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«Il giardino deve esistere, deve essere qualcosa che si vede e si sente quasi (arrivo a pensare persino all’odore, o solo all’odore, per gioco) ma non può essere un tutto. Perché lì tutto si concentra». La complessità della messa in scena di un grande classico del teatro russo, “Il giardino dei ciliegi” di Anton Čechov, è rappresentato da queste parole di Giorgio Strehler, negli appunti per la sua regia. Al Teatro Argentina di Roma, in scena dal 25 febbraio all’8 marzo, Alessandro Serra propone la sua personalissima visione di quel giardino, filtrata da una poesia che è già insita nel testo. Una scenografia minimalista, con pochi oggetti in scena, lascia spazio ai corpi distesi dei personaggi, veri e propri oggetti di scena, che si attivano, alzandosi, uno alla volta, per entrare “davvero” in scena. Un grande lavoro sui corpi è il primo elemento stilistico del regista della compagnia Teatropersona. Nessuno è insignificante, ognuno prende posto nel ritratto sociale e familiare disegnato da Čechov e che Serra esprime attraverso le pose immobili dei gruppi non partecipi, in ogni momento definito, al drama, come se fossero in attesa di una foto. Nessun attore o personaggio è più importante dell’altro. Ognuno resta, o non resta, nella memoria dello spettatore in un suo personalissimo modo: la forza comica del maggiordomo anziano e tremolante Firs e dello sciocco possidente Simeonov- Piscik, interpretati rispettivamente dagli abili Bruno Stori e Massimiliano Poli; l’ inettitudine di Ljubov e del fratello Gaiev (Valentina Sperlì e Fabio Monti) che li ha portati a perdere le proprietà e l’amato giardino dei ciliegi; la brama di denaro del mercante in ascesa Lopachin, ruolo ricoperto da Leonardo Capuano, compatibile al suo personaggio sia nella presenza scenica che nelle proprietà vocali, aventi tratti tonali del laido senza scrupoli disposto a rinunciare a tutto, persino all’amore. L’apparente semplicità caratteriale dei personaggi viene fin dall’inizio smascherata da un uso mirato e simbolico delle luci proiettate sugli sfondi che creano un gioco di ombre in cui si esalta la dualità che convive in ognuno di loro, così proprio come in quelli di Čechov.

BRUNO STORI IL GIARDINO DEI CILIEGI regia Alessandro Serra

Eppure del giardino si sente parlare poco: se ne fa cenno nelle battute prestabilite dal testo dell’autore russo. Ma si sente poco. I personaggi lo osservano guardando in platea. Sembra che non ci sia, fisicamente. Passa poi in secondo piano quando iLeonardo Capuano Arianna Aloi IL GIARDINO DEI CILIEGI regia Alessandro Serra corpi degli attori cercano con maggiore frequenza il movimento danzante, esaltato soprattutto dal personaggio ambiguo di Charlotta (Chiara Michelini), spirito che entra in scena per muovere e agire sui personaggi nelle loro azioni, ingranaggio centrale della poesia espressa nella messinscena di Serra. In alcuni momenti inizia a diventare evidente una citazione quasi esplicita al Tanzatheater di Pina Bausch nell’uso scenografico e drammaturgico delle sedie, marca stilistica della coreografa tedesca, e soprattutto nella scena in cui Trofimov, sopra una sedia, conversando con Anja, passa da una sedia all’altra, con la ragazza che, in agitazione, gliene aggiunge una sul percorso immaginario che sta seguendo, per non farlo cadere a terra, ricordandoci una versione rivisitata di “Café Müller”. Le sedie sono oggetti preponderanti per tutta la durata dello spettacolo, elementi sfruttati con avidità dagli attori. Nel gioco delle sedie - ma non solo - si inserisce frequentemente la musica, che oscilla tra l’allegro e il malinconico marcando vari momenti della partitura testuale, di cui fanno parte anche le continue risate emesse dal “coro” dei personaggi e che finiscono per enfatizzare particolarmente l’indolenza della famiglia che sta per perdere tutto e che sembra non curarsene. Sì, sembra non importargliene realmente di quel giardino. Ma la verità è che ci ricordiamo delle cose importanti solo quando le perdiamo. È solo alla perdita definitiva, all’asta, del giardino dei ciliegi, che esso esiste, drammaticamente: Liuba resta, disperata, seduta su una sedia con luce che proietta la sua ombra. Con un gioco di luci formidabile, la donna si alzerà dalla sedia lasciando la sua ombra lì, muovendosi indipendentemente. Da una scena fortemente emotiva a una sensoriale, quella in cui Lopachin, versando la terra, vera, sul palco e lanciandola dietro di sé sul fondale, inonderà la platea di odore terreo. Ecco, si sente pure l’odore del giardino. Il giardino dei ciliegi esiste, è in scena, ed è andato perduto, insieme ai ricordi e all’amore delle parti in gioco.

