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Come rendere attuale un testo come Romeo e Giulietta, che da centinaia di anni riempie le platee dei teatri di ogni parte del mondo come fosse stato partorito ieri? L’impresa non è semplice, e comporta più rischi che benefici. L’originalità spesso non è un aspetto che contraddistingue il teatro quando si cimenta in mostri sacri come questo, ma ci si può riuscire introducendo elementi che parlano al nostro tempo, e che ogni spettatore in sala può sentire come suoi. Ci prova Selene Gandini, attrice e interprete di Giulietta, che alla sua prima regia sceglie il classico dei classici per dare il suo contributo allo “svecchiamento” di un testo che, per quanto non smetta mai di comunicare, inizia a sentire il peso della sua età.

Lo spettacolo, in scena al Teatro Ghione di Roma dal 12 al 17 marzo, è un coraggioso lavoro di presentazione al pubblico di un prodotto che molti in sala avranno sicuramente visto in più versioni, e quindi doppiamente ammirevole. Il risultato però non è quello che ci si aspetta, e delude progressivamente il pubblico in sala, che viene catapultato dalla regista in una sorta di opera rock, in cui la musica ha il vero e proprio ruolo di colonna sonora permanente, le coreografie e i duelli sono studiate e curate nei minimi dettagli, e i protagonisti portano dall’inizio alla fine una pesante maschera di trucco nero intorno agli occhi, dettaglio che ricorda molto l’estetica del film Il cigno nero di Darren Aronofsky.

La scelta della regista di affidare l’impegnativo ruolo di Giulietta ad Agostina Magnosi, attrice appena quattordicenne, convince a tratti. L’inevitabile acerbità della sua interpretazione, livellata dalla regia su un tono monocorde, estremamente calcato e quasi gridato, in alcuni momenti si rivela però una scelta azzeccata. Il tono fresco, dinamico e giovane (per davvero, non per finta come nelle interpretazioni di alcune Giuliette trentenni) del monologo del balcone, ad esempio, colpisce per la sua genuinità. Non riusciamo a immaginare niente di più vero di una bambina che, su un’altalena, pensa al suo amore appena incontrato, e che dà al testo shakespeariano una vena di autenticità che ben si sposa con l’attualità dei sentimenti adolescenziali.

Federico Occhipinti (Romeo), possiede una vibrante energia interpretativa, dimezzata, come per gli altri attori, dal bavaglio del trucco nero, che non riesce a liberare la potenzialità espressiva degli occhi. Mercuzio (Matteo Fiori) e Benvolio (Francesco Buttironi), espressione commovente dell’amicizia, sono incarnati con “scapestrata” grazia e ironia, ma la loro bravura non riesce a superare l’impianto declamatorio dato dalla regia, che livella e appiattisce le loro differenze. Le interpretazioni degli altri attori, soprattutto degli “adulti” sono, probabilmente per volontà della Gandini, troppo calcate e quasi macchiettistiche: la vena comica della nutrice (una bravissima Caterina Gramaglia) viene esasperata fino allo stremo, esaurendo qualsiasi potenzialità già dopo le prime scene e finendo per guastare il climax di drammaticità delle scene finali.

In generale, nelle interpretazioni degli attori si legge una forte energia, canalizzata però dalla regia nella declamazione che tende spesso al manierismo, appiattendo la sinusoide emozionale del testo shakespeariano e rintronando lo spettatore, che a stento riconosce, in quei versi gridati, le parole del Bardo.

La scenografia, minimale e costituita solo da teli bianchi sollevati a destra e a sinistra del palco, con un muro di corde calate dall’alto sul centro, non viene sfruttata fino in fondo, dando l’impressione che siano lì solo per volontà di non presentare una scena completamente vuota. Il fondale, che imita la volta del cielo con l’ausilio di belle luci, è invece sfruttato in maniera suggestiva.

Romeo e Giulietta, nella versione della Gandini, funziona e regge bene nel primo atto, per poi subire un’ingiustificata accelerazione nel secondo, portando a numerosi tagli del testo (perché tagliare la bellezza delle ultime frasi dei due amanti sui rispettivi corpi esanimi?) e dando la sensazione che la verve creativa, estremamente vivace nella prima parte, si sia spenta. L’ultima scena regala però un colpo di coda emozionale che fa tirare un sospiro di sollievo: entrano in scena i due attori bambini del coro, Elvira Scalzi e Luca Alfonsi, si danno la mano davanti ai due amanti morti, si incamminano verso il fondale che si fa nero come la notte.

