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Lunedì, 31 Ottobre 2016 09:00

Chi non "Balla" nella vita gode solo a metà

LIVORNO – “Il ballo è la manifestazione verticale di un desiderio orizzontale” (Woody Allen).

Ballano i topi quando il gatto non c'è, balla il ballerino di Dalla, e c'è chi balla coi lupi, mentre Bruce Springsteen balla nel buio. Sembra che il ballare o il danzare sia il verbo, e questo fin dalla notte dei tempi, dai riti magici ancestrali e primitivi, che più identifichi per l'uomo l'essere vivo, attivo, nel pieno delle sue forze, felice, integrato con il proprio corpo, con la Natura circostante, con il Creato. Come diceva John Dryden: “Ballare è la poesia dei piedi”. Come i dervisci rotanti che attraverso la forza centrifuga di gambe, piedi e braccia raggiungevano il Nirvana o uno stato di catarsi che li avvicinava a Dio ripulendoli dalla polvere terrena, dalla banalità della piccola vita umana. Se ballare è appunto l'azione per eccellenza per 01ballafotografare uno stato di grazia tra il proprio corpo e l'Universo, in questo “Balla” (visto al Teatro delle Commedie, atto conclusivo della rassegna “Utopia del Buongusto”) la posizione predominante e lampante è la staticità, la fermezza, l'immobilità. Andrea Kaemmerle, attore selvatico e sensibile, qui intreccia i fili della sua verve noir e comica con le parole di un racconto cechoviano (“Il violino di Rotschild”) e le fa risuonare nella sua grancassa ovattandole di risa amare, velandole di una mestizia in chiaroscuro, di una malinconia che dilania e morde nell'impossibilità di cambiare le cose, nell'impassibilità, nell'impotenza.
E' un Kaemmerle diverso questo, che cerca nuove sponde, meno clownesco e più dedito e devoto alla riflessione. Non è vero, non è giusto: all'introspezione analitica esistenziale ci ha sempre abituato ma nelle precedenti prove la profondità, per pudore, per paura di pesantezza, era sempre lastricata o spalmata come marmellata da una dose carica di venature poetico-suadenti, dal sorriso sornione e sarcastico. Qui viene fuori l'animo tragico, la cappa che incombe sulle nostre vite. Il nostro, faccia bianca funerea e naso rosso da patologia, è il falegname Joseph, che potrebbe essere Geppetto, che costruisce bare, abbrutito, perdente, perennemente arrabbiato e corroso. E' un povero suonatore di violino, e qui si aprono delle parentesi che ci portano prima a Nathan Zuckerman, il personaggio chiave dei romanzi di Philip Roth, e dall'altro lato alle figure di Edgar Lee Masters. Una stanza ombrosa, come le parole che colano in questo monologo a due voci, un salotto cupo e claustrofobico come il rapporto ultradecennale tra marito e moglie, dove si respira miseria senza alcuna nobiltà, povertà tangibile e metaforica, disperazione.
02ballaIn una sedia a dondolo giace la moglie Marfa che va avanti e indietro in un movimento ossessivo molleggiante. Marfa (nel cui nome sono racchiusi il “mare” e il “fare”, termine e verbo che indicano lo spostarsi, l'essere in azione, ossimoro della vita da “segregata” che aveva condotto la donna nel piccolo borgo) è in realtà un manichino costruito da Federico Biancalani (scenografo, tra gli altri, anche di Michele Sinisi o Ciro Masella) con movenze, scatti e gesti che la fanno sembrare inquietantemente viva. Il falegname becchino si sfoga con la donna che solida resta impassibile nel suo incedere autistico, resiste alle invettive del marito incattivito e ingiallito dall'astio, alle sue lamentele continue senza soluzione, al suo restare imprigionato e impigliato in un'esistenza scalcinata e sgangherata che non ha regalato loro alcuna comodità o felicità.
Ma è quando quella sedia, prima occupata dal manichino realistico si fa vuota per il decesso dell'anziana compagna che si percepisce netto e salato il contraccolpo dell'assenza; quella poltrona adesso ferma è un monito contro l'indifferenza. Il monologo a due non si spezza con la mancanza, prima silenziosa, della moglie che anzi adesso sembra riempire l'incolmabile, spiegare il miracolo dell'inspiegabile, sembra avvicinarci al mistero insondabile della vita. Che va vissuta senza rimpianti. Come quel ballo a due che non c'è mai stato tra Joseph e Marfa.

