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Venerdì, 12 Novembre 2021 20:01

Bob Wilson in Venice: il 2021 non è il 1977

VENEZIA –  Sono tanti quarantaquattro anni. Il mondo del '77 e quello del 2021 sono profondamente dissimili e non staremo certo qui ad elencare gli infiniti perché. La necessità di destrutturazione del linguaggio sulla scena di fine anni '70 (da noi c'erano Carmelo Bene e Leo de Berardinis) forse non può essere esportata (sembra un capriccio, un vezzo) ai giorni nostri quando tutto l'intorno e l'immaginario, le frequenze emotive, le capacità empatiche della società, la funzione stessa del teatro, sono completamente mutati. E invece ci siamo trovati davanti a “I was sitting on my patio this guy appeared I throught I was hallucinating” di Bob Wilson (al Teatro Goldoni veneziano; prod Theatre de la Ville Paris, Dance Reflections, Edm e Teatro Stabile del Veneto) come ci si interfaccia ad un documentario sui dinosauri, con la curiosità certo, ma a01-01+2021PATIO090615.jpgnche con la convinzione, dopo che erano passati alcuni minuti e la situazione si stava facendo pericolosamente reiterata e ridondante, e che così sarebbe andata avanti per un'ora e venti, che quel mondo ci era lontanissimo, anzi stava lottando per sopravvivere non con noi ma contro di noi, volendo dimostrare qualcosa (a chi?) che non aveva più ragione d'essere né di esistere. Un ultimo colpo di coda di quello che, mezzo secolo fa, poteva essere considerato avanguardia e che adesso è soltanto preistoria polverosa.

Ma si sa, 01-07+2021PATIO03002R.jpgil tempo passa e tutto appiattisce e usura e non è detto che sia sempre una medicina valida riesumare i cadaveri, pur se altisonanti. Alcuni di questi “corpi” ci parlano ancora e assurgono allo status di classici, altri dovrebbero rimanere nelle teche, ben chiusi, conservati, da studiare, ma non da riportare in vita. Si sente proprio la pesantezza degli anni trascorsi, delle vicende che hanno profondamente trasformato la società, così come il teatro, la scena, la visione, le attese della platea. Degli spettacoli di Bob Wilson, banale a dirsi, salviamo ovviamente le luci nette, pulite, le linee geometriche, la coerenza dei chiaroscuri, il rigore formale eccezionale. E i suoi interpreti, stavolta Christopher Nell e Julie Shanahan, impeccabili, dai movimenti sincopati e contratti, contenuti, impomatati, inappuntabili, fumettistici, lui un mix tra Petrolini e Penguin di Batman, lei tra Milva e Ute Lemper. Nota dolente il testo che si sviluppa in due fasi che non dialogano assolutamente tra loro, anzi lavorano a specchio, a distanza; una prima parte dove il testo (abbiamo trovato delle assonanze agli ultimi lavori visti firmati da Christoph Marthaler, proprio nella negazione della drammaturgia assoggettata a suono, 02-10+2021PATIO090635.jpga musicalità, a tappeto di fondo) viene enunciato sia dall'eco di una cornetta del telefono (“Se telefonando io potessi dirti addio ti chiamerei” ci viene in soccorso Mina; un drin persistente e costante, aggressivamente insistente e imperterrito che ha “deliziato” la platea per mezz'ora prima dell'inizio della piece come un mantra fastidioso, come goccia cinese martellante e snervante) sia, di rimando, dallo stesso performer (in nero).

Dopo aver ascoltato per due volte (dall'attore e dalla cornetta in un dialogo raddoppiato: ricordate “Piange il telefono” di Domenico Modugno?) queste frasi sciorinate senza nessun nesso logico, nella seconda parte è stato il turno dell'attrice (in bianco) impegnata nella nuova riproposizione di quelle sillabe buttate, queste perifrasi che hanno lasciato, in entrambe le messinscena, allibiti e interdetti, allucinati (come il titolo ci suggeriva amorevolmente), sbigottiti e irrequieti gli spettatori visibilmente insoddisfatti, delusi e addormentati (che lo hanno subito passivamente e senza difesa alcuna). Nessun dialogo tra sala e scena, nessuna mano tesa, nessun aggancio o appiglio, soltanto molta forma svuotata di alcun significato plausibile, di alcun senso credibile. Le luci non ci sono bastate né le indiscutibili prove attoriali superlative cariche di fascino e bellezza. Abbiamo sentito un grande freddo emotivo nel tentativo di lasciarci scorrere addosso tutto questo non-sense, questo incubo visionario, questo abbaglio carico di amarezza. Certi fantasmi è meglio lasciarli ai libri, alle note a piè di pagina, senza sentire la necessità di restituirli ai nostri giorni, ai contemporanei.

