altra c'è la caduta rovinosa, la nostra fanciullezza che va verso la discesa inarrestabile, il crash inevitabile e tutto intorno il deserto, arido, caldo che brucia e infiamma. Castrovillari, comune calabrese sotto il Monte Pollino, nella settimana a cavallo tra maggio e la Festa della Repubblica del 2 giugno, ha il suo rilancio. Qui le parole d'ordine sono peperoncino e Amaro del Capo (anche se ora si sta imponendo L'Amaro Silano, assolutamente da provare). Siamo tra la Basilicata e lo Ionio, i funghi del bosco e il sapore di mare. “Primavera” è una certezza, da sempre in equilibrio tra grandi conferme e nuovi linguaggi, tra assodati gruppi, consolidati artisti e felici scoperte.

Le tre anime principali del festival calabro, Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano, dopo venti anni vanno ancora d'accordo, anche questo è un piccolo miracolo. Si respira un bel clima, e noncastrobuonaed soltanto meteorologico, disteso, rilassato e al contempo professionale, preciso con quell'informalità (dopo tutto siamo in estate) propria della radice dalla quale proviene la parola festival: la festa, appunto. Ed in questa festa, per gli occhi e le orecchie, per la scena e il palato (must irrinunciabile una puntata all'Osteria La Torre Infame, proprio davanti al Castello Aragonese, con gli intramontabili Nicola e Pasquale vere colonne culinarie che sfamano gli appetiti festivalieri; peccato capitale è andare a Castrovillari e non assaggiare il Fuoco di Bacco, gli spaghetti piccanti cotti nel vino), abbiamo selezionato tre buoni motivi, tre slanci scenici, tre diverse angolature preziose dello stare sulla scena, tre urgenze, tre morsi, tre graffi, tre applausi focosi e appassionati. Da sottolineare anche l'ideazione dell'interessante “Progetto Europe Connection” che ha abbinato a tre compagnie calabresi (Brandi/Orrico, Aiello/Rossosimona, Saverio Tavano) altrettanti autori internazionali, da Polonia, Repubblica Ceca e Romania (il più compiuto e riuscito è stato “Confessioni di un masochista” di Roman Sikora con il parallelismo tra bondage e fruste e il mondo del lavoro sottopagato e frustrato), con alterne fortune e risultati con però l'importante risultato della commistione, del mix che porta a nuovi impulsi.

La Piccola Compagnia Dammacco chiude la sua trilogia con un salto produttivo e scenico in questo complesso e sfaccettato “La Buona Educazione” (coproduzione con Teatro di Dioniso di Michela Cescon) che rileva e sottolinea la bravura già ampiamente emersa di Serena Balivo (Premio Ubu under 35 lo scorso anno) che esalta le parole del regista e drammaturgo Mariano Dammacco. In una realtà leggermente spostata in avanti nella deriva dei sentimenti e dei social network, una donna volutamente senza figli (“Chi fa un figlio dà un ostaggio al destino”) viene improvvisamente travolta dalla morte della sorella e dal conseguente affidamento del nipote. La Balivo è effettivamente molto brava nel calarsi in questo contemporaneo (come argomentazioni e dipanatura delle riflessioni) teatro classico (come impostazione) e ambientandosi tra il divano immerso tra le solide e inquietanti figure-sculture antropomorfe (impregnante la scena di Stella castrobuonaed2Monesi; sul pavimento terra da arare, dalla quale nascono i frutti ma anche si seppelliscono sogni e cari) che pullulano in questo salotto di reclusione, in questa sala d'aspetto dove la donna ci racconta delle incomprensioni e delle distanze culturali e generazionali tra lei e il ragazzo. Inserti drammaturgici squillanti, originali e illuminantemente stralunati: la Giuria popolare del web, che decide delle nostre sorti, ci lancia dentro un grande Truman Show o Grande Fratello, le citate 4:48 sarahkaniane degli incubi del piccolo, quell'atmosfera cupa e ammorbante da “Città di K” della Kristof, il controllo dell'anima che pare un Allegro Chirurgo, l'innamorarsi degli oggetti al pari delle persone.