E coloro che furono visti danzare erano ritenuti pazzi da coloro che non potevano ascoltare la musica(Friedrich Nietzsche).

Tommaso Chimenti 31/10/2016

Un desiderio di desideri: la malinconia” (Lev Tolstoj)
La malinconia è il più legittimo tra tutti i toni poetici” (Edgar Allan Poe)
La malinconia è la felicità di essere triste” (Victor Hugo)

E’ un disperato erotico stomp. Senza l’erotico però. Un contrasto tra lo sconforto di Jeff Buckley, la perdita di Nick Cave, la sconfitta di Tom Waits e il fumetto, parodia dell’iperbolico, clownesco fino alle viscere, vicino a Willy Il Coyote come a Paperino. Nell’incipit, nell’avvio sta il nodo, che non si scioglierà, in quel “Cabaret mistico” che rimane sospeso, e sorpreso, tra il gioco, la battuta scanzonata, e il pensiero, la riflessione. Mondi apparentemente lontani, ma Andrea Kaemmerle ci ha abituato a cospargere petali di idee nascosti sotto le foglie secche autunnali della risata anche spicciola, mai deriva ma fune per raggiungere l’isola che non c’è del ragionamento.
Il suo Sveik sembra uscito da una tavolozza preparatoria di Federico Fellini, ha le movenze scoordinate chapliniane, la fisicità dirompente e cinghialesca di Carlo Monni, lo sguardo liquido come dopo aver ascoltato l’urlo nell’ottone di Chet Baker. Ha l’aria confusionaria da rissa e caos balcanico, decadente e compiaciuto della sua condizione di ultimo, di relitto, di confinato, di abbattuto ed emarginato, klezmer nella concezione dell’esistenza in punta di piedi nel tragico come nel leggiadro. E’ storto e compresso, cattivao e dolcissimo questo suo mascherone variopinto che pare un tucano, uno di quegli uccelli della foresta amazzonica lucenti e colorati, quasi accecanti, che nascondono la violenza del nascondersi tra le grandi foglie per sfuggire agli infiniti predatori. Ultimo tra gli ultimi: “Il mio grado nell’esercito? Ostaggio, in caso di guerra”, sparava il grande Woody.
Con i capelli da spaventapasseri, il cerone da Pierrot, l’occhio da panda e la bocca da Joker, rilassa e incute horror, come il pagliaccio di “It” di Stephen King. Ne ha da raccontare nel suo italiano bislacco, di neologismi dal gusto vagamente slavo. Dice ciò che pensa, pensa ciò che è: “Non facciamo più le primarie, ripartiamo dai soci Coop: chi ha più punti fa il segretario del partito”. Nella sua patchanka eversiva, dove si possono ritrovare da Bregovic ai Gogol Bordello, di bestemmie alla luna, stoccate feroci, risate ora grasse adesso pungenti da far male come un cactus appuntito e velenoso, quest’eroe sfigato, arrogante e tenero, sfrontato e docilmente aggressivo, racconta i fallimenti di un’esistenza, il suo essere bukowskiano senza essere cinico, perduto e malinconico nel suo fare sornione da gorilla che se ne sta come Toro seduto in mezzo alla giungla a sgranocchiare il suo bambù pronto ora alla fuga, ora alla caccia.
Sono “pugni cerebrali” quelli che infligge, come “cerebroleso è la religione che preferisco”. Caravaggiesco con una patina di eterna caduta nel buco nero vorticoso della vita che tutto trangugia, deraglia, infrange, mastica, sputa. “Stanco e perduto” di Vinicio Capossela potrebbe essere la sua ideale colonna sonora: “E ora questa storia sembra un vecchio ritornello, una serenata fatta a una luna traditrice e mi trovo tutto solo qui a cantarla, tutti gli altri sono scappati via, poesie, folletti, pazzi amori persi e diventati nostalgia”.