Tommaso Chimenti 12/11/2021

 

VENEZIA – Non è morte a Venezia ma aleggia un odore di morte in laguna che fa spavento, terrore, paura. Mancano i giapponesi che scattano compulsivi fotografie, sono rimasti soltanto i piccioni imperterriti senza più briciole da beccare. Non c'è più neanche l'acqua alta atterrata dal Mose che anche senza l'accento finale fa aprire le onde spugnose e marroni. Lugubre il profumo rancido che sale, ti guardi intorno e sei solo. Finalmente e purtroppo. Manca la vita, rimangono le case, spesso disabitate che aspettano nuovi turisti, i mattoni colano pioggia che pare che piangano, le piazze deserte, panchine vuote senza anziani, la malinconia, la disperazione di avere a disposizione un orizzonte visivo libero e non saper che farci. Ti senti sperduto e solo, i vicoletti angusti, bui, le ombre che si ingigantiscono al passaggio, un senso di sconfitta che striscia e serpeggia infido s'intrufola tra i pensieri e fa sbagliar rotta. Tutte le calli diventano simili senza il vociare stupito, senza il codazzo da marcia che ti indica i punti cardinali da raggiungere o superare, Piazza Roma, San Marco, Rialto. Tutto azzerato, appiattito, azzoppato. Gondole a riposo, barchette coperte, tutto è fermo, statico. Sembra di muoversi all'interno di un quadro dove tutto sta ordinato in un proprio caos del quale non capisci il disegno, la fine ultima, il destino. Se ti fermi a pensare sei risucchiato e tutto sembra scartavetrato, esposto, scrostato. Senza pelle, gli organi al vento.BackstageIgemelliVeneziani20112020-2813.jpg

E' la stessa sensazione che ti lascia, acre e pungente, la visione de “I due gemelli veneziani” (produzione Teatro Stabile del Veneto, TPE - Teatro Piemonte Europa, Teatro Metastasio di Prato) passati sotto il torchio e la pialla di Valter Malosti (al suo primo avvicinamento goldoniano) che, con la sua cifra chiara e riconoscibile, ha smontato e rimesso in piedi una macchineria spesso mostrata soltanto nella sua accezione brillante e comica e che qui, invece, fortunatamente sorprende con un noir-thriller, spingendo sui chiaroscuri, forzando sulla pece interiore, giocando macabro, forgiando il testo e piegando i personaggi verso un intenso e cupo scandaglio dell'anima. Adattato insieme ad Angela Demattè, il plot, fatto di misunderstanding e scambi di persona colorati dalla Commedia dell'Arte, prende corpo e si trasforma in dramma, nella tragedia della vita che trasfigura se stessa, trancia, taglia, spezza, toglie gli orpelli agli uomini lasciandoli nudi davanti alle proprie manchevolezze, scelleratezze, ineffabili debolezze sordide.

Malosti 31F3cv0w.jpegha il pregio, tra i tanti, sempre di costruire un cast ottimamente equilibrato come potenzialità ed espressività (anche nei ruoli comprimari, tutti estremamente validi i vari Alessandro Bressanello, il piglio di Anna Gamba, Andrea Bellacicco, il furore drammatico di Irene Petris, Vittorio Camarota, Valerio Mazzucato, l'energia di Camilla Nigro), non trascurando dettagli, anzi esaltando la cornice che puntella e fa scintillare nuovamente azioni e protagonisti. Un pool d'attori che alimentano l'un l'altro la scena illuminando il cono di buio caravaggesco dentro questo percorso esistenziale fatto di consapevolezze ritrovate e perdita d'innocenza. Alla squadra amalgamata e affiatata sul palco si aggiunge un altro personaggio dall'eguale virtù, dignità e rispetto, il suono (a cura di G.U.P. Alcaro) che con il regista torinese non si può mai definire semplicemente “tappeto sonoro” né basicamente accompagnamento musicale né tanto meno rumori di fondo. La musica qui preme, s'agita, cresce, pulsa, dà vita, risuona, aumenta, scivola ma non è mai secondaria, mai cedevole, mai in secondo piano. E' proprio la sonorità inquietante, che non abbandona mai l'azione, assieme alle luci (di Nicola Bovey), o al suo misurato uso centellinato, a creare un'armonia frastagliata di sentimenti sensoriali come nave che ondeggia in attesa della secca che spezzi le vele. Perché nell'aria si annusa l'imminente calamità, la catastrofe che sta per travolgere ogni pagliuzza, il disastro che strapazza sogni e aspettative, la disgrazia che ammanta i gesti impulsivi di uomini piccoli, la sciagura che si respira solida, la rovina che potresti delinearne i confini, che puoi vederla lontano avvicinarsi come un transatlantico traboccante di oblò che affiora in San Marco.