Alla fine del quarto atto, i personaggi chiudono le loro azioni ritornando nella posizione supina da cui erano partiti, accanto alla terra, come se fossero piantine che si sotterrano. Sono loro il giardino dei ciliegi.

Funziona questa rappresentazione del regista: il giardino è stato rappresentato, i personaggi non sono stati banalizzati e c’è stato un lavoro importante sul lato comico di ciò che solo Čechov, inizialmente,considerava una commedia. Una comicità che risiede anche nella parte contestuale della rappresentazione in questione: per fare una versione soddisfacente de “il giardino dei ciliegi” serviva un regista di nome Alessandro Serra.

Giuseppe Cambria  26/02/2020

MONTALCINO – Riprendendo e recuperando la tradizione che nelle decani scorse aveva visto a Montalcino un importante festival di studio e formazione teatrale, il regista Manfredi Rutelli, romano ma da molti anni di stanza a Chianciano, ha ideato il "FermentinFesta" (5-8 settembre), luogo magico tra Storia, Natura, un vino conosciuto ed esportato in tutto il mondo, la Fortezza, i chiostri. Mostre, incontri, esiti di laboratorio (a cura di Carrozzeria Orfeo, Silvia Frasson, lo stesso Rutelli e Francis Pardeilhan), presentazioni di libri, premi, le conversazioni con il alessandro-serra.jpgregista Alessandro Serra, reduce dopo il Premio Ubu e l'ANCT anche da due Premi "Le Maschere" per il suo folgorante "Macbettu", e quella con l'attore Francesco Acquaroli che, dopo "Dogman" di Garrone e dopo aver interpretato Samurai nella serie Netflix "Suburra" (due stagioni, prossimamente la terza), è in procinto di volare a Chicago dove per sei mesi sarà impegnato nelle riprese della quarta stagione di "Fargo". Ospiti d'eccezione ed eccezionali.

Insomma francesco-acquaroli-5-foto-norbert.jpg"Fermenti" non ha certamente deluso le alte aspettative. Già si pensa al prossimo. Vibrante e commovente "Stiamo rinconcolti", spettacolo nato dal laboratorio di Silvia Frasson, sua la drammaturgia sugli appunti autobiografici dei sei non-attori coinvolti, bravissimi e intensi, tra i mattoni di un cortile di podere che sapeva di polvere, di aia, di sterrato, di nuvole e piccioni sopra i fili della luce a prendersi il vento della sera. Rinconcolti, nel dialetto di queste parti, significa vicini, raccolti, ma contiene in sé quel ruspante, quel ruvido, quei polpastrelli e quegli abbracci a cercare calore, una vicinanza che non è soltanto fisica ma anche interiore, come un andare, pur rimanendo fermi, nella medesima direzione.

In sei (un solo uomo) guardando di fronte a loro verso un panorama lontano perso nelle loro autobiografie, in un passato ingiallito ma che, appena nominato, ritorna prepotente a bagnare le palpebre, a far luccicare le retine, ad asciugarsi il naso con la manica, come si faceva da piccoli. Sei storie, che poi sono le storie di un'Italia contadina, sincera, vera, anche povera, materialmente, ma ricca di umanità, di scambi, di quella vicinanza che la città d'asfalto e ferro, di cemento e lamiere e clacson, ci ha sottratto. Sei narratori a tessere la storia universale dell'uomo, persone e non numeri, donne e uomini che si Silvia-Frasson-Actress_238.jpgchiamavano con i soprannomi, e il giorno cominciava e finiva con il Sole, pochi grilli per la testa (i grilli stavano soltanto nel campo), pochi fronzoli, una vita certamente più spiccia ma più tattile, terrena, zolle e non voli pindarici di influencer. Sei sedie a guardare contemporaneamente davanti a loro ma dentro e dietro di sé. Sono a veglia. Stanno. Molti silenzi, qualche parola sul giorno appena trascorso, sul lavoro sempre duro, sul domani che non riserverà sorprese, se non negative. E poi buio e lucciole (e subito si va a Pasolini) e ancora un silenzio pieno, spesso, corposo ma senza imbarazzi, non da riempire per forza.