Visto ad Alberese, Grosseto.

Tommaso Chimenti 06/12/2015

Mai banale, in questo mondo dove è facile scivolare sulla citazione pseudocolta, sentita tra uno spot e un attentato, tra un talk show e una partita di Champion's League. Mai scontato è Andrea Kaemmerle, a partire dal suo Teatro Liquido, bypassando e ammortizzando Bauman, “Il contrario del Teatro Stabile”. Concreto, terreno, vero, materiale, senza svolazzi frivoli ma con la voglia sempre pronta di tirare con la fionda al potente con l'ironia del David. Da genitori svizzeri-tedeschi, con nel nome il suo destino, Kaemmerle vuol dire “cabaret”, l'utopia come destinazione finale. In una Toscana dove si è facilmente schiacciabili, teatralmente parlando, tra i colossi del Teatro Nazionale, Pergola e Pontedera, il circuito FTS, con sessanta teatri sparsi per le province, e il Metastasio, ex Stabile, se si sgomita si può rimanere scottati: “Nella logica degli scambi noi piccoli siamo stati tagliati fuori”.
Due i teatri gestiti da Kaemmerle, il Teatro delle Sfide di Bientina e il Teatro Verdi di Casciana Terme, sotto la dicitura di Guascone Teatro, parola che dice e spiega molto del loro modo di fare teatro, ma anche di fare impresa, non sulla pelle degli artisti, ma con gli artisti. Il clima è buono, i finanziamenti sempre meno. I due comuni dell'hinterland pisano passano complessivamente circa 50.000 euro che praticamente coprono le utenze, ai quali si sommano tanti piccoli sponsor.
Ha ricreato per la stagione invernale una sorta di “Utopia del Buongusto”, il suo lungo cartellone estivo, da giugno ad ottobre, con tanti spettacoli in piccoli centri. Una stagione diffusa, con puntate anche a Pisa, Lari e Livorno. Si allarga a macchia d'olio sul versante tirrenico, terreno di caccia e d'intercettazione del pubblico fuori dai grandi schermi istituzionali. “In Toscana hanno restaurato moltissimi meravigliosi teatri ma non ci sono le risorse per fare attività”, il suo grido d'allarme.
Intanto quest'anno, il palinsesto più ricco degli ultimi anni, è riuscito a mettere insieme nomi di lusso e progetti importanti, dalla Banda Osiris, ad Anna Mazzamauro, settantasei anni di aneddoti cinematografici e teatrali, non confinabile al solo ruolo limitante della Signorina Silvani di Fantozzi, Debora Caprioglio che ci racconta i suoi amori, da Tinto Brass in avanti, i Gatti Mezzi che in anteprima presentano il loro nuovo album, Simone Cristicchi con orchestra al seguito, l'intramontabile Alessandro Benvenuti con un cavallo di battaglia, “L'Atletico Ghiacciaia” difficile da non amare, la bomba bionda Justin Mattera, che nell'immaginario collettivo rimarrà sempre l'imitazione di Marylin. Apertura al pop, al cantautorato, al leggero come all'impegnato. Il sorriso a queste latitudini non deve mai mancare. “Non dovremmo mai perdere le buone abitudini: lavarsi i denti, fare l'amore, mangiare bene, andare a teatro”.
Kaemmerle non può non chiudere con l'immancabile Carlo Monni che chiosava: “Ci fanno fare gli artisti perché se non lo facessimo gli si costerebbe di più alle Usl”. La sua presenza, guascona fino al midollo, aleggia, un po' manca, ma è ancora viva, presente e piena, mai invadente. Qui tempo per le lacrime e le lamentele non ce n'è.

Tommaso Chimenti 22/11/2015

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