“I due gemelli veneziani” sarebbe dovuto andare in scena proprio in questi giorni di dicembre 2020 e solo la lungimiranza, e apertura e respiro, del Teatro Stabile del Veneto ha fvKAvINQ.jpegpermesso e concesso di assistere alle prove, una boccata d'ossigeno, un importante segnale fresco portatore di futuro. Si comincia con la fine, mettendo in chiaro le cose, urlando sommessamente che non sarà una passeggiata tra lazzi, frizzi e risate, che qui andremo a cercare quel punto profondo dentro, quell'idea che per trovarla devi forzatamente e necessariamente aprirti, sventrarti, prosciugarti, squartare il petto e frugarci ansioso e impaurito con le mani sporche. E' un viaggio cupo e avvelenato e rancido, tra Hitchcock, Kubrick e Lynch, e senza salvezza quello nel quale ci guida, con aria affabile e fintamente leggera, l'intuizione dell'inserto di un Pulcinella (esplosivo, flessuoso e seducente Marco Manchisi) conducente delle anime in un Purgatorio rassegnato che non punisce né lenisce, che non perdona né salva, ma, freddamente, fotografa l'assenza di valori, le mancanze degli uomini, la terrenità spicciola e scivolosa dove tutti alla fine cadiamo senza possibilità di risalita. Pulcinella, nel suo napoletano dolce nenia che coccola e tramortisce, che culla e verga, è un Caronte accompagnatore, demone che suggella le fragilità dei terrestri mettendoli di fronte, ma senza cercare vendetta o confessione, ai loro stessi inevitabili difetti e delitti, peccati e zoppie. Possiamo dire che questo “I due gemelli” sia un lungo epitaffio, una strada tortuosa che ci spinge sempre più in profondità, in quel buco dalle pareti lisce che è lo scorrere del Tempo e la fine delle speranze e delle congetture da stratega.

Tocchi da vjaC_TeA.jpegricordare e sottolineare: lo schiaffo al rallenti è una pausa ristoratrice nel traffico, il napoletano Arlecchino che tenta di conversare in veneto, il monologo toccante di Padre Pancrazio sulla carnalità e sul maceramento interiore tra sesso e spirito, il saluto finale di Zanetto tra ammissioni e incomprensioni. Rosaura che vuole intraprendere un matrimonio vantaggioso con lo stolto Zanetto, uno dei due gemelli, la serva Colombina che aspetta Arlecchino per condurlo all'altare, Tonino, l'altro fratello del titolo, che vuole accompagnarsi a Beatrice, il tutto contornato da padri e amanti in una giostra dolente, nel gioco lacrimevole e sciagurato di mosse da scacchi per stanare l'altro, una guerriglia che di spassoso ha soltanto la patina. Qui si scava a mani nude, con le unghie spezzate, in questo mondo feroce dove non basta la lampada di Diogene. Zanetto e Tonino, facce della stessa medaglia, vengono interpretati pirandellianamente Z5o4P3Hw.jpege bipolarmente da un Marco Foschi maturo e profondo, ha corpo, voce e forza interpretativa debordante, una continua percussione precisa nel rilanciare adesso il primo istupidito e sottomesso, ora il secondo sbrigativo, rude e conscio dei propri mezzi. Ha carattere il Padre Pancrazio di Danilo Nigrelli, sottile tramestatore di ingarbugliati traffici, alla fine sconfitto e annullato nella sua stessa macchinosa voglia di rivoluzione personale.

Ma è tutto “I due gemelli”, di rubensiane atmosfere fosche, che lotta e play nel doppio ora affiorante adesso che affonda come sabbie mobili, un doppio che si cela dentro i personaggi e proprio per questo inestirpabile, introvabile, inespugnabile. Come un tumore il doppio cresce e si sviluppa, si aggancia e s'attacca alla carne, il doppio sta lì a ricordarti la parte oscura, le crepe, gli spigoli, il doppio punge e ferisce, il doppio non ha anima né senso di colpa come lo è il riflesso in uno specchio opacizzato dal tempo che lo fa sembrare incerto e imbrattato, tremolante e titubante come l'acqua increspata della laguna. Odore di morte a Venezia.

Tommaso Chimenti 07/12/2020

VENEZIA – “Arlecchino è il rifiuto di tutti i perbenismi, i luoghi comuni, le ipocrisie” (Dario Fo).

Scordatevi l'Arlecchino burlone, saltimbanco e colorato. Quello che il regista Marco Zoppello (anima degli Stivalaccio Teatro) e il Teatro Stabile Veneto (due spettacoli su altrettanti canovacci goldoniani poco rappresentati, 70 repliche sul palco del Teatro Goldoni veneziano, con due cast di sei giovani attori per produzione provenienti dalle scuole venete affiancati ad un Arlecchino esperto) hanno deciso di mettere in scena, anche per questa seconda trance “Arlecchino e l'Anello magico” (l'anello ci riporta sempre alle atmosfere misteriche del “Signore degli Anelli” marco-zoppello.jpgo “Harry Potter”), ha un che di malinconico e lugubre, una seriosità, sotto la forma cialtrona e spumeggiante, che si fa scura, si incupisce la frizzantezza, si rabbuia lo spirito allegro. Ogni costume infatti ha note di scuro e bruno e un piccolo tocco nero (idea illuminata dell'ingegnosa costumista Lauretta Salvagnin) che fa da fil rouge e tiene uniti tutti i caratteri e le figure sul piccolo palco montato sul grande palco del teatro lagunare. Stare sulla piccola gradinata, a pochi passi dagli attori, e avere la doppia visuale della recitazione così fresca e vicina e, alzando gli occhi, sui palchetti accesi da piccole luci, con le ombre della scenografia di alberi che ci rimbalzano, è uno scarto emozionante che fa sentire nel cuore dell'arte, della creazione, della produzione, al centro di un grande progetto.