Un finale che ricorda Giulietta e Romeo di Roberto Piumini, in cui l’autore fa incontrare i due piccoli innamorati dopo la morte, per farli giocare a rincorrersi per l’eternità intorno alle colonne e agli angoli della città che li ha condannati a morte. L’infanzia salva il mondo, dunque, nello spettacolo di Selene Gandini, oltre a risollevare lo spettacolo stesso: i due piccoli alter ego di Romeo e Giulietta sono la vera, genuina, idea originale che la regista regala a questo testo.

 

Giulia Zennaro, 13/3/2019

«Un sogno nella notte di Mezzestate è fatto di tranelli, doppi ruoli e giochi di potere. Ma soprattutto parla di un sogno: la vera anima dello spettacolo»: con queste parole Tommaso Capodanno presenta la sua versione di una delle più amate commedie di William Shakespeare, in scena al Teatro Studio Eleonora Duse di Roma dal 15 al 22 novembre. Recensito ha intervistato il giovane allievo-regista dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico: opinioni e riflessioni, un “dietro le quinte” del suo saggio di diploma.

Perché misurarsi con William Shakespeare per il saggio di diploma?
Più che William Shakespeare, ho proprio scelto in base al testo: Sogno di una notte di mezza estate. Perché è stato il percorso di questi tre anni: cercare di capire cosa posso fare e cosa no, alzare l’asticella e rendere la sfida sempre un po’ più complicata. Mi sono detto: quando mi ricapiterà di fare uno spettacolo con quattordici attori? Volevo mettermi in gioco e vedere cosa sarebbe successo, comprendendo meglio i miei limiti e i miei punti di forza. Nello spettacolo ci sono i costumi di Graziella Pepe e le luci fantastiche di Camilla Piccioni, ma il grosso della rappresentazione è basato sul testo, tradotto insieme a Matilde D’Accardi, e al lavoro svolto con gli attori, non c’è altro. Quando, durante le prove, qualcosa non funziona, si riprende il testo di Shakespeare e lì si intuisce che o sei tu regista o tu attore che ha sbagliato un attacco o un’intenzione rispetto a quella che è l’indicazione originale del Bardo. Se qualcosa non va, è colpa nostra, non sua. Ed è bello tuttora mettersi con e contro un colosso di questo tipo. Non so, però, quale sarà la risposta del pubblico, sono molto curioso. Sarà una prova e un’esperienza anche questa.

Per quale motivo proprio questa commedia shakespeariana, dunque?
Sogno di una notte di mezza estate è un testo che mi perseguita dal liceo. Il primo personaggio che ho interpretato a teatro è stato un Puck e, quindi, mi piaceva chiudere questo lungo percorso che parte da prima dell’Accademia con questo spettacolo, prima di iniziare altro. Mi interessava concluderlo con un’opera che è un saluto a qualcosa di vecchio e un benvenuto a qualcosa di nuovo, che è un rito di fertilità, un augurio per le nuove generazioni, per le nuove nascite. È un testo che parla di morte e di rinascita e mi allettava l’idea di compiere questo rito con la maggior parte dei miei compagni di classe.IMG 7305

L’opera è stata più volte trasposta o adattata. Che versione hai voluto dare tu?
È una domanda difficilissima. Ho provato a fare Shakespeare senza adattarlo o ambientarlo in nessun luogo specifico. Ho lavorato molto sulle immagini del testo e sull’idea di bosco come rave party, ma senza caratterizzare i personaggi come suoi frequentatori o cubisti. È un’opera che parla di poesia, amore, magia, immaginazione, follia e la mia regia parla di cambiamento, potere, rinascita. Sono un appassionato di psicanalisi, di interpretazione dei sogni e ho cercato di capire cosa significa mettere in scena un sogno, che a volte è un incubo probabilmente. Con Graziella Pepe abbiamo lavorato molto sulle immagini oniriche: le maschere sono state create dalla sua fantasia, stimolata dal diario dei miei sogni. Ho cercato insomma, di costruire delle situazioni che venissero dal mio mondo onirico e di mettere queste cose dentro Shakespeare.

Cos’è il sogno per te?
Tutto quello che non si può esprimere con il linguaggio verbale se non tramite immagini. Shakespeare in questo è maestro: riesce a raccontare le immagini attraverso le parole, a conciliare l’inconciliabile. Abbiamo lavorato molto sugli opposti, sui contrari: ci sono due Puck, un ragazzo e una ragazza, ci sono Teseo ed Ippolita che giocano a scambiarsi il ruolo di potere e di notte Ippolita diventa Oberon e Teseo diventa Titania. È un testo che è comico e tragico al tempo stesso, lungo e breve. Tutto ciò che è razionale fa parte del mondo maschile: la città, la legge di Atene, il pensiero. Il mondo femminile è l’irrazionale, il sogno, la notte, l’emozione. Abbiamo giocato su questi opposti continuamente. Il sogno per me è tutto ciò che fa parte del mondo irrazionale: è un linguaggio comprensibilissimo, solo che il codice è diverso, non è linguistico, verbale, ma è composto da immagini che possono diventare simboli, a volte.