Un adolescente che si esprime coniugando, come un primitivo, i verbi all'infinito e che la denuncerà ad ogni suo rifiuto, ad ogni necessario NO per la crescita. Qualche appunto però dobbiamo farlo: la scrittura coglie e accoglie, fa pensare nell'ironia ma la piece raggiunge il suo climax quando la protagonista-Mary Poppins (sempre avvolta e “aggredita” dai suoi fantasmi amletiani che la consigliano e soprattutto redarguiscono) parla, nell'immensa poesia, della parmigiana alle melanzane della madre. Quello è il focus più alto e la commozione era tanta in sala, purtroppo al buio del cambio quadro si sono succeduti altri venti minuti (troppi innesti e sovrabbondanze in successione) che hanno chiuso le parentesi e messo a posto tutte le finestre aperte cercando una conclusione ininfluente che niente ha aggiunto. L'attrice, inoltre, forte e comoda nelle parole del suo autore, ha calcato molto la mano, si è appoggiata e sostenuta, sottolineando la calata, accentuando le risate dal pubblico quando ha sentito che poteva far leva su quell'espediente (ci ha ricordato la brillantezza di Sabina Guzzanti) per rafforzare la buona riuscita di questa prima nazionale. “La buona educazione” (al contrario della “Mala educacion” almodovariana) ci dice che forse in questo mondo non serve o non paga averla e metterla a disposizione del prossimo sempre pronto a pugnalarti; con le dovute cesoie sarà un testo che la provincia ben accoglierà, uno dei testi di maggior circuitazione per i suoi molti spunti e svariati livelli di lettura.

Coraggiosi, di rottura e iconoclasti sono, restano i Babilonia che tornano all'antica protesta frontale molto punk e soprattutto stavolta molto rock. Già dal titolo, quel “Calcinculo” che sa d'infanzia, dicastroBab adolescenza, di gioventù e Luna Park, di altalena e lanciarsi in alto, in cielo per prendere quella catenella che scendeva dalle nuvole. Oppure i calci in culo, non più altalena a bocche aperte e trasognanti ma le repressioni, le costrizioni, le punizioni di questo mondo, di questa società (“Calcinculo al presente immobile e inevitabile”). Calcinculo è più che altro un concerto vero e proprio e i Babilonia ci dimostrano attraverso la forma leggera, vengono in mente i vari talent show, da Amici a X Factor fino a Italian's Got Talent, di poter far passare contenuti densi e pregni, di lotta, di protesta, di ribellione. Ci sono le bandiere del Veneto con il Leone (loro che hanno vinto il Leone d'Argento alla Biennale!), ci sono gli estintori con i quali creare una difesa, un fortino all'allarme sociale, alle paure inscenate e alimentate da giornali e tv. E c'è agitazione e angoscia nelle loro parole pur se sciorinate da versi e strofe, c'è “La mia depressione che fa orario continuato, ha chiesto un part time e non gliel'hanno dato”. Tormentoni: “Devo fare il tagliando ai castroBab2miei ideali, senza manutenzione non c'è rivoluzione” danno il termometro e la scala dei valori di queste montagne russe tra l'impostazione leggera e la profondità del pensiero che ne sta alla base. E non hanno paura del giudizio e sono sfrontati e aizzano il pubblico tirandogli addosso i cartoncini di plastica per un giro al calcinculo della vita, oppure lo lisciano con una passerella di cani campioni di bellezza da esposizione (“Il mio vicino ha voce solo per bestemmiare, solo per chiamare il cane”). Fanno entrare una ventina di alpini per il coro finale fino all'eccessiva esaltazione, meramente come manifestazione estetica di spettacolo planetario, delle regie di morte dell'Isis che sopravanzano qualsiasi finzione scenica di cinema, teatro o fantasia (per aver detto che “L'11 settembre è stata la più grande opera d'arte mai esistita” il famoso pianista tedesco Karlheinz Stockhausen è stato emarginato dalla comunità artistica e accademica ed è morto nel disonore), inneggiando alla distruzione della Scala o del Colosseo. Speriamo che Salvini non se ne accorga, altrimenti ci aspettano picchettaggi all'entrata dei teatri come quelli che colpirono (e provocarono una nuova enorme ondata di pubblicità mondiale) Romeo Castellucci in occasione del suo “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”. Noi possiamo solo dire che vogliamo subito il cd delle canzoni con i testi di Enrico Castellani e la voce di Valeria Raimondi: farebbe le scarpe alle varie Michielin o Fedez.