Dicevamo67602765_10219748058039959_1692225648724017152_o.jpg i costumi: già perché tutti e sette sono stati costruiti e cuciti con cenci e stracci, quelli per pulire la casa per intenderci, raccordati tra loro, anche questa una piccola grande ricercatezza, fervida intuizione di maestranze esperte che sanno lavorare, bene, con le mani e soprattutto con la testa. Forse è questo uno dei motivi dominanti della riuscita dell'operazione (inizio alle 19, sovratitoli in francese e inglese, tanti i turisti, sold out tutte le recite, la convivialità del prosecco distribuito a fine replica) che lancia la nuova stagione che sta per cominciare: la grande sintonia di più comparti, registico, attoriale, tecnico, dirigenziale (il direttore Massimo Ongaro soddisfattissimo del risultato e sempre presente) uniti, concentrati e affiatati; si sente, si intravede, si tocca, si percepisce tra le pieghe dei non detti tangibili.

Costumi più contriti e anche la maschera del nostro (anti)eroe (Stefano Rota, unico perno non intercambiabile tra le due piece, “Il figlio” e “L'anello”, attorno al quale ruotano sei giovani attori per volta) che si fa cagnesca ma, oseremmo dire, suina o ancora, forzando la mano, cinghialesca, in una sorta di ritorno alle origini animalesche (vaghi rimandi alle maschere giapponesi guerresche o a quelle tribali rituali africane). C'è da dire che i due canovacci (appunto, non testi) di Carlo Goldoni erano poco più di qualche appunto e schizzo, 67638025_3082772498429873_7308939185556029440_n.jpgpoche pagine che Zoppello (reduce da un Avignone con i fiocchi e con il botto che gli ha portato in dono le repliche parigine di novembre al Petit Palais) ha reintegrato, adattato, infarcito, espanso, raccordato. Tutto è a vista, compresi i rumori prodotti accanto alla scena dagli stessi attori che ne fanno quasi una striscia di fumetto; altro tocco di artigianalità. A livello linguistico vengono utilizzati più che i dialetti, le calate regionalistiche: il veneto, ovviamente (ad esempio “desmentegarme” al posto di dimenticare), il laziale, il napoletano, con irriverenti e ilari strafalcioni ed errori grammaticali.

La melancolia pensierosa e lo spleen di fondo, che scorre e ogni tanto fa capolino con piccoli tocchi leggeri ma pungenti, se nel primo episodio del dittico riguardava la violenza sulle donne e il machismo diffuso antifemminista, in questo secondo step si rivolge e guarda un altro problema del nostro tempo, una patologia che colpisce moltissime famiglie: l'alzheimer o la demenza senile. Infatti Arlecchino, che si vuole suicidare (altra piaga sociale del nostro mondo progressista, evoluto e benestante), fa un patto con una sorta di mago mefistofelico (strano che somigli ad una figura papesca) che gli dona un anello con il quale dimenticherà il suo passato. E sono tenere e dolcissime le scene nelle quali Arlecchino (dai tratti interiori del Joker di Joaquin Phoenix) non riconosce sua moglie Argentina (spicca Eleonora Marchiori, brava anche negli stornelli; struggente il primo “S'è fatta mezzanotte e io non so perché”) ma le chiede la mano perché, anche se non la ricorda, la vorrebbe sposare nuovamente. 68475937_3082766461763810_7811090848950517760_n.jpgQuesto il dato più esistenziale, sentimentale e familiare, se vogliamo, al quale si aggiunge una velata critica sociale che però fa comunque rumore: Arlecchino, che appunto ha perso la memoria, non conosce più il valore dei soldi e, come un bambino ingenuo e puro, si chiede come sia possibile che chi non ha denaro non possa cibarsi, sfamarsi e alimentarsi, “E' una bestemmia questa libertà”; e anche qui apre un'ampia finestra di riflessioni sul nostro Primo Mondo che produce, consuma e fa crepare.

Tutto il cast comunque è up: il Signor Gendarme, alquanto carabiniere pinocchiesco, è Davide Falbo che ha fisico, news-arlecchino-estiva.jpgprestanza ed ironia, Amelia, la madre di Rosaura è Meredith Airò Farulla, il suo ruolo ha un che di dantesco, Celio è Marlon Zighi Orbi che ci ricordato Orlando Bloom, Lorenza Lombardi è Fernanda l'ostessa manesca, il suo romanesco è da Rugantino o Marchese del Grillo, e Pierdomenico Simone è Trappola il gobbo, “falso invalido”, molto “Pirati dei Caraibi”, un picchio punk, Puk rock. Uno, cento, mille Arlecchini.

“Arlecchino è savio o matto? È intelligente o balordo? Sono domande impossibili, perché la maschera si muove su un piano diverso. Anzi ciò che turba è la doppiezza o polivalenza della maschera” (Giorgio Strehler).