Tra questi due mondi esiste un equilibrio?
Secondo me sì. Esiste anche alla fine del testo, perché nel quinto atto, dopo che sono usciti tutti dal bosco, ogni battuta è il contrario di un’altra e, forse, Shakespeare trova l’unione nell’immaginazione che accumuna i poeti, gli attori, i teatranti, gli artigiani del sogno, gli innamorati e i pazzi. È nell’immaginazione che il Bardo concilia i due opposti: in quella di chi guarda e di chi recita.

E il Teatro è più razionalità o più immaginazione?
È un equilibrio sottilissimo fra le due. Una cosa che ho ripetuto continuamente agli attori è appunto che lo spettacolo, soprattutto per come l’ho impostato, è sempre in bilico, si regge su una lama e può diventare, da un momento all’altro, o una sorta di Zelig oppure un dramma noiosissimo. Non ho adottato un solo stile di regia, ma ne ho mischiati vari: ogni atto è montato in maniera diversa e ho cercato di trovare una coerenza nell’incoerenza. In questo testo, in particolare, l’intreccio è molto complesso, difficile, folle. Unisce artigiani, gente del popolo, con innamorati dell’alta società, duca, duchessa e fate: nello stesso bosco si incontrano mondi completamente diversi ed è in questa disarmonia che nasce l’armonia. Mischiarsi, perdersi, ritrovarsi e poi uscire completamente trasformati da questo bosco.

Tu sei uscito dal bosco?
Forse sì, ma forse anche no. Mi piace starci, magari comincio ad arredarlo (ride, ndr). A volte è solo un’illusione uscirne fuori.

COPERTINACom’è stato dirigere quattordici attori?
Un inferno, un incubo! (ride, ndr) No, scherzo. È stato divertentissimo. Le prime domande che ho fatto sono state: ma come si fa a far fare l’artigiano all’attore nel 2018? E come si rappresentano le fate? Il rischio è cadere nella pantomima, nel ridicolo. Noi abbiamo trovato delle soluzioni, forse. O meglio: abbiamo cercato di portare in scena il problema, forse facendo delle scelte estremamente semplici e immediate, sia a livello di recitazione che di regia. Potrebbero premiarci oppure no, ma questa è la strada che abbiamo percorso insieme. Sono tutti attori che conosco molto bene, a cui sono molto affezionato. Con ognuno ho fatto un lavoro completamente diverso, quindi è stato difficile star dietro alle esigenze di tutti. Però è stato molto divertente, emozionante e ripagante vedere i risultati. Bisognerebbe avere più spettacoli con giovani attori, perché il teatro è un rito e più siamo a celebrarlo e più le energie che vengono tirate in campo sono forti.

Nel comunicato stampa si legge che questo spettacolo è, per te, un inno alla femminilità
Sono partito da un ragionamento: ci sono tante immagini in questo testo e anche un forte gioco di opposti. Il giorno e la notte, la città e il bosco, Teseo, che è la legge dell’uomo, e Ippolita, che è la regina delle Amazzoni conquistata da Teseo ma che segue le leggi della natura. C’è una battuta che mi ha fatto riflettere: Teseo condanna a morte Ermia e, prima di uscire, chiama Demetrio ed Egeo con sé e anche Ippolita, alla quale chiede che cosa abbia. Nella versione inglese questa domanda suona come: cosa ti turba? Sicuramente in quel momento succede qualcosa ad Ippolita, la quale sta zitta per tutto il tempo e che, secondo me, esce molto arrabbiata dall’affronto che Teseo fa alle donne tramite la pena inflitta ad Ermia, ragazza che deve obbedire alla volontà, alla legge del padre Egeo, il quale non cambierà mai, neanche dopo essere uscito dal bosco e con Teseo che acconsente al matrimonio della ragazza con il suo innamorato: Egeo continua ad appellarsi alla legge, per ottenere un’unione che garantisca la successione in linea di sangue e Teseo lo blocca affermando che solo la sua volontà è legge. Da quel momento Egeo sparisce. L’idea era, quindi, di estremizzare molto questi opposti: se Teseo è la legge che governa di giorno, allora che sia Ippolita a diventare Oberon e a regnare di notte. E poi capire come il maschile si ricompatta al mattino successivo dopo le vicende notturne. A me sembra che in tutto il testo ci sia un’invocazione continua al bisogno di riconciliare i due opposti – si citano spesso la luna, la dea Diana… – e io sento, come essere umano, il bisogno in questa società di una riconciliazione del patriarcato, che si sta autodistruggendo, con la sua parte opposta, che il patriarcato impari da essa. E viceversa. In questo senso è un inno alla femminilità: vuol dire accettare tutta una parte emotiva e irrazionale che la società maschile reprime e non considera, che tiene da parte. C’è bisogno di unire le due cose, di stare in ascolto dei propri pensieri ma anche delle proprie emozioni. Non si può essere più solo Teseo o solo Ippolita.

È questo che vorresti far emergere dallo spettacolo?
Ci provo e spero venga colto. A parte lo scambio di ruolo, non c’è molto altro che lo sottolinei, non l’ho voluto io. Però ne ho ragionato a lungo con gli attori, interrogandoci sulla questione e mi auguro che la traduzione faccia emergere questa riflessione. Ma non volevo fare una regia basata solo su questo tema, perché chiude ad altre possibilità su un testo che invece ne apre molte. La forza di Shakespeare è questa. È un’opera che investiga l’essere umano in quanto animale sociale, l’istinto e il pensiero, la razionalità e l’irrazionalità.

Come avete affrontato la traduzione con Matilde D’Accardi?
Siamo rimasti fedeli a Shakespeare. Nel senso che ci siamo presi delle libertà cercando di restituire esattamente il senso che secondo noi lui voleva dare con una certa battuta. La difficoltà è stato tradurre da una lingua, come l’inglese, polisemantica a una, come l’italiano, che è molto meno aperta all’ambiguità. E abbiamo cercato il più possibile di mantenere i giochi di parole e, in maniera folle e sconsiderata, anche la struttura: dove ci sono versi abbiamo scritto in versi, ad esempio, abbiamo tenuto tutta la costruzione delle rime e la prosa è stata tradotta in prosa. Con Matilde avevo già collaborato per altre cose fatte in Accademia: mi trovo molto bene con lei e il nostro lavoro è durato da aprile fino a settembre.

La tua laurea in Psicologia quanto ha influito sul lavoro con gli attori?
Il giusto. Dicono che li manipolo, ma non è vero (ride, ndr). Sto imparando con il tempo. Dirigere l’attore è, secondo me, la cosa più bella del lavoro di regista ed anche quella che trovo più complessa, perché ogni volta ti confronti con testi ed essere umani diversi, devi riuscire a metterli a loro agio e tirare fuori il meglio possibile senza che diventino indisciplinati. IMG 7300

A chi ti sei ispirato o a chi hai fatto riferimento per la messa in scena?
Questa è una domanda infame! A nessuno, sinceramente. Di sicuro ci saranno scene che faranno affermare che è già stato visto o detto. Ecco, questa è una frase che mi fa innervosire: quando si esclama che una cosa è già stata fatta negli Anni Settanta, ad esempio. A me viene da rispondere che i giovani non vanno più a teatro anche per ciò: quello che gli altri hanno già visto non si può più fare e quindi noi ragazzi che non l’abbiamo vissuto non lo potremo vedere mai?

E vorreste anche farlo, giusto?
Certo! Fateci fare cose che avete già visto. Capisco che il teatro è per tutti e che tutto è già stato visto, ma dipende da chi. Ora ci sono i media e puoi andarti a vedere le registrazioni di chi vuoi, ma il teatro va fatto dal vivo e io dal vivo certe cose non le ho mai osservate e, quindi, voglio prendermi la libertà di vederle, ma anche di farle e farle a modo mio.

Chi vorresti vedere seduto in platea?
Un po’ di persone che non ci sono più, purtroppo. Non vorrei sembrare autoreferenziale, ma di persone a me care vorrei vedere la mia famiglia e sicuramente ci sarà in parte. Ho fatto questo spettacolo pensando molto ai miei genitori. Mi sono detto: se lo capiscono e piace a loro, allora va bene. Non ho considerato un pubblico di addetti ai lavori. E vorrei seduti in teatro tanti giovani al di sotto dei 30 anni, soprattutto quelli che non hanno ancora mai visto Sogno di una notte di mezza estate.

Che cosa vorresti trasmettere a questi giovani?
Altra domanda infame! (ride, ndr) La passione che abbiamo noi per questo lavoro, l’entusiasmo che c’è dietro, il divertimento con cui lo facciamo e sicuramente ciò che cerca di trasmettere Shakespeare con questo testo, ossia conciliare la nostra parte umana con quella animale.

Com’è stato il tuo percorso in Accademia?
Sono entrato con l’idea di chiudermi in un posto per cercare di capire alcune cose di me e come regista cosa mi interessa davvero fare. È stato un cammino di scoperta continua, molto più destrutturante che di costruzione. Sicuramente ho compreso cosa non bisogna fare. In questi tre anni abbiamo incontrato e ci siamo confrontati con diversi autori e maestri, tra cui Giorgio Barberio Corsetti, Arturo Cirillo, Massimiliano Civica, Valerio Binasco: mi hanno insegnato tanto, è stato bello vedere come ognuno di loro porta e ti porta dentro il proprio mondo. Abbiamo affrontato anche vari autori, come Heiner Müller, che non conoscevo e della cui scrittura mi sono innamorato, o come Tennessee Williams. È stato un bel percorso da condividere con i miei colleghi registi e attori.

IMG 7342L’incontro più emozionante, quello che ti ha fatto pensare di aver fatto la scelta giusta?
Non c’è stato. Anzi, c’è stato quello che mi ha fatto esclamare il contrario (ride, ndr). Scherzo. Forse l’incontro con Heiner Müller. Difficile dire, invece, qual è stato quello più emozionante, perché non ce n’è stato uno in particolare.

Chi sono i tuoi registi preferiti?
I miei compagni di classe Paolo Costantini e Marco Fasciana.

Più cinema o più teatro?
A me piacerebbe fare più teatro. Il cinema, per ora, non si può affrontare per incompetenza mia (ride, ndr).

Progetti futuri?
Fondare un’associazione culturale con Marco Fasciana e Paolo Costantini. Poi ci sono dei progetti da portare avanti con l’Accademia ancora per un po’. E vorrei presentare qualcosa alla Biennale Teatro di Antonio Latella (a Venezia, ndr).

Chiara Ragosta, 14/11/2018

Dal prossimo giovedì 15 novembre in scena al Teatro Studio "Eleonora Duse" di Roma una tra le opere più conosciute, di successo e sfaccettate di William Shakespeare: per la regia dell’allievo regista Tommaso Capodanno, diplomando all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico”, “Un sogno nella notte di mezzestate” resterà in scena fino al successivo 22 novembre.
Proprio per le sue molte sfaccettature, il celebre “Sogno” è stato riletto e reinterpretato innumerevoli volte da altrettanti autori e attori protagonisti del teatro. Ciononostante, ancora oggi non fatica a donare punti di vista attuali e, più che moderni, contemporanei. Nelle parole del regista, “Lo spettacolo diventa un urlo contro le imposizioni e le finte regole, contro il potere maschile e maschilista. Shakespeare è un profondo conoscitore dell’animo umano e, anche a distanza di secoli, questa sua favola può essere una perfetta riproduzione della nostra modernità e di attuali necessità”.
Lo spettacolo, d’altronde, non è ricco soltanto di significati, ma anche di voci. Ben 14 saranno i giovani attori dell’Accademia a prendere parte al gioco di ruoli, tranelli, menzogne, desideri, incantesimi, scherzetti e verità: Matteo Berardinelli, Maria Chiara Bisceglia, Nicoletta Cefaly, Simone Chiacchiararelli, Carolina Ellero, Marco Fasciana, Lorenzo Guadalupi, Domenico Luca, Marco Valerio Montesano, Tommaso Paolucci, Francesco Vittorio Pellegrino, Francesco Pietrella, Rebecca Sisti, Aron Tewelde.
Tutti protagonisti, pochi costumi, tante maschere e nessuna scena, questi gli indizi di una regia che intende esaltare la spettacolarità, nel vero senso della parola, del testo shakespeariano. Questo l’obiettivo del saggio di diploma di Tommaso Capodanno (occupatosi anche della traduzione dall’originale, insieme a Matilde D’Accardi), accoglierci in un bosco magico che ha il sapore di rave party, parlare diversi linguaggi scenici e oltrepassare i confini stessi del teatro. Ancora nelle sue parole: “Tra sessualità e delirio onirico, come in una favola orgiastica, “Un sogno nella notte di Mezzestate” è un inno alla libertà, alla femminilità. Un inno alla vita.
Appuntamento al Teatro Studio “Eleonora Duse” di Roma, in Via Vittoria 6, tutti i giorni dal 15 al 22 novembre, sempre alle ore 20 tranne la domenica, alle ore 18. Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria, al numero 334 1835543.

Andrea Giovalè
12/11/2018

“Abbiamo bisogno di un Attore in Rivolta che si faccia autore di nuova vita, che non si presti, per nessuna ragione al mondo, a ri-rappresentare ciò che non ama o non dovrebbe amare (...). La mia passione è sciogliere nodi, districare le trame.” (Armando Punzo)