Il funambolico e visionario Roberto Latini invece ha scovato un suo perfetto alter ego, PierGiuseppe Di Tanno, un “gigantesco” e dotato performercastrofortebraccio capace di vette vocalistiche, di movimenti sinuosi di danza, di flessibilità, di compostezza come di una resistenza fisica notevole, di cime interpretative che hanno attanagliato la platea a questo corpo, a quest'ugola, a quell'enfasi magica da lui creata. “Sei” (paradossalmente in questo periodo gira per teatri e festival un'altra rivisitazione del “Sei personaggi” pirandelliano a cura di Scimone e Sframeli) mantiene il testo con Di Tanno che presta voce e corpo ad ogni personaggio infarcendo il discorso con didascalie e note dell'autore. Diventa un racconto mentre lui se se sta su quest'isola claustrofobica e circoscritta su uno sgabello in alto (ci ha ricordato Silvia Gallerano ne “La merda”), una maschera di morte in faccia (come quella del gruppo indie “Tre allegri ragazzi morti”), tanto sudore e sofferenza, “Vivo e senza vita”, un collare elisabettiano shakespeariano, i leggins in latex. C'è tutto l'immaginario latiniano, l'erotismo sinuoso, l'eclettismo muscolare, le sfaccettature delle corde vocali, lo straordinario ventaglio di possibilità, la caduta agli Inferi. Di Tanno, una vera scoperta da premiare per forza, precisione, accuratezza e presenza scenica che tutto riempie, è piratesco appollaiato su questa “colonna” antica del teatro, ora è un Arlecchino adesso un demone abbandonato su quest'isola deserta, faro da dove scorgere i nemici. castrofortebraccio3Dopo “I giganti della montagna” Latini scompone e decostruisce anche i “Sei personaggi” inserendo anche pezzi dell'amato Amleto come nella scena finale, molto formale, della vasca da bagno con schiuma che fa tanto Marilyn. Un Pirandello frullato e centrifugato. Di Tanno è chiuso, rinchiuso, recluso, non può fuggire, isolato, relegato, bloccato; urla, si dilania, si duole, si strazia, s'angoscia, si strazia, si smarrisce, si lamenta e piange in uno stato osmotico con il pubblico che, insieme a lui, prova e cede, sente ed è altrettanto ferito. E noi con lui siamo folgorati, atterriti, sgomenti, partecipati. La riflessione di Latini sul teatro, sui suoi meccanismi e dispositivi, scandagliando le sue pieghe, continua, felice, scomposta, rarefatta, potente.

Tommaso Chimenti 05/06/2018

Foto: Angelo Maggio

CASTROVILLARI – Ci sono festival che chiudono e festival che raggiungono la maggiore età. Primavera dei Teatri compie diciotto anni. E li festeggia riaprendo una sala, il Teatro Vittoria, chiuso per un incendio da trenta anni, e adesso riconsegnato alla città. Castrovillari è sempre la stessa, il centro saldo delle operazioni è ancora la sua Fortezza, mentre il monte Pollino dietro gonfia il petto e all’ora del tramonto fa ombra, s’incupisce sereno e placido. Quest’anno la squadra di calcio della città è retrocessa. Nessuna paura, qui si tifa Juventus. Il vento scende sul corso che taglia e in discesa arriva fino all’Osteria della Torre Infame. Infame perché lì stavano i condannati a morte in attesa dell’esecuzione. In-fame perché, se ne hai, te la puoi togliere gettandoti in pasto agli “Spaghetti al Fuoco di Bacco”, piccanti e cotti nel vino, i “Maccaruni a firrittu del pastore”, con la ricotta, i “cancariddi arrustuti” (peperoni secchi fritti), le “patane mblacchiate” castro1(patate e peperoni). O puoi provare “cucurriddi e mirlingiane” (zucchine e melanzane), lasciarti tentare dalla “saburizza” (salsiccia piccante, e che te lo dico a fare). Nduja patrimonio dell’Umanità. Il palato schiocca, la lingua s’attorciglia in questo scioglilingua.