Tommaso Chimenti 17/10/2019

VERONA – C'è chi sta sette anni in Tibet e chi due giorni in Veneto. Verona e Venezia, stessa iniziale, stesa regione. Se la città degli innamorati è ancora legata, troppo, a Romeo e Giulietta e all'Arena, la città sull'acqua per eccellenza fa rima con la Biennale e Goldoni. In Veneto è molto apprezzato un certo tipo di teatro dialettale ed amatoriale al netto di compagnie (Babilonia, Ippogrifo, Teatro Scientifico) di nuova drammaturgia che negli anni hanno tentato di creare un altro tipo di discorso attorno al teatro. Proprio lo Scientifico, che quest'anno ha spento le cinquanta candeline, si inserisce in un terreno di qualità, innovazione e teatro d'attore solido che deve “combattere” contro l'insormontabile Teatro nel Chiostro di Santa Eufemia, il Chiostro Santa Maria in Organo e l'Arsenale dove, tra giugno e settembre, le repliche totali sono oltre 200: un sovraffollamento tra leggerezza, risate, frivolezze brillanti. La loro novità “Il serpente”, da Luigi Malerba, infilato nell'Estate Teatrale Veronese e spostata 20150412-Teatro-Laboratorio-Verona-Isabella-Giovanna-Luca-Caserta-dismappa-.jpgda luglio all'aperto a settembre al chiuso (non favorevoli i giorni di riapertura delle scuole e il debutto infrasettimanale) è la prima trasposizione teatrale del romanzo degli anni '60: ne esce fuori un piccolo gioiellino tra note attoriali (Francesco Laruffa tiene saldo le redini, Isabella Caserta emana lampi di luce), video in bianco e nero proiettati sul velatino (sempre bellissimo e funzionale il Teatro Camploy) di quell'epoca di grandi trasformazioni e cambiamenti (le 600, una anche in scena, le lambrette), la musica degli anni '60 che riempie il cuore, scioglie la nostalgia, ci culla in quella patina di sospensione.

Tutto è giocato sul filo del vero e del falso. Il nostro antieroe, ha tratti dello scrivano Bartleby di Melville, è un uomo medio, grigio, avvilito, soprattutto solo pur non volendo esserlo. Si trova nella condizione di una solitudine amara e permanente e quindi, da commerciante di francobolli stantii, è costretto ad immaginarsi, inventarsi di sana pianta, una vita alternativa. Oggi la chiameremmo second life, con incontri, avventure, non tutte positive, ma piene di sale e pepe, di quella verve esperienziale che la sua indolenza e apatia, frutto più della paura di perdere che dal rischio di vivere, non gli ha fatto provare, privandolo delle gioie della vita. Ci racconta, quasi in una confessione aperta, lo scopriremo alla fine, in una sorta di interrogatorio, ma felice finalmente per la prima volta forse, di essere ascoltato, di avere un suo uditorio a disposizione al quale mostrarsi, tirando fuori la sua vera anima che mai si è Il-serpente-6241-2.jpgallineata con l'immagine sociale che si era ritagliato: rigattiere, topo da biblioteca. Un uomo compresso in ciò che è diventato per abitudine e svogliatezza, che non preso in mano la propria vita e adesso si trova ad immaginarsene una piena di eventi e accadimenti. Ma mentre ci racconta del corso di canto, della moglie, dell'amante, delle gite in spiaggia, noi non sappiamo che sta cercando un'esistenza migliore della sua. Più racconti le bugie e più diventano vere. Ogni affermazione viene scardinata nella fase successiva, screditandola, negandola. Cosa è vero e che cosa è falso? Tutto si confonde nel pantano fangoso dove è difficile, se non impossibile, riconoscere chiaramente i contorni del reale e quelli della fantasia.

Un uomo pieno di contraddizioni (un bellissimo personaggio dai tanti spigoli e dalle infinite ombre, una scrittura a tratti gaddiana), silenzioso collezionista abituato alle scartoffie da impilare e archiviare più che ai rapporti interpersonali, che ha desiderio e ambizione di cantare ma lo vuole fare “interiormente” senza emettere un suono, mentalmente, geloso retroattivamente della sua amante (la Caserta ci ha ricordato Monica Vitti), fino a perderla, che è quello che gli riesce meglio: risultare sconfitto, farsi schiacciare dalla vita, lui che chiacchiera in maniera logorroica ma al quale, parole sue, non piace parlare con gli altri. E' titubante e ossessivo, ossessionato e ossessionante, ha incubi e allucinazioni. Vende il-serpente.jpgfrancobolli ma li odia, tradisce la moglie ma accusa l'amante di tradirlo, ha un amico che però gli è antipatico. Si inventa un'altra realtà fino a sconfessarla, a distruggerla, a cancellarla con un colpo di spugna pezzo dopo pezzo fino alla scissione tra il protagonista, che perde i contorni della figura realistica e che torna ad essere letteraria, e lo scrittore che manipola e distrugge, con la forza dell'immaginazione e della pagina bianca da riempire, la sua creatura riportandola alla sua condizione bidimensionale, rimettendola in naftalina, costringendola in quella bolla di sapone, la carta e l'inchiostro, dove tutto è possibile proprio perché pensato, il che non significa che sia irreale o non plausibile. Un mitomane come forse lo sono tutti gli scrittori che descrivono mondi, delineano personaggi, raccontano sogni. Un volume da rileggere, teatro da respirare.

La Venezia arlecchino-anello-sito.jpgmalata di goldonite invece piazza un piccolo e onesto adattamento goldoniano di Marco Zoppello (attore e regista degli Stivalaccio Teatro) per un grande progetto che prevede, tra Padova e la città di San Marco, una settantina di repliche suddivise tra “Il figlio di Arlecchino perduto e ritrovato” e “Arlecchino e l'anello magico” (che seguiremo ad ottobre), operazione in equilibrio tra turismo (l'orario delle 19 e i sovratitoli sia in inglese che in francese, ottima trovata), prosecco (aperitivo finale), e la magia di assistere ad uno spettacolo sul palcoscenico. Luci sul pubblico (settanta persone a replica la capienza sulle tribunette montate sul palco) e grande interattività, attori pronti a dialogare e a sentire la platea, i suoi umori, dove spingere, quando puntare, quando accelerare. Ne viene fuori, tra continui colpi di scena e scambi di persona (di bambino in questo caso) un divertimento per tutte le età, con segreti che vengono a galla e gelosie. C'è la francese e la siciliana a vivacizzare. Nello stesso momento nel quale Arlecchino e la sua Camilla mettono al mondo un pargolo, Maddalena (con le attrici che a turno a lato del palcoscenico emettono gridolini, gemiti, pianti e mugugni infantili), anche la figlia di Pantalone, Rosaura, ha avuto un figlio, Checchina, ma, non essendo sposata con Florindo, non può confessarlo al padre-padrone rigido ma ingenuo.

Su tutti Pantalone, Emanuele Cerra degli Evoè Teatro di Rovereto, la serva intelligente e furba Marionette, Emilia Piz (giocoso l'escamotage di storpiarle sempre il nome; diventa infatti: sauvignon, merlot, fois gras, vinaigrette, baguette, baionette fino a cabernet, cordon bleu e ratatouille) che danno spumeggianti toni e briose sfumature. Ma tutta la compagnia è ben collaudata in un ritmo incessante di brillantezza e colore. Potremmo dire una commedia dell'arte fresca e frizzante che, seppur con le tinte leggere proprie, non disdegna, di sottofondo, una neanche così velata critica all'uomo, al maschio, dipinto e disegnato come incapace di ascolto, furioso e talmente geloso da sfiorare la tragedia appiccando un incendio casalingo morso dalla rabbia (in anni di femminicidio e di sensibilità sul tema), mentre dall'altra parte le donne hanno una marcia in più, sono più sveglie, più pronte non certo all'inganno quanto alla risoluzione pacifica dei conflitti e delle incomprensioni con garbo, gentilezza e delicatezza (non è un caso se i due neonati siano due bambine: il futuro è femmina).figlio-ve-fg9.jpg

Vedere lo scintillio del Teatro Goldoni (mentre viene recitato Goldoni) da questa angolazione, con le luci di sala a rischiarare tenui come fosse un'alba violacea, è un privilegio, Arlecchino (Stefano Rota, anche formatore) è una maschera universale, esplosiva e stupida, goffa e geniale, istrionica e terrena che rivedersi in lui è naturale e catartico. Una buona operazione che miscela territorio e saperi teatrali, vivacità (tanti giovani attori) e vitalità imprenditoriale con l'artigianato scenico: esperimento curioso e soprattutto riuscito anche per i costumi (di Lauretta Salvagnin) che esaltano musica e parole, dando luce al tutto.