Rivolta, passione, sangue, nervi che si fanno reti, parole e silenzi pregni di gesti, di simboli. Sono i riferimenti cardinali di “Dopo la tempesta”, opera centrale di Volterra Teatro Festival, arrivato quest’anno alla trentesima edizione, cifra tonda che sa di sfida e di resistenza, i punti di sutura e di condivisione tra ciò che sta fuori e ciò che vive dentro al carcere di massima sicurezza, l’umanità. Armando Punzo non si stanca di portare avanti la sua indagine sull’uomo, ne sviscera la natura, lo mette a nudo con ironia e (auto)critica, lo protegge, lo assolve; per farlo, nel suo ultimo lavoro si serve di Shakespeare, dei suoi drammi e della sua esistenza, delle sue intuizioni, anche quelle mancate.
Nel Cortile del Maschio il sole alto del pomeriggio di luglio ci inchioda alla scena, dove croci e scale si incastrano tra loro e sembrano suggerirci che senza sacrificio non ci può essere il raggiungimento di un bene superiore, che sia conoscenza, volterra1salvezza, libertà. Qui l’immolazione è nei confronti della parola, dell’evidenza, della ragione: “Di Shakespeare non mi interessa il soggetto, ma la sua ombra. Dei suoi personaggi e intrighi che copiano la vita e le danno concretezza, mi interessa il non detto, il mancante, l’aspirazione a un’altra esistenza”. Gli attori/detenuti della Compagnia della Fortezza popolano quest’arena sabbiosa, impastando vita e sudore, e si susseguono tra canti e citazioni da Otello, Macbeth, Giulio Cesare, Riccardo III, Il Mercante di Venezia, Romeo e Giulietta, La tempesta: le loro voci – che diventano “reali” quasi sempre e solo dal microfono del drammaturgo demiurgo - e i loro corpi prestano forza ai personaggi controversi e neri, alle loro “ombre” che passano come rena tra le mani del tempo inesorabile (una delle immagini immutabili dello spettacolo) in attesa del destino che si compie (la scure trascinata a terra). “La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente.” (Macbeth)
C’è un’inevitabile sovrapposizione tra detenuti e antieroi ed è questa la magia diffusa del festival, un tempo teatrale negato e rinnovato dalle ceneri degli uomini, delle loro colpe e paure, che Punzo/Shakespeare tenta di animare, di controllare per rinnovare la sua vena creativa necessaria ma dai quali è sopraffatto: “I miei incantesimi sono finiti; sol mi restano ora le mie forze, piuttosto scarse, per la verità” (La Tempesta), “Da quella fonte da cui pareva nascere il conforto trabocca lo sconforto” (Macbeth).
volterra2Il regista crea i dialoghi attraverso la prossemica dei corpi, avvicinandosi ai suoi protagonisti come a donar loro un soffio vitale che non basta però a ingannare il tempo, a spezzare il refrain di dolore e dannazione in cui tutti sembrano intrappolati, compresi noi che ci stringiamo in questo “spazio impalpabile, spazio dentro l’uomo che è contro la logica del quotidiano”, assetati di una liberazione interiore e di una purezza apparentemente perdute.
Nel momento in cui Punzo sembra chiudere la struttura circolare del suo spettacolo, spalanca invece una nuova prospettiva strappando le pagine della “sua” opera, un gesto di rottura con la narrazione precedente, il tentativo di rivoluzionare un equilibrio che sembrava ormai statico. È l’apertura a quella Città Ideale che dà il titolo all’intera rassegna e che qui ha le sembianze di un bambino il quale fa rotolare un grande masso rotondo attraversando l’intero spazio scenico: il futuro con le mani sul mondo, l’innocenza ritrovata e che negli occhi dei detenuti sorridenti diventa catarsi, l’accendersi di una fiammella di speranza. “Sappiamo ciò che siamo ma non quello che potremmo essere.” (Amleto)

Visto a Volterra il 27 luglio 2016.

Giulia Focardi 29/08/2016

Foto: Stefano Vaja, Pier Nello Manoni

Sabato, 07 Maggio 2016 14:52

Resoconto Premio corti shakespeariani

FIRENZE – Shakespeare lo puoi sezionare e dividere, stralciare e tranciare, farlo a brandelli e prenderlo a pezzi, a morsi, a forbiciate e rimangono sempre versi e atmosfere di altissime vette. Smembrandolo non si perde niente della potenza e dell'aroma che sgorga, della facilità e della felicità, dell'ascolto pieno e del lasciarsi andare. Non a caso dopo 400 anni dalla sua morte siamo ancora qui a vivisezionare tra le righe, tra le pieghe il detto e il non-detto, il certo e il dubbioso, e ogni interrogativo, ogni punto di domanda apre nuove infinite chiavi di letture e porte, nuovi rimandi e parentesi.
Nelle tante celebrazioni shakespeariane (perché festeggiare la morte e non la nascita?), che tra l'altro la ricorrenza del 23.04.1616 lo accomuna ad un altro grandissimo della letteratura mondiale, Miguel Cervantes (gli eventi legati all'autore del “Don Chisciotte” da noi, comunque terra latina, latitano se non proprio sono ridotti al minimo), ha trovato una giusta casa l'idea del Teatro dell'Antella di far declinare il Bardo in tanti corti teatrali-esperimenti, lasciando massima libertà sulla maniera di affrontarlo.
Una rassegna corposa questo “Visioni shakespeariane” (direttore artistico l'attore Simone Rovida; va avanti fino al 19 giugno) che ha avuto la sua punta nella finale del concorso dei corti, al massimo della durata di quindici minuti, per declinare il loro Shakespeare nella forma e nelle modalità che, singoli e compagnie, sentono più vicino al loro modo di intendere il teatro. E allora, tra gli otto selezionati per la serata conclusiva (il primo classificato ha vinto la possibilità di una residenza artistica di dieci giorni per affinare una produzione che poi entrerà nel cartellone ufficiale della prossima stagione del teatro diretto da Riccardo Massai) abbiamo visto il muto e il brillante, il monologo come l'ensemble, il drammatico e tragico con il brillante e scanzonato. Shakespeare è sostanza e materia ma anche pretesto e scusa, è soffio di piuma e incudine, è nuvola e fango, poesia e sangue, è per questo che continua a toccare le nostre bassezze e le nostre speranze, il nostro “guscio di noce” e il nostro “spazio infinito”.
Partendo dal vincitore (in giuria Erriquez, il cantante del gruppo Bandabardò, lo scrittore noir Marco Vichi, il professore universitario Alessandro Serpieri), il milanese Christian Gallucci, con il suo “Martin Luther King lo faceva meglio”, trova il suo incipit nel monologo, abusato e travisato nel tempo, dell'“Essere o non essere” che diventa passepartout ed escamotage per raccontare la vita faticosa dell'attore con i sogni e le aspettative che si scontrano con la realtà fatta di lavori duri e ritagli di tempo da dedicare alla realizzazione delle proprie aspirazioni, del fare della loro passione-bisogno un lavoro retribuito, il tutto in chiave leggera e ironica, sul non mollare e insistere, puntando con veemenza sull'“essere”, accantonando, fin quando non suonerà la campana, il “non essere” in un angolo ad ammonirci certo della fine senza che questo diventi cappio e asfissia o paura che blocca.
Al secondo posto Roberta Sabatini è stata un'intensa “Gertrude” (testo di pathos quello di Andrea Mitri), calice di vino rosso e occhi dritti senza paura, una madre contemporanea che parla, senza sentimentalismo né mielosità, al figlio, quell'Amleto che adesso la odia ma verso il quale lei rivendica un amore sconfinato e che continua a proteggere, come leonessa con i cuccioli, con vigore e resistenza dagli attacchi esterni, una madre parafulmine che si addossa le colpe per salvare il suo bene più prezioso, il frutto del suo ventre.
Chiude il podio il “Shake Ofelia” di Fulvio Pera, con Chiara Salvucci che qui è la figlia di Polonio, incerta e indecisa, ma non così vuota e priva di volontà come molte volte ce l'hanno rappresentata. Un'Ofelia di oggi, con smartphone, un'Ofelia che lavora per la famiglia Macbeth, che sta al telefono con Iago, che, mentre aspetta nell'attesa infinita Amleto, legge “Romeo e Giulietta”. Con forza e decisione questa ragazza prende in mano la propria vita e tenta, contro la sorte o la sfortuna, di non farsi schiacciare da quelle che al momento le sembrano pesi insormontabili e insopportabili. Perché c'è sempre una via d'uscita, c'è sempre un'altra chance.
Segnaliamo qui anche i Bitols con “Piccola avventura di un cuore a Venezia” che, in un impianto da teatrino di giro, in un mercato che ha ricordato a livello di tappeto sonoro la fauna umana e gli olezzi del “Profumo” di Suskind, fanno muovere un coltellaccio-mannaia (che vola portandoci con la memoria alla “Fantasia” disneyana) di un macellaio che taglia, seziona, squarta pezzi di manzo, fino ad arrivare al nocciolo, all'essenza, al cuore pulsante, quella “libbra” che Shylock pretende per la sua usura. Certamente non adatto ai vegani.
L'interessante idea del Teatro dell'Antella è quella, dopo questo primo step shakespeariano, di affrontare ogni anno un autore universale, un classico del teatro, e farlo declinare sempre in forma di corto. Perché il teatro non se la passa così bene, ma è tutt'altro che morto e questa esperienza sta a dimostrare ancora il valore e l'interesse che si muove e vibra attorno alla scena, all'attore, alla magia, alle parole che qualcuno nel silenzio, nel buio, lascia che arrivino ad altri disposti a succhiarle, a prenderle, a respirarle.

Tommaso Chimenti 07/05/2016

Mercoledì, 18 Novembre 2015 16:39

Maria Cassi: un gustoso shakerato di Shakespeare

Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte” (“Il Mercante di Venezia”, Antonio, atto I, scena I)
Una bella giornata così brutta non l'avevo mai vista” (“Macbeth”, atto I, scena III)
Gli uomini dovrebbero essere quello che sembrano” (“Otello”, atto III, scena III)

Nello stesso giorno, il 23 aprile 1616, morivano, a migliaia di chilometri di distanza, due dei più grandi scrittori di sempre del Vecchio Continente, tanto da far supporre a qualche dietrologista e complottista che fossero in realtà la stessa persona. Ipotesi affascinante ma tesi impraticabile quella che vede Miguel de Cervantes e William Shakespeare essere un tutt'uno, due nomi per un solo corpo. Ma il Don Chisciotte che va con il suo ronzinante alla ricerca del vento giusto entra in contrasto con la staticità delle dodici sedie tutte differenti (e sedia nel gergo teatrale fa già monologo, diventa in un attimo parola e verbo, si scioglie nel flusso di pensieri, è sinonimo di orazione e affabulazione) che orlano la scena dove Maria Cassi cuce un nuovo esperimento teatrale continuando la sua intraprendenza internazionale. Stavolta, dopo la collaborazione con Peter Schneider, guru di Broadway e della Disney con il quale la direttrice artistica del Teatro del Sale fiorentino è volata a Parigi e New York con “My life with men and other animals”, il suo sparring partner, perché di una battaglia colpo su colpo si tratta, è Jack Ellis attore londinese tutto pane e Shakespeare, come nella miglior tradizione della Union Jack. Come se George Arliss incontrasse Gianburrasca.
E qui sta lo snodo di “Shakespeare mon amour” (un inglese e un'italiana hanno partorito un titolo in francese; le repliche andranno avanti per mesi) tra l'impostato, l'impomatato, tutto voce colta e accento british e la “sgangherata” toscana di casa. L'impertinenza del mimo e del clown accanto alla compostezza e alla linearità iperprofessionale dell'inglese scatenano un corto circuito che tocca, in maniera periferica certo e liminare volutamente, alcuni tra i capisaldi delle tragedie del Bardo, a cinquecento anni dalla sua morte. Tra citazioni, perfettamente eseguite oppure snocciolate con fare “cialtronesco” e maccheronico, tra impaccianti e caldi e pesanti costumi elisabettiani fuori moda (lei) o sandali improponibili anglosassoni e vagamente grotowskiani (lui), la nostra “discola” mette in riga l'attore con la maiuscola ora insegnandogli alcuni motti e proverbi vernacolari, con traduzioni slang-amatoriali, adesso dedicandogli Lucio Battisti e Mina (superbo Ellis calato nei panni di Alberto Lupo) o Paolo Conte. Un po' di Sale sul Globe.
La disputa dialettica e la contesa nazionalistica si sposta a Dante che diventa paladino di tutti i cittadini tricolori e baluardo da una parte nella difesa della lingua della Crusca e dall'altra nella controffensiva contro l'autore del “Mercante di Venezia” o dell'“Otello”, di “Romeo e Giulietta” come de “La Tempesta”. La scala a chiocciola in legno, a vista per la prima volta in questi undici anni da quando è aperto il Sale, è l'emblema e il simbolo della complessità e del vortice (somiglia allo schema del dna) dentro il quale finiamo leggendo Shakespeare, nelle sue infinite possibilità, nei suoi scarti semantici e psicologici, nelle variabili chiavi di scoperta e ribaltamento, di realismo come di metafora, del disvelamento del potere come delle macchinazioni dell'odio e della gelosia. Entrare dentro il mondo di Amleto e Iago, di Falstaff e Calibano, Lear o Shylock, Macbeth o Polonio, Macbeth e Malvolio, è una continua rincorsa e fuga, amplesso senza riposo e riflessione.
La Cassi gioca a fare l'ingenua naif al cospetto di un grande interprete della tradizione d'Oltremanica riuscendo nel tentativo, nella finzione scenica, di sciogliere il britannico rendendo le parole universali di Shakespeare terreno colloquiale e humus vitale trasversale, oggi come allora, a sfidare la polvere del tempo e le umane piccole disgrazie, il tutto con la leggerezza che la contraddistingue e quel modo, dinoccolato e spiegazzato, con i suoi suoni gutturali tipici, la sua “incoerenza” spensierata, le bretelle d'ordinanza, il moto perpetuo e le mille facce plastiche. Da oggi anche Shakespeare lava i panni in Arno.

Visto al Teatro del Sale, Firenze.

Tommaso Chimenti 18/11/2015

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