C'è la signora che fin da piccola veniva d'estate da Torino, prima con la madre poi da sola, a trovare il nonno che arrivava a prenderle in lambretta. Erano anni di brillantina, del "vestito buono". E c'era il cielo blu e c'erano i cipressi, il grano e gli odori della campagna. Dopotutto da queste parti non è cambiato molto il paesaggio. E l'odore del pane di paese è tutt'altra cosa rispetto a quello di città. Tema di fondo: "Servi e Padroni". E se i servi faticano tanto, troppo, sempre, senza sosta, le soddisfazioni che traggono dalla semplicità sono infinite, indescrivibili. Che i padroni nemmeno se le immaginano, troppo concentrati sull'avere e poco sull'essere. Se vieni dal basso certe cose le puoi apprezzare, se le hai sempre avute le dai per scontate, non le puoi sentire fino in fondo, ne perdi il gusto.

C'è la signora che ci racconta che a casa sua era la nonna a comandare. Il nonno teneva i soldi ma li gestiva la nonna. E una volta al mese si andava al mercato a Siena con la corriera: praticamente un viaggio. Andare in città. Si andava e si tornava velocemente, la città non era la campagna, non si conosceva nessuno, poteva essere pericolosa e ci si sentiva insicuri a camminare per quelle strade così diverse. Andare e tornare, un lampo e fuggire verso le cose conosciute. E al mercato si poteva comprare solo lo stretto necessario, mutande, calzini. Nessuna concessione al lusso, allo svago, alla moda, agli sfizi, che i soldi erano pochi e dovevano bastare per tutti. Ma la nonna è golosa e una volta scoperto "il bacio di Siena" i viaggi in città diventano settimanali. Il gusto di quel cioccolatino, che era insieme tabù e segreto tra nonna e nipote, quello sgarro complice delle ferree regole patriancali aveva un sapore e un aroma che non può tornare, rimane scolpito nelle endorfine, nelle sinapsi del cervello: niente potrà essere uguale, niente più buono di quella divagazione, di quella fuga tra donne. Ed era proprio l'impossibilità di poter avere sempre, ogni giorno, il dolcetto prelibato che faceva scattare la gioia immensa di poterselo permettere, di darsi quel premio che quotidianamente la vita ti negava facendoti lavorare a schiena curva con molta fatica e preoccupazioni e poche soddisfazioni.

Ecco fermentinfesta.jpgl'uomo che ricorda il trasloco dalla vecchia casa di campagna ad una più grande con giardino, il trauma delle proprie cose impacchettate, dei ricordi messi in scatoloni e impilati, con la nuova casa che non dà la felicità, che non fa scomparire gli incubi.

Ecco la signora (grandi tempi comici e ritmo, pause, scrittura chitiana sanguigna e feroce) che abitava in campagna a Scandicci e Firenze era lontana, era diversa da dove abitava, era un'altra cosa. Il racconto sui bambini "parcheggiati" sotto lo sguardo vigile e torvo della nonna, inflessibile Cerbero. Di fondo si muove una brutalità normale diffusa, disseminata tra le cose, che scivola e non fa prigionieri: "I bambini non servono ma non devono dare noia" o ancora "I bambini sono un altro tipo di animali". Bambini reclusi e "prigionieri" sopra una coperta dalla quale non si potevano allontanare, come un recinto ma senza sbarre, fintamente liberi. Scappare era impossibile perché la nonna se ne accorgeva immediatamente e allora arrivavano i guai e le punizioni. Ma una volta la nostra piccola eroina ribelle fugge e riesce a raggiungere il pollaio che mai doveva essere lasciato aperto altrimenti oche e galline sarebbero uscite. E da piccoli si vuole fare proprio quello che ci è stato detto di non fare assolutamente. Apre il pollaio e un'oca, beccandola, scappa e non si ritroverà più. "Quando a scuola la maestra ha chiesto: Scrivi che cosa vorresti fare da grande, io ho disegnato un'oca".

Infine l'ultima che, nel solco delle differenze tra ragazzi di città e ragazzi di campagna, affronta gli amori estivi con quella leggerezza spensierata prima, quando ancora non c'è la malizia adolescenziale, e con l'amarezza nostalgica al momento di separarsi, fino all'anno successivo quando chiudevano le scuole e si aprivano tre mesi pieni di giochi, corse, rincorse a diventare adulti: "Spiagge dipinte in cartolina, ti scrivo tu mi scrivi, poi torna tutto come prima, l'inverno passerà fra la noia e le piogge ma una speranza c'è che ci siano nuove spiagge".

Tommaso Chimenti 11/09/2019

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