Tommaso Chimenti

FIRENZE – Marco Paolini costruisce le sue storie su una base documentaristica. Se vogliamo possiamo dire che, come in ogni inchiesta, prima deve necessariamente avvenire il fatto e in seconda battuta deve esserci qualcuno che la passa, che la comunica, che la amplifica. In qualche modo, prendiamo Ustica o il Vajont ad esempio, Marco Paolini è stato il grande architetto, su una base storica e certificata, di un immenso romanzo popolare che ha delineato la coscienza civile e morale del Paese su quegli argomenti. Più dei giornali, più dei filmati, più delle pellicole, l'immaginario condiviso nazionale è stato geometricamente curato dalle parole cadenzate, ironiche e tragiche (e l'ironia è fondamentale nell'incedere narrativo di Paolini per far risaltare palese il ridicolo, il viscido, lo squallore dell'uomo, del potere, della politica), di questo cantore moderno che non usa altro che il suo stare su un palcoscenico, il suo dare forma alle immagini attraverso le sue parole, semplici, chiare, nette, il suo portarti, il percorso che inscena e dipinge strada facendo.2paolinijpg
Stavolta il registro cambia linea; non più Paolini (che in questi giorni ha in uscita un film nel quale è protagonista “La pelle dell'orso” dove ci porta in un altro rapporto padre-figlio) si basa su un passato certo e reale, da spiegare e divulgare cercando di tirare le fila di un ragionamento (politico, nella sua accezione più alta) ma si spinge a schiudere il prossimo futuro, con fantasia e pessimismo, con fantascienza e lungimiranza. Che un buon narratore annusa, sente, conosce, maneggia talmente bene il presente (a volte lo plasma pure) da capire i binari del domani. Gli intellettuali servono a questo dopotutto, a cogliere i segni e i segnali del quotidiano per tracciare delle bisettrici per meglio comprendere domani.
In un futuro non troppo lontano, riecheggia leggero Asimov, un uomo si è innamorato non di una donna ma della sua voce (ecco Siri, la guida di alcuni smartphone o ancora possiamo arrivare alla pellicola “Her” di Spike Jonke). La donna gravemente malata gli lascia, alla sua morte, il figlio di cinque anni da accudire. Il bambino, in un mix di prodigio e genio ma anche ingenuo e infantile, si fa chiamare “Numero Primo” (e qui fa capolino “Uno sceriffo Extraterrestre” con Bud Spencer e Terence Hill o “I figli degli uomini” con Clive Owen). Ed ecco le due corsie paoliniane (che qui per certi versi sembra guardare alla visionarietà e al surrealismo di Celestini) quella sulla paternità e quella scientifica. Le due scie si mischiano e si aggrovigliano come la spirale del dna. Proprio di genoma, di intervento umano, di sperimentazione sugli embrioni si tratta. E la fiaba di questo incontro, tra un bambino orfano e un padre che non si aspettava più tanta gioia dalla vita (il figlio è un “debrutalizzatore” della realtà), vira sul noir, sul giallo con fughe, inseguimenti, con uomini che cercano di prendere, rapire il piccolo perché custode di una sapienza, di un nuovo modo di poter nascere, di una nuova maniera e frontiera di fare, creare in laboratorio uomini geneticamente modificati. Il punto di rottura è stato superato, il punto di non ritorno varcato.
3paoliniUn mondo, un'Italia del domani per niente rassicurante con le scogliere di Venezia, l'invasione di pidocchi e topi, le scuole prima intitolate a Giosuè Carducci e adesso a Steve Jobs, con la domotica che sta prendendo il sopravvento sugli umani non più aiutandoli ma spingendoli a nuovi comportamenti, le fabbriche della neve in città al posto delle industrie, accozzaglie di etnie avvelenate e inacidite in casbah sovraffollate.
Da una parte la tecnologia che non lavora per il bene dell'umanità ma la inaridisce, dall'altra questo splendido rapporto di solitudine e famiglia, di isolamento e vicinanza tra un padre e un bambino, un rapporto maturo che migliora l'idea di mondo dell'adulto, che adesso ha trovato un vero senso all'esistenza. Una fiaba nera, e neanche a lieto fine, dove le persone, gli uomini tornano ad essere quello che sono: mani, occhi, bocche, abbracci, carne, sangue, sentimenti, stomaco e pancia, togliendosi di dosso tutte le sovrastrutture nelle quali abbiamo creduto, sulle quali ci siamo adagiati pensando che ci migliorassero e ci facessero diventare la vita più comoda. La vita non è comoda e se lo diventa ci impoveriamo, se non pensiamo, se non lavoriamo, se non fatichiamo, ci impigriamo, diventiamo cose, oggetti, soprammobili con un telecomando in mano, consumatori e non cittadini, se non lottiamo, se non combattiamo perdiamo il senso ultimo del respirare senza essere più individui pensanti. Se gli adulti sono ormai corrotti, sporcati, sciupati, spezzati, solo i bambini possono riportarci un passo indietro e raccontarci quello che abbiamo dimenticato, quello che eravamo quando vedevamo il mondo dal basso della loro altezza. Il cinismo logora chi ce l'ha.

Tommaso Chimenti 12/12/2016

“Ho avuto la critica più breve che sia mai stata pubblicata. Diceva: “Ieri sera al teatro è andato in scena “Domino”. Perché?” (Marcel Achard)

Chimenti intervista Porcheddu. Ritratto di Maestro. Che si è “maestri” quando si ha qualcosa da insegnare senza mettersi in cattedra, senza avere l'arroganza di farlo, senza far sentire il peso della propria competenza, esperienza, cultura. Andrea Porcheddu è maestro con l'esempio, con i suoi scritti, la sua passione, il suo saper raccontare le pieghe del sistema teatrale, i suoi occhi sempre un po' più in là di dove avresti pensato che si sarebbero posati. La sua visione è pennellata e farfalla, è scelta, autorevolezza e consapevolezza. Basta ascoltarlo negli incontri che cura da diversi anni per la Biennale Teatro di Venezia.PORCHEDDU21
Basta vedere le generazioni che ha tirato su, allevato, coccolato, e a volte anche bonariamente fustigato, ironicamente serio o coscienziosamente sarcastico, gli occhiali per riconoscere le giuste distanze, il sigaro a profumare l'aria d'antico. Generazioni di critici da lui allenati nella palestra del laboratorio di scrittura proprio a Venezia: i grandi Maestri internazionali, la visione degli spettacoli, la scrittura nell'open space guardando il Canal Grande scorrere sotto, la spinta a porre domande ai migliori registi, fino ad allora nomi letti sui libri e adesso ad un palmo, a pochi metri, lì pronti a rispondere proprio alla tua domanda. Porcheddu è spritz e cappello di panama, si porta addosso quella malinconia romana, che non è rassegnazione ma è “saper vivere”, senza lanciarsi in eccessi di soddisfazione, senza linciarsi sulla graticola.

I tuoi spettacoli del cuore.
“Difficile contarli, quasi impossibile. Ogni anno, ogni stagione, fortunatamente ce ne sono di nuovi. Potrei citare Dario Fo, visto al tendastrisce di roma, dove mi portarono i miei genitori quando avevo forse dieci anni. Oppure Santa Sofia della Raffaello Sanzio, visto quando cominciavo a scoprire il teatro da ragazzo. O ancora Le tre sorelle di Nekrosius, visto sul finire degli anni novanta all’allora Festival des Amerique di Montréal. Ma come dimenticare una Action di Grotowski vista a Pontedera, o Fratelli e sorelle di Lev Dodin, o la Trilogia della Villeggiatura di Massimo Castri? E che dire di Carmelo Bene? Non posso scordare il Vajont di Marco Paolini o la Tempesta di Peter Brook vista a Verona, o Nelken di Pina Baush? E resta indimenticabile il lavoro di artisti come Reza Abdoh, Heiner Goebbels, e il miracolo del Pasticciaccio di Luca Ronconi. E i Dieci Comandamenti di Mario Martone, e, per venire a anni più recenti, Ascanio Celestini, Emma Dante, Arturo Cirillo. Ma ricordo anche alcuni grandi attori del teatro italiano: Paolo Stoppa, ad esempio, che vidi in scena con un giovane Gabriele Lavia. Poi Valeria Moriconi, Anna Maria Guarnieri, Glauco Mauri, Marco Baliani con il suo Kolhaas, e ancora i grandi irregolari come Carlo Cecchi, di cui vidi Ritter Dene Voss a Firenze. Infine, naturalmente, gli ultimi spettacoli di Leo De Berardinis: incredibili. Però l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Dall’evento eclatante al piccolo spettacolo fatto in periferia, la cosa bella del teatro è che ti costringe, sempre o quasi, a lasciarci un pezzo di anima. Mi piace di poter dire, dunque, che lo spettacolo del cuore è sempre l’ultimo che mi è piaciuto, quello visto l’altro giorno chissà dove e chissà perché”.

Porcheddu31Le persone del mondo del teatro (registi, attori, operatori, giornalisti) che, direttamente o indirettamente, ti hanno spinto a continuare a scrivere di teatro.
“Il primo che mi spinse con intelligenza a insistere a far il critico fu Maurizio Scaparro: dovevo ancora laurearmi in Giurisprudenza, gli chiesi un consiglio dopo un suo spettacolo e lui mi rispose: “intanto laureati, poi datti un anno di tempo: se resisti alle coltellate, ai sotterfugi, alle meschinità del teatro, sei vaccinato, e puoi continuare. Altrimenti hai sempre la laurea in Legge”. Poi certo Leo De Berardinis: ho avuto la fortuna di frequentarlo un po’, non molto, negli anni della sua direzione di Santarcangelo, ed è stato un grande maestro. Poi vorrei citare due maestri del giornalismo e della critica: Nico Garrone, scomparso troppo presto. Mi prese sul serio, anche se eravamo diversissimi. E l’altro è Ubaldo Soddu, a lungo critico del Messaggero. Mi diceva: “tu fino a quarant’anni non devi parlare”. Aveva ragione: avrei fatto meglio a stare zitto, in tante occasioni...
Ma assieme a queste figure ne ho incontrate altre: un collega come Antonio Audino, con cui mi confronto spesso; o lo storico del teatro Guido Di Palma. E certo, fonte costante di dialogo e verifica è Roberta Ferraresi, giovane critica sicuramente più avanti di me".

I tuoi attori/attrici davanti ai quali ti sei detto: “Ah, finalmente”.
“Credo che oggi gli attori e le attrici abbiano una grandissima responsabilità per tenere alte le sorti del nostro teatro: non solo artisticamente, ma politicamente e socialmente. Ho incontrato grandi attori e grandi attrici. Oltre a quelli già citati, potrei ricordare Elisabetta Pozzi, ad esempio, o Laura Curino; Paolo Bonacelli o Andrea Renzi, o ancora Roberto Latini e Ilaria Drago, che conosco praticamente dal loro debutto. Attori diversi, stili e percorsi diversi, ma ciascuno di loro – come altri – di straordinaria presenza e aderenza scenica. Però così facendo, faccio torto a molti altri artisti che amo: come Laura Nardi, Lino Musella, Paolo Mazzarelli, Gaia Insenga, Saverio La Ruina, Paolo Musìo. Allora, come sempre, penso a quelli notati, o scoperti, solo ieri. E voglio segnalare delle attrici: come Alice Arcuri, a Genova; o Camilla Semino Favro a Milano. Oppure ancora due attrici che lavorano con passione, come molti altri, nel teatro cosiddetto “sociale”: Francesca Mainetti e Chiara Pistoia della Compagnia Animali Celesti. Donne in gamba, attrici in gamba".

“Ciò che ho sempre trovato di più bello, a teatro, è il lampadario” (Charles Baudelaire)

Tommaso Chimenti 11/10/2016

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