Lingua che è incipit e soglia, sosta e prolungamento, scivolamento e consonanza, caduta e risalita nel lavoro di Giuseppe Cutino, regia, e Sabrina Petyx, drammaturgia. “Lingua di cane” ci porta al “Cuore di cane” di Bulgakov. Pezzi, muscoli, organi. Son quelli che ci vogliono per sopravvivere, per tentare almeno di farlo. È anche un cercare di parlare di un fenomeno, quello dei migranti, sul quale in questi ultimi anni, anche e soprattutto in teatro, si è detto tutto ma sempre, o nella quasi totalità dei casi, in maniera diretta, dritto per dritto, raccontando l’orrore. Però, lo sappiamo, il teatro ha bisogno della metafora, del simbolico, del detto tra le righe, senza riproporre la cronaca, senza rincorrere la realtà che è molto più potente di qualsiasi racconto. A meno che non si scelga un’altra strada. Quella di una poesia cruda (certo la retorica è a tratti inevitabile) che coinvolge, spinge, sposta, dilania, riprende, recupera, porta in superficie sensazioni e situazioni, perfino corpi. E sono questi corpi (i siciliani della Compagnia dell’Arpa; in sei frontalmente emmadantescamente) ammessi a questa messa di ammassi di stracci, abiti galleggianti come fiori di loto in uno stagno, che non salvano ma affossano, pesanti d’acqua imbrigliano, s’attorcigliano agli arti impedendoti il nuoto e la risalita.
castrocaneBoccheggiano, i respiri si fanno profondi e intensi e sempre più la lingua vira verso un ennese stretto, i loro movimenti sono onde che sbattono sulla battigia, riflussi in un andare e tornare di fiordi e gorgoglii che forma curve della schiena e di polmoni, una danza macabra come un elastico che prende la rincorsa, si schianta e ritorna al suo posto. Un teatro fisico la cui portata s’ingigantisce, monta come panna, suda in questi frammenti che tolgono il fiato, affannano l’esofago in questa lotta feroce per la sopravvivenza. È un vortice quello che fluttua di vestiti e cenci che sanno di cimitero, Diluvio Universale e Olocausto, che sa di gioco crudele e fisarmoniche, come uscire da un bozzolo e nuovamente proteggersi come fa il riccio o l’armadillo, si annidano e si rannicchiano in un cantato-nenia-urla-preghiera soul e porosa. Vengono alla mente la “Venere degli stracci” di Pistoletto ma anche “L’Isola dei morti” di Bocklin e per finire il continente di rifiuti e plastica che staziona e s’amplia nell’Oceano Indiano. Le domande escono senza trovare riparo né soddisfazione, la barca è alla deriva (la loro reale? Noi, l’Europa metaforica?). La morte peggiore non è il decesso ma la sparizione. Se sei disperso, e non classificato come morto, non puoi attingere al senso di colpa, alla pietas, alla consacrazione, alle lacrime, alla perdita, alle cerimonie, ai fazzoletti, all’indignazione. Lo sapevano bene i generali argentini.

C’è un amore per la P, la lettera, nei titoli del gruppo veronese, Leone d’argento ’16 alla Biennale di Venezia, Babilonia Teatri. Sicastrobab parte da “Popstar”, passando per “Pinocchio”, “Purgatorio” e arrivando a quest’ultimo nato “Pedigree”. Che la P è anche l’iniziale di Padre che è centrale nel loro discorso scenico dove è proprio l’assenza del genitore maschio a farsi presenza ingombrante fino ad essere ossessione, tarlo, domanda strisciante che riempie le giornate e i pensieri di una vita. Un ragazzo ormai uomo (ritorna la forza espressiva di Enrico Castellani, vigoroso senza essere tragico) va a ritroso, indietro a scoprire i perché di quel buco nero che lo cinge e stringe. Cresciuto, e molto amato, da due madri, ha sempre sentito un vuoto incolmabile. Il padre biologico ha donato il suo sperma in una banca del seme per l’egoismo delle due donne che l’hanno sì ben cresciuto ma anche privato della sfera maschile utile, necessaria, fondamentale. L’indagine, scandita dalle musiche sdolcinate e ammiccanti, sensuali e pelviche (il gesto della penetrazione che manca a due donne), di Elvis, fa capolino sulla famiglia e sulla discriminazione paesana, sui giudizi provinciali sulle coppie di fatto.
Ma non è qui, comunque la si pensi, che i Babilonia si soffermano. Il salto è andare indietro, a quella mancanza paterna di questo genitore-milite ignoto, fumoso e allo stesso tempo onnipresente. Perché, indubbiamente, anche se il genitore mancante non ha potuto influire sull’educazione e sull’atteggiamento, sul DNA e sui tratti fisici quello sì. Quella del ragazzo è una “vendetta” lontana e distante: ogni anno per Natale organizza una cena, irreale, che riempie d’attesa tutti gli altri giorni dell’anno, con gli altri “figli” biologici dello stesso padre sparsi per il globo. Ed è questo senso della famiglia che forse lo lega maggiormente rispetto al rapporto con le due donne. Il sangue, seppur inspiegabile, pulsa più dell’affetto, per quanto grande sia. E sempre per vendetta diventa a sua volta donatore, mettendosi nella stessa condizione del padre. Il padre (ma anche la madre in caso di due uomini che allevano figli), come figura simbolica, è necessaria, non solo a livello biologico; non si può estrapolare e censurare, cancellare e nascondere la sua presenza terrena, materiale, costante. Padre e madre non possono chiamarsi semplicemente “genitore 1” e “genitore 2”. Con buona pace dei vendoliani.

Tommaso Chimenti 05/06/2017

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM